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@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Iperborea.\n### Descrizione: Iperborea (AFI: /iperˈbɔrea/) era una terra leggendaria, patria del mitico popolo degli Iperborei.\nNei miti della religione greca e nelle dottrine dei loro storici (tra cui Erodoto), gli Iperborei (Ὑπερβόρεoι, 'coloro [che vivono] oltre βορέας') erano un popolo che viveva in una terra lontanissima situata a nord della Grecia. Questa regione era un paese perfetto, illuminato dal sole splendente per sei mesi all'anno. L'appellativo di iperboreo viene riferito da Giamblico nel suo catalogo di pitagorici ad Abaris il quale viene appellato in tal modo anche da Nicomaco mentre Eliano riferisce che, a quanto detto da Aristotele, Pitagora era chiamato dai Crotoniati Apollo Iperboreo.\n\nFonti letterarie sugli Iperborei.\nEcateo di Mileto (VI secolo a.C.) colloca gli Iperborei all'estremo Nord, tra l'Oceano (inteso come l'anello d'acqua che la cultura greca immaginava scorrere attorno alle terre emerse come se fosse un fiume) e i monti Rifei.\nEcateo di Abdera (IV-II secolo a.C.), autore di un'opera Sugli Iperborei di cui ci sono pervenuti solo alcuni frammenti, li colloca in un'isola dell'Oceano 'non minore della Sicilia per estensione'. Su quest'isola, dalla quale è possibile vedere la luna da vicino, i tre figli di Borea rendono culto ad Apollo, accompagnati dal canto di una schiera di cigni originari dei monti Rifei.\nEsiodo colloca gli Iperborei 'presso le alte cascate dell'Eridano (Ἐριδανός) dal profondo alveo'.\nLa cultura greca formulò numerose proposte in merito alla sede geografica di questo fiume e due fonti in particolare ci trasmettono la nozione secondo cui l'Eridano sfociasse nell'Oceano settentrionale: Ferecide di Atene ed Erodoto, anche se in seguito esso venne identificato col fiume Po.\nPindaro colloca gli Iperborei nella regione delle 'ombrose sorgenti' del fiume Istro (in greco Ἴστρος, l'attuale Danubio). In un passo del Prometeo Liberato Eschilo ricorda la fonte dell'Istro come situata nel paese degli Iperborei e nei monti Rifei; Ellanico di Lesbo e Damaste di Sigeo pongono la sede iperborea oltre i monti Rifei; quest'ultimo, inoltre, ricorda i monti Rifei come situati a nord dei grifoni guardiani dell'oro (si veda a tale proposito il poema di Aristea di Proconneso sugli Issedoni).\nErodoto riassunse un poema di Aristea di Proconneso, ora perduto, nel quale l'autore riferiva di un proprio viaggio compiuto per ispirazione di Apollo in regioni lontane, sino al paese degli Issedoni, 'al di là' dei quali vi sarebbero stati gli Arimaspi monocoli, i grifoni custodi dell'oro e infine gli Iperborei, che vivevano in una terra dove il clima era sempre primaverile e piume volteggiavano nell'aria.\nPer tutte queste caratteristiche idilliache, iperboreo assunse in greco il significato di 'felice', 'beato'.\n\nIperborea nell'età moderna.\nL'astronomo e letterato francese Jean Sylvain Bailly, verso la fine del Settecento, fu il primo autore moderno a tornare a parlare di Iperborea, in alcune tra le sue opere più importanti, tra cui le Lettres sur l'Atlantide de Platon (1779) e l′Essai sur les fables et sur leur histoire (postumo, 1798). Egli unì la tradizione di Iperborea al mito di Atlantide, ipotizzando l'esistenza di un'antichissima civiltà nordica. Bailly, nella sua concezione della storia, sosteneva infatti la tesi secondo cui un'Atlantide Iperborea nordica fosse la civiltà originaria del genere umano, che essa avesse inventato le arti e le scienza e che avesse 'civilizzato' i Cinesi, gli Indiani, gli Egizi e tutti i popoli dell'antichità. Egli posizionò questo popolo primordiale nel lontano nord dell'Eurasia, nell'isola di Spitzbergen, nei pressi della Siberia, argomentando che quelle dovevano essere state le prime terre abitabili quando la Terra, originariamente incandescente ed inospitale alla vita secondo le ipotesi paleoclimatiche teorizzate da Buffon e Mairan, aveva incominciato a raffreddarsi. Il costante raffreddamento della Terra le aveva però, successivamente, rese inabitabili e aveva seppellito l'ancestrale territorio di questa civiltà sotto il ghiaccio, in modo da perdere completamente le tracce degli Atlantidei, e obbligando i loro discendenti a spostarsi più a sud per colonizzare le altre zone del globo.Sebbene l'antirazzista Bailly non avesse fatto riferimento ad alcun tipo di razza umana, da qui a teorizzare un'origine iperborea della 'razza ariana' il passo fu breve. Helena Blavatsky descrisse ne La dottrina segreta una storia fantastica dell'umanità, nella quale Iperborea era rappresentata come un continente polare che si estendeva dall'attuale Groenlandia fino alla Kamčatka e sarebbe stata la sede della seconda razza dell'umanità, giganti androgini dalle fattezze mostruose.\nFriedrich Nietzsche ne L'Anticristo dice:.\n'Iperborei siamo - sappiamo bene di vivere al margine.\n'né per mare o per terra troverai.\nil cammino che porta agli Iperborei',.\ngià recitava Pindaro di noi. Oltre il Nord, oltre il ghiaccio, oltre la morte- la vita nostra, la felicità nostra...'.\nSi riferisce a se stesso e ai suoi lettori elitari, in quanto già nella prefazione del libro precisa:.\n'Appartiene ai pochissimi questo libro. Non ne è venuto al mondo neppure uno di costoro, forse. [...] V'è chi nasce postumo.'.\nMiguel Serrano, scrittore cileno appartenente al filone occultista neonazista, affermò (influenzato dal teorico della paleoastronautica Robert Charroux) esplicitamente che Iperborea sarebbe stata la prima casa degli ariani dopo lo sbarco sulla Terra dalla 'dimensione del raggio verde', che sarebbe stato possibile grazie a una 'fessura cosmica' di Venere. La progenie degli ariani con gli 'uomini-bestia' allora presenti avrebbe dato origine all'umanità. Questo tuttavia fece sì che gli iperborei perdessero la grazia originale e che la loro terra sprofondasse dentro la Terra cava, dove, nelle città sotterranee di Shambhala e Agartha, ancora si troverebbero uomini-dei di pura discendenza ariana.\nTra gli scrittori che in una magica terra chiamata 'Hyperborea' hanno ambientato le loro storie di fantasia vi sono H.P. Lovecraft, Robert E. Howard, Clark Ashton Smith e Miloš Crnjanski.\n\nIdentificazioni.\nAlcune persone hanno voluto identificare la terra degli Iperborei con la stessa Atlantide, che in tempi antichissimi sarebbe stata sommersa (più di 11 000 anni fa), ed era estesa dalle coste occidentali dell'Irlanda alla Groenlandia, comprendendo interamente l'Islanda. Altri l'hanno identificata con Thule; altri ancora semplicemente con la Scandinavia e il Nord Europa (ad es. alcuni autori greci come Aristotele e Strabone).\n\nIperborea nella cultura di massa.\nMusica.\nIl cantautore Francesco Guccini nel 2012 intitola il suo album L'ultima Thule, nella copertina infatti viene raffigurata una nave in avanscoperta nei mari del circolo polare artico, luoghi dove si pensa che ci fosse stata l'isola di Thule.\nIl musicista black metal, ambient e neofolk norvegese Varg Vikernes è noto per un blog, per un canale YouTube, per un canale sulla piattaforma di hosting video BitChute e per un profilo Twitter chiamati 'Thulêan Perspective'. Inoltre un suo album si chiama Thulêan Mysteries e recentemente ha espresso varie teorie sull'origine pagana indoeuropea o pre-indoeuropea del mito dell'ultima Thule e quindi, secondo lui, anche del mito dell'Iperborea. Sostiene inoltre una teoria archeologica sull'origine degli Iperborei, che sarebbero gli antichi Neandertal, secondo lui progenitori della 'razza nordica' nativa europea.\nUna lunga suite estratta dall'album Land Of Legends degli Anno Mundi, pubblicato nel 2020, è stata intitolata Hyperborea, con testi che evocano il contesto fantasy e surreale descritto dallo scrittore Robert E. Howard.\nBrano dell'omonimo album Hyperborea del 1983 dei Tangerine Dream.\n\nFumetti.\nLa popolazione degli elfi iperborei compare nella saga disneyana di 'Topolino e la Spada di Ghiaccio', in particolare nel secondo capitolo ('Topolino e il torneo dell'Argaar') il campione degli elfi è un taciturno arciere chiamato Fyr l'Iperboreo.\nHyperborea è una terra visitata da Conan, personaggio creato da Robert E. Howard, anche nella sua trasposizione a fumetti che, dal 1970 al 1996 e successivamente dal 2003 al 2017, è stata rispettivamente pubblicata dalle case editrici Marvel e Dark Horse.
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### Titolo: Iperfante.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Iperfante (Ὑπέρφαντος) era un re dei flegei, un popolo della Beozia.\nSua figlia Eurigania (Εὐρυγάνεια) è citata da Pausania come la seconda moglie di Edipo, e madre dei suoi quattro figli. L'autore greco, nel sostenere questa versione, si basa sul poema epico perduto Edipodia, secondo cui, appunto, il matrimonio incestuoso tra Edipo e Giocasta era stato senza figli, e questi ultimi erano nati dalla relazione tra Edipo e Eurigania.Secondo Esiodo, Iperfante ebbe anche la figlia Eurianassa, che fu la madre di Minia avuto dal dio Poseidone.
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### Titolo: Iphigénie en Tauride (Piccinni).\n### Descrizione: Iphigénie en Tauride è una tragédie lyrique di Niccolò Piccinni, su libretto di Alphonse du Congé Dubreuil tratto dalla tragedia omonima di Claude Guimond de La Touche (1757).\nFu rappresentata il 23 gennaio 1781 all'Opéra di Parigi, un anno e otto mesi dopo l'omonima opera del rivale Gluck.\nNel 1778 era stato il sovrintendente del massimo teatro parigino, De Vismes du Valgay, a chiedere a Gluck e Piccinni - i due compositori che incarnavano a Parigi le due scuole melodrammatiche dominanti - di sfidarsi sul terreno del soggetto classico dell'Ifigenia in Tauride.\nIl lavoro del musicista italiano subì un rallentamento decisivo a causa del libretto, la cui debolezza drammaturgica si rendeva evidente man mano che la composizione procedeva. A rimaneggiarlo ci pensò l'amico Pierre-Louis Ginguené.\nNel frattempo il trionfo dell'opera di Gluck, il 18 maggio 1779, costituì un ulteriore intralcio alla messa in scena del lavoro gemello di Piccinni, il quale prudentemente attese un anno e mezzo prima di affrontare il confronto.\nAlla prima assoluta la musica fu apprezzata, ma l'opera non ebbe un particolare successo.\nIn tempi moderni, l'Iphigénie en Tauride di Piccinni è stata ripresa per la volta al Teatro Petruzzelli di Bari il 6 dicembre 1986, diretta da Donato Renzetti. Il Teatro dell'Opera di Roma l'ha invece messa in scena nel 1991, per la regia di Luca Ronconi e con Katia Ricciarelli nei panni della protagonista.\n\nPersonaggi e interpreti.
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### Titolo: Ipno.\n### Descrizione: Ipno (in greco antico: Ὕπνος? Hýpnos), nella mitologia greca è il dio del sonno, figlio della Notte, e fratello gemello di Tanato, dio della morte.\n\nIl ruolo di Ipno nel mito.\nIl potere di Ipno era tale che poteva addormentare uomini e numi. Nel XIV libro dell'Iliade Era lo prega di addormentare Zeus, affinché Poseidone possa portare aiuto ai Greci senza che il re degli dèi lo venga a sapere.\nOmero, nell'Iliade, definisce Ipno e Tanato come gemelli (da qui la celebre locuzione latina consanguineus lethi sopor) e descrive come furono mandati da Zeus su richiesta di Apollo, per recuperare il corpo di Sarpedonte, ucciso da Patroclo, per portarlo in Licia per ricevere gli onori funebri.\n\nIpno, sempre secondo Omero, dimorava a Lemno. Un'altra versione ne fa lo sposo di Pasitea, una delle Cariti, originaria di quella città. Invece il suo equivalente romano, Somnus, per Virgilio viveva nel vestibolo dell'Ade, per Ovidio nel lontano Paese dei Cimmeri.\nFu Ipno a dare ad Endimione la facoltà di dormire ad occhi aperti.\nPoteva inviare gli Oneiroi (i Sogni) dei quali i principali sono Morfeo, Momo, Fobetore (o Icelo), e Fantaso, suoi fratelli secondo Esiodo, suoi figli nel suo equivalente romano, Somnus, secondo Ovidio. Nel V libro dell'Eneide bagna con un ramo imbevuto di acque letee il volto del timoniere Palinuro, per assopirlo e farlo cadere in mare. Sempre al dio appartengono le Porte del Sonno, nel VI libro, all'uscita dell'Ade.\n\nSimboli e attributi.\nVeniva rappresentato come un giovane nudo alato o con le ali sul capo, avente nella mano dei papaveri, fiore che condivideva col fratello Tanato e la madre Notte.\n\nInfluenze culturali.\nNella fiaba I messaggeri della morte, ad un certo punto, la Morte dice :'E, oltre a tutto ciò, mio fratello gemello, il sonno, non ti ha fatto pensare a me, ogni notte?'. Pertanto, i fratelli Grimm si riferiscono proprio a Hypnos e a suo fratello gemello, Thanatos.\nHypnos è il titolo di un breve 'racconto del sonno' scritto da H. P. Lovecraft nel maggio del 1922, pubblicato su National amateur nel maggio del 1923 e successivamente su Weird tales. Esso appare implicitamente alla fine del testo come «signore del sonno, che si agita nel cielo della notte». Inoltre, la sua firma è presente alla base di una statua di un giovane, appena materializzata nella casa del protagonista del racconto.\n\nNella cultura di massa.\nIpno è l'antagonista secondario del film Monkeybone, in cui regna su Morfeolandia (un limbo in cui vivono gli umani in coma e i personaggi di libri e fumetti) e vuole spargere, con l'aiuto di Monkeybone, un gas che fa venire gli incubi alle persone, in quanto guardare gli incubi delle persone è l'intrattenimento preferito di Morfeolandia.\nNel manga Saint Seiya, Ipno è, insieme al gemello Tanato, uno degli attendenti del Re del mondo dei morti, Ade, e si occupa di disporre i preparativi per la sua rinascita terrena. Risiede nell'Elisio, dove vigila sul tempio e sul sepolcro del suo signore.\nNell'anime Card Captor Sakura, Ipno è la fonte di ispirazione principale per la carta di clow The Sleep, la carta del sonno, la quale gli assomiglia sia fisicamente, sia per poteri.\nNel videogioco Hades, Hypnos si occupa di tenere il registro delle anime che fanno ingresso all’oltretomba, molte volte il protagonista lo troverà addormentato sul posto di lavoro, e tenterà di svegliarlo.\nHypnos è presente in High School DxD , dove aiuta Ingvild Leviathan a guarire la sua malattia del sonno.\nHypnos è presente, stavolta come donna, in C'era una volta... Pollon, dove aiuta Pollon e Era ad avvisare Alcione della morte di suo marito Ceice, dormendole vicino per farle fare un sogno rivelatore.
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### Titolo: Ippalco.\n### Descrizione: Ippalco è un personaggio della mitologia greca. È uno dei figli di Pelope e Ippodamia, ebbe come fratelli Atreo e Tieste. Fu uno degli Argonauti.
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### Titolo: Ippe.\n### Descrizione: Ippe (in greco antico: Ἵππη?, Hìppē), conosciuta anche come Melanippe (in greco antico: Μελανίππη?, Melanìppē), od anche come Euippe/Evippe (in greco antico: Εὐίππη?, Euìppē), è un personaggio della mitologia greca, figlia del centauro Chirone.\nFu madre di Melanippe, avuta da Eolo.\n\nMitologia.\nEbbe una figlia da Eolo ma si vergonò di dirlo al padre e la nascose, Artemide ebbe pietà di lei e la trasformò nella costellazione del cavallo (di solito identificata con Pegaso).
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### Titolo: Ippocampo (mitologia).\n### Descrizione: Un Ippocampo è una creatura leggendaria della mitologia greca. Gli Ippocampi figurano nel corteo di Poseidone, insieme a tritoni, draghi acquatici, e giganteschi mostri marini.\n\nDescrizione.\nSono cavalli sino alla pancia, e il loro corpo si conclude con una coda di pesce. Possono avere zoccoli o zampe palmate, e al posto della criniera possono esserci una cresta di membrana o delle alghe.
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### Titolo: Ippocrene.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, l'Ippocrène (AFI: /ippoˈkrɛne/; in greco antico: Ἱπποκρήνη?, Hippocrḕnē, 'fonte del cavallo') era una sorgente sul monte Elicona, scaturita nel punto dove Pegaso, il cavallo alato, aveva colpito la roccia.\nNell'antica Grecia il luogo veniva localizzato in Beozia nei pressi di Tespie, una polis alle pendici del monte Elicona facente parte dell'antica Aonia.\n\nMitologia.\nIntorno a questa fonte si riunivano le Muse per cantare e danzare. Queste ultime erano chiamate anche Aganippidi, dal nome della fonte ed Ovidio vi associa l'epiteto della ninfa Crenea Aganippe ma il significato non è chiaro, poiché essendo da Ovidio un termine utilizzato anche per definire le Muse (Aganippis Hippocrene) potrebbe solo significare 'Ippocrene il luogo sacro alle Muse' escludendo quindi il nome di Aganippe da quelli riguardanti questa fonte.
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### Titolo: Ippogallo.\n### Descrizione: L'ippogallo è una creatura ibrida fantastica della mitologia greca, metà cavallo e metà gallo.\nSebbene la più antica rappresentazione oggi conosciuta risalga al IX secolo a.C., il motivo diventa comune nel VI secolo a.C., in particolare nella pittura vascolare e, talvolta, nella scultura, generalmente in associazione con un giovane cavaliere. Viene citato in alcune opere letterarie del V secolo a.C., senza che i miti ad esso collegati siano ancora noti.\n\nEtimologia.\nIl termine ippogallo è la traduzione italiana della parola greca ἱππαλεκτρυών (hippalectryon, anche trascritto hippalektryon), termine composto da ἵππος (ippos, cavallo) e ἀλεκτρυών (alektryon, 'gallo').\n\nDescrizione.\nL'aspetto descritto da Aristofane ne Gli uccelli è coerente con le rappresentazioni artistiche note: una parte anteriore di cavallo, compresa la testa, il garrese e gli arti anteriori, mentre la parte posteriore è quella di un gallo.\nUn testo attribuito a Esichio di Alessandria cita tre diversi tipi di ippogalli: un gigantesco gallo, un avvoltoio gigante, e una creatura simile al grifone, dipinto su tessuti provenienti dalla Persia.\n\nCeramica e scultura.\nLa più antica rappresentazione conosciuta di un ippogallo è su un askos proveniente da Cnosso e risalente al IX secolo a.C., ma è solamente nella seconda parte del VI secolo a.C. che gli ippogalli diventano un tema comune e sono generalmente raffigurati con un giovane cavaliere a fianco.\nIl motivo potrebbe non essere un'invenzione greca: l'analisi delle opere di Aristofane suggerisce che potrebbe aver avuto origine in Medio Oriente, ipotesi avvalorata dai costumi indossati dai soggetti presenti sui vasi ceramici che sembrano essere asiatici; tuttavia non sono note raffigurazioni antiche di ippogalli nell'Egitto antico o nel Medio Oriente, benché anche gli ibridi (tema popolare e comune nella scultura greca arcaica e nella pittura vascolare) sembrino avere un'origine orientale.\nGli ippogalli sono raffigurati quasi esclusivamente su vasi a figure nere provenienti dall'Attica, e potrebbero costituire una rappresentazione alternativa di Pegaso. Raffigurazioni di ippogalli sono state trovate anche su pietre incise del tardo periodo egiziano e, benché differiscano dalle rappresentazioni attiche e ioniche, presentano testa di cavallo e zampe e coda di gallo.\n\nNumismatica.\nCinque monete con raffigurazioni di ippogallo sono state trovate nel 1868 nel tesoro di Volterra, tra i 65 pezzi antichi.\n\nSimbolismo.\nSecondo Le rane di Aristofane gli ippogalli erano spesso dipinti sugli scudi e in effetti su un vaso a figure rosse è raffigurata Atena con uno scudo recante tale creatura. In questo ambito l'ibrido sarebbe un simbolo apotropaico. Nella stessa commedia Aristofane afferma che il motivo era dipinto sulle galee, indicando che avrebbe potuto possedere poteri magici per proteggere le navi.\nIl gallo è un simbolo di energia solare, che sbaraglia i demoni delle tenebre con il suo canto al sorgere del sole, mentre il cavallo, alato in particolare, è un simbolo funebre psicopompo, guida delle anime dei defunti.
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### Titolo: Ippolita.\n### Descrizione: Ippolita (in greco antico: Ἱππολύτη?, Hippolýtē) è un personaggio della mitologia greca. Fu una regina delle Amazzoni.Impadronirsi della sua cintura fu l'oggetto della nona fatica di Eracle.\n\nGenealogia.\nFiglia di Ares e di Otrera.Secondo alcune versioni fu la madre di Ippolito avuto da Teseo.\n\nMitologia.\nSi recò al porto di Temiscira per incontrare Eracle che, giuntovi con la sua nave, aveva il compito di prenderle la cintura. Lei promise di consegnargliela ma Era prese le sembianze di un'amazzone ed avvisò le altre dicendo che stavano rapendo la loro regina. Queste si armarono ed attaccarono la nave di Eracle che convinto di un tradimento la uccise e prese la cintura.Secondo Apollodoro, durante il matrimonio di Teseo e Fedra, Ippolita apparve con il suo esercito di Amazzoni e disse che avrebbe ucciso gli ospiti di Teseo. Così ebbe luogo una battaglia dove lei fu uccisa da Teseo, o dai suoi uomini, oppure fu uccisa accidentalmente dall'amazzone Pentesilea.Diodoro Siculo e Apollonio Rodio non scrivono della morte di Ippolita ed aggiungono che la cintura fu consegnata ad Eracle come riscatto di Melanippe, in precedenza catturata.Plutarco scrive che secondo Clidemo Teseo non sposò Ippolita bensì Antiope.\n\nIppolita nella letteratura moderna.\nIl matrimonio tra Ippolita e Teseo è anche menzionato nella commedia Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare.\nIl personaggio di Ippolita è stato inoltre utilizzato da William Moulton Marston per la scrittura del suo fumetto più famoso, Wonder Woman. Infatti, Ippolita è la madre di Wonder Woman, la quale nacque grazie al dono della dea Afrodite, cui la regina delle Amazzoni si era rivolta per soddisfare il proprio desiderio di maternità.\nIppolita è la vera identità di Rider, un personaggio del romanzo Fate/strange Fake, parte a sua volta del famoso franchise Fate.
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### Titolo: Ippolito (gigante).\n### Descrizione: Ippolito era, nella mitologia greca, uno dei Giganti che presero parte alla Gigantomachia. Il dio Ermes lo uccise, sfruttando l'elmo dell'oscurità di Ade che rendeva invisibili. Nato dalla Madre Terra Gea, la quale si autofecondò tramite il sangue di Urano quando Crono lo evirò.\n\nInfluenza culturale.\nIppolito appare nel libro Eroi dell'Olimpo: il sangue dell'Olimpo, appartenente alla serie Eroi dell'Olimpo, nel sogno di Piper McLean sulla riunione dei Giganti ad Atene.\n\nFonti.\nBiblioteca di Apollodoro, I.6.2.
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### Titolo: Ippopodi.\n### Descrizione: Gli Ippopodi sono una mitica razza di uomini dai piedi di cavallo, menzionati nella mitologia greca e nei bestiari medievali.\n\nFonti antiche.\nSecondo diversi geografi antichi, gli Ippopodi abitavano un'isola assieme a due altre razze leggendarie: i Panozi e gli Eonae. La Naturalis historia di Plinio il Vecchio colloca tale isola nei pressi delle coste della Scizia.\nIl De situ orbis di Pomponio Mela la posiziona invece nel Mare del Nord, menzionandolo insieme alla Danimarca e alle Isole Orcadi. Nell'XI secolo Adamo da Brema scrisse che gli Scritofinni erano in grado di correre più veloci degli animali selvatici. Olao Magno tratta di questo nella sua opera Historia de Gentibus Septentrionalibus, all'interno della quale illustra come gli Scritofinni prendano il nome dal movimento di salto che eseguono mentre cacciano sugli sci. Lo stesso collegamento può essere visto anche in una mappa di Abramo Ortelio risalente al 1595 (Europam, Sive Celticam Veterem), nella quale Ippopodi e Scritofinni vengono collocati nella stessa regione della Scandinavia settentrionale.\n\nResoconti successivi.\nIl resoconto di viaggio del XIV secolo I viaggi di Mandeville colloca il popolo degli Ippopodi presso le coste del sudest asiatico. Li descrive come particolarmente veloci e soliti cacciare inseguendo la loro preda.\nUn progetto di imaging multispettrale del 2014 guidato dallo scrittore Chet van Duzer ha rivelato come una mappa datata attorno al 1491 opera di Enrico Martello e probabilmente utilizzata da Cristoforo Colombo posizionasse gli Ippopodi in Asia centrale.
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### Titolo: Ipsipile.\n### Descrizione: Ipsipile (in greco antico: Ὑψιπύλη?), nota anche come Issipile, Isifile o Hisiphile, è un personaggio della mitologia greca menzionato da vari poeti, come Ovidio nelle Metamorfosi e nelle Heroides (Epistola VI), o Stazio nella Tebaide.\nÈ la protagonista dell'omonima tragedia di Euripide, la meglio conosciuta tra le sue opere frammentarie, conservata per circa la metà.\n\nIl mito.\nEra la regina dell'isola di Lemno. Durante il suo regno le donne dell'isola smisero di sacrificare alla dea Afrodite per la sua infedeltà nei confronti di Efesto. Allora Afrodite punì le donne con una forte alitosi che le rendeva ripugnanti agli uomini, i quali iniziarono a trascurarle prediligendo le schiave di Tracia. Le donne allora decisero di vendicarsi sterminando l'intera popolazione maschile (androcidio), compresi i padri, i fratelli e i figli. Solo Ipsipile ingannò le altre nascondendo e salvando il padre Toante, figlio di Dioniso e Arianna.\nAnni dopo si fermò su Lemno Giasone con gli Argonauti come tappa della loro missione per il recupero del Vello d'oro nella Colchide. L'eroe greco la sedusse e poi l'abbandonò incinta, nonostante le avesse giurato eterna fedeltà (farà lo stesso anche con Medea). A questo mito allude Dante Alighieri che pose Giasone nell'Inferno tra i seduttori (Inf. XVIII, 88-93). Dalla relazione con Giasone ebbe due gemelli Euneo e Deipilo.\nQuando le donne di Lemnos scoprirono il tradimento di Ipsipile, che aveva salvato il padre, la vollero uccidere, ma lei riuscì a scappare. Essa e i due figli vennero catturati dai pirati e venduti come schiavi al Re Licurgo di Nemea. In un momento in cui le venne affidato Archemoro, il figlio del re, avvenne una disgrazia: per un breve momento essa lo lasciò incustodito per mostrare una fontana (la fonte Langia) ai sette re che stavano per assediare Tebe e proprio allora un serpente soffocò il fanciullo, che morì. Per questa negligenza Ipsipile venne condannata a morte, ma si salvò grazie all'intervento dei suoi due figli. A questa parte del suo mito si riferisce di nuovo Dante nel Purgatorio (Pg. XXVI, 94-95).
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### Titolo: Ircocervo.\n### Descrizione: La parola ircocervo deriva dal latino hircocervus, parola composta da hircus ('capro') e cervus ('cervo'), e designa un animale mitologico per metà caprone e per metà cervo. Viene anche denominato tragelaphos o tragelafo e descritto come:.\n\nCol tempo l'uso letterale del termine è stato abbandonato in favore di quello metaforico per riferirsi a cose assurde ed irreali.\n\nIl mito, le parole e le cose.\nL'ircocervo viene citato da Aristotele nel De Interpretatione per rafforzare la tesi, già espressa da Platone nel Sofista, che un nome di per sé non ha valore di verità o falsità. Lo stesso Aristotele, negli Analitici secondi utilizza l'immagine per sostenere che è possibile sapere cosa si intende con l'espressione ircocervo ma non risalire all'essenza dell'ircocervo, ovvero sapere cosa realmente sia.\nFu in seguito ripreso nel II secolo d.C. dall'autore greco Luciano di Samosata, nel tentativo di dare una definizione del mimiambo di Eronda, spiegando che era il termine adatto per spiegare un ibrido dalla così alta tessitura linguistica.\nL'esempio aristotelico dell'ircocervo viene magnificato da Boezio nel suo commento al De Interpretatione, dove sottolinea come la scelta di una parola provvista di significato, benché riferita a una cosa inesistente, permette di ragionare sull'inesistenza delle categorie di vero e falso quando applicate alla parola nella sua assolutezza e non al suo essere priva di senso.\nPer contro Guglielmo di Ockham nell'Expositio in librum Perihermenias Aristotelis utilizza l'immagine dell'ircocervo per simboleggiare la necessità di rivolgere le proprie attenzioni al concreto e non all'astratto, cercando di spiegare la realtà con semplicità e immediatezza.\n\nL'ircocervo liberalsocialista.\nNel XX secolo l'immagine venne ripresa da Benedetto Croce in riferimento al liberalsocialismo quando, nel 1942 attaccò, accusandolo di irrealismo, il socialista Guido Calogero che nel suo Manifesto del Liberalsocialismo aveva tentato di unire due concetti che Croce considerava inconciliabili, quali quello di libertà (liberalismo) e quello di eguaglianza (socialismo).
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### Titolo: Ireo.\n### Descrizione: Ireo è un personaggio della mitologia greca, associato alla mitologia di Tebe. È l'eponimo della città di Iria, in Beozia, di cui secondo alcuni autori fu re, anche se altri lo dipingono come un semplice contadino. Altre versioni localizzano il mito in Tracia o sull'isola di Chio.\n\nMitologia.\nIreo è descritto come figlio del dio Poseidone e della pleiade Alcione, e quindi fratello di Iperenore e Etusa. Con la ninfa Clonia, fu il padre di Nitteo e Lico, che divennero re di Tebe. Altri autori gli assegnano altri figli, tra cui Orione e Criaco.
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### Titolo: Iride (divinità).\n### Descrizione: Iride (in greco antico: Ἶρις?, Íris), conosciuta anche come Iris, Iri, Taumantia e Taumantiade, è un personaggio della mitologia greca.\nDea minore dell'Olimpo, messaggera degli dèi e personificazione dell'arcobaleno.\n\nMitologia.\nFiglia di Taumante ed Elettra, è una sorella delle tre terribili arpie, Celeno, Ocipete ed Aello.\nÈ citata nell'Iliade, in cui si legge, ad esempio, che «Zeus padre dall’Ida… incitò… Iris dall’ali d’oro a portare in fretta un messaggio.» e l'intera famiglia è citata da Esiodo: «E Taumante sposò di Oceano dai gorghi profondi la figlia Elettra. Ed Iris veloce diè questa alla luce, con Occhipete e Procella, le Arpie dalle fulgide chiome, che a pari erano a volo coi soffi del vento e gli uccelli, sopra le veloci penne».Nel quinto libro dell'Eneide è inviata da Giunone per incitare le troiane, stanche dei travagli del lungo vagare, a dare alle fiamme la flotta di Enea.\nA differenza di Ermes, la 'veloce' Iride non appartiene al culto ellenico, ma solo al mito, quindi era un personaggio mitologico, non venerato dal popolo.\nÈ vestita di 'iridescenti' gocce di rugiada ed è proprio per la sua luminosità di colore variabile che la membrana dell'occhio si chiama 'iride'.\n\nCompito.\nIl compito specifico della dea Iride era quello di annunciare agli uomini messaggi funesti, dal momento che era Hermes il dio che portava messaggi propizi da parte degli dèi. Iride svolge il suo compito di messaggera grazie a grandi ali d'oro con le quali vola rapida a portare gli ordini di Zeus.\nNelle opere di Esiodo, Iris aveva anche il compito di portare l'acqua dal fiume Stige, ogni volta che gli dèi dovevano prestare un giuramento solenne: chiunque avesse bevuto l'acqua e mentito avrebbe perso la voce o la coscienza per un massimo di sette anni.\nNella Divina Commedia, Dante afferma in Purgatorio (canto XXI, 46) che nell'alto di quella montagna non poteva arrivare gli umidi vapori della terra, nè perciò si verificavano piogge, e neppure l'arcobaleno, che si forma nell’aria dopo la pioggia. Iris è citata in queste terzine come colei che suscita l'arcobaleno ed è indicata con l'epiteto 'figlia di Taumante'.\nPerciò non pioggia, non grando, non neve,.\nNon rugiada, non brina più su cade.\nChe la scaletta de’ tre gradi breve;.\nNuvole spesse non paíon, nè rade,.\nNè corruscar, nè figlia di Taumante,.\nChe di là cangia sovente contrade.\nDante cita la dea, con il nome di 'Iri', anche in Paradiso XXXIII, 115.
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### Titolo: Irneto.\n### Descrizione: Irneto (in greco antico: Ὑρνηθώ?, Hyrnēthó), è un personaggio della mitologia greca. Fu una regina di Argo.\n\nGenealogia.\nFiglia di Temeno, sposò Deifonte e divenne madre di Antimene, Santippo, Argeo ed Orsobia.\n\nMitologia.\nCon il marito Deifonte fu preferita dal padre nella successione sul trono di Argo ma questa scelta causò l'invidia dei suoi fratelli. Così ricevette in visita (ad Epidauro dove lei risiedeva con il marito ed era incinta) Falche e Ciso i quali sulle prime cercarono di convincerla a lasciare il marito per seguirli ma poi (e visto che lei non credette alle accuse rivolte al marito e non volle andare con loro) la rapirono caricandola sul loro carro e fuggendo.\nFu inseguita dal marito che uccise Ciso con una freccia ma poiché era trattenuta da Falche, Deifonte preferì raggiungerli piuttosto che rischiare di colpirla. Falche però, che stentava a trattenerla, la strinse così forte che la uccise.\nDal marito e dai suoi figli le fu costruito un Heroon ad Epidauro ed il luogo dove morì prese il nome di Hyrmethium.
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### Titolo: Irtaco.\n### Descrizione: Irtaco (in greco antico Ὕρτακος) è un personaggio della mitologia greca.\n\nMitologia.\nLe fonti presentano Irtaco come il nobile troiano che sposò Arisbe, dopo che venne ripudiata da Priamo. Da lei ebbe i due eroi Asio e Niso, che allevò entrambi sul monte Ida, facendone degli esperti cacciatori. Asio una volta cresciuto fondò la città di Arisbe, così chiamata in onore della madre, e ne divenne il primo re. Nell'Eneide Irtaco è detto padre anche di Ippocoonte.\nI tre figli di Irtaco si resero tutti protagonisti di gesta valorose. Parteciparono alla guerra di Troia, nella quale Asio venne ucciso per mano di Idomeneo. Alla caduta della città, Niso e Ippocoonte seguirono Enea in Italia. Qui combatterono contro i Rutuli di Turno. Nel corso di questo nuovo conflitto fu Niso a trovare la morte, trafitto dagli uomini di Volcente.\n\n(Omero, Iliade, libro II, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).\n\n(Virgilio, Eneide, libro V, traduzione di Luca Canali).\n\n(Eneide, libro IX, traduzione di Luca Canali).
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### Titolo: Ismara.\n### Descrizione: Ismara (in greco antico: Ἴσμαρος?) era un'antica città ciconia, situata sulla costa del mar Egeo, in Tracia. È citata nell'Odissea di Omero come prima tappa del viaggio di ritorno di Ulisse, che con i suoi compagni distrusse la cittadella situata sul mare e fu poi costretto a fuggire per il contrattacco degli abitanti, tornati con i rinforzi forniti dai compatrioti dell'interno. A Ismara Ulisse ebbe anche un dono da Marone, discendente di Dioniso e sacerdote di Apollo, che egli aveva risparmiato con tutta la sua famiglia: il vino con il quale in seguito avrebbe fatto ubriacare il ciclope Polifemo.\nLa città venne rifondata nel VII secolo a.C. da coloni di Chios con il nome di Maronia (oggi cittadina del distretto greco di Rodopi). Nella località di Aghios Georgios di Maroneia è stata rinvenuta una cittadella fortificata micenea, da alcuni identificata con Ismara, che però non si trova sul mare.\nIl villaggio di Ismaros è oggi un piccolo porto sul mare, situato sulla strada litoranea tra Maroneia e Xylagani.
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### Titolo: Ismene.\n### Descrizione: Ismene (in greco antico: Ἰσμήνη?, Ismḕnē) è una figura della mitologia greca, figlia di Edipo e di Giocasta.\nSofocle la introdusse nell'Antigone, nell'Edipo a Colono e, come personaggio muto, nell'Edipo re.\n\nStoria.\nNella Antigone Ismene è dipinta come l'opposto, mite e rassegnata, della forte e combattiva sorella, Antigone: in tal modo, Ismene si configura come vox media, che in Sofocle ha sempre lo scopo di mettere in risalto le gesta e gli incrollabili propositi dell'eroe. Quando Antigone sarà condannata a morte, allora Ismene si dirà pronta a morire con lei; ma sarà troppo tardi e, anzi, Antigone rifiuterà con violenza il suo sacrificio.\nIl poeta lirico Mimnermo raccontava che Ismene fosse stata uccisa, però, durante la guerra dei Sette, da Tideo: in realtà, nessun altro autore menziona questa versione del mito, ma la scena è rappresentata su un vaso corinzio del VI secolo a.C., ora conservato al Museo del Louvre.\n\nGenealogia.
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### Titolo: Isole Esperidi.\n### Descrizione: Le Isole Esperidi (in latino: Hesperidum Insulae) sono isole dell'Oceano Atlantico presenti nelle opere geografiche ed enciclopediche della tradizione classica. Sono conosciute anche con il nome di Isole delle Signore dell'ovest.\n\nIl mito.\nIl mito delle Isole Esperidi è probabilmente collegato a quello del Giardino delle Esperidi e alle Esperidi stesse. Infatti il termine Esperide deriva dal greco hespera che significa sera, proprio come venivano chiamate le ninfe Esperidi, chiamate anche Figlie della Notte, e quindi stava ad indicare un luogo occidentale (in quanto il Sole tramonta ad occidente). Già nell'antichità si tendeva a confondere le Isole Esperidi con le Isole Fortunate e con i Campi Elisi, ponendole nell'oceano a poca distanza dall'Atlante, con lo stesso Giardino delle Esperidi, ponendole sul continente africano.\n\nLe Isole Esperidi nelle opere antiche.\nSono pochi gli autori classici che hanno tramandato l'esistenza delle Isole Esperidi. Infatti, sono giunte solo citazioni da parte di Plinio il Vecchio, Solino, Stazio Seboso (da cui i primi due hanno attinto), Marziano Capella e Onorio. Questi autori tendevano, a differenza di altri, a separare le Isole Esperidi dall'identificazione con le Isole Fortunate o i Campi Elisi. Per quanto riguarda le opere geografiche di Strabone, Tolomeo e Pausania non citano le Isole Esperidi mentre sono citatate nel De Chorographia di Pomponio Mela.\n\nLe Isole Esperidi nella realtà.\nL'identificazione delle Isole Esperidi con isole reali è difficile. Molti ricercatori moderni, sulla base dei riferimenti di Plinio il Vecchio, di Capella, Solino e Seboso identificano tali isole con le Antille, in particolare le Piccole Antille, in quanto, secondo questi autori, il viaggio da Atlantis (Madera) fino alle Isole Esperidi, passando attraverso le Isole Gorgadi (Capo Verde) è di 40 giorni.Secondo Lucio Russo, prima della distruzione di Cartagine, le Piccole Antille venivano identificate con le Isole Fortunate, ma dopo il collasso culturale provocato dalla distruzione di Cartagine si sarebbe mantenuto il ricordo delle Isole Caraibiche ma sotto il nome di Isole Esperidi, mentre le Isole Fortunate finirono per essere identificate con le Isole Canarie.Altri autori moderni (ad es. Valerio Manfredi) ritengono che non solo le Isole Esperidi ma anche le Isole Fortunate rappresentino isole del continente americano.\nAllo stesso modo anche Onorio espresse, all'interno dell'Imago Mundi, la convinzione che le Isole Esperidi confinano con il 'mare cagliato' e con il luogo che anticamente era ricoperto da Atlantide.\nLo scrittore inglese Andrew Collins identifica il 'mare cagliato' con il Mar dei Sargassi e le Isole Esperidi, probabilmente, con le Antille. Secondo Gonzalo Fernández de Oviedo le Isole Esperidi erano da identificare con le isole 'delle Indie occidentali' che era state sottomesse dal re degli Iberi Espero nel 1558 a.C.\nIl domenicano Gregorio Garcìa sostiene che il continente americano era da identificare con le isole che Aristotele 'dice che si trovavano oltre Atlantide...quelle che oggi si chiamano di Barlovento'. È probabile che le isole di cui parlava Aristotele fossero le stesse Esperidi.Altri collocano le Esperidi non nell'oceano ma nel Mediterraneo e le identificano con la Sardegna, con le isole del Tirreno o con le Isole Baleari.Altri ancora, invece, li identificano in chiave più mitica con Iperborea o Atlantide.In sintesi le diverse identificazioni delle Isole Esperidi variano dalle Isole Canarie, alle Isole di Capo Verde, alle Isole Azzorre, alle Isole di Sao Tomè e Principe fino ad arrivare all'isole delle Piccole Antille.
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### Titolo: Isole Fortunate.\n### Descrizione: Le Isole Fortunate o Isole dei Beati (in greco antico: μακάρων νῆσοι?, makárōn nêsoi, in latino insulae fortunatae), sono isole dell'Oceano Atlantico presenti nella letteratura classica sia in contesti mitici sia in opere storiche e geografiche. Da Claudio Tolomeo in poi si è spesso sostenuto che coincidessero con le Canarie.\nGià nell'antichità si tendeva a confondere le Isole Fortunate con le Isole Esperidi o con i Campi Elisi, ponendole nell'oceano a poca distanza dall'Atlante.\n\nIl mito.\nNel mito, presente nella letteratura greca almeno da Esiodo, ma probabilmente derivato da racconti dei Fenici, le Isole dei Beati, a volte identificate con i Campi Elisi, sono isole dal clima dolce nelle quali la vegetazione lussureggiante fornisce cibo senza che gli uomini abbiano bisogno di lavorare la terra. Gli dei destinano alcuni eroi a vivervi un'eterna vita felice.\n\nLe isole nelle opere geografiche e storiche.\nIn Diodoro Siculo l'isola è una sola e vengono meno alcuni elementi essenziali del mito. Lo storico non nomina divinità, né beati, ma localizza l'isola nell'Oceano, a molti giorni di navigazione al di là delle Colonne d'Ercole, e ne parla come di un antico possedimento cartaginese. Secondo Plutarco la distanza dall'Africa sarebbe di 10.000 stadi (circa 1.600 km). Plinio il Vecchio identifica chiaramente le Isole Fortunate con le Isole Canarie. Plinio nella sua enciclopedica opera Naturalis Historia ricorda la spedizione del re Giuba sulle isole Canarie.\nI nomi delle isole erano registrati come Capraria (Fuerteventura), Canaria (Gran Canaria), Ninguaria (Tenerife), Junonia Major (La Palma), Pluvialia (El Hierro), e Junonia (La Gomera). Lanzarote e Fuerteventura, le due isole Canarie più orientali, erano solo menzionate come l'arcipelago delle Purpurae Insulae, ossia le 'isole viola'.\nLa stessa identificazione è certa per le Isole Fortunate di Tolomeo, che nella sua Geografia vi fa passare il meridiano di riferimento.\nDopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, l'interazione con le isole Canarie non è registrata prima del 999, quando gli Arabi arrivarono sull'isola che soprannominarono al-Djezir al-Khalida.\nIl nome Isole Fortunate fu usato fino all'età moderna per indicare le Isole Canarie ed oggi sopravvive ancora nel termine Macaronesia che fa riferimento anche a Madeira e Capo Verde.\n\nLa localizzazione delle isole.\nL'identificazione delle Isole Fortunate con le Isole Canarie, operata da Plinio il Vecchio, Tolomeo e altri autori, non è stata necessariamente sempre valida, né spiega l'origine del mito. Manfredi, nel saggio citato, ipotizza che il mito possa essere stato generato da racconti relativi a isole caraibiche raggiunte da Fenici o Cartaginesi. L'assenza del ciclo stagionale, congiunta alla ricchezza della vegetazione, avrebbe potuto suggerire l'idea di un luogo in cui fossero assenti lavoro e invecchiamento. L'ipotesi è basata sull'analisi delle testimonianze di Diodoro Siculo, Plutarco e altri autori, che sembrano riferirsi a terre più occidentali delle Canarie e trasmettono il ricordo della relazione tra le isole e Cartagine.\nLa tesi dell'identificazione delle Isole Fortunate con isole caraibiche (precisamente le Isole Sopravento Meridionali e le Isole Sottovento delle Piccole Antille) è stata ripresa, con nuovi argomenti di tipo anche quantitativo, nel XXI secolo da Lucio Russo.\nUn'altra possibilità è che le Isole Fortunate si riferiscano alle Azzorre. Una tesi corroborata dalla distanza delle Azzorre dall'Africa, circa 1700/1800 km, che coincide con la distanza che indica Plutarco, 10.000 stadi. Inoltre nel 1749 una spedizione inglese trovò delle monete cartaginesi sull'isola di Corvo.
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### Titolo: Isonoe (mitologia).\n### Descrizione: Secondo la mitologia greca, Isonoe (in greco Ισονοη) era una delle Danaidi.\n\nNella mitologia.\nFu amante di Zeus e ne ebbe un figlio di nome Orcomeno. Quando morì, venne trasformata dal dio in una fonte.\n\nIn astronomia.\nLe è stato dedicato uno dei satelliti del pianeta Giove.
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### Titolo: Issione.\n### Descrizione: Issione (in greco antico: Ἰξίων?, Ixìōn) è un personaggio della mitologia greca. Fu un re dei Lapiti, la più antica tribù della Tessaglia.\n\nGenealogia.\nA causa del particolare mito di cui è protagonista questo personaggio, le gesta di Issione sono state più volte riprese dai mitografi e per questo motivo la sua ascendenza varia.\nSecondo Igino è figlio di Ares o di Leonteo, di Antione e Perimele (scrive invece Diodoro Siculo), o di Flegias, secondo Strabone.\nSi sa che fu sposo di Dia (figlia di Deioneo) e tutti gli autori concordano che sia il padre di Piritoo, eccetto Omero che nell'Iliade lo fa concepire da Zeus.\nSecondo Apollodoro dalla sua unione con Nefele nacque il centauro Euritione.\n\nMitologia.\nIssione, dopo il matrimonio con Dia, non consegnò al suocero i doni che aveva offerto per la mano della sposa e così quello si vendicò rubandogli alcuni cavalli. Issione sulle prime non si mostrò risentito ma dopo averlo invitato a una festa a Larissa violò la Xenia e lo uccise facendolo cadere in un letto pieno di legna e carboni ardenti. Questo atto, però, fece sì che i re dei regni a lui confinanti rifiutassero di eseguire i rituali per la sua purificazione e così lui impazzì e andò a vivere come un esiliato.\nFu poi perdonato da Zeus e ritornò nel suo regno, ma quando fu invitato a un banchetto non si accorse che la donna che stava desiderando non era la dea Era, bensì una donna creata da Zeus stesso (con una nuvola chiamata Nefele) e fu colto in flagrante nel tentativo di amplesso. Così il dio, irato, lo consegnò a Ermes perché lo torturasse e flagellasse senza pietà e fino a quando non avesse ripetuto: 'I benefattori devono essere onorati'.\n\nFu poi gettato nel Tartaro e legato a una ruota con l'intervento di Ermes ed Efesto e fu condannato a girare in eterno nella volta.\nceleste.\nSi dice che solo quando Orfeo suonò la sua lira per salvare Euridice la ruota di Issione si fermò per qualche secondo.\nSecondo Apollodoro, Issione riuscì a possedere Nefele e da questa unione nacque un centauro.\n\nInfluenza culturale.\nVerrà poi ripreso da Schopenhauer, nella sua concezione dell'arte come liberazione. Issione è anche protagonista, insieme a Nefele, del primo dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, intitolato La nube.\nUn'interessante interpretazione del mito di Issione in chiave naturalistica chiama in causa l'anello solare a 22° che si manifesta in occasione di un imminente peggioramento del tempo meteorologico.\n\nFonti.\nPseudo-Apollodoro, Epitome (I, 20).\nDiodoro Siculo, Biblioteca Storica (IV, IV, 12, 69-70).\nIgino, Favole (XIV, XXXIII-XXXIV; LXII; LXXIX; cclvii).\nOvidio, Metamorfosi (XII, 210 e sgg.).\nPindaro, Odi (Pitiche, II).\nStazio, Tebaide (IV, 539, VIII, 50).\nVirgilio, Georgiche (III, 38).
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### Titolo: Itaca.\n### Descrizione: Itaca (in greco Ιθάκη?, Ithaki) è un'isola greca del mar Ionio appartenente all'arcipelago delle isole Ionie (anche detto Eptaneso). Dal punto di vista amministrativo è un comune della periferia delle Isole Ionie di 3231 abitanti al censimento 2011 e un'unità periferica composta dal solo comune omonimo. È universalmente nota per essere stata patria dell'eroe leggendario Ulisse, antico re dell'isola, le cui gesta sono descritte nel poema epico di Omero Odissea.\n\nGeografia fisica.\nIn seguito alla riforma amministrativa entrata in vigore il 1º gennaio 2011, Itaca è uno degli 8 comuni in cui è suddivisa la Periferia di Isole Ionie. Il suo capoluogo è la cittadina di Vatì/Vathy, pittoresco porto con case in stile veneziano. Ha una superficie di 96 km² e conta circa 3.500 abitanti. Gli altri centri abitati sono semplici villaggi. Il capoluogo Vathy è disteso ad anfiteatro in una baia naturale ampia e riparata (c'è chi la considera la più ampia al mondo). L'isola è composta da una parte nord e una parte sud, collegate dall'istmo di Aetos largo appena 600 m nel punto più stretto.\nNella parte occidentale il braccio di mare che divide Itaca da Cefalonia è denominato stretto di Itaca. La forma dell'isola è molto frastagliata. I promontori sono: Exogi nella parte più occidentale, Melissa al nord, Mavronos ed Agios Ilias ad est insieme a Skinos, Sarakiniko ed Agios Ioannis, al sud invece si incontra il capo Agios Andreas. La costa è punteggiata da molte baie tra le quali quella di Polis a nord-ovest, quella di Afales a nord e quelle di Frikes e Kioni a nord-est; il golfo di Ormos e la baia di Sarakiniko sono invece esposte a est e a sud-est. Il monte più alto è il Nirito (806 m), seguito dal Merovigli (669 m).\n\nStoria.\nL'isola fu abitata già dal XXII secolo a.C. ed ebbe particolare rilevanza durante il periodo miceneo. Gli scavi condotti dalla Scuola britannica di Atene dal 1930 al 1939 sotto la direzione di W.A. Heurtley, rivelarono resti di una formazione palaziale cinta da mura ciclopiche sulla collina di Pilikata (fuori dal villaggio di Stavros), e presso la baia di Polis un santuario consacrato alle Ninfe attivo dall'epoca micenea, in cui, dal periodo ellenistico, è attestato un vero e proprio culto della figura di Ulisse. L'importanza della parte nord nel periodo più remoto della storia itacese è confermato anche dagli scavi condotti di recente dall'Università di Ioannina nella località denominata 'Scuola di Omero' (sempre nel comprensorio di Stavros), dove in epoca micenea si ergeva un palazzo fortificato. Dopo il medioevo ellenico il centro principale si spostò sull'istmo; qui fiorì la città di Alalkomene, dalla posizione imprendibile celebrata da Cicerone nel De oratore (I, 44): '... ut Ithacam illam in asperrimis saxulis tamquam nidulum adfixam'. La città, probabilmente sotto l'influenza corinzia, era però indipendente; lo testimoniano un trattato di Aristotele sulla Costituzione degli Itacesi che non ci è pervenuto, e le monete del III sec. a.C con l'effige di Ulisse sul retto e quella di Atena sul verso che portano la scritta ΙΘΑΚΩΝ ('di Itaca'). Gli scavi protoarcheologici svolti ai piedi della collina nel 1812-13 da europei di diverse nazionalità portarono alla luce, in sepolture di epoca ellenistica in romana, un vero e proprio 'tesoro di Itaca' (oggi disperso in vari musei del mondo) che conferma la prosperità dell'isola in questo periodo.\nI Romani la occuparono nel II secolo a.C., ed in seguito essa divenne parte dell'Impero bizantino. Dalla metà dell'VIII secolo fa parte del thema (distretto militare) di Cefalonia, istituito per sostenere gli interessi bizantini in Italia meridionale. Con la conquista di Bari da parte dei Normanni di Sicilia nel 1071, Bisanzio perde, oltre ai possedimenti territoriali, anche il controllo sul braccio di mare tra l'Italia e la Grecia, aprendo così la strada a una rinascita della pirateria. I resoconti di due pellegrini per la Terra Santa, Philip August e Benedetto di Petersburgh, rispettivamente del 1190 e del 1191, descrivono Itaca e Cefalonia come famigerati covi di pirati. Le vicende delle isole ionie si inseriscono per tutto questo periodo nei tentativi di espansione dei Normanni di Sicilia verso est; a partire dalla campagna di Roberto il Guiscardo (che muore a Cefalonia nel 1085), sino alla definitiva conquista (1185) dell'arcipelago da parte di Margaritone da Brindisi, che viene nominato da Guglielmo II signore di Itaca, Cefalonia e Zacinto. Nel 1194 subentra il dominio personale di Maio (o Matteo) Orsini il quale, inizialmente vassallo dei Normanni, cerca in seguito la protezione del papa e di Venezia. Gli Orsini governeranno sino al 1357, quando Leonardo Tocco, membro di una nobile famiglia di Benevento, fu nominato 'Conte di Cefalonia, Signore di Itaca e Zacinto'. Il principato dei Tocco si mosse con scaltrezza nel complesso quadro politico del periodo, e nel 1411-16 Carlo I Tocco riuscì a conquistare l'Epiro, aggiungendo ai suoi titoli quello di 'Despota di Ioannina e Arta'. La prima fase del dominio delle potenze italiane sulle isole ionie termina nel 1479, quando i Turchi prendono Cefalonia e Itaca.\nSeguono due decenni di alterne vicende belliche nelle quali Venezia emerge come principale antagonista dell'inarrestabile espansione ottomana, giungendo infine, nel 1504, a ottenere il controllo di Cefalonia e Itaca (quest'ultima praticamente spopolata). Lo stato di abbandono in cui versava fu fronteggiato con un decreto del Senato veneziano del 18 marzo 1504 che accordava l'esenzione delle tasse per cinque anni a chi si stabiliva sull'isola. Una vera e propria ripresa si ha però solo nel corso del Seicento, quando alla coltivazione dell'olio e del grano si aggiunge quella (importata da Zacinto) dell'uva sultanina, che sino all'Ottocento rimarrà un'importante fonte di esportazione, soprattutto sul mercato inglese. I Veneziani potenziano anche l'approdo di Vathi, che a partire dal Settecento si svilupperà diventando la capitale dell'isola (in precedenza, per la paura della pirateria, gli abitati si trovavano in alto lontano dalle coste; la capitale nel periodo medioevale era Paleochora, le cui rovine sono a tutt'oggi visitabili sulle pendici del monte Peteliatiko). La ripresa del periodo veneziano è testimoniata anche dalle testimonianze artistiche, tra cui spicca il ciclo di affreschi della chiesa di Anoghi, di scuola epirota e databile alla fine del XVII secolo. Al periodo tra Cinque e Seicento risalgono inoltre le prime, fugaci descrizioni di Itaca in resoconti di studiosi e viaggiatori europei, come il Grande Insulaire et Pilotage (1586) del cosmografo reale di Francia André Thevet, e il Voyage d'Italie, de Grèce et du Levant (1679) di Jacob Spon e George Wheler.\nNel 1797 col trattato di Campoformio terminò la plurisecolare dominazione veneziana e le isole ionie passarono alla Francia; grazie al prestigio crescente presso gli occidentali della reputazione omerica di Itaca, il nuovo dipartimento (che comprendeva anche Cefalonia e aveva la capitale ad Argostoli), prese il nome ufficiale di Dipartimento di Itaca. Un'alleanza russo-turca strapperà le isole ai francesi e porterà, nel 1800, alla fondazione della Repubblica delle Sette Isole Unite sotto sovranità ottomana e protettorato russo. Fu questa la prima esperienza di autogoverno greco, in cui ebbero un ruolo principale i greco-veneti, tra i quali Giovanni Capodistria. Nel 1809 il Regno Unito prese possesso militare delle isole, il cui destino fu deciso dagli accordi del Congresso di Vienna, che prevedevano la fondazione degli Stati Uniti delle Isole ionie, un'entità statale indipendente posta sotto protettorato britannico. Nel 1816 Sir Thomas Maitland, primo Lord High Commissioner del nuovo stato, sbarcò a Corfù, e l'anno successivo venne approvata la Costituzione.\n\nNonostante le turbolenze politiche questo periodo di transizione è però molto florido dal punto di vista economico e culturale. La creazione di una flotta mercantile basata a Vathi nel corso del Seicento, aveva portato nel secolo successivo i mercanti itacesi a essere protagonisti nella colonizzazione commerciale greca delle sponde del mar Nero, dalle quali veniva importato grano verso i mercati dell'Europa occidentale. L'afflusso in patria di ricchezze accumulate grazie al commercio e all'attività di armatori rese Vathi un centro florido e cosmopolita; William Gell, che la visitò nel 1807, affermò di avervi trovato 'confort di alto livello, con i negozi che vendono caviale e pesce salato di ogni tipo' e che 'gli strati superiori della società sono in genere ben istruiti e in grado di parlare in greco, italiano e spesso in francese con uguale competenza' La crescita della popolazione aveva nel frattempo raggiunto gli ottomila abitanti. Contemporaneamente, l'isola viene 'riscoperta' per l'Occidente proprio da William Gell, che la esplora tutta Odissea alla mano e nel 1807 pubblica il celebre The Geography and Antiquities of Ithaka, uno testo di enorme successo in cui si accrediterà come scopritore del palazzo di Ulisse. Sull'eco delle sue esplorazioni si svolgeranno, a cavallo del 1812-13, i primi scavi archeologici nella città di Alalkomene. Nell'agosto del 1823 Lord Byron vi trascorse una breve vacanza prima di partire per Missolonghi; visitò Vathi e il monastero di Kathara, ma non mostrò nessun interesse per i resti archeologici.\nIl periodo del protettorato inglese vide diverse innovazioni; furono costruite le prime strade, in particolare quella che da Vathi conduce alla parte nord costeggiando il massiccio del Nerito, e venne creato un sistema di istruzione pubblica che era stato del tutto assente nel periodo veneziano. Nei primi anni Lord Guilford, che era stato nominato Lord of Education, contemplò persino l'idea di fondare la prima università sul suolo greco a Itaca; i lavori erano in procinto di iniziare su un terreno concesso dagli abitanti quando lo scoppio della Guerra d'indipendenza greca nel 1821 non suggerì di spostare il progetto a Corfù in quanto isola molto meglio difendibile. Proprio con la fondazione dello stato greco gli Stati Uniti delle Isole Ionie furono sempre più minati dal movimento che chiedeva l'enosis (unione) con la Grecia, che fu concessa nel 1864. Anche dopo il cambiamento di regime politico Itaca continuò a prosperare grazie ai traffici col mar Nero. Ai primi del Novecento toccò un picco di dodicimila abitanti. Nel 1902 l'armatore Georgios Drakoulis costruì sul lungomare di Vathi la dimora in stile neoclassico ancora visibile, e a un altro armatore, Stanathos, si deve la fondazione nel 1907 di un Istituto nautico, la prima scuola nel suo genere in Grecia. Nel 1922 grazie al mecenatismo di Drakoulis venne inaugurata la prima centrale elettrica, che serviva Vathi e Perachori. Il declino si manifesterà solo dopo la prima guerra mondiale, quando la marineria greca spostò in massa le sue operazioni al Pireo. Iniziò una massiccia emigrazione, rivolta soprattutto all'Australia e al Sud Africa, che portò a un drastico calo della popolazione. Un terremoto nel 1953 ha procurato gravi danni in tutta l'isola, ma la ricostruzione è stata abbastanza fedele alla tipologia dell'edilizia tradizionale.\n\nEconomia.\nTurismo.\nIl capoluogo, Vathy, situato al fondo di una profonda baia, porto naturale fra i migliori, è un approdo eccellente per i velisti. Itaca si è molto sviluppata turisticamente negli ultimi anni, con creazione di nuove strutture ricettive che comunque finora hanno relativamente salvaguardato l'ambiente naturale.\nÈ meta abituale di escursioni giornaliere dalle circostanti isole dell'arcipelago delle isole Ionie. Scavi archeologici hanno dimostrato l'esistenza sull'isola di abitati di epoca micenea, ma non hanno permesso ancora di localizzare con precisione l'eventuale reggia di Ulisse, oppure luoghi corrispondenti alla tradizione omerica. Negli anni Ottanta l'isola ha incrementato la propria notorietà quando Carlo d'Inghilterra e la moglie Diana hanno trascorso parte della loro luna di miele fra Cefalonia ed Itaca.\n\nAmministrazione.\nIl comune faceva parte della prefettura di Cefalonia, soppressa nel 2011 a seguito del Programma Callicrate e costituisce l'unico comune dell'unità periferica omonima che comprende, oltre all'isola di Itaca, anche le isole di Arkoudi e Atokos situate nei pressi di Capo Melissa e le isole dell'arcipelago delle Echinadi.\n\nGemellaggi.\nMonte di Procida.\nSquillace dal 18 maggio 2007.\nSanta Marinella.\n\nLocalità.\nOltre al capoluogo Vathy, compongono il comune le seguenti località: Aetos, Afales, Agios Ioannis, Agia Saranta, Anogi, Exogi, Frikes, Kalivia, Kathara, Kioni, Kolieri, Lachos, Lefki, Marmaka, Perachori, Piso Aetos, Platrithia, Rachi, Stavros.\n\nSpiagge.\nLe spiagge più famose di Itaca sono Dexa, Loutsa, Aetos.\n\nNella cultura di massa.\nItaca e l'Odissea.\nItaca è universalmente nota per essere stata, secondo la leggenda, la patria dell'eroe leggendario Ulisse (Odisseo) e per esservi ambientata parte dell'Odissea, il celeberrimo poema di Omero. Tuttavia, fin dall'antichità si è notata incoerenza tra la descrizione dell'isola nel poema e l'Itaca visibile. In particolare, tre aspetti della descrizione rappresentano le più grandi incongruenze. In primo luogo, l'antica Itaca è descritta come un'isola piana («χθαμαλὴ»), invece l'odierna è un'isola montuosa. Poi è descritta come «la più inoltrata nel mare, diretta verso il tramonto» («πανυπερτάτη εἰν ἁλὶ… πρὸς ζόφον»), e da ciò si dovrebbe supporre che si trovi all'estremità occidentale del proprio arcipelago, invece nell'arcipelago dell'odierna Itaca è Cefalonia l'isola più occidentale. Infine, non è chiaro a quali isole moderne (presumibilmente nel medesimo arcipelago) dovrebbero corrispondere quelle che Omero chiama Dulichio e Same.\nLo storiografo greco Strabone, del primo secolo d.C., nella sua Geografia, fu il primo a identificare l'isola di Odisseo con la moderna Itaca. Basandosi sui primi commentatori dell'Odissea, tradusse la parola χθαμαλὴ non come 'priva di rilievi' bensì come 'vicina alla terraferma'. Identificò l'omerica Same con la moderna Cefalonia, e ritenne che Dulichio fosse un'isola delle odierne Echinadi. Inoltre, la moderna Itaca si trova più a nord di Cefalonia, di Zacinto e di quella che lui presupponeva essere Dulichio, e pertanto ritenne che l'omerico «la più inoltrata nel mare, diretta verso il tramonto» andasse in realtà tradotto come «diretta verso il nord».\nLa teoria di Strabone non raccolse però il consenso di tutta la comunità letteraria. In età moderna alcuni studiosi hanno obiettato che l'Itaca di Omero potrebbe invece essere un'isola oggi nota con altro nome. La teoria più conosciuta in proposito è quella di Wilhelm Dörpfeld, secondo cui l'Itaca omerica sarebbe da individuare nella vicina isola di Leucade.\n\nMusica.\nItaca è anche un brano musicale del cantautore Lucio Dalla del 1971.
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### Titolo: Iunce.\n### Descrizione: Iunce o Iunge (in greco antico: Ἴϋγξ, Iynx) è una figura della mitologia greca, figlia di Pan e della ninfa Eco, sorella di Iambe.\n\nIl mito.\nSomministrò incautamente a Zeus un filtro amoroso che accese nel dio la passione per la mortale Io, figlia di Inaco (o, secondo altre versioni, per la stessa Iunce). Furiosa per il tradimento, Era si vendicò di Iunce trasformandola in torcicollo, volatile che da lei prese il nome e che, anticamente, era venerato per gli esorcismi amorosi. Secondo altre fonti, la dea tramutò Iunce in una statua di pietra.
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### Titolo: Jenny Haniver.\n### Descrizione: Un Jenny Haniver è un falso mostro realizzato usando la carcassa di un pesce chitarra (nome comune della famiglia di razze Rhinobatidae), o di una razza chiodata, a cui si applicano tagli, ripiegature e mutilazioni fino a conferirle le sembianze di una creatura vagamente umanoide, in genere simile a un demone o un angelo. Lo scopo è solitamente quello di ingannare il prossimo, per esempio rivendendo il corpo spacciandolo per cucciolo di drago, un basilisco, il cadavere di un extraterrestre o una qualche rarità criptozoologica. Ai Jenny Haniver si fa spesso riferimento come possibile spiegazione di alcune misteriose creature marine descritte in letteratura, come il pesce monaco spiaggiato in Danimarca nel 1546.\n\nStoria.\nL'origine e il significato del nome 'Jenny Haniver' non sono noti con certezza. L'ipotesi più accreditata è che si tratti di una anglicizzazione del francese jeune d'Anvers ('ragazza di Anversa'); i primi a creare questi falsi, con l'intento di rivenderli come 'cadaveri di sirena', potrebbero essere stati i pescatori britannici di Anversa. Altrimenti potrebbe prendere il nome dall'unione dei nomi inglesi sia di Genova sia di Anversa.La pratica di deformare il corpo delle razze al fine di produrre questo genere di falsi è piuttosto antica; già nel 1558, nel saggio Historia Animalium (vol. IV), il naturalista Konrad Gesner descriveva i 'Jenny Haniver' come un falso molto diffuso, spiegando come nei mercati di Zurigo fossero talvolta spacciati per basilischi. Numerosi Jenny Haniver furono realizzati in Belgio, in Francia e a quanto pare anche in Italia: ne sono stati infatti trovati molti a Milano, Venezia e Verona, realizzati soprattutto nel XVI secolo con pesci del Mediterraneo.Curiosamente, i Jenny Haniver furono prodotti (e spacciati per creature misteriose) ancora in tempi recenti. Uno dei casi di pubblicità mediatica data a questo fenomeno è avvenuto nel 1971 a San Juan in Porto Rico, quando Alfredo Garcia Garamendi, professore di educazione fisica e appassionato di fenomeni paranormali, sostenne di aver catturato uno strano pesce che poteva uscire dal mare, respirare e porsi in stato eretto. A tale animale, di sembianze umane, Garamendi diede il nome di 'Garadiabolo'. Nel 1974 Garamendi pubblicò informazioni sulla sua presunta scoperta nel libro Los Garadiabolos.L'ultimo Jenny Haniver salito alla ribalta dei media in Italia è quello segnalato nel luglio del 2006 dalla pubblicazione locale Meridianodieci (letto specialmente nell'Ovest Bresciano), quindi dal Giornale di Brescia, e inizialmente presentato dalla stampa come il cadavere di un extraterrestre: 'Mummia rossa in un pollaio. Rossa come un marziano', questo il titolo in copertina. Il Jenny Haniver faceva parte in realtà di un deposito di materiali provenienti dalla ristrutturazione di un palazzo milanese.
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### Titolo: Kallikantzaroi.\n### Descrizione: I kallikantzaroi o kalikantzaroi (gr. καλλικάντζαροι o καλικάντζαροι; sing. kallikantzaros o kalikantzaros, gr. καλλικάντζαρος o καλικάντζαρος), chiamati anche kalkatzonia (καλκατζόνια), kalkania (καλκάνια), kalitsanteri (καλιτσάντεροι), karkantzaroi (καρκάντζαροι), skalikantzeria (σκαλικαντζέρια), skantzaria (σκαντζάρια), tzogies (τζόγιες), lykokantzaroi (Λυκοκάντζαροι), kalikantzarou (καλικαντζαρού), kalikantzarines (καλικαντζαρίνες), kalokyrades (καλοκυράδες), verveloudes (βερβελούδες), kolovelonides (κωλοβελόνηδες), sono delle creature mostruose e terrificanti del folklore natalizio greco e cipriota, che - secondo la tradizione - fanno la loro comparsa sulla Terra tra il 25 dicembre (Natale) e il 6 gennaio (Epifania), ovvero nel periodo delle cosiddette 'Dodici Notti', per arrecare οgni sorta di angherie alla popolazione; in tutto il resto dell'anno vivono invece nel sottosuolo.\n\nCaratteristiche.\nLe descrizioni dei kallikantzaroi non sono univoche: sono solitamente ricoperti di una folta pelliccia e talvolta vengono descritti come dei lupi, altre volte come delle scimmie, molto spesso come degli esseri per metà uomini e per metà animali (che possono avere zampe di cavallo, zanne di cinghiale, braccia di scimmia, lunghe lingue, occhi rossi, unghie lunghe e ricurve, ecc.); possono essere sia minuscoli che enormi e sono prevalentemente di sesso maschile.Vivono gran parte dell'anno negli inferi, dove s'intrattengono divorando l'albero che regge il centro della Terra. A Natale, però, tutta la loro fatica è resa vana dal fatto che quest'albero - con la ricorrenza della Nascita di Gesù - si rigenera completamente. Per questo motivo, il 25 dicembre, escono dal loro consueto 'habitat' per vendicarsi degli uomini, rimanendo sulla Terra fino al 6 gennaio, quando, grazie alla Benedizione delle Acque, vengono rispediti negli inferi.Nel periodo in cui sono sulla Terra, la vendetta dei kallikantzaroi nei confronti del genere umano si traduce in ogni genere di dispetti: distruggere i mobili, far ballare la gente fino allo sfinimento, mangiare le pietanze natalizie, urinare sul fuoco, far andare a male il latte, ecc.È consuetudine che entrino nelle case dal camino e, per questo, è bene tenere acceso il ceppo natalizio.Si tratta di creature che, vivendo gran parte dell'anno nell'oscurità, temono la luce. Inoltre temono il fuoco e la croce cristiana (questo è il motivo per cui, il giorno dell'Epifania, con la benedizione di tutte le acque, spariscono).\n\nEtimologia.\nL'origine del termine kallikantzaros è incerta. Tra le ipotesi formulate, vi sono le seguenti:.\n\nBernhard Schmidt l'ha fatto derivare dalla combinazione di due parole turche che significano 'nero' e 'lupo mannaro'.\nUn'altra ipotesi lo fa derivare dal greco kalos kentauros, che significa 'bel centauro'.\n\nUsanze.\nCome detto, tra le usanze che permettono di difendersi dai kallikantzaroi, vi è quella di tenere sempre acceso il ceppo natalizio.Un altro sistema per allontanare i kallikantzaroi è quello di appendere delle erbe o una mascella di maiale nel camino o sulla porta, oppure quello di marchiare la porta con una croce nera.\n\nSuperstizioni.\nSi crede che un bambino nato la notte di Natale possa trasformarsi con molta probabilità in un kallikantzaros, come punizione per quello che può essere considerato come un 'affronto', ovvero essere nato nello stesso giorno di Gesù. Per rimediare a questo problema, c'erano varie soluzioni. In una, attestata nel Seicento, i genitori accostavano le piante dei piedi dei bambini a una fiamma, finché non si mettevano a piangere: si credeva che così sarebbero stati bruciati gli artigli nascosti dentro la carne, e i piccoli non si sarebbero trasformati in kallikantzaroi. Nella regione dell'Argolide, invece, i bambini nati nel periodo natalizio erano collocati in un forno spento, all'imboccatura del quale si dava fuoco a una fascina di legna. A quel punto si domandava: 'Pane o carne?'. Se il bambino rispondeva 'pane', si riteneva guarito e era subito liberato; altrimenti si lasciava qualche altro istante nel forno e si ripeteva la domanda finché non rispondeva 'pane'.
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### Titolo: Kalos.\n### Descrizione: L'iscrizione kalós è una forma di epigrafe diffusa sui vasi attici tra il 550 e il 450 a.C., di solito rinvenuta su vasi simposiaci.\nLa parola καλός significa 'bello', ma all'interno di questa formula assumeva connotazione erotica; l'iscrizione era formata dal nome di un giovane, al nominativo singolare, seguita dall'aggettivo 'kalós' ('... Kalos', cioè '... [è] bello'). Contemporaneamente alla comparsa di queste iscrizioni vascolari, si assiste alla proliferazione di scene a carattere pederastico, ma sotto forma di carezze piuttosto che di atti sessuali espliciti.\nLe persone citate erano quasi sempre adolescenti maschi, riconosciuti dal ceramografo per la loro bellezza, ma, occasionalmente, anche ragazze e donne erano dette kalé ('bella'). Altre volte l'iscrizione era generica e rivolta a ho pais kalos, dove il termine 'pais' significa ragazzo di età inferiore a quattordici o quindici anni. In alcuni casi i nomi delle iscrizioni sono stati ricondotti a personaggi storici, divenendo elementi cronologici per la datazione dei vasi.\nLe iscrizioni kalos si trovano anche come graffiti sui muri. L'esempio più abbondante è costituito dalle iscrizioni incise su roccia risalenti al IV secolo a.C.. Le prove non epigrafiche letterarie consistono in due riferimenti in Aristofane: il verso 144 degli Acarnesi e i versi 97-99 delle Vespe.
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### Titolo: Khalkotauroi.\n### Descrizione: I Khalkotauroi, conosciuti anche come i tori della Colchide, sono creature mitologiche che appaiono nel mito greco di Giasone e del vello d'oro.\n\nMitologia.\nI Khalkotauroi sono due immensi tori con zoccoli di bronzo e bocche di bronzo attraverso le quali sputano fuoco. Nell'Argonautica, a Giasone viene promesso il pregiato vello dal re Eete se riesce prima ad aggiogare i Khalkotauroi e usarli per arare un campo. Allora il campo sarà seminato con denti di drago.\nGiasone sopravvive alle fiamme ardenti dei tori di bronzo strofinando sul suo corpo una pozione magica che lo protegge dal caldo. La pozione è stata fornita da Medea, la figlia del re Eete, innamorata di Giasone.\nI Khalkotauroi erano un dono fatto al re Eete dal fabbro degli dei greci, Efesto.\n\nNella cultura di massa.\nLa versione di Giasone e gli Argonauti di Nick Willing presenta una creatura conosciuta come il toro menaiano, una macchina in parte toro, che Giasone deve domare. Questa versione, tuttavia, sputa fuoco e viene utilizzata per arare i campi da Giasone. I denti di drago seminati si trasformano in scheletri corazzati.\nI Khalkotauroi appaiono nel secondo romanzo di Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo, Il mare dei mostri. I tori sono descritti come tori di bronzo sputafuoco delle dimensioni di un elefante creati da Efesto, con corna d'argento e rubini al posto degli occhi. Attaccano il Campo Mezzosangue prima di essere sottomessi dal fratellastro ciclope di Percy Jackson, Tyson. I Khalkotauroi furono successivamente utilizzati per realizzare le piste per la corsa delle bighe. Nell'adattamento cinematografico del libro appare solo un toro della Colchide ed è di natura completamente meccanica, e viene sconfitto quando Percy usa la sua spada per bloccare gli ingranaggi interni del toro.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Khalkotauroi.
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### Titolo: Komos.\n### Descrizione: Il termine kòmos (in greco antico: κῶμος?), nell'antica Grecia, indicava in origine il giro festoso che i giovani compivano per la città dopo un simposio, cantando e suonando il flauto. Dal VI° sec. a.C. in poi, indicò soprattutto una parte delle feste dionisiache, che rappresentava il tiaso di Bacco. Si trattava di un corteo rituale, a piedi o talvolta su carri, durante il quale i partecipanti si abbandonavano a un'atmosfera di ebbrezza, a espressioni di sfrenatezza e baldoria, sottolineate da canti, accompagnate dalla musica dell'aulos, della lira e della cetra e condite da disinibite e giocose manifestazioni di oscenità e allusività a sfondo sessuale.\n\nIl komos come espressione di socialità.\nSi trattava di un'espressione di socialità non confinata unicamente alla sfera delle pratiche religiose pubbliche, come ad esempio le Dionisie, le Falloforie e altre celebrazioni collegate all'importante culto di Dioniso, ma viva e presente anche quale forma di ritualità privata. Si accompagnava infatti a festeggiamenti quali le celebrazioni nuziali ed era strettamente collegato a importanti pratiche sociali quali il banchetto e il simposio. In questo ambito il kòmos dava libero sfogo alla voglia di sfrenatezza e bisboccia che faceva seguito alle pratiche conviviali, costituendo un'importante componente della vita sociale nell'antica Grecia.\nI partecipanti al komos vengono chiamati comasti e le relative manifestazioni di ebbrezza sono dette comastiche oppure orgiastiche.\n\nLe fonti.\nLa varietà delle fonti, siano esse letterarie o iconografiche, è appena in grado di restituirci l'effettiva natura del komos.\n\nFonti letterarie.\nLa menzione più antica la troviamo in Esiodo che sembra suggerire una relazione di questa pratica con i festeggiamenti nuziali.\nCeleberrima è poi, nel Simposio platonico, la scena della rumorosa irruzione di Alcibiade che, nell'inedita versione di sfasciaporte fracassone, con il capo adorno di una ghirlanda, completamente ebbro, accompagnato dalla sua combriccola e sorretto da una flautista, viene accolto in casa di Agatone riuscendo a portare, lui ubriaco, un elemento di freschezza e di verità, nel bel mezzo di un composto simposio.\nTuttavia non esiste un unico evento specificatamente associabile al komos. Pindaro, ad esempio, ce lo descrive all'interno delle celebrazioni cittadine. Demostene ce lo menziona nel primo giorno delle Dionisie, al seguito della processione rituale e dei coreghi, in un contesto che sembra riferirsi a un agone, rivelando quindi una possibile natura competitiva dell'evento.\nDemostene, inoltre, rimprovera al cognato di Eschine il non aver indossato una maschera, quasi suggerendo che fosse usuale indossarla durante il komos, suggerendo quindi che la pratica del komos richiedesse l'uso di costumi o di qualche travestimento.\nL'esecuzione di musica durante il komos è suggerita da Aristofane e Pindaro.\n\nFonti iconografiche.\nNelle raffigurazioni vascolari del periodo arcaico il comasta viene solitamente mostrato fasciato in un attillato chitone e, in apparenza, un intrattenitore di professione. Appartengono all'arcaismo più tardo alcune raffigurazioni che mostrano comasti sfilare en travesti, drappeggiati in lunghi abiti, il capo adorno di orecchini, festonato da nastrini e, talvolta, protetto da ombrellini parasole, tutti simboli di effeminatezza..\nNelle descrizioni comastiche della pittura vascolare si registrano inoltre raffigurazioni di torce, anche se non sempre è chiaro se in tali scene siano da vedersi cori piuttosto che simposi, o komoi.\n\nLe raffigurazioni comastiche sono molto frequenti su un determinato tipo stilistico di kylix, appartenente a un preciso periodo di inizio VI secolo a.C., tanto che, nella classificazione vascolare contemporanea, si fa riferimento a questa tipologia di oggetti con il nome convenzionale di Coppe dei comasti.\nÈ da sottolineare infine che gli Etruschi, pronti assimilatori di pratiche culturali greche, come quelle conviviali, elette quasi a status symbol, non si lasciarono sfuggire la possibilità di reinterpretarne le ambientazioni comastiche come è testimoniato dagli affreschi provenienti dalle tombe della necropoli diTarquinia.\n\nIl komos nella ceramica greca.\nNella ceramica figurata greca viene designata komos ogni scena di carattere orgiastico, dove compare un gruppo o un corteo di bevitori (i komastài) che danzano, cantano, suonano, bevono, si ubriacano.\nIl komos non esiste né in àmbito etrusco né in quello romano.\n\nNella ceramica corinzia abbiamo poche figure disposte in fila senza legami, qualche volta raggruppate o contrapposte a due a due, che danzano con movimenti uniformi tenendo in mano kantharoi o corni potori. Qualche volta vi è un cratere che è posto a terra o viene trasportato. Tipico dei comasti corinzi è una sorta di travestimento caratterizzato da un corto chitone imbottito che crea una pancia rigonfia. Donne comaste compaiono soltanto nel tardo corinzio e sono rese con sovradipinture in bianco.\nNella ceramica attica abbiamo i pittori del Gruppo dei Komastai: si passa dalle figure steatopige a figure di corporatura più normale, sempre nude. Così saranno tutte le figure di komastai attici a figure nere. I movimenti di danza diventano più ricchi, complessi, sfrenati. Si tende a legare o contrapporre le figure fra di loro. Scarsi sono i flautisti. Sulle anfore tirreniche le donne sono frequenti, sia vestite sia nude.\nIntorno al 530 a.C. abbiamo la tarda produzione a figure nere e l'inizio di quella a figure rosse. Il quadro acquista una complessità e ricchezza di particolari mai vista in precedenza. Ma quello che viene rappresentato è la fase finale di un simposio o la sua degenerazione orgiastica. Il luogo in cui tutto avviene è suggerita dai particolari aggiunti: in un ambiente chiuso abbiamo crateri a terra o oggetti appesi alla parete; fuori casa, procedendo in corteo per la strada, figurano degli alberelli. Al komos partecipano per lo più giovani, ma anche uomini maturi (con barba), nudi o con corto mantello ricadente dalla spalla. Sorreggono coppe piene di vino. Suonano flauti e cetre mentre altri avanzano a passo di danza o camminano a grandi passi. Vi sono anche etère, con mantello o seminude, anche loro ubriache. Spesso i comasti vengono rappresentati intenti a fare acrobazie con le coppe, o mentre vomitano (sorretti da un'etèra o da un efebo), o che si appoggiano a un bastone. Le scene di sesso esplicite sono sempre all'insegna della sfrenatezza.Alcuni vogliono considerare scene di komos anche quelle dionisiache dove figurano satiri e menadi danzanti, ma non quelle dove è presente Dioniso insieme ai Sileni. In realtà queste scene, come pure quelle di menadi che agitano il tirso in preda all'estasi dionisiaca, fanno tutte parte dei tiasi bacchici, non del komos.\n\nRapporti con le espressioni teatrali.\nIl komos e il coro.\nIl komos deve essere tenuto ben distinto dalla processione e dal coro greco, essendo quest'ultimo basato su eventi dettati da un copione e sotto la direzione di un corifeo, laddove invece il komos era un'espressione al di fuori degli schemi, svincolata quindi da ogni rigidezza direttoriale, da copioni o prove.\n\nIl komos e la commedia.\nÈ largamente accettato, seppur ancora discusso, il rapporto di discendenza tra il komos e la κωμῳδία (commedia). Tale relazione è suggerita ed avvalorata da Aristotele, il quale riferisce la derivazione etimologica di κωμῳδία kōmōdìā da κῶμος kṑmos e ᾠδή ōdḕ, 'canto'. Tuttavia lo stesso Aristotele, nella terza parte dell'opera, registra, polemicamente, anche la tradizione che vorrebbe il termine κωμῳδία derivato da κώμη, kṑmē, termine che indicava il villaggio. In tal caso l'origine della commedia sarebbe da ricercarsi negli spettacoli e nelle farse mimiche megaresi che si svolgevano, appunto, nei villaggi.\nTuttavia rimane oscuro attraverso quali vie le forme espressive del canto di bisboccia, o della teatralità mimica, si siano evolute nell'antica commedia greca delle Dionisie del VI secolo a.C. La metamorfosi da farse popolare ed estemporanea a un vero e proprio genere teatrale si sarebbe realizzata in Sicilia.
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### Titolo: Kourion.\n### Descrizione: Kourion (dal greco Κούριον), nota con il nome latino di Curium (Plinio v. 13), era una città cipriota, che durò dall'antichità fino ai primi anni del Medioevo. Kourion è situata sulle rive a sud dell'isola ed a ovest del fiume Lycus (ora chiamato Kouris) ed è stato segnalata da numerosi autori antichi tra cui Tolomeo e Plinio il Vecchio. Oggi il sito si trova all'interno della base militare britannica di Akrotiri e Dhekelia.\n\nStoria.\nKourion si dice sia stata fondata dagli Argivi, il cui sovrano, tradì la causa del suo paese durante la guerra contro i Persiani. La città è passata attraverso diverse fasi, una ellenistica, poi l'epoca romana e cristiana. Per questo motivo la città ha una grande agorà (mercato) e una basilica paleocristiana, poste all'interno delle mura cittadine. Inoltre sono presenti grandi bagni pubblici che erano dotati di acqua fredda e calda, dalle terme, e un nympheum con una grande piscina ottagonale. Nel grande anfiteatro che può ospitare circa 2000 spettatori per lo più si sono svolti i giochi, quindi in città c'è anche una Palestra cioè il luogo di formazione per i lottatori. L'intera città ha mosaici pavimentali che si trovano principalmente nella casa di Achileas fondatore della città.\nA tre chilometri dalla città si trova il santuario di Apollo, che offre straordinari particolari di architettura corinzia. Sulla stessa posizione esiste luogo di culto per un dio bosco risalente al 6000 a.C.. Tra Kourion e il santuario di Apollo si trova lo stadio lungo circa 400 m, questo stadio può ospitare fino a 7.000 spettatori. Questa magnifica città si crede sia stata distrutta nel IV secolo quando una serie di cinque forti terremoti la colpì nell'arco di circa 80 anni, e questo avrebbe inevitabilmente portato alla sua fine.\nFu sede vescovile: si ricordano due vescovi, vissuti nel V e nell'XI secolo.\n\nVoci correlate.\nKition.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Kourion.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Kourion, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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### Titolo: Kunée.\n### Descrizione: La kunée (ἡ Ἄϊδος κυνέη o κυνῆ), conosciuta anche come Elmo di Ade o Elmo dell'oscurità, è un copricapo magico presente nella mitologia Greca in grado di rendere invisibile chiunque lo indossi. Secondo il mito, l'elmo venne fabbricato dai ciclopi con pelle di cane (kúon) e dato in dono ad Ade, assieme al tridente per Poseidone e alla folgore per Zeus, in occasione della guerra contro i Titani. Con l'aiuto dell'elmo Ade si introdusse nottetempo nell'accampamento nemico e distrusse le armi dei Titani, gesto che assicurò a Zeus e ai suoi fratelli la vittoria. Nella mitologia il kunée, oltre che dallo stesso Ade, venne utilizzato anche dalla dea Atena nell'Iliade, da Ermes nella Biblioteca e da Perseo che sfruttò il potere del copricapo per sconfiggere Medusa.
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### Titolo: L'Orfeo.\n### Descrizione: L'Orfeo (SV 318) è un'opera di Claudio Monteverdi su libretto di Alessandro Striggio.\nSi compone di un prologo («Prosopopea della musica») e cinque atti.\nÈ ascrivibile al tardo Rinascimento o all'inizio del Barocco musicale, ed è considerata il primo vero capolavoro della storia del melodramma, poiché impiega tutte le risorse fino ad allora concepite nell'arte musicale, con un uso particolarmente audace della polifonia.\nBasata sul mito greco di Orfeo, parla della sua discesa all'Ade, e del suo tentativo infruttuoso di riportare la sua defunta sposa Euridice alla vita terrena. Composta nel 1607 per essere eseguita alla corte di Mantova nel periodo carnevalesco, L'Orfeo è uno dei più antichi Drammi per musica a essere tuttora rappresentati regolarmente.\nDopo l'anteprima, avvenuta all'Accademia degli Invaghiti di Mantova il 22 febbraio 1607 (con il tenore Francesco Rasi nel ruolo del titolo), la prima è stata il 24 febbraio al Palazzo Ducale di Mantova. In seguito il lavoro fu eseguito nuovamente, anche in altre città italiane, negli anni immediatamente successivi. Lo spartito venne pubblicato da Monteverdi nel 1609 e, nuovamente, nel 1615.\nIn seguito alla morte del compositore (1643), dopo la prima del 1647 al Palazzo del Louvre di Parigi il lavoro non venne più interpretato, e cadde nell'oblio.\nSi ebbe un revival nel tardo XIX secolo, dovuto ad alcune edizioni e rappresentazioni moderne. All'inizio si trattava di esecuzioni in forma di concerto, senza parte scenica, organizzate da istituti e società musicali.\nNel 1904 viene eseguito in concerto nel Conservatoire de Paris diretto da Vincent d'Indy nella versione francese e nel 1909 in concerto nel Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano nella revisione di Giacomo Orefice.\nMa a partire dalle prime messa in scena (la prima al Teatro La Fenice di Venezia nel 1910 diretta da Guido Carlo Visconti di Modrone con Giuseppe Kaschmann, portata anche al Teatro Comunale di Bologna, la prima al Grand Théâtre de Monte Carlo con Elvira de Hidalgo, a Parigi nel 1911, la première negli Stati Uniti al Metropolitan Opera House di New York del 1912 e la prima al Teatro San Carlo di Napoli del 1920), il lavoro iniziò a trovare posto nei teatri d'opera.\nNel Regno Unito la première è stata in concerto all'Institut français di Londra nel 1924.\nAl Teatro dell'Opera di Roma la prima è nel 1934 diretta da Tullio Serafin con Gabriella Gatti, Cloe Elmo, Alessio De Paolis e Benvenuto Franci, al Teatro alla Scala di Milano nel 1935 diretta da Gino Marinuzzi (1882-1945) nella revisione di Ottorino Respighi, al Teatro Verdi (Trieste) nel 1943 diretta da Franco Capuana, nel Teatro Comunale di Firenze nel 1949 diretta da Antonio Guarnieri con Miriam Pirazzini, Fedora Barbieri, Petre Munteanu, Rolando Panerai, Giulio Neri e Mario Petri (alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi), nel Giardino di Boboli nel 1959 con Giuseppe Valdengo, nel 1968 nel George Square Theatre di Edimburgo per l'Edinburgh University Opera Club e nel Palazzo Ducale di Venezia con Oralia Domínguez, Franca Mattiucci e Ruggero Raimondi, nel 1971 al Festival di Salisburgo con Giorgio Zancanaro e i Wiener Philharmoniker e nel 1984 nel Palazzo Vecchio diretta da Roger Norrington e nel Palazzo Pitti con Gloria Banditelli e Angelo Nosotti.\nDopo la seconda guerra mondiale, le nuove versioni dell'opera iniziarono a presentare l'uso di strumenti d'epoca, per perseguire l'obiettivo di una maggiore autenticità. Vennero quindi pubblicate molte nuove registrazioni e L'Orfeo divenne via via sempre più popolare.\nNel 2007 il quarto centenario della prima venne celebrato con numerose rappresentazioni in tutto il mondo.\nNel 2009 va in scena alla Scala diretta da Rinaldo Alessandrini con Roberta Invernizzi, Sara Mingardo e Robert Wilson, di cui esiste un video trasmesso da Rai 5.\nNella partitura pubblicata Monteverdi elenca circa 41 strumenti da impiegare nell'esecuzione. Lo spartito include (oltre a monodie a una, due o tre voci con basso non cifrato, cori a cinque voci con basso non cifrato, ecc.) pezzi per cinque, sette o otto parti, nelle quali gli strumenti da utilizzare sono a volte citati (ad esempio: «Questo ritornello fu suonato di dentro da un clavicembalo, duoi chitarroni e duoi violini piccoli alla francese»).\nTuttavia, nonostante le indicazioni sulla partitura, ai musicisti dell'epoca era concessa una notevole libertà di improvvisare (questa permissività non si riscontra nei lavori più maturi di Monteverdi). Pertanto ogni rappresentazione dell'Orfeo è differente dalle altre, oltre che unica e irripetibile.\n\nSfondo storico.\nClaudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567, era un bambino prodigio che studiò con Marc'Antonio Ingegneri, il maestro di cappella della Cattedrale cittadina. Dopo aver studiato canto, composizione musicale e strumenti ad arco, Monteverdi lavorò come musicista a Verona e a Milano finché, nel 1590 o nel 1591, ottenne il posto di suonatore di vivuola (viola) alla corte di Vincenzo I Gonzaga a Mantova. Grazie alle sue doti e al duro lavoro, Monteverdi ottenne il posto di maestro della musica dei Gonzaga (nel 1601)La passione di Vincenzo Gonzaga per il teatro musicale crebbe grazie ai suoi legami familiari con la corte di Firenze. Verso la fine del XVI secolo, infatti, i musicisti fiorentini più innovativi stavano sviluppando l'intermedio—una forma musicale stabilita da tempo come un interludio inserito tra gli atti dei drammi parlati— reideandolo in forme più innovative. Guidati da Jacopo Corsi, questi successori della celebre Camerata Fiorentina diedero vita al primo lavoro appartenente al genere melodrammatico: Dafne, composta da Corsi e Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598. Questo lavoro unisce in sé elementi canori madrigalistici e monodici, oltre a passi strumentali e coreografici, col fine di stabilire un unicum drammatico. Di quest'opera ci restano solo dei frammenti.\nTuttavia, altri lavori fiorentini dello stesso periodo (tra cui la Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Emilio de' Cavalieri, L'Euridice di Peri e quella di Giulio Caccini) sono giunti interamente fino a noi. In particolare, queste ultime due opere furono le prime dedicate al mito di Orfeo (tratto dalle Metamorfosi di Ovidio), tema che ispirerà i compositori di epoche successive fino al giorno d'oggi. In questo, furono diretti precursori de L'Orfeo di Monteverdi.La corte dei Gonzaga era da tempo celebre per il mecenatismo nei confronti dell'arte teatrale. Un secolo prima dell'epoca di Vincenzo Gonzaga, si rappresentò a corte il dramma lirico di Angelo Poliziano La favola di Orfeo. Circa la metà di questo lavoro era cantata invece che parlata.\nIn seguito, nel 1598, Monteverdi aiutò la compagnia musicale di corte a mettere in scena il dramma Il pastor fido di Giovanni Battista Guarini. Mark Ringer, storico del teatro, descrive questo come un 'lavoro teatrale spartiacque' che ispirò la moda italiana del dramma pastorale. Il 6 ottobre 1600, durante una visita a Firenze per il matrimonio tra Maria de' Medici ed Enrico IV di Francia, il duca Vincenzo assistette a una rappresentazione dell'Euridice di Peri. È probabile che allo spettacolo fossero presenti anche i musicisti più importanti del duca, tra cui Monteverdi. Il duca si rese subito conto dell'originalità di questa nuova forma di intrattenimento drammatico, e del prestigio che avrebbe conferito a chi l'avesse patrocinata.\n\nCreazione.\nLibretto.\nTra gli spettatori della messa in scena dell'Euridice, nell'ottobre del 1600, c'era anche un giovane avvocato e diplomatico della corte dei Gonzaga, Alessandro Striggio, figlio del famoso compositore Alessandro Striggio il vecchio.\nAnche il giovane Striggio era un abile musicista. Nel 1589 (a 16 anni), aveva suonato la viola alla cerimonia nuziale di Ferdinando di Toscana. Assieme ai due figli più giovani del duca Vincenzo (Francesco e Fernandino), era membro dell'esclusivo circolo intellettuale mantovano: l'Accademia degli Invaghiti, che rappresentava un importante trampolino di lancio per le opere teatrali della città.Non si sa esattamente quando Striggio abbia iniziato la stesura del libretto, ma il lavoro era evidentemente già avviato nel gennaio del 1607.\nIn una lettera scritta il 5 gennaio, Francesco Gonzaga chiede a suo fratello (all'epoca vicino agli ambienti della corte fiorentina) di fargli ottenere i servigi di un abile cantante castrato (quest'ultimo impiegato nella compagnia musicale del granduca), per la rappresentazione di un dramma per musica da eseguirsi durante il carnevale mantovano.Le fonti principali impiegate da Striggio per la scrittura del libretto furono il decimo e l'undicesimo libro dalle Metamorfosi di Ovidio, e il quarto libro dalle Georgiche di Virgilio. Questi documenti gli fornirono il materiale di partenza, ma non suggerivano già la forma di un dramma completo (per esempio: i fatti narrati negli atti 1 e 2 de l'Orfeo occupano appena tredici righe nelle Metamorfosi).Cercando di creare una struttura drammatica efficace, Striggio attinse da altre fonti: il lavoro di Poliziano Fabula di Orfeo del 1480, il pastor fido di Guarini e il libretto di Ottavio Rinuccini per l'Euridice di Peri.Il musicologo Gary Tomlinson sottolinea le numerose similarità tra i testi di Striggio e Rinuccini, evidenziando che alcuni dei discorsi contenuti ne L'Orfeo rassomigliano, come contenuto e come stile letterario, ad alcuni corrispettivi ne l'Euridice.La critica Barbara Russano Hanning fa notare come i versi di Striggio siano meno raffinati di quelli di Rinuccini, nonostante la struttura del libretto scritto da Striggio sia più interessante.Nel suo lavoro Rinuccini fu obbligato a inserire un lieto fine (il melodramma era stato pensato per le festività legate alle nozze di Maria de' Medici). Striggio, invece, che non scriveva per una cerimonia di corte ufficiale, poté attenersi di più alla conclusione originale del mito, in cui Orfeo è ucciso e smembrato dalle Menadi (dette anche Baccanti) iraconde. Scelse infatti di scrivere una versione mitigata di questo finale cruento: le Menadi minacciano di distruggere Orfeo, ma il suo vero destino, alla fine, non viene mostrato.Il musicologo Nino Pirrotta, invece, sostiene che il finale con Apollo facesse già parte della pianificazione originale della messa in scena, ma che alla prima non fosse stato messo in atto.\nCiò sarebbe avvenuto, secondo la spiegazione di Pirrotta, poiché la piccola stanza che ospitò l'evento non era in grado di contenere gli ingombranti macchinari teatrali richiesti da questa conclusione.\nQuella delle Menadi, secondo questa teoria, non sarebbe altro che una scena sostitutiva. Le intenzioni del compositore vennero ristabilite al momento della pubblicazione dello spartito.\nRecentemente la spiegazione di Pirrotta è stata messa in discussione: l’espressione «sopra angusta scena» che si legge nella lettera di dedica di Claudio Monteverdi non indicherebbe uno spazio piccolo per la rappresentazione, ma sarebbe da opporre al «gran teatro dell’universo», cioè al più vasto pubblico raggiungibile dal compositore dopo la pubblicazione a stampa della partitura.Il libretto edito a Mantova nel 1607 (in concomitanza con la prima) presenta la conclusione ambigua ideata da Striggio. Tuttavia lo spartito monteverdiano, pubblicato a Venezia nel 1609 da Ricciardo Amadino, termina in maniera del tutto diversa, con Orfeo che ascende al cielo grazie all'intercessione di Apollo.Secondo Ringer, il finale originale di Striggio fu quasi di sicuro impiegato alla prima de l'Orfeo, ma indubbiamente (a dire del critico) Monteverdi ritenne che la nuova conclusione (quella dell'edizione dello spartito) fosse esteticamente corretta.\n\nComposizione.\nQuando Monteverdi scrisse la musica per L'Orfeo, possedeva già un'approfondita preparazione nell'ambito della musica per teatro. Aveva infatti lavorato alla corte dei Gonzaga per sedici anni, nel corso dei quali si era occupato di varie musiche di scena (in qualità sia di interprete che di arrangiatore).\nNel 1604, per giunta, aveva scritto il ballo Gli amori di Diana ed Endimone (per il carnevale mantovano del 1604–05). Gli elementi da cui egli attinse per comporre la sua prima opera di stampo melodrammatico — l'Aria, l'Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali— non furono, come sottolineato dal direttore d'orchestra Nikolaus Harnoncourt, creati ex-novo da Monteverdi, ma fu lui che 'amalgamò l'insieme delle vecchie e nuove possibilità, creando un unicum veramente moderno'. Il musicologo Robert Donington scrive al riguardo: 'Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata... Vi si trovano parole espresse in musica come [i pionieri dell'opera] volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime... con l'ispirazione totale del Genio'Monteverdi pone i requisiti orchestrali all'inizio della partitura pubblicata ma, in conformità con la pratica del tempo, non ne specifica l'utilizzo esatto. A quell'epoca, infatti, era normale consentire a ogni interprete di fare scelte proprie, basate sulla manodopera orchestrale di cui disponeva.\nQuest'ultimo parametro poteva variare considerevolmente da un luogo a un altro. Inoltre, come fa notare Harnoncourt, gli strumentisti sarebbero stati tutti compositori e si sarebbero aspettati di collaborare creativamente a ogni esecuzione, piuttosto che eseguire alla lettera ciò che era scritto sullo spartito. Un'altra pratica in voga era quella di permettere ai cantanti di abbellire le proprie arie.\nMonteverdi, di alcune arie (come 'Possente spirito' da l'Orfeo), scrisse sia la versione semplice sia quella abbellita, ma secondo Harnoncourt 'è ovvio che dove non scrisse abbellimenti non voleva che essi venissero eseguiti'.Ogni atto dell'opera è collegato a un singolo elemento della storia, e si conclude con un coro. Nonostante la struttura in cinque atti, con due cambi di scenografia richiesti, è probabile che la rappresentazione de l'Orfeo abbia seguito la prassi in uso per gli spettacoli d'intrattenimento a corte, ovvero fu eseguito come un continuum, senza intervalli o calate di sipario tra i vari atti.\nErano difatti in uso, all'epoca, i cambi di scenografia visibili agli occhi degli spettatori, e quest'abitudine si riflette nelle modifiche dell'organico strumentale, della tonalità e dello stile che si riscontrano nella partitura dell'Orfeo.\n\nOrganico strumentale.\nPer opere famose l'analisi, la studiosa Jane Glover divide gli strumenti richiesti da Monteverdi in tre gruppi principali: archi, ottoni e basso continuo, con alcuni elementi non facilmente classificabili. La sezione degli archi è formata da dieci membri della famiglia dei violini (viole da brazzo), due contrabbassi (contrabassi de viola), e due violini piccoli (violini piccoli alla francese). Le viole da brazzo sono suddivise in due insiemi da cinque elementi, ognuno dei quali comprende due violini, due viole e un violoncello. Il gruppo degli ottoni contiene quattro o cinque tromboni, tre trombe e due cornetti. Gli strumenti che fungono da basso continuo sono: due clavicembali (duoi gravicembani), un'arpa doppia, due o tre chitarroni, due organi (che suonano con il registro di Flauto e Regale), tre viole da gamba. Al di fuori di questi gruppi vi sono due flauti dolci (flautini alla vigesima secunda), e probabilmente anche alcune cetere (strumenti non citati direttamente da Monteverdi, ma inclusi nelle istruzioni riguardanti la fine dell'atto quarto).I due mondi ritratti nell'opera sono simboleggiati distintamente con un particolare uso della strumentazione: l'ambiente pastorale dei campi della Tracia è rappresentato da archi, clavicembali, arpa, organi, flauti dolci e chitarroni, mentre gli altri strumenti (principalmente gli ottoni) sono associati agli Inferi (non si tratta comunque di una distinzione assoluta, poiché gli archi appaiono più volte anche nelle scene ambientate nell'Ade). Data questa come impostazione generale, alcuni personaggi principali sono accompagnati da specifici strumenti (o combinazioni di essi). Ad esempio: Orfeo canta spesso sostenuto da arpa e organo, i pastori da clavicembalo e chitarrone, gli dei dell'Aldilà da tromboni e organo. Tutte queste specifiche caratterizzazioni musicali erano in linea con le tradizioni (di vecchia data) dell'orchestra Ellenistica (a cui l'organico de l'Orfeo è assimilabile).Monteverdi richiede ai suoi strumentisti di suonare il lavoro il più semplicemente e correttamente possibile, evitando passaggi fioriti o frettolosi. Gli interpreti di strumenti a carattere ornamentativo (come flauto e archi), erano tenuti a suonare nobilmente e con grande inventiva e varietà, senza però eccedere in questo atteggiamento (per evitare di far sentire solo caos e confusione, condizioni che infastidiscono l'ascoltatore). Visto che gli strumenti non sono mai suonati tutti contemporaneamente, il loro numero è maggiore del numero dei musicisti strettamente necessari.\nHarnoncourt afferma che, ai tempi di Monteverdi, il numero di strumentisti e cantanti assieme e le piccole sale adibite ad accogliere la rappresentazione, fecero spesso sì che la quantità degli spettatori stentasse a superare quella degli interpreti.\n\nRuoli.\nTra i personaggi elencati nello spartito del 1609, Monteverdi omette inspiegabilmente La messaggera. Indica, inoltre, che il coro finale di pastori (i quali, al termine dell'opera, cantano la moresca, ovvero la danza che simula il combattimento tra cristiani e mori) debba essere costituito da un gruppo separato (che fecero la moresca nel fine).Non si hanno molte informazioni riguardo ai primi cantanti de l'Orfeo. Una lettera pubblicata a Mantova nel 1612 riporta che l'illustre tenore e compositore Francesco Rasi prese parte allo spettacolo, e viene generalmente dato per assunto che ricoprì il ruolo di Orfeo. Rasi era in grado di cantare sia nel registro tenorile sia in quello basso, con stile raffinato e straordinaria espressività.Una corrispondenza epistolare tra i principi Gonzaga conferma che, per la prima, venne contattato anche il castrato fiorentino Giovanni Gualberto Magli. Magli cantò nel prologo e nella parte di Proserpina. Probabilmente vestì anche i panni di un altro personaggio (forse la Messaggera o la Speranza). Lo storico e musicologo Hans Redlich, riporta erroneamente Magli come primo interprete di Orfeo.In una lettera al duca Vincenzo, inoltre, è possibile rintracciare un indizio che potrebbe ricondurre alla persona cui venne affidato il ruolo di Euridice: viene infatti indicata come quel piccolo prete che recitò il ruolo di Euridice nell'Orfeo del Principe Serenissimo. Si trattava presumibilmente di Padre Girolamo Bacchini, castrato che ebbe contatti con la corte mantovana nei primi anni del XVII secolo. Tim Cater, studioso di Monteverdi, ipotizza che i due tenori mantovani più celebri dell'epoca (Pandolfo Grande e Francesco Campagnola) potrebbero aver partecipato alla prima in ruoli secondari.Vi sono parti solistiche per quattro pastori e tre spiriti. Carter calcola che, attraverso il cosiddetto raddoppio dei ruoli permesso dal testo, si fosse presentata la necessità di avere dieci cantanti - tre soprani, due contralti, tre tenori e due bassi. Anche i solisti (con l'eccezione di Orfeo), contribuivano a rinforzare il gruppo corale. I ruoli raddoppiati suggeriti da Carter includono La musica assieme a Euridice, la Ninfa insieme a Proserpina e La messaggera con la Speranza.\n\nSintesi.\nLa recitazione ha luogo in due posti contrastanti: i campi della Tracia (negli Atti 1, 2 e 5) e nell'Oltretomba (negli Atti 3 e 4). Una Toccata strumentale (una fioritura di trombe) l'entrata della Musica, rappresentante lo 'spirito della musica', che canta un prologo di cinque stanze di versi. Dopo un caloroso invito all'ascolto, La Musica dà prova delle sue abilità e talenti, dichiarando:Detto ciò, canta un inno di lode al potere della musica, prima di introdurre il protagonista dell'opera, Orfeo, capace di incantare le belve selvatiche con la sua musica.\n\nAtto Primo.\nDopo la richiesta di silenzio dell'allegoria della Musica, il sipario si apre sul Primo Atto per rivelare una scena bucolica. Orfeo ed Euridice entrano insieme con un coro di ninfe e pastori, che recitano alla maniera del Coro greco antico, entrambi cantando a gruppi e individualmente. Un pastore annuncia che è il giorno di matrimonio della coppia; il coro risponde inizialmente con una maestosa invocazione ('Vieni, Imeneo, deh vieni') e successivamente con una gioiosa danza ('Lasciate i monti, lasciate i fonti'). Orfeo ed Euridice cantano del loro reciproco amore prima di lasciarsi con tutto il gruppo della cerimonia matrimoniale nel tempio. Quelli rimasti sulla scena cantano un breve coro, commentando su Orfeo:.\n\nAtto Secondo.\nOrfeo ritorna in scena con il coro principale, elogiando le bellezze della natura. Orfeo medita poi sul suo precedente stato di infelicità, proclamando:.\n\nQuesta atmosfera di gioia ha termine con l'ingresso della Messaggera, che comunica che Euridice è stata colpita dal fatale morso di un serpente nell'atto di raccogliere dei fiori. Mentre la Messaggera si punisce, definendosi come colei che genera cattive situazioni, il coro esprime la sua angoscia. Orfeo, dopo avere espresso il proprio dolore e l'incredulità per quanto accaduto, comunica l'intenzione di scendere nell'Aldilà e persuadere Plutone a fare resuscitare Euridice.\n\nAtto Terzo.\nOrfeo viene guidato da Speranza alle porte dell'Inferno. Dopo avere letto le iscrizioni sul cancello ('Lasciate ogni speranza, ò voi ch'entrate.'), Speranza esce di scena. Orfeo deve ora confrontarsi con il traghettatore Caronte, che si rifiuta ingiustamente di portarlo attraverso il fiume Stige. Orfeo prova dunque a convincere Caronte cantandogli invano un motivo lusinghiero. In seguito, Orfeo prende la sua lira, incantando il traghettatore Caronte, che piomba in uno stato di sonno profondo. Orfeo prende poi il controllo della barca, entrando nell'Aldilà, mentre un coro di spiriti riflette sul fatto che la natura non può difendersi dall'uomo.\n\nAtto Quarto.\nNell'Aldilà, Proserpina, regina degli Inferi, viene incantata dalla voce di Orfeo, supplicando Plutone di riportare Euridice in vita. Il re dell'Ade viene convinto dalle suppliche della moglie, a condizione che Orfeo non guardi mai Euridice nel ritorno sulla terraferma, cosa che la farebbe scomparire nuovamente per l'eternità. Euridice entra in scena al seguito di Orfeo, che promette che in quello stesso giorno egli giacerà sul bianco petto della moglie. Tuttavia, un dubbio comincia a sorgergli nella mente, convincendosi che Plutone, mosso dall'invidia, lo abbia ingannato. Orfeo, spinto dalla commozione, si gira distrattamente, mentre l'immagine di Euridice comincia lentamente a scomparire. Orfeo prova dunque a seguirla, ma viene attratto da una forza sconosciuta. Orfeo è spinto dalle proprie passioni a infrangere il patto con Plutone.\n\nAtto Quinto.\nTornato nei campi della Tracia, Orfeo tiene un lungo monologo in cui lamenta la sua perdita, celebra la bellezza di Euridice e decide che il suo cuore non sarà mai più trafitto dalla freccia di Cupido. Un'eco fuori scena ripete le sue frasi finali. Improvvisamente, in una nuvola, Apollo scende dal cielo e lo castiga: 'Perch'a lo sdegno ed al dolor in preda così ti doni, o figlio?'. Invita Orfeo a lasciare il mondo e a unirsi a lui nei cieli, dove riconoscerà la somiglianza di Euridice nelle stelle. Orfeo risponde che sarebbe indegno non seguire il consiglio di un padre così saggio, e insieme salgono. Un coro di pastori conclude che 'chi semina fra doglie, d'ogni grazia il frutto coglie', prima che l'opera si concluda con una vigorosa moresca.\n\nCD.\nL'Orfeo - John Eliot Gardiner/Anne Sofie von Otter/Nancy Argenta/Anthony Rolfe-Johnson, 1987 Archiv Produktion.\nL'Orfeo - Michel Corboz/Orchestre de l'Opéra de Lyon/Gino Quilico, 1986 Erato.\nL'Orfeo - Charles Medlam/London Baroque/Nigel Rogers, 1984 EMI/Warner.\nL'Orfeo - Alessandro Carmignani/Carlo Lepore/Marinella Pennicchi/Patrizia Vaccari/Gastone Sarti/Rosita Frisani/Giovanni Pentasuglia/San Petronio Cappella Musicale Orchestra/Sergio Vartolo, 1997 Naxos.\nL'Orfeo - René Jacobs/Bernarda Fink/Jennifer Larmore, 1995 Harmonia Mundi.\nL'Orfeo - Gabriel Garrido/Ensemble Elyma/Victor Torres/Gloria Banditelli/Maria Cristina Kiehr/Roberta Invernizzi/Furio Zanasi/Adriana Fernandez/ k617 - le Chemins du baroque 1996.\nL'Orfeo - Emmanuelle Haïm/Le Concert d'Astrée/Ian Bostridge/Natalie Dessay/Patrizia Ciofi, 2004 Virgin.\nL'Orfeo - Ensemble San Felice, Federico Bardazzi, Bongiovanni 2021.\n\nDVD.\nOrfeo - Harnoncourt/Huttenlocher/Linos, regia di Jean-Pierre Ponnelle, 1978 Deutsche Grammophon.\nL'orfeo - Alessandrini/Nigl/Invernizzi/Mingardo/Donato/Milanesi, Robert Wilson (regista), 2009 Opus Arte.
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### Titolo: L'anima del filosofo.\n### Descrizione: L'anima del filosofo, ossia Orfeo ed Euridice è un'opera lirica in quattro atti di Franz Joseph Haydn scritta nel 1791 su libretto di Carlo Francesco Badini. Fu rappresentata postuma al Teatro della Pergola di Firenze il 9 giugno 1951.\n\nStoria.\nL'opera fu pagata in anticipo ad Haydn, per sua fortuna, da parte dell'impresario John Gallini per convincerlo a trasferirsi a Londra per comporre opere per un nuovo teatro, il ricostruito King's Theatre, sostenuto come mecenate, dal Principe di Galles del momento, futuro Giorgio IV.\nPer comporre l'opera gli fu dato un libretto di Carlo Francesco Badini dal titolo L'anima del filosofo. L'opera era una riscrittura del mito di Orfeo, con enormi differenze testuali e musicali rispetto all'opera di Gluck (Orfeo ed Euridice, Vienna 1762), che Haydn ben conosceva avendola diretta più volte.\nLa prima fu programmata il 31 maggio 1791, ma a causa di contrasti tra re Giorgio III e il Principe di Galles venne sospesa.\nLa prima rappresentazione venne data solo nel 1951, sotto la direzione di Erich Kleiber, con Maria Callas nel ruolo di Euridice, il tenore Thyge Thygesen in quello di Orfeo ed il basso Boris Christoff in quello di Creonte.\nNon va dimenticata la versione messa in scena al famoso Theater an der Wien (Vienna) cantato da Joan Sutherland e Nicolai Gedda, diretta Richard Bonynge durante gli anni '60.\nDella coppia Sutherland-Gedda con Bonynge esiste anche una incisione dalla prima nel Regno Unito al Festival di Edimburgo del 1967.\nIl fragile libretto è curiosa rivisitazione del soggetto di Orfeo ed Euridice che poco ha a che vedere col mito originario e nulla con la versione neoclassica di Calzabigi per Gluck. Badini introdusse i personaggi di Creonte e Arideo e i critici si pongono forti interrogativi sul significato del titolo che fa riferimento al filosofo, in special modo legato alla storia personale di Badini che fra l'altro tradusse in italiano Blaise Pascal. Alcuni ipotizzano la presenza di un quinto atto andato perduto, dove si ipotizza il rovesciamento dei termini nella conclusione dell'opera.\nMusicalmente l'opera è ricca di magnifiche arie di bravura e cori di eccellente fattura e appartiene in tutto alla tradizione dell'opera seria arricchita, rispetto alle opere precedenti di Haydn, dal denso stile orchestrale dell'ultima fase compositiva del musicista.\nHaydn in quest'opera ha messo in evidenza e concertato ottimi ensemble fra i protagonisti, con duetti e cori a quattro voci, che preludono la sua maestria nello scrivere pezzi a più voci di musica sacra.\nL'aria più toccante dell'opera è considerata Del mio core cantata da Euridice in punto di morte.\n\nDiscografia.
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### Titolo: La bella Elena.\n### Descrizione: La bella Elena (titolo originale La belle Hélène) è un'operetta francese in tre atti di Jacques Offenbach ed il libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy.\n\nL'opera.\nLa prima assoluta è stata data con successo al Théâtre des Variétés di Parigi il 17 dicembre 1864 con il soprano Hortense Schneider, José Dupuis, Jean-Laurent Kopp, Pierre-Eugène Grenier ed Alexandre Guyon diretti dal compositore.\nAttraverso la scena una vicenda mitologica, rappresenta una satira sociale dell'epoca di composizione, in particolar modo dei rapporti di coppia. Il protagonista maschile è Paride (in francese 'Pâris') che riesce ad ottenere con l'aiuto degli dei una notte d'amore con la bella Elena di Troia, moglie di Menelao, che proprio per questo affronto scatenerà la guerra di Troia.\n\nDiscografia parziale.\nLa Belle Hélène - Marc Minkowski/Choeur des Musiciens du Louvre/Les Musiciens Du Louvre-Grenoble/Felicity Lott, 2001 Erato/Warner (andata in scena al Théâtre du Châtelet nel 2000).\nLa Belle Hélène - Michel Plasson/Choeur et Orchestre du Capitole de Tolosa/Jessye Norman/John Aler/Charles Burles/Gabriel Bacquier/Colette Alliot-Lugaz/Jacques Loreau/Roger Trentin/Gérard Desroches/Nicole Carreras/Adam Levallier, 1984 EMI.\n\nDVD parziale.\nLa belle Hélène - Marc Minkowski/Choeur des Musiciens du Louvre/Les Musiciens Du Louvre-Grenoble/Felicity Lott, 2001 Arthaus/Naxos (andata in scena al Théâtre du Châtelet nel 2000).\nLa belle Hélène - Jennifer Larmore/Jun-Sang Han/Peter Galliard, Opera di Amburgo 2014 C Major/Naxos.\nLa belle Hélène - Nikolaus Harnoncourt/Carlos Chausson/Deon van der Walt/Vesselina Kasarova, Opernhaus Zürich, 1997 Arthaus.\n\nVoci correlate.\nPere alla bella Elena.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su La bella Elena.\n\nCollegamenti esterni.\nLibretto in italiano, dal Fondo Ghisi Archiviato il 29 giugno 2013 in Internet Archive. della Facoltà di Musicologia dell'Università di Pavia.
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### Titolo: La canzone di Achille.\n### Descrizione: La canzone di Achille (The Song of Achilles) è il romanzo di esordio di Madeline Miller, premiato con l'Orange Prize nel 2012. Il romanzo ripercorre la storia di Achille e Patroclo, dall'esilio di Patroclo adolescente all'incontro con Achille, per poi narrare l'addestramento dei due con il centauro Chirone, l'amore che nasce tra i due principi, la guerra di Troia e infine la morte e il successivo incontro nell'Ade dei due eroi.\n\nTrama.\nPatroclo è un bambino gracile e non adatto al combattimento, un fatto che lo rende poco amato dal padre, il re Menezio di Opunte. Ancora bambino, Patroclo viene portato dal padre a Sparta come pretendente alla mano di Elena, ma la fanciulla sceglie invece di sposare Menelao; insieme agli altri numerosi pretendenti, il giovane Patroclo giura di rispettare la scelta di Elena e di difendere i diritti dello sposo voluto dalla giovane, seguendo il suggerimento di Odisseo, re di Itaca. Al suo ritorno in patria, Patroclo si macchia però di un delitto, uccidendo per sbaglio un giovanissimo aristocratico che aveva tentato di rubargli dei dadi. Menezio allora decide di punire il figlio spogliandolo del titolo di principe e del suo patronimico e spedendolo a Ftia, dove crescerà con gli orfani e gli esuli sotto la protezione di Peleo.\nQui Patroclo fatica a integrarsi con gli altri esuli e continua ad essere ossessionato da visioni del ragazzino che ha ucciso, finché non entra nelle grazie di Achille, il figlio di Peleo e anche suo coetaneo che, nonostante abbia appena dieci anni, dimostra delle doti e una bellezza straordinarie, che tradiscono la sua natura semidivina, in quanto sua madre è la ninfa Teti. Sorprendendo tutti, compresi Peleo e lo stesso Patroclo, Achille sceglie il principe esiliato come compagno prediletto e i due stringono velocemente una profonda amicizia, oscurata solo da Teti, che disapprova la scelta del figlio. Passano gli anni e il rapporto tra Achille e Patroclo si fa sempre più profondo, si rafforza e, alle soglie dell'adolescenza, i due arrivano a baciarsi; subito Achille fugge, lasciando Patroclo in preda allo sconforto, una condizione esacerbata dalla partenza del principe di Ftia, mandato dal centauro Chirone, maestro di tanti eroi, per affinare la sua preparazione. Patroclo si mette sulle tracce dell'amico e a breve lo trova, anche perché Achille non è mai giunto dal centauro e ha preferito invece restare indietro per aspettare il compagno. Chirone li accetta entrambi come suoi studenti e per loro cominciano anni molto felici lontani dalla corte e dalla minacciosa figura di Teti: Achille continua ad addestrarsi all'arte della guerra, mentre Patroclo comincia ad avvicinarsi alla medicina. Superati i sedici anni, i due giovani riescono finalmente a confessare i propri sentimenti l'uno per l'altro e a consumare per la prima volta il loro amore.\nPatroclo salpa verso l'isola, dove viene accolto dalla principessa Deidamia, la figlia del re Licomede, e ritrova l'amato Achille, che Teti ha fatto vestire da donna affinché i messi di Agamennone non lo trovassero. La gioia di Patroclo nel rivedere Achille è guastata dalla scoperta che il principe ha giaciuto con Deidamia, che ora aspetta un figlio da lui, ma questi gli spiega che è stata Teti a costringerlo ad avere rapporti con la principessa, dopo avergli promesso che se lui l'avesse messa incinta lei avrebbe rivelato a Patroclo il suo nascondiglio. Superato l'imbarazzo iniziale, Patroclo ed Achille tornano ad amarsi, ma la loro felicità a Sciro dura poco: Odisseo e Diomede si recano in visita da Licomede e con un astuto stratagemma smascherano Achille, ancora travestito da fanciulla.\nOdisseo, protetto da Atena, rivela ad Achille tutta la profezia, incluso ciò che Teti aveva voluto nascondere: o Achille morirà giovane e verrà ricordato nella gloria per sempre, o invecchierà nell'indifferenza generale e il suo nome verrà dimenticato alla sua morte; Teti sapeva della profezia e per questo motivo aveva nascosto il figlio sull'isola per evitare che venisse reclutato da Agamennone. Non potendo tollerare un simile destino, Achille decide di partire per Troia, accompagnato da Patroclo, legato all'impresa dal vecchio giuramento ma soprattutto dall'amore per Achille. Dopo un ultimo viaggio a Ftia, dove Achille sceglie di non rivelare al padre della sua morte imminente, i due si uniscono all'intera flotta greca e fanno conoscenza dell'orgoglioso Agamennone. La mancanza di vento costringe però la flotta a rimanere a terra, finché Calcante non rivela che l'assenza di vento è una punizione di Artemide, disgustata da tutto il sangue che intendono versare nell'assedio di Troia. Agamennone offre la mano della figlia Ifigenia ad Achille e questi accetta, ma quando la giovane sacerdotessa avanza per incontrare lo sposo, Agamennone la sacrifica a tradimento. Questo sacrificio era il tributo richiesto da Artemide, che ora lascia che i venti soffino liberamente, permettendo quindi alla flotta di salpare per l'Asia Minore. Achille è sconvolto dalla morte della fanciulla, ma promette a Patroclo di tentare di imbrogliare il Fato: è stato profetizzato che lui morirà soltanto dopo che lui avrà ucciso Ettore, ma pensa di poter evitare il proprio destino dato che non ha alcuna intenzione di farlo.\nI greci approdano e conquistano le spiagge di fronte a Troia e già delle prime schermaglie Achille si rivela una macchina da guerra implacabile e un guerriero rapidissimo e mortale. Allestito il campo, Agamennone guida gli altri re, tra cui Achille, Odisseo, Diomede, Idomeneo ed Aiace, in diverse razzie, durante le quali catturano o rubano i primi bottini da spartirsi. Patroclo spinge Achille a reclamare per sé la giovane Briseide, volendo salvarla dagli stupri da parte dei commilitoni, e lentamente comincia a salvare altre donne, una dozzina in tutto, dalla violenza dei greci chiedendo ad Achille di reclamare le schiave catturate per sé; è invero con Briseide che stringe un'amicizia profonda e un legame affettivo unico, che quasi lo distrae dall'amore per Achille. Dopo un fallimentare negoziato, la guerra tra Greci e Troiani comincia e Patroclo si trova sul campo di battaglia ad assistere alle prodezze belliche dell'amato. Con il prolungarsi della guerra, che non accenna ad avere fine dato che i due eserciti sono perfettamente bilanciati, Patroclo combatte sempre meno, rendendosi invece molto utile nell'ospedale dell'accampamento, dove le arti imparate da Chirone gli permettono di salvare la vita a moltissimi compagni d'arme.\nPassano così otto anni dall'inizio della guerra di Troia ed Achille è riuscito ad allungarsi la vita evitando di trovarsi faccia a faccia con Ettore, il grande difensore di Troia. Lo stato di equilibrio che Patroclo e Achille sono riusciti a trovare viene però guastato da un'oscura profezia di Teti, che annuncia che 'il migliore dei Mirmidoni' morirà entro due anni e che alla sua morte seguirà quella di Ettore e dello stesso Achille. I due sono sorpresi dalla profezia, dato che essa implica che non sia Achille il migliore dei Mirmidoni. La situazione nel campo greco degenera quando Agamennone reclama per sé la giovane sacerdotessa troiana Criseide, nonostante il padre Crise, sommo sacerdote di Apollo, abbia offerto un enorme riscatto per la sua liberazione; oltraggiato, Crise chiede al suo dio di punire la tracotanza greca e la peste si abbatte sul campo acheo. Il malcontento e la paura serpeggia tra i greci e, nell'assemblea convocata, Achille interroga l'indovino Calcante, che rivela che la pestilenza è una punizione per l'oltraggio a Crise. Sentendosi sotto attacco, Agamennone, che già da anni cova risentimenti per Achille, accetta di consegnare Criseide, ma pretende che Briseide venga data a lui per punire l'orgoglio di Achille; pur furioso, il Pelide accetta che i soldati di Agamennone portino via Briseide e questo sconvolge Patroclo, che non vede più in lui i tratti che ama da oltre dieci anni. Approfittando di un colloquio privato tra Achille e Teti, Patroclo si reca da Agamennone e, con un giuramento di sangue, tradisce l'amato rivelando le sue intenzioni: Achille ha lasciato che Agamennone prendesse Briseide solo perché sa che se il re miceneo violentasse la schiava l'affronto all'onore di Achille giustificherebbe davanti agli altri la di lui violenta e sanguinosa vendetta. Agamennone si rende conto della situazione e accetta di non toccare Briseide, che però non consegnerà finché Achille non lo supplicherà in ginocchio.\nAchille è ferito dal tradimento di Patroclo, ma finisce per capire le sue ragioni e fa pace con lui; tuttavia, pur rinunciando alla vendetta contro Agamennone, decide di non combattere più per lui e di rimanere nella tenda con Patroclo lasciando l'esercito greco al suo destino. Il piano è appoggiato da Teti, che ha chiesto e ottenuto da Zeus la vittoria dei troiani finché Agamennone non chiederà perdono al figlio. L'esercito greco comincia a quindi a perdere una battaglia dopo l'altra ed è costretto a ritirarsi sulla spiaggia, mentre i troiani, guidati da Ettore e ora anche da Sarpedonte, li incalzano e minacciano il loro accampamento e la loro flotta. Nonostante Agamennone offra ricchi doni e la restituzione di Briseide, Achille rifiuta di tornare in campo finché il re miceneo non gli chiederà perdono personalmente e in ginocchio. Fenice, il vecchio tutore di Achille, prova a farlo ragionare raccontandogli la storia di Meleagro, che rifiutò di combattere per la sua città perché i suoi abitanti ne avevano messo in dubbio l'onore: Meleagro accettò di tornare sul campo di battaglia solo dopo le suppliche dell'amata Cleopatra, ma anche se l'eroe portò i suoi uomini alla vittoria, la sua tardiva entrata in battaglia aveva ormai causato la morte di troppi cittadini e la gloria dell'impresa fu offuscata dall'ignominia della sua inazione precedente. Ma Achille, seppur combattuto, ha troppa paura di perdere il suo onore, quello che sa essere la sua unica eredità data la morte imminente e non vuole sentire ragioni. Patroclo, commosso dalla morte dei loro commilitoni, supplica Achille di lasciarlo andare in guerra indossando la sua armatura, perché sa che l'apparizione di Achille (vero o presunto) darebbe energia ai Greci e getterebbe nel panico i Troiani. Dopo molte suppliche, Achille accetta alla condizione che Patroclo non si avvicini a Troia né ad Ettore. Dopo un ultimo bacio, Patroclo guida i Mirmidoni in battaglia e in un primo momento il suo piano riesce: alla vista di 'Achille' i Troiani si disperdono, anche perché Patroclo mostra un inaspettato talento militare uccidendo il possente Sarpedonte. Ma Patroclo osa troppo e, inebriato dalla battaglia, infrange la promessa fatta ad Achille e viene ucciso da Ettore.\nContinuando la narrazione anche da morto, Patroclo racconta l'inevitabile fine della guerra: spinto dall'immane dolore per la morte dell'amato, di cui si sente responsabile, Achille torna in battaglia, compie una strage senza precedenti di troiani e uccide barbaramente Ettore, continuando poi ad infierire sul suo corpo per giorni. L'ira e il dolore di Achille si placano solamente quando il vecchio re Priamo si reca alla sua tenda di notte e, ricordandogli l'ormai anziano Peleo, lo convince a concedergli di riportare il figlio Ettore a Troia per gli onori funebri. Trovata una qualche pace con se stesso e gli altri, Achille permette anche la cremazione di Patroclo; torna quindi in battaglia e, desiderando la morte, si lascia uccidere da Paride con una freccia guidata dagli dei davanti alle porte Scee. Alla morte di Achille segue lo sbarco di Neottolemo, il figlio che il principe di Ftia ha avuto a Sciro e che è stato allevato da Teti: questi si dimostra crudele e violento, reclama Briseide per il suo letto e impedisce che il nome di Patroclo, le cui ceneri sono state mischiate a quelle di Achille, venga inciso sotto a quello del padre. L'ordine scandalizza i re greci, affezionati a Patroclo; inoltre, senza una degna sepoltura la sua anima non può raggiungere l'amato Achille nell'Ade. Con lo stratagemma dell'enorme cavallo di legno, i Greci conquistano Troia e Neottolemo dà prova di grande crudeltà uccidendo barbaramente non solo Priamo ma anche Astianatte, il giovanissimo figlio di Ettore, e Briseide, che aveva tentato la fuga consapevole del pericolo per raggiungere l'amato Patroclo nella morte.\nOttenuta la vittoria, i greci salpano per la patria che non vedono da dieci anni, lasciando lo spirito di Patroclo aleggiare sopra i luoghi in cui aveva vissuto i suoi ultimi dieci anni. Addolorata per la morte del figlio, Teti mostra finalmente qualcosa di diverso dall'ostilità nei confronti di Patroclo e gli chiede di raccontarle tutto su Achille; questi le racconta per giorni la storia della sua vita e del suo grande amore per Achille; ella allora arriva a comprendere cose che, pur avendo visto, non ha mai capito di lui. Quando Patroclo finisce la sua storia, Teti incide il nome del giovane sulla tomba del figlio e lo esorta ad andare da lui: Achille lo sta aspettando.\n\nRiconoscimenti.\nLa canzone di Achille ha vinto l'Orange Prize for Fiction nel 2012.\n\nEdizioni.\nMadeline Miller, La canzone di Achille, traduzione di Matteo Curtoni, Maura Parolini, Sonzogno, 2013, ISBN 8845425584. Madeline Miller, La canzone di Achille, collana Universale Economica Feltrinelli, traduzione di Matteo Curtoni, Maura Parolini, Marsilio, 10 gennaio 2019, ISBN 978-88-07-89346-9. Madeline Miller, La canzone di Achille, collana Sonzogno, traduzione di Matteo Curtoni, Maura Parolini, Marsilio, 18 novembre 2021, ISBN 978-88-454-0594-5.
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### Titolo: La discesa di Orfeo.\n### Descrizione: La discesa di Orfeo (Orpheus Descending), a volte tradotto come La calata di Orfeo, è un'opera teatrale del drammaturgo statunitense Tennessee Williams, debuttata a Broadway nel 1957. La pièce è un riadattamento di un lavoro precedente di Williams, Battle of Angels, scritto nel 1940 ma mai messo in scena prima del 1974. Il dramma si rivelò un flop al suo debutto a Broadway, rimanendo in cartellone per 68 repliche, e Tallulah Bankhead, per cui Williams aveva scritto il ruolo di Lady Torrance, aveva rifiutato il ruolo poiché riteneva l'opera 'impossibile'.\nL'opera è una rilettura in chiave moderna del mito di Orfeo ed Euridice che tratta i temi del potere delle passioni, dell'arte e dell'immaginazione nel dare nuova linfa e un nuovo scopo alla vita. Ambientata in una piccola comunità nel Sud degli Stati Uniti, la pièce racconta dei cambiamenti che il giovane e misterioso Val porta nella vita di Lady Torrance, la proprietaria del negozio che lo assume. Mentre veglia il marito morente, Lady si ritrova affascinata da questo sconosciuto con una chitarra, un uomo che risveglia in lei i sogni e le speranze della sua giovinezza. Il risveglio dell'amore, della speranza e della passione avrà però conseguenze tragiche per i due protagonisti. Williams descrisse la sua opera dicendo: 'in superficie [il dramma] era ed è la storia di uno spirito libero che arriva in una comunità molto convenzionale del Sud e crea la stessa confusione di una volpe in un pollaio. Ma sotto questa superficie familiare è un dramma sulle domande senza risposte che tormentano i cuori delle persone, e sulla differenza tra continuare a porci queste domanda ed accettare risposte prestabilite che non sono affatto delle risposte'.\n\nTrama.\nLe casalinghe pettegole Dolly e Beulah raccontano che Jabe Torrance è appena stato operato per un cancro a Memphis, ma l'operazione non è andata come previsto e l'uomo sta morendo. Jabe e la moglie Myra 'Lady' Torrance gestiscono l'emporio del paese e nel negozio entrano Carol Cutrere e l'affascinante musicista Valentine 'Val' Xavier; Carol flirta col giovane e insinua di averlo già visto a New Orleans, un'ipotesi rigettata da Val, che chiede ed ottiene da Lady un lavoro all'emporio. Dopo alcune settimane, Val racconta a Lady del suo passato tumultuoso a New Orleans, dove aveva effettivamente conosciuto Carol. La presenza dell'uomo risveglia ricordi in Lady, che dice al vecchio amore David di aver abortito il bambino che aspettava da lui quando l'aveva lasciata. Intanto Val flirta con la giovane Vee e viene visto dal marito della donna, Talbot, mentre bacia la mano della moglie. Dopo aver rubato soldi dalla cassa, Val li restituisce e vuole lasciare la cittadina, ma Lady lo perdona e lo supplica di rimanere.\nIl giorno di pasqua Jabe, morente, confessa di essere stato il responsabile della morte del suocero e ha un'emorragia. Al tramonto, Vee ha un incidente e cade, Val l'aiuta a rialzarsi e lo sceriffo Talbot gli intima di lasciare la città entro il tramonto. Disperata alla prospettiva di perdere Val, Lady cerca di convincere l'infermiera ad uccidere il marito con una dose letale di morfina, ma la donna rifiuta. Lady allora dice a Val di aspettare un figlio da lui e che la prospettiva di portare in grembo una nuova vita la riempie di gioia e speranza. La nuova promessa di felicità è bruscamente interrotta: Val si accorge che Jabe ha fatto un buco nel pavimento della sua camera da cui sta facendo colare olio dell'emporio. Il moribondo appicca quindi un incendio e si mette ad urlare che Val lo ha rapinato e dato fuoco al negozio. Lady corre per le scale per dire al marito di fermarsi, ma Jabe le spara: mentre la donna muore, lo sceriffo e i vigili del fuoco vedono Val uscire dell'emporio. Talbot ordina di puntare il getto degli idranti contro il fuggitivo, respingendolo nel negozio infuocato verso la sua morte.\n\nProduzioni.\nLa discesa di Orfeo debuttò al Martin Beck Theatre di Broadway il 21 marzo 1957 e rimase in scena fino al 18 maggio, per un totale di 58 repliche. Harold Clurman curava la regia, mentre il cast annoverava Miriam Hopkins nel ruolo di Lady e Cliff Robertson in quello di Val, mentre ruoli minori erano ricoperti da R.G. Armstrong (Talbot), Crahan Denton (Jabe) e Joanna Roos (Vee). La prima londinese avvenne due anni dopo, con la prima al Royal Court Theatre il 14 maggio 1959. Tony Richardson dirigeva la moglie Isa Miranda nel ruolo di Lady, mentre il resto cast annoverava anche Diane Cilento.Peter Hall diresse un revival del dramma debuttata il 13 dicembre 1988, in scena all'Haymarket Theatre di Londra con Vanessa Redgrave nel ruolo di Lady. Il resto del cast includeva Jean-Marc Barr (Val), Miriam Margolyes (Vee), Paul Freeman (Jabe) e Julie Covington (Carol). L'acclamata produzione fu trasferita al Neil Simon Theatre di Broadway, dove rimase in scena per un totale di cento repliche dal 13 settembre al 17 dicembre 1989. Vanessa Redgrave tornò ad interpretare Lady Torrace, mentre nuovi membri del cast includevano Kevin Anderson (Val), Tammy Grimes (Vee) e Marcia Lewis (infermiera). Hall tornò a dirigere la Redgrave nella parte in un adattamento televisivo dell'allestimento nel 1990.\nUna produzione diretta da Nicholas Hyter è andata in scena alla Donmar Warehouse di Londra dal 15 giugno al 12 agosto 2000, con Helen Mirren nel ruolo di Lady, Stuart Townsend nella parte di Val, Saskia Reeves in quella di Vee, William Hootkins nei panni di Talbot e Richard Durden in quelli di Jabe. Per la sua interpretazione, Helen Mirren fu candidata al Laurence Olivier Award alla miglior attrice, mentre Hynter ottenne una nomination per il premio alla regia. La prima italiana è andata in scena al Festival di Spoleto nel luglio 2012, in una produzione del Teatro dell'Elfo diretta da Elio De Capitani con Cristina Crippa nel ruolo di Lady Torrace. L'allestimento fu riproposto nella sede di Milano del teatro nell'ottobre dello stesso anno e poi replicata nuovamente nella stagione 2013-2014.\n\nAdattamento cinematografico.\nSidney Lumet ha diretto un adattamento cinematografico del dramma nel 1960, Pelle di serpente. Il titolo fa riferimento alla giacca di Val, mentre il titolo originale, The Fugitive Kind, rimanda al monologo finale di Carol, in cui ricorda Val morto nell'incendio. Marlon Brando ed Anna Magnani hanno interpretato i protagonisti.
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### Titolo: La morte di Priamo (Perrault).\n### Descrizione: La morte di Priamo (La Mort de Priam) è un dipinto a olio su tela del pittore francese Léon Perrault, realizzato nel 1861. L'opera è attualmente conservata alla scuola nazionale superiore di belle arti di Parigi.Quest'opera venne presentata per il premio di Roma del 1861, che tuttavia venne vinto da Jules Lefebvre con la sua versione dello stesso tema artistico.\n\nDescrizione.\nQuest'opera ritrae un episodio della guerra di Troia riportato da Virgilio nel secondo libro dell'Eneide (versi 509-516). Neottolemo, il figlio di Achille, dipinto frontalmente e in stato di nudità, eccetto per il mantello bianco gettato sulla spalla e l'elmo, alza il braccio destro con l'intenzione di uccidere il re Priamo. Con la mano sinistra egli tiene i capelli del re per sollevarne il capo e prepararlo a ricevere il colpo fatale, che sta per essere sferrato dalla spada nella mano destra. Priamo si trova mezzo sdraiato davanti all'altare di Zeus, in una posa che richiama il Laocoonte del museo Pio-Clementino, mentre sullo sfondo la città di Troia è in preda alle fiamme. Nella parte sinistra della tela giace il cadavere di uno dei figli di Priamo, Polite, che Neottolemo ha ucciso sotto gli occhi del sovrano. A destra, in secondo piano, la famiglia di Priamo prorompe in lamenti e la regina Ecuba getta un ultimo sguardo di terrore verso il proprio sposo.
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### Titolo: La morte di Priamo.\n### Descrizione: La morte di Priamo (La Mort de Priam) è un dipinto a olio su tela del pittore francese Jules Joseph Lefebvre, realizzato nel 1861. L'opera è attualmente conservata alla scuola nazionale superiore di belle arti di Parigi. Un bozzetto dell'opera è conservato nel medesimo luogo.\n\nDescrizione.\nFu grazie a quest'opera che l'autore vinse il premio di Roma nel 1861, battendo il dipinto sullo stesso tema artistico dipinto da Léon Perrault. Quest'opera accademica rappresenta un episodio della guerra di Troia, narrato da Virgilio nell'Eneide: in piedi davanti a un altare, Neottolemo (anche noto come Pirro) solleva la mano destra per uccidere con un colpo di spada il vecchio Priamo, il re di Troia, allungato ai suoi piedi e dal petto emanciato e scoperto. Neottolemo indossa un elmo ed una tunica corta, sopra la quale porta una corazza e un mantello porpora che scivola sulla spalla sinistra. Il suolo è pieno di cadaveri sparsi qua e là e sullo sfondo la città di Troia viene divorata dalle fiamme durante l'assalto dei Greci, mentre a destra Ecuba, attorniata dalle figlie, guarda con orrore la fine di suo marito.
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### Titolo: La nascita della tragedia.\n### Descrizione: La nascita della tragedia dallo spirito della musica, nella prima edizione del 1872 (Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik), o La nascita della tragedia. Ovvero: grecità e pessimismo (Die Geburt der Tragödie. Oder: Griechenthum und Pessimismus) nella seconda edizione del 1886, è la prima opera del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.\nIl testo, per la novità delle interpretazioni proposte, fu criticato dal giovanissimo filologo Wilamowitz. Nonostante sia tra i suoi testi più letti e studiati, La nascita della tragedia sarà più tardi parzialmente ripudiato da Nietzsche, che esprimerà per esso un'autocritica in Ecce homo.\n\nStruttura e Contenuti.\nTentativo di autocritica (in 7 paragrafi).\nPrefazione a Richard Wagner.\nLa nascita della tragedia, ovvero grecità e pessimismo (in 25 capitoli)In parte già caratterizzata dall'esposizione asistematica tipica delle opere più mature, La nascita della tragedia esprime un percorso parallelo tra la storia della tragedia e quella della società greca – un percorso di ascesa e decadenza che Nietzsche ascrive all'espressione di dinamiche comuni. Da questo primo parallelismo Nietzsche prende spunto per una riflessione sulla decadenza dello spirito europeo e sulla necessità di una palingenesi che si aspettava provenire da un rinato spirito dionisiaco della musica tedesca.\nIl testo inizia in medias res ponendo la questione dell'origine del pessimismo greco, qualora questo sia da interpretare necessariamente come un sintomo di decadenza o se non possa invece esistere una forma di pessimismo 'nobile' e non decadente. Per giustificare questa tesi Nietzsche introduce il lettore alle forze opposte e simmetriche di Apollo – simbolo del sogno, delle arti plastiche, della calma e della magnificenza delle divinità olimpiche – e Dionisio – simbolo invece dell'ebbrezza, della musica, della frenesia. In quest'ultimo Nietzsche identifica la ragione e l'origine del pessimismo greco e la sua natura non decadente: per Nietzsche lo spirito dionisiaco è lo spirito che 'getta lo sguardo nell'abisso', che si confronta con l'orrore dell'esistenza senza esserne piegato, addirittura ne è euforico, dunque superando la dottrina stoica, tanto odiata da Nietzsche, e 'dicendo «sì» alla vita'.\nNella guerra dei titani, Apollo, vedendo Dionisio lacerato dalla battaglia, lo cura, come la cultura greca reprime gli impulsi umani con la ragione e la calma.\nI due spiriti si trovano tuttavia in equilibrio nella tragedia attica, il 'miracolo metafisico', formando una suprema forma d'arte. Lo spettatore apollineo guarda, come distaccato e disinteressato, la volontà naturale dell'uomo, ossia lo spirito dionisiaco represso dalla cultura socratica.\nSe l'equilibrio tra i due spiriti diede origine alla tragedia attica e la portò al suo culmine nella tragedia sofoclea, il progressivo perdere terreno del dionisiaco e l'emergere di una nuova forza – il “socratico” – la condusse alla decadenza. Una forza che, con il suo impeto razionalistico, si sostituiva al dionisiaco nel ruolo di 'giustificare il mondo' all'uomo greco, rei di ciò gli scolastici filosofici. L'ottimismo socratico della possibilità della conoscenza e della possibilità di arrivare a comprendere l'interezza dell'universo con la ragione si sostituì alla passione dell'incomprensibilità e dell'irrazionalità dell'esistenza umana che erano rappresentate dal dionisiaco.\nNell'introdurre la figura di Socrate nel discorso e collegandola a quella di Euripide – simbolo della tragedia decadente – il parallelo tra società greca e tragedia attica viene esplicitato, andando a dimostrare come lo spirito razionalistico socratico – e con esso la nascita dell'uomo teoretico – abbia minato l'equilibrio tra forze apollinee e dionisiache nella società greca – una degenerazione che si è espressa anche nella trasformazione della tragedia dionisiaca nella tragedia euripidea.\nQuesto eccesso razionalistico avrebbe portato ad una degenerazione della nostra società, della sua capacità creativa, del suo rapporto con la conoscenza (che Nietzsche definisce Alessandrino) e con la vita. Il testo si conclude con un'aspirazione ad una palingenesi dello spirito europeo tramite la rinascita dello spirito dionisiaco nella musica tedesca – e, in particolare, quella wagneriana. Nietzsche, di fatto, vede in Wagner e nella sua opera totale una ripresa della tragedia eschilea e sofoclea, in cui la musica dionisiaca è accompagnata dalla narrazione apollinea.
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### Titolo: La scelta di Ercole (Händel).\n### Descrizione: La scelta di Ercole (HWV 69) è un oratorio in un atto (tre scene) di Georg Friedrich Händel. Händel scrisse la partitura tra il 28 giugno ed il 5 luglio 1750. La prima esecuzione fu data 1º marzo 1751 al Covent Garden Theatre, Londra con Cecilia Young come Virtù, Isabella Young come Ercole e Thomas Lowe come Servente del piacere. Il libretto è tratto dal poema del 1743 di Robert Lowth rivisto, probabilmente, da Thomas Morell.La storia è incentrata sulla Scelta di Ercole, nella quale il giovane Ercole deve decidere tra il percorso del piacere e quello della virtù. Queste sono rappresentate da due donne che presentano ad Ercole i loro vari argomenti e la sua confusione viene espressa nel trio Where shall I go? Il mito classico de 'la scelta di Ercole,' così come raccontato dal sofista ateniese del V secolo Prodicus (Senofonte Memorabilia 2.1.21-34), anticipa che quello che Ercole seguirà sarà il percorso della Virtù. E infatti, il Coro canta (Coro, 24) che 'Virtue will place thee in that blest abode, Crown'd with immortal youth, Among the gods a god!'Il personaggio del Servente del piacere viene introdotto in questa versione della scelta di Ercole e complica la scelta (aria, 16).\nUna esecuzione tipica richiede quasi 50 minuti.\nIl lavoro comprende l'Aria Yet can I hear that dulcet lay.\n\nRuoli.\nMovimenti.\nIl lavoro ha i seguenti 24 movimenti:.\n\nRegistrazioni.\nL'etichetta Hyperion Records nel 2003 ricevette L'International Handel Recording Prize per la registrazione de La scelta di Ercole. Il cast comprendeva:.\n\n2003 – Susan Gritton (Piacere), Alice Coote (Virtù), Robin Blaze (Ercole), Charles Daniels (Servente del Piacere), Direttore Robert King, Il coro della The King's Consort, (x1), Hyperion Records CDA 67298, USA.\n\nProduzioni.\nIl lavoro fu prodotto dalla Boston Cecilia alla Jordan Hall, New England Conservatory, Boston il 5 novembre 2005. La Bampton Classical Opera ha dato due esecuzioni del lavoro nel 2011-2012.
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### Titolo: La terra sotto i suoi piedi.\n### Descrizione: La terra sotto i suoi piedi (titolo originale The ground beneath her feet) è un romanzo dello scrittore indiano naturalizzato britannico Salman Rushdie, pubblicato in originale nel 1999, in Italia edito nello stesso anno da Mondadori. Narra la storia d'amore tra due stelle internazionali della musica leggera, riproponendo in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice, il tutto visto attraverso gli occhi di un loro amico.\n\nAmbientazione.\nLa storia si svolge in una dimensione parallela alla nostra, in cui i fatti storici presentano alcune varianti. John Kennedy riesce a scampare all'assassinio a Dallas, Richard Nixon non viene mai eletto presidente, e l'affare Watergate è solo il titolo di un fantasy-thriller di successo. Gli autori dei libri più famosi portano i nomi dei protagonisti dei libri stessi, per cui è Sal Paradise e non Jack Kerouac ad aver scritto un libro che celebra il viaggio, Kilgore Trout è un celebre scrittore di fantascienza, e Charlie Citrine è diventato famoso per il soggetto del film Caldofreddo (come ne Il dono di Humboldt di Saul Bellow). Anche nel mondo dell'arte e della musica vi sono cambiamenti: l'equivalente di Andy Warhol si chiama Amos Voight, al posto di Elvis Presley c'è Jesse Garon Parker, Lou Reed è una donna, Satisfaction è opera di John Lennon e Pretty Woman dei Kinks.\nNella prima metà del libro Ormus è il solo ad avere percezione dell'esistenza di un mondo alternativo a quello in cui vive, grazie al suo rapporto con il fratello morto. Successivamente il contatto tra i due mondi assume consistenza con l'apparizione di Maria, capace di attraversare la barriera tra le dimensioni, che comunque dopo l'incidente Ormus può osservare direttamente tramite l'occhio sinistro. Alla fine anche Umir prende contatto con questa dimensione alternativa, tramite l'obbiettivo fotografico e della cinepresa, potendo così assistere alla distruzione dell'altra realtà.\n\nTrama.\nLa narrazione si apre sull'ultimo giorno della vita di Vina Apsara, icona e stella del pop adorata da mezzo mondo, raccontata dall'amico e fotografo personale Umid, meglio conosciuto come Rai. Un giorno terribile e memorabile, come straordinaria è stata la storia di Vina e del suo amato Ormus, nati in ambienti molto diversi, ma destinati ad incontrarsi ed a rivoluzionare il mondo della musica. Tra difficoltà ed ostacoli, per entrambi iniziati già alla nascita, nel caso di Ormus con il fardello di un gemello morto che ne condiziona sogni ed aspirazioni, in una famiglia indiana profondamente tradizionalista, mentre per Vina la giovinezza ha l'aspetto di una continua lotta in famiglie estranee, tra cambi di nome e di luoghi. Questo fino al giorno del loro incontro, opera di un fato che li vuole uniti nel segno della musica, coinvolgendo anche il giovane Umid e la sua famiglia, dove Vina trova finalmente la stabilità necessaria per coltivare la sua incredibile voce. Eccezionale quanto il talento di Ormus, capace di esibirsi in canzoni splendide, grazie al legame col fratello morto, canzoni che ogni tanto si ritrova inspiegabilmente ad ascoltare alla radio, eseguiti dagli artisti stranieri più famosi.\nMa quando il giorno del sedicesimo compleanno di Vina l'unione tra i due amanti viene suggellata con ciò che fino a quel momento mancava, l'amore fisico, complice anche un'esibizione canora che ha tutto l'aspetto dell'inizio di un percorso professionale, accade l'imprevisto che sembra rimettere tutto in gioco. La burrascosa rottura del legame dei genitori di Umid travolge Vina, che non resiste alla perdita dell'unica famiglia in cui aveva potuto raggiungere una dimensione stabile, spingendola a fuggire in Inghilterra, dove riesce a far perdere le sue tracce. All'inconsolabile Ormus non rimane che cercare qualche misero sostituto in altre braccia e tentare di coltivare da solo il proprio talento, peraltro con successo sempre più scarso. Fino al giorno dell'omicidio del padre, che spinge tutta la famiglia Cama al trasferimento in Inghilterra. E così a Bombay (ora Mumbai) rimane solo Umid, che vede in poco tempo morire prima la madre per un male incurabile, e poi il padre, piegato dalle troppe delusioni. La macchina fotografica resta così l'unica compagna fedele, ed il trasferimento nella casa dei Cama diventa un modo per cercare di salvare qualcosa di un passato che nella città e nel paese sembra voler sparire, sostituito da nuove inquietudini. Che su Bombay sembrano concretizzarsi in un terremoto non molto violento, ma sufficiente per riportare a casa una già famosa Vina, alla ricerca del suo Ormus. Vi trova invece Umid, scoprendo per uno scherzo del fato che il suo amato le era da tempo più vicino di quanto pensasse. Alla fine anche Umid trova il motivo per partire e lasciare l'India, anche se nel suo caso più che una scelta è una fuga da un paese troppo corrotto, per andare incontro alla carriera di fotoreporter.\nNel frattempo Ormus in terra britannica ha cercato un modo per costruirsi un nome, partendo dalle radio pirata inglesi che navigano trasmettendo la nuova musica, esperienza comunque difficile, che lo ha fatto incappare in una pericolosa faida familiare. Il risultato è che proprio quando arriva il successo, un brutto incidente lo fa entrare in un coma che dura più di tre anni, da cui solo l'intervento di Vina riesce a farlo uscire. Il risveglio porta una singolare conseguenza: il fratello morto lo ha abbandonato, ed ora Ormus attraverso l'occhio sinistro vede un mondo diverso, un mondo che secondo un'ossessiva messaggera che ogni tanto sembra comparire dal nulla sta per scontrarsi con il suo. Ed il tanto atteso ricongiungimento della coppia si tramuta in un nuovo patto di castità, per la ritrosia di Vina a legare il proprio destino ad una sola persona. Ma questo non basta a frenare il formidabile talento della coppia, finalmente riunita negli USA, e nascono i VTO, il gruppo che irrompe nel mondo della musica con la forza di un tornado. Ogni album è un successo, anche se i due si accorgono presto che il successo porta conseguenze, soprattutto quando si firmano contratti in modo troppo precipitoso. Il tentativo di sganciarsi da quei vincoli si rivela estremamente arduo, e solo un nuovo intervento del caso permette di ottenere un dovuto compenso al loro impegno.\nE dopo dieci anni di tensione creativa, la coppia può finalmente convolare a nozze e liberare finalmente il proprio desiderio reciproco, gettando nella disperazione il povero Umid, che si era prestato volentieri ad interpretare per Vina la parte di rimpiazzo sessuale di Ormus, vedendo ora tramontare anche quel ruolo di consolazione. Scoprendo presto però che Vina non è una donna che si accontenta di un unico grande amore, nemmeno se è quello della vita, ed ha ancora bisogno di lui. Anche perché Ormus, che dopo il matrimonio ha perso contatto con il mondo alternativo, sembra sempre più ossessionato dalla minaccia di un cataclisma epocale, spingendolo a comportamenti che lasciano Vina perplessa e preoccupata. Nasce quindi un suo progetto solista, che la porta in un tour in America Latina, e proprio in Messico la terra tradisce la diva amata da tutti, inghiottendola assieme a molti altri, durante un terremoto devastante.\nLa scomparsa scatena uno psicodramma collettivo a livello mondiale, facendo nascere una specie di culto, con l'inevitabile contorno di imitatori, celebrazioni e sfruttamento commerciale. All'affranto Umid non rimane che coltivare il proprio lutto, da cui riesce a liberarsi solo dopo aver appreso delle condizioni di Ormus, travolto ancora più profondamente dalla perdita dell'amata. A spingerlo a contattare l'ex rivale è un ultimo inaspettato messaggio dal mondo parallelo, inviato attraverso l'obbiettivo di una cinepresa, da cui Umid viene a conoscenza dell'esito dello scontro. L'incontro con Ormus si rivela sconvolgente: l'ossessione di quest'ultimo l'ha portato a cercare e trovare una nuova Vina, identica all'originale anche se più giovane di quasi vent'anni, tanto perfetta che persino Umid ne rimane folgorato. E più per propria volontà che per quella dell'amico-rivale, che non aveva trovato il coraggio di esporsi in prima persona, Umid avvicina Mira, scoprendo però una persona vera e non un'imitazione, e se ne innamora, avviando con lei una relazione, rinnovando in questo modo la propria ossessione precedente. Compresa la gelosia per Ormus, che dopo aver incontrato la nuova Vina decide di far ripartire i VTO, progetto che lo fa uscire dalla china autodistruttiva su cui sembrava avviato. Ma il primo concerto rischia di finire subito male, causa l'intransigenza dei fan di Vina, ostili a quello che sembra loro un sacrilegio, e solo la presenza di spirito di Mira riesca a salvare il gruppo da un clamoroso flop. A questo punto la giovane si impone ad Ormus facendogli capire che il suo ruolo non è quello di una copia, ottenendo un'apparente accettazione della scomparsa definitiva dell'amata. Nel successivo tour mondiale Ormus mostra però di essersi ritirato definitivamente da questa realtà, eliminando qualsiasi contatto esterno, preludio al suo assassinio per opera di una misteriosa Vina. Ad Umid e Mira non rimane che mettere la parola fine alla storia d'amore sovrumana di cui sono stati spettatori, e cercare di dare un senso alla propria, più terrena.\n\nPersonaggi.\nUmid Merchant (Rai). Spettatore privilegiato della storia d'amore più grande mai vista nel mondo della musica, non disdegna di fare la parte dell'amante nell'ombra, consapevole del ruolo di subalterno. Con Mira però nasce qualcosa di più forte, destinato a durare.\nVina Apsara. Star del pop internazionale, con alle spalle un cupo passato da dimenticare, trova in Ormus la sicurezza di un amore capace di resistere a tutto. Ma non può bastarle, perché la sua natura è esigente, anche se questo vuol dire calpestare i sentimenti di chi la ama.\nOrmus Cama. Nato con la musica nelle mani ed un fratello morto al fianco, trova in Vina la compagna perfetta sia dal punto di vista artistico che da quello sentimentale, anche se con qualche problema di fedeltà. Il legame sarà però troppo forte per resistere alla sua perdita.\nMira Celano. Ragazza che da Vina sembra aver preso quasi tutto, ma che in seguito si dimostra abbastanza forte da rifiutarsi di prendere in prestito l'altrui personalità, cercando una propria strada.\n\nTemi.\nLa storia principale è dichiaratamente ispirata al mito di Orfeo ed Euridice, assieme a quello delle divinità indiane Kama e Rati, riadattate in chiave moderna. Ma nella narrazione il tema del mito classico declinato nelle varie culture riappare continuamente, sia come argomento di discussione (costituendo il campo di studio preferito del padre di Ormus, Darius Xerses), sia nei personaggi secondari, vedi il tentativo di assassinio (parzialmente riuscito) dei fratelli Crossley da parte della madre, Antoinette Corinth, per vendicarsi del tradimento del marito, esplicitamente ispirato dalla storia di Medea. Tra gli altri vengono richiamati i miti di Prometeo, Elena (nel dono della mela di Rai alla giovane Vina), Persefone, ed altri personaggi della mitologia greca e non solo.\n\nAdattamenti.\nNel 2000, gli U2 hanno presentato una canzone avente lo stesso titolo del libro, The Ground Beneath Her Feet, basandosi integralmente sul testo scritto da Ormus per Vina, eccetto che per un passaggio, non inserito. L'idea era nata da Bono, dopo aver ricevuto una bozza del libro da Rushdie prima della sua pubblicazione, esistendo tra i due un rapporto di amicizia e di stima. Nel racconto la band irlandese è citata come possibile gruppo di apertura per i concerti dei protagonisti, con il nome di Vox Pop.\nNel 2007 è stato presentato al festival Internazionale di Manchester un adattamento artistico multimediale del libro avente lo stesso titolo, unendo musica, recitazione, narrazione e film, ad opera della compositrice Victoria Borisova-Ollas. La regia della parte filmata è stata affidata a Mike Figgis, mentre per dare voce alle parti narrate è stato scelto l'attore Alan Rickman.\n\nEdizioni.\nSalman Rushdie, La terra sotto i suoi piedi, traduzione di Vincenzo Mantovani, 1ª ed., Arnoldo Mondadori Editore, aprile 1999 [1999], ISBN 88-04-46040-7.
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### Titolo: Labirinto di Cnosso.\n### Descrizione: Il Labirinto di Cnosso è un leggendario labirinto, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal Re Minosse sull'isola di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall'unione della moglie del re con un toro.\n\nStoria.\nEra un intrico di strade, stanze e gallerie, costruito dal geniale Dedalo con il figlio Icaro, i quali, quando ne terminarono la costruzione, vi si trovarono prigionieri. Dedalo costruì delle ali, che appiccicò con la cera alle loro spalle, ed entrambi ne uscirono volando.Il Minotauro divorava ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle di Atene, finché Teseo, aiutato da Arianna, non l'uccise. Teseo riuscì a uscire dal labirinto solo grazie al filo che Arianna gli aveva dato e che aveva lasciato scorrere lungo il percorso. Una volta ucciso il Minotauro, Teseo seguì la strada indicata dal filo. Dedalo era anche un inventore.
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### Titolo: Labrando.\n### Descrizione: Labrando (greco Δακεδαίμων) è uno dei Cureti. Accompagnato dai suoi amici Panamoro e Palasso, giunse in Caria e qui trascorse la prima notte in riva al fiume che si chiamò, per questo, Eudono (dal verbo εὕδειν, che significa letteralmente 'dormire').
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### Titolo: Lacedemone (mitologia).\n### Descrizione: Lacedemone (in greco antico: Λακεδαίμων?, Lakedàimōn) è un personaggio della mitologia greca, re della Laconia e fondatore di Sparta.\n\nMitologia.\nLacedemone fu re della Laconia e fondò la città di Sparta, che in origine prese il suo nome e che in seguito prese il nome della moglie e fu il primo ad introdurre il culto delle Grazie in Grecia.\nAnche suo figlio Amicla, che desiderava a sua volta lasciare un ricordo del suo nome, fondò la città di Amycles.\n\nGenealogia.\nEra figlio di Zeus e della Pleiade Taigete e sposo di Sparta figlia di Eurota che gli diede due figli, il maschio Amicla e la figlia Euridice.\n\nuomo donna divinità.
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### Titolo: Lachesi.\n### Descrizione: Làchesi (in greco antico: Λάχεσις?, Làchesis), nella religione greca antica, è una delle tre Moire (Parche), divinità che decidevano il destino di tutti, sia uomini sia dei. Lachesi era la Moira che svolgeva sul fuso il filo della vita, distribuiva la quantità di vita a ogni umano e vi decideva il destino. Infatti l'etimologia del suo nome risale al verbo λαγχάνω, che significa 'ricevo in sorte'.\nNella mitologia non è univoco di chi fossero figlie le tre Moire: secondo una versione erano figlie della Notte, secondo un'altra, di Temi e Zeus, mentre Platone nel Mito di Er le considera come figlie di Ananke, la Necessità.\n\nInfluenza culturale.\nA Lachesi sono intitolate la Lachesis Tessera su Venere,, il genere di serpenti Lachesis e l'asteroide della fascia principale 120 Lachesis.
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### Titolo: Ladone (drago).\n### Descrizione: Ladone (in greco antico: Λάδων?) è una creatura della mitologia greca ed era un drago dalle cento teste che sorvegliava i pomi d'oro delle Esperidi.\n\nGenealogia.\nLa maggior parte degli autori scrive che sia figlio di Forco e di Ceto, mentre secondo altre tradizioni era invece figlio di Tifone e di Echidna.\n\nMitologia.\nDopo che fu ucciso da Eracle, la dea Era lo trasformò nella costellazione del Dragone.\nEsiste un'altra versione della storia nella quale Eracle mandò Atlante a prendere le mele d'oro nel giardino delle Esperidi e Ladone non venne ucciso.
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### Titolo: Ladone (fiume).\n### Descrizione: Il Ladone (in greco Λάδωνας?, Ládonas) è un fiume della penisola del Peloponneso in Grecia. Viene citato nella mitologia greca ed è un affluente del fiume Alfeo, che sfocia nel Mar Ionio. Nella mitologia greca, è personificato dal dio fluviale Ladone.\n\nCorso.\nIl Ladone nasce sul versante occidentale del monte Aroania, nei pressi del villaggio di Kastria, unità comunale di Lefkasi in Acaia. Scorre verso sud riceve il suo affluente di sinistra Aroanio, scorre lungo Kleitoria e gira a sud-ovest vicino al confine con l'Arcadia. Scorre attraverso il lago artificiale omonimo e gira nuovamente a sud nei pressi di Dimitra. Si immette poi nell'Alfeo 3 km a sud est del villaggio di Tripotamia.\n\nMitologia.\nIl fiume era tra quelli citati da Esiodo nella Teogonia; erano 'tutti figli di Oceano e della regina Teti' poiché, secondo l'immagine dell'idrografia mondiale comune agli antichi, l'acqua dolce che sgorgava nelle sorgenti proveniva dalle caverne e dagli stagni degli inferi ed era collegata al sale mare. La pioggia fertilizzava i raccolti, ma la sensazione che il suo deflusso riempisse i fiumi non figurava nel quadro mitico greco.\nI fiumi erano personificati e accreditati di corteggiare ninfe e fanciulle umane e di generare figli. La figlia di Ladone, la ninfa Metope, fu sposata con il fiume Asopo.\nI fiumi hanno effetti purificatori nella mitologia greca. Quando Poseidone assalì Demetra, lavò via l'insulto nelle acque del fiume Ladon. Apparentemente questa era la fonte dell'espressione arcadica secondo cui 'dare modo alla rabbia è essere furiosi'.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file sul Ladone.
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### Titolo: Laerte.\n### Descrizione: Laerte (in greco antico: Λαέρτης?, Laèrtēs) è un personaggio della mitologia greca, noto per essere uno degli Argonauti e il padre di Ulisse (che per questo viene a volte denominato Laerzìade, in greco antico: Λαερτιάδης?, Laertiàdēs, 'figlio di Laerte'). Secondo alcune fonti secondarie successive a Omero, il padre di Ulisse era Sisifo, che violentò la madre di Ulisse, Anticlea, prima che sposasse Laerte.\n\nMitologia.\nLaerte era figlio di sisifo, o Arcisio e di Calcomedusa.\nDal bisnonno Deioneo (figlio di Eolo e padre di Cefalo) derivava l'appartenenza alla stirpe di Deucalione.La sua famiglia era originaria di Cefalonia, difatti suo nonno Cefalo era eponimo dell'isola.\nFu re di Itaca e prese in moglie Anticlea. Nell'Odissea è presentato come il padre di Ulisse, ma secondo una tradizione posteriore avrebbe sposato Anticlea quando lei era già stata messa incita da Sisifo.\nIl re Laerte fu membro della spedizione degli Argonauti, come molti eroi della sua generazione. Rientrato vittorioso dal viaggio con Giasone, partecipò alla caccia del cinghiale di Calidone.\nQuando suo figlio Ulisse tornò a Itaca dieci anni dopo la fine della guerra di Troia, durante i quali aveva dovuto soffrire molto per sfuggire alle insidie tramate dal dio del mare Poseidone, Laerte, già molto anziano, non lo riconobbe al primo impatto, ma Ulisse dovette descrivergli il frutteto che un tempo egli stesso gli aveva donato. Nel frattempo Penelope, moglie di Ulisse, aveva tessuto durante il giorno e disfatto durante la notte il velo funerario per Laerte.\nQuando Eupite venne a reclamare vendetta per la morte del figlio Antinoo, ucciso durante lo scontro con i Proci, la dea Atena infuse allora «una gran forza» in Laerte, il quale trapassò il nemico da parte a parte con un colpo di lancia.
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### Titolo: Laio.\n### Descrizione: Laio (in greco antico: Λάϊος?, Láios) è un personaggio della mitologia greca, re di Tebe e figlio di Labdaco, è un eroe divino e un personaggio chiave nel mito della fondazione di Tebe in Beozia.\n\nMitologia.\nIl rapimento di Crisippo.\nIl tragico destino che toccò a Laio e alla sua discendenza fu provocato - stando a Euripide - dal rapimento e conseguente stupro del giovane Crisippo, figlio del re Pelope. Quando Laio era ancora giovane, Anfione e Zeto usurparono il trono di Tebe. Alcuni tebani, sperando di veder continuare la discendenza di Cadmo, lo portarono segretamente fuori dalla città prima dell'attacco. Laio fu accolto da Pelope, re di Pisa nel Peloponneso. Laio si innamorò così di Crisippo, figlio del re, e lo rapì durante i Giochi di Nemea portandolo con sé a Tebe mentre gli insegnava a portare il carro, come scrive Igino, abusando successivamente del malcapitato ragazzo. Il giovane, dopo esser stato scoperto, si uccise dalla vergogna. Il rapimento divenne il soggetto di una delle tragedie perdute di Euripide. Con la morte di Anfione e Zeto, Laio sposò Giocasta, figlia di Meneceo (chiamata Epicasta da Omero) e divenne il re di Tebe ma la maledizione di Pelope si sarebbe presto abbattuta su di lui e sulla sua stirpe.\n\nL'oracolo e la tragedia.\nL'Oracolo di Delfi raccomandò a Laio di non avere figli da sua moglie o il figlio l'avrebbe ucciso e avrebbe sposato Giocasta. Ma una notte, mentre Laio era in preda all'ebbrezza, i due concepirono Edipo che, per paura della profezia, legate l'una all'altra le caviglie con una cinghia, fu esposto e abbandonato alla nascita sul monte Citerone dove fu trovato da un pastore che gli diede il nome di Edipo (piede gonfio) e lo diede a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto che lo crebbero.\nQuando Edipo, dopo che un giovane di Corinto gli disse che era un trovatello, volle conoscere la verità sui suoi genitori si rivolse all'Oracolo di Delfi che si limitò a dirgli che non sarebbe dovuto tornare a casa o avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Pensando che Polibo e Peribea fossero i suoi veri genitori, si diresse dunque verso Tebe in direzione opposta a Corinto ma un destino tragico volle che a un incrocio incontrasse Laio diretto a Delfi per interrogare l'oracolo dopo aver avuto il presagio che il figlio stesse tornando per ucciderlo. La superbia di colui che egli non sapeva essere suo padre portò Edipo a uccidere Laio, a rompere il timone del suo carro, a compiere la prima parte della profezia per poi dirigersi verso Tebe e a segnare per sempre le sorti della sua discendenza, consegnando spunti favolosi per tragediografi del calibro di Sofocle.\nLaio fu sepolto nello stesso luogo dove morì da Damasistrato, re di Platea, mentre Creonte, figlio di Meneceo, prese il potere a Tebe. Diversi suoi discendenti dovettero ancora fare i conti con un destino avverso ma non si sa con certezza se perché violò le leggi dell'ospitalità e del matrimonio rapendo il figlio della persona che lo ospitava, se perché non ascoltò le parole dell'oracolo o per una combinazione dei due eventi.\n\nGenealogia.
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### Titolo: Lamia.\n### Descrizione: Le lamie, secondo la mitologia greca, erano figure femminili in parte umane e in parte animali, rapitrici di bambini o fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Vennero chiamate anche Empuse, sebbene il mito di queste ultime, figlie o serve di Ecate, avesse origini differenti. Nel medioevo il termine venne usato come sinonimo di strega.\nLamia è anche il nome di alcune figure femminili della storia antica greca. Una di queste fu la regina eponima della città di Lamia. Altre furono famose etere di Atene, come ad esempio l'amante di Demetrio, re di Macedonia.\n\nOrigine del mito.\nL'origine di questa figura va probabilmente ricercata nell'archetipo della dea della notte o dea-uccello (cfr. il notissimo Rilievo Burney e reperti simili provenienti dal Vicino Oriente), dal quale originarono Ištar, Atargatis e Atena. La connessione con la notte (per associazione: magia, soprannaturale, mistero, ma anche morte, fenomeni inspiegabili e così via) spiega, almeno in parte, l'ambivalenza di sentimenti nei confronti della lamia. Altro elemento da tener presente è il processo di autentica demonizzazione o mistificazione subito da numerose figure di divinità o semi-divinità antiche, in specie dalla fine del mondo classico in poi. In altri termini, non è da escludere che qualcosa di analogo abbia preso forma anche a proposito della lamia, determinando nella cultura popolare una serie di credenze e precauzioni superstiziose da prendere per difendersi da essa (in molti casi la superstizione si qualifica come insieme confuso e volgarizzato di superstiti lacerti di paganesimo). L'idea della bellezza legata a un collocarsi, da parte di questa figura, al di fuori delle leggi morali, quella del sale come mezzo capace di uccidere la lamia, richiamano molte credenze relative alle cosiddette streghe. Ad esempio, ve n'era una secondo cui bisognava cospargere le panche della chiesa di sale grosso: quelle streghe che, nascondendo la propria vera natura si fossero sedute fingendo di presenziare alla cerimonia religiosa, sarebbero inevitabilmente rimaste attaccate alle panche. Insomma: strega, lamia/vampiro, empusa e altre creature soprannaturali (o a metà tra il naturale e il divino) sono ampiamente presenti nella cultura occidentale, avendo resistito ai mutamenti religiosi, non solo, discendono, probabilmente, da uno stesso immaginario, e si collocano nello stesso ambito spirituale (quello di dea collegata alla notte, appunto).\n\nMondo greco classico e romano.\nSecondo il mito originale, Lamia era la bellissima regina della Libia, figlia di Belo: essa ebbe da Zeus il dono di levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterli a proprio piacere. Presto Zeus si innamorò di lei provocando la rabbia di Era, che si vendicò uccidendo i figli che suo marito ebbe da Lamia. L'unica figlia ad essere risparmiata fu Scilla; probabilmente, anche Sibilla si salvò.\nLamia, lacerata dal dolore, iniziò a sfogarsi divorando i bambini delle altre madri, dei quali succhiava il sangue. Il suo comportamento innaturale fece in modo che la sua bellezza originaria si corrompesse, trasformandola in un essere di orribile aspetto, capace di mutare forma e apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue.\nPer questo motivo la lamia viene considerata una sorta di vampiro ante litteram.\nIl poeta Orazio nella sua Ars Poetica descrive le lamie come esseri mostruosi, capaci di ingoiare bambini e di restituirli ancora intatti se si squarcia loro il ventre.\nDel resto, la letteratura latina abbonda d'esempi di donne 'al di fuori degli schemi', dedite alla magia e al vampirismo. Tra l'altro, l'atteggiamento nei confronti di questi fenomeni (e della donna di potere, maga o strega) risulta essere ambivalente, di paura da una parte, di ammirazione dall'altra.\n\nNel Medioevo.\nNel Medioevo, lamia divenne sinonimo di strega.\n\nInterpretazioni moderne.\nLa figura mitologica di Lamia fu reinterpretata dal poeta romantico inglese John Keats nel 1820 tramite il poema omonimo.\nLe lamie vengono citate nel concept album dei Genesis The Lamb Lies Down on Broadway; esse vengono rappresentate come creature femminili dal corpo 'simile al serpente' e seducono il protagonista Rael nel tentativo di divorarlo, ma non appena 'assaggiano' il corpo di Rael, il sangue che entra nel corpo delle lamie ne provoca la morte.\nLa canzone Prodigal Son dall'album Killers degli Iron Maiden contiene una preghiera a Lamia.\nNel film horror Drag Me to Hell di Sam Raimi la Lamia è uno spirito malvagio con la parte inferiore del corpo e la testa da caprone, non è visibile la conformazione del busto anche se si può supporre che sia anch'esso da caprone, e denti aguzzi il cui compito è quello di portare all'inferno l'anima della persona maledetta dopo 3 giorni.\nNella puntata 6x04 del telefilm Supernatural la lamia è di origine greca. Strappa il cuore delle vittime con degli artigli e poi ne succhia tutto il sangue. La si uccide o con un coltello d'argento benedetto da un prete o dandole fuoco dopo averle gettato addosso un misto di sale e rosmarino.\nNella saga di romanzi La setta dei vampiri, scritta da Lisa Jane Smith, le lamie sono persone nate vampiri, senza essere stati morsi. Sono immortali, possono avere figli e possono trasformare le persone in vampiri. Sono immuni a tutte le sostanze, tranne che al legno. Al contrario dei loro simili che invece sono stati morsi, le lamie invecchiano, ma possono decidere di interrompere la loro crescita quando vogliono e mantenere la stessa età per sempre.\nNella puntata 4x08 del telefilm Merlin, Merlino si scontra con la Lamia, una creatura dell'Antica Religione mezza donna e mezza serpente, in grado di avvelenare chiunque passasse sotto il suo fatale tocco e in grado di controllare la mente degli uomini, rendendoli suoi succubi.\nNella puntata 1x20 del telefilm Relic Hunter, Sydney e Nigel affrontano una setta di donne vampiro che fanno parte di un culto dedito a Lamia.\nNel celebre fumetto Dylan Dog, nel numero 8 del fumetto Maxi, pubblicato nel luglio 2005, nell'episodio Autocombustione, gli antagonisti sono le Lamie, demoni per metà donna e per metà serpente, che vagano per la terra fino a quando non trovano una donna che si uccide per amore. A quel punto la Lamia può impossessarsi della ragazza e uccidere giovani uomini sulla Terra, attirandoli con la loro bellezza, e facendoli bruciare dall'interno.\nNel videogioco Tales of Symphonia, la Lamie sono dei nemici, con caratteristiche simili alle Meduse (altri nemici del gioco) ma meno potenti. Infatti, entrambe le tipologie possono pietrificare i protagonisti.\nNel videogioco Hippodrome una lamia è il primo avversario selezionabile.\nNel film Stardust, la strega antagonista si chiama Lamia.\nNel videogioco Final Fantasy 9, la Lamia è un nemico comune che si incontra lungo la strada.\nNel manga Monster Musume le lamie sono figure femminili il cui corpo di donna termina all'altezza dei fianchi, da cui prosegue una possente coda serpentina; sono creature a sangue freddo e tuttavia focose, che per riprodursi devono accoppiarsi con un essere umano, essendo la loro razza priva di una controparte maschile. Una delle protagoniste femminili è una Lamia di nome Miia.\nIl nome italiano di una educatrice presente ne I Cavalieri dello zodiaco è Lamia.\nÈ rappresentata nella serie televisiva del 2020 Raised by Wolves - Una nuova umanità, prodotta da Ridley Scott come un androide da guerra (di tipo negromante) riconvertito ad altre funzioni. Fra le sue caratteristiche, anche quella di cavarsi i bulbi oculari da sola per sostituirli con altri a seconda delle necessità.\nNel singolo del 2021 Exuvia, del rapper italiano Caparezza, Lamia viene citata proprio per la caratteristica di poter rimuovere i propri occhi dalle orbite. L'exuvia è infatti un processo biologico di alcuni insetti, che ad un certo punto della loro vita cambiano il loro esoscheletro. Il rapper intende infatti il suo nuovo disco come una rinascita ed evoluzione personale e artistica.
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### Titolo: Lamine orfiche.\n### Descrizione: Le lamine orfiche sono lamine di metallo prezioso che si trovano nelle sepolture antiche dell'area mediterranea (Magna Grecia, Tessaglia e Creta), principalmente di coloro che si presume fossero iniziati ad orfismo, dionisismo e alcune credenze egiziane e semitiche. Sono probabilmente l'esempio più noto degli oggetti che sono noti come Totenpass (termine tedesco traducibile come 'passaporto per i morti').I totenpässe sono posizionati sopra o vicino al corpo come un filatterio o arrotolati e inseriti in una capsula spesso indossata intorno al collo come amuleto. L'iscrizione istruisce l'iniziato su come navigare nell'aldilà, comprese le indicazioni per evitare pericoli nel paesaggio dei morti e le risposte formali ai giudici del mondo sotterraneo.\n\nStoria.\nIn alcuni sepolcri collocati nell'area della Magna Grecia, della Tessaglia e di Creta sono state rinvenute alcune piccole lamine d'oro poste nella bocca, nella mano o sul petto del defunto, contenenti delle istruzioni scritte in greco antico e a lui destinate, inerenti alla condotta da tenere nel viaggio oltremondano. Tali lamine, risalenti a un periodo compreso tra il V secolo a.C. e il III secolo d.C., testimoniano che il defunto è un 'iniziato' a una dottrina misterica e contengono anche delle invocazioni nei confronti di alcune divinità ctonie, il tutto allo scopo di consentire al trapassato un destino beato rispetto alla sua rinascita nel nostro mondo (metensomatosi), rinascita che conserverà, sempre e comunque, un destino di sofferenza.\nNonostante la segretezza inerente alle dottrine 'misteriche' a cui queste lamine fanno riferimento, gli studiosi si sono prodigati per approfondire i contenuti e i riferimenti propri delle lamine rinvenute nei sepolcri giungendo tuttavia a differenti conclusioni:.\n\nGiovanni Pugliese Carratelli , Walter Burkert , Vincenzo Di Benedetto, e Radcliffe G. Edmonds, ritengono che, seppur in astratto le lamine rinvenute nei sepolcri indichino una conoscenza iniziatica oltremondana, esse non facciano riferimento al medesimo ambito, conservando tra loro notevoli differenze di contenuto.\nRichard Janko , Reinhold Merkelbach , M.L. West e Alberto Bernabé e Ana Isabel Jiménez San Cristóbal ritengono, invece, che si possa parlare di più differenti e parziali testimoni di un'unica versione, archetipo, originale.La natura 'orfica' delle dottrine a cui si richiamano le lamine è stata sostenuta, anche recentemente, da Alberto Bernabé , altri studiosi ritengono, ad esempio, di scorgere in alcune di esse una presenza rilevante delle dottrine escatologiche pitagoriche o anche bacchiche.\nAlberto Bernabé, sostenitore dell'esistenza di un modello unico e orfico a cui le lamine rinvenute farebbero riferimento, riassume così la sequenza dello stesso:.\n\nQualora l'iniziato sia stato purificato nel corpo e nella psyché (anima), la dea Mnemosyne farà in modo che nel trapasso egli si ricordi della sua iniziazione misterica;.\nma l'iniziato deve ricordare in cosa consista questa sua iniziazione e sapere come comportarsi, ad esempio evitare la fonte d'acqua collocata al lato del cipresso bianco;.\ndeve anche ricordarsi di rispondere alle domande dei custodi della seconda fonte, quella da cui sgorga l'acqua del lago di Mnemosyne, di essere 'figlio della Terra e del Cielo stellato'; identificazione che gli consentirà di dissetarsi e rinfrescarsi a questa seconda fonte e quindi di potersi avvicinare alla dea Persefone;.\nl'iniziato deve anche ricordarsi di presentarsi alla dea Persefone come 'puro tra i puri';.\nallora potrà percorrere, insieme agli altri bakkhoi, la sacra via che lo condurrà alla vita beata.Comunque sia si possono, con Giovanni Pugliese Carratelli, suddividere le lamine in più gruppi con caratteristiche simili:.\nI. Un primo gruppo, dove è presente la formula di riconoscimento 'Sono figlio/a della Terra e del Cielo stellato' e dove sono presenti due sorgenti, la prima, quella da evitare collocata vicina a un 'cipresso bianco', la seconda, alimentata dal lago di Mnemosyne, a cui invece occorre dissetarsi dopo aver risposto con la formula di riconoscimento alle domande dei suoi custodi. A Questo gruppo fanno riferimento le lamine:.\nA 1. Lamina di Hipponion.\nA 2. Lamina di Petelia.\nA 3. Lamina di Pharsalos.\nA 4. Lamina di Entella (?)Nel sottogruppo B è presente solo la prima fonte e il dialogo con i custodi.\nB 1-6. Lamine di Creta.\nB 7. Lamina della Tessaglia (?).\nC 1. Lamina di Roma.\nII. Un secondo gruppo è costituito dalle lamine dove sono invece invocate alcune divinità infere come Persephone, Euklès, Pluton e Diónysos:.\nA 1-2. Lamine di Thurii.\nB 1-2. Lamine di Thurii (con la presenza della formula 'caddi nel latte').\nB 3. Lamina di Pellinna (con la presenza della formula 'caddi nel latte').\nC 1. Lamina di Eleutherna.\nC 2. Lamina di PheraiIII. Un terzo tipo di lamina sembra avere caratteristiche 'magiche' ed è comunque di difficile interpretazione:.\n1. Lamina di Thurii.\n\nEsempi di lamine orfiche con immagini, testo in greco e traduzione.\nLamina d'oro 'orfica' (Pugliese Carratelli: I A 2; OF: 476 ; mm 45 x 27) rinvenuta a Petelia (Calabria), oggi conservata presso il British Museum di Londra, con annessa collana, mezzo per il quale la lamina poteva essere indossata. A sinistra la lamina di Petelia il cui testo riporta:.\n1.ΕΥΡΗΣΣΕΙΣΔΑΙΔΑΟΔΟΜΩΝΕΠΑΡΙΣΤΕΡΑΚΡΗΝ.\n2.ΗΝΠΑΡΔΑΥΤΗΙΛΕΥΚΗΝΕΣΤΗΚΥΙΑΝΚΥΠΑΡΙΣΣΟΝ.\n3.ΤΑΥΤΗΣΤΗΣΚΡΗΝΗΣΜΗΔΕΣΧΕΔΟΝΕΜΠΕΛΑΣΕΙΑΣ.\n4.ΕΥΡΕΗΣΕΙΣΔΕΤΕΡΑΝΤΗΣΜΝΗΜΟΣΥΝΗΣΑΠΟΛΙΜΝΗΣ.\n5.ΨΥΧΡΟΝΥΔΩΡΠΡΟΡΕΟΝΦΥΛΑΚΕΣΔΕΠΙΠΡΟΣΘΕΝΕΑΣΙΝ.\n6.ΕΙΠΕΙΝΓΗΣΠΑΙΣΕΙΜΙΚΑΙΟΥΡΑΝΟΥΑΣΤΕΡΟΕΝΤΟΣΑΥΤΑΡΕΜ.\n7.ΟΙΓΕΝΟΣΟΥΡΑΝΙΟΝΤΟΔΕΔΙΣΤΕΚΑΙΑΥΤΟΙΔΙΨΗΙΔΕΙΜΙΑΥ.\n8.ΗΚΑΙΑΠΟΛΛΥΜΑΙΑΛΛΑΔΟΤΑΙΨΑΨΥΧΡΟΝΥΔΩΡΠΡΟΡΕ.\n9.ΟΝΤΗΣΜΝΗΜΟΣΥΝΗΣΑΠΟΛΙΜΝΗΣΚΑΥΤ[..]Σ[.]ΙΔΩΣΟΥΣΙ.\n10.ΠΙΕΙΝΘΕΙΗΣΑΠ[....]ΝΗΣΚΑΙΤΟΤΕΠΕΙΤΑ[………]ΗΡΩΕ.\n11.ΣΣΙΝΑΝΑΞΕΙ[……. .]ΝΗΣΤΟΔΕΙ̣[.\n12.ΘΑΝΕΙΣΘ[…………….]ΟΔΕΓΡΑˑmargine destro: Τ̣Ο̣Γ̣Λ̣Ω̣Σ̣Ε̣Ι̣Π̣Α̣ΣΚΟΤΟΣΑΜΦΙΚΑΛΥΨΑΣ.\n\n1.Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte,.\n2.e accanto ad essa eretto un bianco cipresso:.\n3.A questa fonte non avvicinarti neppure.\n4.Ma ne troverai un'altra, la fredda acqua che scorre.\n5.dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi i custodi.\n6.Dì': 'Son figlia della Terra e del Cielo stellato:.\n7.urania è la mia stirpe, e ciò sapete anche voi.\n8.Di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto.\n9.la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne'.\n10.ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina;.\n11.e dopo di allora con gli altri eroi sarai sovrana.\n12.A Mnemosyne è sacro questo (testo): (per il mystes), quando è sul punto di morire ... ˑmargine destro: ... la tenebra che tutt'intorno si stende.\nTraduzione di Giovanni Pugliese Carratelli (in Le Lamine d'oro orfiche, Milano, Adelphi, 2001, p.68).
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### Titolo: Lampadi.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, le lampadi (in greco antico: Λαμπάδες?, Lampades; chiamate in latino Nymphae avernales, 'ninfe avernali') sono ninfe ctonie dell'oltretomba, compagne di Ecate.\n\nNella cultura di massa.\nLe lampadi compaiono nel videogioco The Titans, espansione di Age of Mythology, dove sono le unità mitiche della dea Ecate.
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### Titolo: Lampeto.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Lampeto è un eroe dell'isola di Lesbo, ucciso da Achille.\n\nIl mito.\nLampeto, figlio di Iro, crebbe a Metimna, sull'isola di Lesbo, dove sembra che regnò insieme a due invincibili guerrieri, Icetaone e Ipsipilo, figli di Lepetinno. Al tempo della guerra di Troia, Achille attaccò l'isola, mettendo a ferro e fuoco le città della regione, senza riuscire però a saccheggiare Metimna, i cui abitanti, sostenuti da Lampeto, resistevano validamente ai suoi attacchi.\nSolo grazie al tradimento della figlia del re, Pisidice, innamorata di Achille, l'eroe riuscì a penetrare nella città, dove sgozzò senza pietà Lampeto, Icetaone ed Ipsipilo. Pisidice, che aveva fatto entrare il nemico in cambio di una promessa di matrimonio, venne brutalmente respinta e lapidata dai Mirmidoni.
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### Titolo: Lampo (figlio di Laomedonte).\n### Descrizione: Lampo (in greco antico: Λάμπος?, Lámpos) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe di Troia.\n\nGenealogia.\nFiglio di Laomedonte e di Strimo o Placia (figlia di Otreo) o Leucippe e fu padre di Dolopo.\n\nMitologia.\nFu il secondo figlio avuto da Strimo e svolgeva il ruolo di consigliere durante il periodo della guerra di Troia e fu, come suo fratello Priamo (l'ultimogenito), uno degli anziani che osservarono la guerra in lontananza e seduti sulle mura delle Porte Scee della città.
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### Titolo: Laocoonte (El Greco).\n### Descrizione: Il Laocoonte è un dipinto a olio su tela (142 × 193 cm) di El Greco, databile al 1610-1614 e conservato nella National Gallery of Art di Washington.\n\nDescrizione e stile.\nIl dipinto descrive la morte di Laocoonte, sacerdote di Apollo e abitante di Troia. Secondo la mitologia greca tentò di salvare i troiani dall'insidia del cavallo di Troia, donato loro dai greci. Venne per questo punito da Atena, la quale parteggiava per gli Achei, che lo fece uccidere assieme ai figli da due giganteschi serpenti provenienti dal mare. Il tragico evento della morte di Laocoonte era già stato trattato nella celebre composizione del Gruppo del Laocoonte, situata ai Musei Vaticani; l'opera di El Greco si discosta certamente dallo stile classico di questo gruppo scultoreo, avvicinandosi prepotentemente allo stile manierista.\nI protagonisti dell'opera sono disposti su una roccia, la quale domina la città e apre la visione ad un cielo carico di nubi e dai colori tetri. Laocoonte lotta strenuamente con un serpente che sta tentando di morderlo sulla fronte, tenendogli la bocca con la mano destra e serrandone una parte del corpo con la sinistra. Alla sua sinistra uno dei figli ancora combatte con il serpente che tenta di ucciderlo. Alla destra delle scene di lotta di ergono due figure, probabilmente entità divine, le quali non intervengono nello scontro fatale tra il sacerdote e le bestie marine.\nTutte le figure sono allungate e mostrano membra contorte e tese, mantengono posizioni quasi innaturali. Il colore dei loro corpi è volutamente distorto da quello consueto, scelta che fa risaltare, insieme alle tinte del cielo e dello sfondo, un'atmosfera tetra e oscura.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Laocoonte.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Laocoön, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
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### Titolo: Laocoonte (Hayez).\n### Descrizione: Laocoonte è un dipinto di Francesco Hayez.\nRaffigura la morte di Laocoonte, sacerdote di Apollo e abitante di Troia. Secondo la mitologia greca egli tentò di salvare i troiani dall'insidia del cavallo di Troia, donato loro dai greci. Venne per questo punito da Atena, la quale parteggiava per gli Achei; la dea lo fece uccidere assieme ai figli da due giganteschi serpenti provenienti dal mare.\nIl quadro di Francesco Hayez mantiene per lo più lo schema classico del celebre gruppo scultoreo. Innovativi sono l'impianto corale che l’artista conferisce nell’opera riprendendo le linee stilistiche del pittore francese David e l'eroica posa del protagonista che ricorda l' Ercole e Lica di Canova.\nNonostante i diffusi colori scuri, lo sguardo dello spettatore viene catturato dal panneggio bianco indossato dal sacerdote troiano, anche questa una caratteristica stilistica di David.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Laocoonte.
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### Titolo: Laocoonte.\n### Descrizione: Laocoonte (in greco antico: Λαοκόων?, Laokóōn; in latino Laocoon), personaggio della mitologia greca, era un abitante di Troia, figlio di Antenore (o di Capi, secondo altre versioni). Era un veggente e gran sacerdote di Poseidone o, secondo alcune fonti, di Apollo.\n\nMitologia.\nNell'Eneide si narra che, quando i greci portarono davanti alle mura della città il celebre cavallo di Troia, egli corse verso di esso scagliandogli contro una lancia che ne fece risonare il ventre pieno; proferì quindi la celebre frase Timeo Danaos et dona ferentes («Temo i greci, anche quando portano doni»). Pallade Atena, che parteggiava per i Greci, punì Laocoonte mandando Porcete e Caribea, due enormi serpenti marini, che uscendo dal mare avvinghiarono i suoi due figli, Antifate e Tymbreus stritolandoli. Laocoonte cercò di accorrere in loro aiuto ma subì la stessa sorte. Secondo un'altra versione i due serpenti furono inviati da Poseidone, che punì Laocoonte per essersi sposato contro la volontà divina. I Troiani presero questo come un segno, tenendo così il cavallo tra le loro mura.
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### Titolo: Laodamante (figlio di Antenore).\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Laodamante era uno dei figli di Antenore di Troia.\nPartecipò alla guerra di Troia comandando un corpo di fanti; cadde in combattimento nel decimo anno di conflitto.
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### Titolo: Laodamia.\n### Descrizione: Laodamia (in greco antico: Λαοδάμεια?, Laodámeia) è un personaggio della mitologia greca. Fu una principessa di Iolco.\n\nGenealogia.\nFiglia di Acasto e (probabilmente) di Astidamia, sposò Protesilao.\nNon risulta che fossero nati figli dal matrimonio.\n\nMitologia.\nSubito dopo il matrimonio, il marito partì per la guerra di Troia e quando la flotta greca rimase bloccata ad Aulide nell'attesa dei venti favorevoli, Laodamia gli scrisse una lettera in cui lo metteva in guardia dai nemici troiani ed in particolar modo da Ettore.\n\nLaodamia, venuta a conoscenza della morte del marito in battaglia, supplicò gli dei di poterlo rivedere un'ultima volta, così gli dei incaricarono Ermes di farlo risalire dall'Ade affinché potesse stare tre ore con la moglie e, passato quel tempo, di farlo ritornare nell'Ade.\nAllo scadere delle tre ore, Laodamia non resse al dolore di perderlo per sempre e così fece fare una statua di bronzo (o di cera) ad immagine del marito e la mise nella camera nuziale per dedicargli i riti sacri.\nUn giorno, un servo che le portava della frutta da offrire alla statua, sbirciò attraverso una fessura e la vide intenta ad abbracciare e baciare la statua del marito e pensando che stesse con un amante, andò a riferirlo ad Acasto (il padre di lei) che si precipitò nella camera e vide l'effigie di Protesilao. Così, e con l'intento di far cessare le sofferenze della figlia, lui ordinò d’innalzare una pira e di bruciarvi sopra la statua ma Laodamia, non reggendo al dolore, vi si gettò sopra e fu arsa viva.\nSecondo Pausania, i Canti Ciprii chiamavano Polidora la moglie di Protesilao.\n\nLa figura di Laodamia nell'arte e nella letteratura moderna.\nProtesilao e Laodamia - tragedia di Stanisław Wyspiański.
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### Titolo: Laodice (figlia di Priamo).\n### Descrizione: Laodice (in greco antico Λαοδίκη) è un personaggio della mitologia greca e una delle cinque figlie di Priamo e di Ecuba.\nA volte è citata anche con i nomi di Astioche o Iera.\n\nMitologia.\nMoglie di Telefo.\nOmero nomina Laodice come 'la più bella delle figlie di Priamo' . Il padre l'aveva assegnata in sposa a Telefo, figlio di Eracle e re di Misia.\nScoppiata la guerra di Troia, Telefo, che era stato sconfitto dagli Achei durante l'assalto nei suoi territori, rifiutò di aiutare Priamo nella guerra, giustificando il fatto di aver sposato sua figlia Laodice e dichiarando la sua neutralità cosicché evitò uno spergiuro.\n\nL'amore per Acamante.\nUn'altra tradizione racconta che, all'inizio della guerra, quando Laodice era ancora nubile, gli Achei inviarono a Troia un'ambasciata per reclamare Elena, fuggita con Paride da Sparta. Come araldi in città furono inviati Diomede e Acamante, figlio di Teseo e, intravisto quest'ultimo, Laodice se ne innamorò perdutamente e desiderò violentemente intrecciare un rapporto sessuale con lui e non potendo serbare il suo amore, si confidò con Filobia, la quale acconsentì ad aiutarla.\nFilobia chiese al proprio marito, re di Dardano nella Troade, di imbandire nella sua città un banchetto e di invitarvi i due giovani. Il marito accettò e, esaudendo le richiesta della moglie, fece sedere Laodice e Acamante una di fronte all'altro.\nLui la scambiò così per una cortigiana del seguito di Priamo e acconsentì a unirsi a lei rendendola incinta di un figlio (Munito). Laodice però non volle allevarlo e lo affidò a una serva di Elena nella casa di Priamo, Etra, madre di Teseo, e quindi bisnonna del piccolo.\n\nGuerra di Troia.\nNell'Iliade.\nNel poema omerico Laodice è moglie di Elicaone, un figlio di Antenore, durante i dieci anni di guerra che coinvolsero Troia e i suoi abitanti.\nNel III libro dell'Iliade Iride, la messaggera degli dei assunse l'aspetto della figlia di Priamo per parlare a Elena e incitarla a raggiungere le mura della città per assistere al duello tra Paride e Menelao.\nQuando poi suo fratello Ettore ritornò a Troia per parlare con sua madre Ecuba, egli incontrò Laodice nello stesso momento in cui la regina stava per raggiungerla.\n\nLa morte.\nLa notte della conquista di Troia, Laodice fuggì davanti agli inseguitori, rifugiandosi nel santuario dell'antenato Troo, dove si trovavano le tombe di Cilla e Munippo: ma all'improvviso la terra si aprì in una voragine che la inghiottì sotto gli occhi degli astanti.\nSecondo altri venne fatta prigioniera dai greci e data come schiava a uno degli achei.
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### Titolo: Laotoe.\n### Descrizione: Laotoe è una figura mitologica greca.\nLaotoe era figlia di Alte, re dei Lelegi. Fu moglie, come Ecuba ed Arisbe, di Priamo, e divenne madre di Licaone e Polidoro (da non confondere con l'omonimo figlio di Priamo ed Ecuba).\nEntrambi i suoi figli furono uccisi da Achille nella guerra di Troia, lo stesso giorno; ma mentre il cadavere di Polidoro poté essere onorato con esequie solenni, per Licaone non fu possibile alcuna cerimonia funebre, in quanto il suo assassino ne aveva gettato il corpo nello Scamandro.
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### Titolo: Lara (divinità).\n### Descrizione: Larunda (o anche Larunde, Laranda, Lara ) era la Dea latina del silenzio, associata alle Dee italiche Tacita o Muta.\nNei Fasti di Ovidio, Lara è una naiade, figlia del fiume Almone.\n\nMitologia.\nLa mitografia legata a Lara è piuttosto scarsa.\nLa principale fonte a noi nota in cui è presente la figura della dea Lara sono i Fasti di Ovidio. Nel poema ovidiano, Lara è una ninfa figlia del fiume Almo, famosa sia per la sua bellezza che per la sua loquacità (tratto che i genitori della ninfa, per il suo stesso bene, cercavano di frenare). Fu proprio l'irrefrenabile parlantina di Lara a determinarne la sventura: incapace di mantenere i segreti, Lara rivelò alla dea Giunone la relazione che il marito, Giove, aveva da tempo con Giuturna (anch'ella ninfa come Larunda e moglie di Giano).\nGiove, per punirla del suo tradimento le tagliò la lingua e ordinò a Mercurio, lo psicopompo, di condurla nell'Averno, la porta degli Inferi e regno di Plutone. Mercurio, tuttavia, si invaghì di Lara e la violentò, approfittando della costrizione di lei al silenzio: Lara divenne così madre di due bambini, che sarebbero diventati le divinità domestiche conosciute come i Lari; per il resto della sua vita, Lara dovette rimanere in una casa nascosta nei boschi di modo che Giove non la trovasse e portasse a termine la punizione, riconducendola negli Inferi.\nPer le diverse somiglianze e punti in comune, Larunda è associata alle dee minori Muta 'la muta ' e Tacita 'la silenziosa', appartenenti alla mitologia italica .\n\nEtimologia.\nIl nome di Lara è probabilmente legato al greco λαλέω (laleo, 'parlare'), in riferimento alla loquacità della ninfa, sua caratteristica distintiva e che si rivelerà anche la sua condanna .\nUna seconda ipotesi vede l'etimologia del nome Lara da ricondursi al latino lār ('casa', 'dimora'), essendo i Lari le divinità protettrici della famiglia e della casa.\n\nCulto.\nOvidio menziona il mito di Lara e Mercurio in connessione con la festa di Feralia il 21 febbraio .\nLara/Larunda viene anche talvolta associata ad Acca Larentia, la cui festa erano i Larentalia, celebrati il 23 dicembre.
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### Titolo: Lastra marmorea dei Niobidi.\n### Descrizione: La Lastra marmorea dei Niobidi è un bassorilievo di piena età imperiale realizzato in marmo pentelico e conservato presso il Museo civico di Modena.\n\nRinvenimento.\nLa lastra è stata scoperta a Modena nel 1971 a circa 2,50 metri di profondità, nel corso di lavori edilizi in via Crespellani, a circa cento metri a nord della via Emilia. Fu rinvenuta a soli due metri di distanza da una tomba a cassa laterizia coperta da una stele funeraria iscritta datata tra 171 e 230 d.C. Le condizioni di ritrovamento della lastra fanno supporre un suo utilizzo come elemento di reimpiego nella necropoli tardoantica sviluppata lungo la via Emilia a est di Mutina (nome latino di Modena), ma non consentono di definire la tipologia di edificio in cui essa era originariamente inserita. Considerando sia il contesto sepolcrale di rinvenimento sia il tema raffigurato, attestato anche su sarcofagi di II secolo d.C., il rilievo viene generalmente attribuito a un edificio funerario. Tuttavia, potrebbe trattarsi anche di un elemento proveniente da un edificio urbano o suburbano.\n\nDescrizione.\nIl rilievo viene considerato opera di una bottega di tradizione neoattica e datato tra I e II secolo d.C. o in età adrianea-antonina.\nA partire da sinistra vi sono rappresentati: una giovane vestita di un peplo che fugge verso destra, un fanciullo inginocchiato nell’atto di estrarre una freccia dal dorso, un giovane in fuga verso destra raffigurato di spalle mentre porta la mano destra nel punto in cui il dardo lo ha colpito, una fanciulla protesa in un atto di supplica verso la figura maschile seduta sulle rocce (nella quale si è riconosciuto il padre Anfione). Le figure poggiano sul terreno ondulato e roccioso inserito quasi in continuità sulla cornice di base. Il gruppo d'insieme raffigurato risultava inedito nelle attestazioni iconografiche del mito fino alla scoperta del rilievo modenese.\nQuesto esemplare fa parte della serie di rilievi a sviluppo orizzontale, privi di sfondo, in cui sono riprodotte le figure dei Niobidi (delle dimensioni di circa 40 cm), rielaborazioni di quelle presenti sul fregio realizzato da Fidia per la decorazione del trono di Zeus di Olimpia. La lastra presenta una cornice a sezione rettangolare e restano visibili sia gli incavi per l’incastro di grappe che la tacca per l’inserimento di elementi di fissaggio alla struttura monumentale originale.
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### Titolo: Le 7 facce del Dr. Lao.\n### Descrizione: Le 7 facce del Dr. Lao (7 Faces of Dr. Lao) è un film statunitense del 1964 diretto da George Pal (fu la sua ultima regia) e interpretato da Tony Randall. Il film, adattamento del romanzo del 1935 Il Circo del Dr. Lao di Charles G. Finney, liberamente adattato per il cinema da Charles Beaumont, racconta la visita di un circo magico in una piccola città del sud-ovest degli Stati Uniti, e soprattutto i suoi effetti sugli abitanti.\n\nTrama.\nNegli anni intorno alla Grande Depressione o immediatamente successivi, il dottor Lao giunge nella cittadina immaginaria di Abalone, in Arizona, cavalcando un asino dorato (che si presume sia l'asino d'oro di Apuleio), e visita il giornale di Edward Cunningham, il Crusading, per pubblicare una grande pagina pubblicitaria per il suo circo itinerante, che si esibirà in città solo per due serate.\nAnche se tranquilla, Abalone non è una cittadina pacifica. Il ricco allevatore Clinton Stark ha ricevuto informazioni riservate sull'arrivo di una linea ferroviaria e intende acquistare l'intero territorio cittadino finché il terreno è a buon mercato. Stark arriva negli uffici del giornale per discutere con Cunningham di un suo recente editoriale decisamente contrario al piano di Stark. Il dr. Lao, in attesa di pubblicare il suo annuncio, ascolta in silenzio l'incontro.\nUn'altra degli oppositori di Stark è Angela Benedict, un'insegnante vedova che è la bibliotecaria della cittadina. Cunningham mostra affetto per lei, mettendola in imbarazzo durante una visita alla biblioteca per fare ricerche sul passato del dr. Lao, ma lei reprime i propri sentimenti simili verso di lui.\nNel corso di una riunione cittadina, Stark annuncia che la condotta idrica della cittadina, lunga 16 miglia, si sta deteriorando e che la sua sostituzione avrebbe un costo proibitivo, e quindi si offre di comprare tutte le proprietà cittadine a buon prezzo. Per opporsi all'offerta, Cunningham presenta George G. George, un indiano Navajo che vive nelle vicinanze in un insediamento i cui abitanti dipendono dall'esistenza di Abalone. Stark, a malincuore, concede che i cittadini riflettano sulla loro scelta fino al venerdì sera successivo.\nIl giorno dopo, Cunningham affronta il dr. Lao nell'area dove si è insediato il circo, sostenendo che la sua città natale è scomparsa secoli prima, ma il misterioso dr. Lao svia le domande di Cunningham. Più tardi, Mike, il giovane figlio di Angela, giunge a sapere che Lao ha 7.321 anni.\nAll'apertura del circo, il dr. Lao usa i propri tanti volti, tra cui quelli di Pan (il dio dell'allegria), del Grande Serpente Marino, di Medusa e del mago Merlino, per offrire perle di saggezza. A un certo punto Mike si incontra con il dr. Lao in cerca di un lavoro, mettendo in mostra le sue abilità di giocoliere e prestigiatore alle prime armi. In risposta, il dr. Lao offre osservazioni sotto forma di un discorso poetico sul mondo e sulla vita come circo.\nSi apprende che durante la prima nottata dell'esibizione del circo (in cui Angela era rimasta sveglia, tormentata dalla musica che Pan suonava, inaudibile per chiunque altro) gli scagnozzi di Stark hanno distrutto la sede del giornale. All'alba, però, i giornalisti scoprono con stupore che il loro ufficio è stato completamente ripristinato e la tipografia è in funzione. Attribuendo l'accaduto al dr. Lao, si affrettano a produrre un'edizione breve del giornale, che Cunningham stesso consegna a Stark in mattinata. Quando visita il sito del circo, il dr. Lao offre il proprio incoraggiamento e invita Cunningham a mantenere la fede.\nQuella sera, il dr. Lao mette in scena il suo gran finale, uno spettacolo di lanterne magiche che racconta la storia del regno di Woldercan, un tempo felice, distrutto dalla meschinità e dall'avidità dei suoi abitanti. Gli abitanti di Abalone sono dapprima felici di vedersi rappresentati nella visione, ma poi si sentono castigati quando questa procede verso la fine della mitica civiltà tra esplosioni e oscurità.\nI cittadini si ritrovano di nuovo nella biblioteca per l'assemblea cittadina. La proposta di Stark viene messa ai voti e, con grande sorpresa di Cunningham, Benedict e Stark, viene respinta all'unanimità. Stark racconta a tutti dell'imminente ferrovia, mentre Angela confessa il suo amore a Cunningham.\nGli scagnozzi di Stark sono confusi dal suo apparente cambiamento di carattere, e pensando di avere inteso male mettono a soqquadro il circo di Lao in una baraonda di ubriachi, durante la quale rompono anche la boccia del pesce del dottor Lao. Però il pesce che si trovava al suo interno si rivela essere il Mostro di Loch Ness, che quando viene esposto all'aria aperta raggiunge dimensioni enormi. Dopo aver scacciato i due teppisti, il dottor Lao evoca la pioggia per bagnare il mostro e ridurlo alle sue dimensioni originali.\nArriva il mattino e il circo non c'è più, resta solo un cerchio rosso sul pavimento del deserto dove c'era il tendone. In un primo momento i resoconti di Mike sulla notte precedente non vengono creduti, ma Stark trova il cappello di uno degli scagnozzi. Mike nel frattempo insegue un pennacchio di polvere che gli sembra essere lo spirito del dottor Lao, ma trova solo tre palline di legno, che fa giocolare mentre evoca lo spirito di Lao per osservarlo.\nIl dottor Lao si allontana mentre si ripete il suo consiglio di due sere prima, ricordando a Mike che il circo del dottor Lao è la vita stessa e che ogni cosa al suo interno è una sorpresa.\n\nProduzione.\nIl romanzo originale fu pubblicato nel 1935. Molto tempo dopo, i diritti cinematografici furono acquistati da George Pal, il quale nell'aprile 1961 disse che Charles Beaumont stava scrivendo una sceneggiatura. Pal affermò in seguito: 'Ha una mente stravagante come la mia'.Nel settembre 1961, Pal disse che il protagonista sarebbe stato Laurence Harvey. Nel dicembre 1961, anche Terry-Thomas fu collegato al progetto. Nel giugno 1962, la Metro-Goldwyn-Mayer annunciò invece che il protagonista del film sarebbe stato Rod Taylor.Secondo le note del CD della colonna sonora di Leigh Harline pubblicato da Film Score Monthly, la prima scelta di Pal per il ruolo del Dr. Lao era Peter Sellers, che era molto interessato al ruolo. Tuttavia, la MGM aveva sotto contratto Tony Randall e voleva utilizzarlo nel film, poiché costava 50.000 dollari in meno. Nel giugno 1963, venne finalmente annunciato che Randall avrebbe interpretato il protagonista. Le riprese iniziarono il 15 luglio 1963.Lo 'spettacolo di Woldercan' che il Dr. Lao presenta come gran finale del suo circo contiene molte riprese di una precedente produzione di George Pal, Atlantide, il continente perduto (1961), oltre ad alcune riprese di lava fluente tratte da L'uomo che visse nel futuro (The Time Machine, 1960) e a filmati di distruzione tratti dal repertorio della produzione MGM di Quo Vadis (1951). Nel film possono essere notati la sfera di cristallo e la grande clessidra usate dalla malvagia Strega dell'Ovest ne Il mago di Oz (1939). Nella scena in cui Mike fa visita a Lao di notte, si vede una tartaruga a due teste che in seguito apparirà in diversi episodi de La famiglia Addams.\nNel gennaio del 1965 la MGM annunciò che Randall sarebbe tornato a vestire i panni del Dr. Lao in un sequel, che però non si concretizzò.\n\nAccoglienza.\nLe 7 facce del Dr. Lao è stato accolto positivamente da numerosi critici cinematografici. Rotten Tomatoes, un sito di recensioni cinematografiche, riporta che 6 recensioni su 7 sono positive, con valutazione media pari a 86%. Howard Thompson del New York Times ha definito il film 'pesante, denso, un fantasy in miniatura, martellato su un'incudine'.\nLe 7 facce del Dr. Lao in USA e Canada incassò nella normale programmazione 1,25 milioni di dollari (Si noti che questa cifra si riferisce ai noleggi dei distributori e non all'incasso totale), eppure, nel 1974, Pal dichiarò che esso era stato l'unico dei suoi film a perdere soldi al botteghino, anche se nel frattempo ha recuperato i costi grazie ai diritti di trasmissione televisiva.\n\nRiconoscimenti.\nWilliam Tuttle ricevette un Oscar onorario per il suo lavoro sul trucco (fu il primo dei due soli Oscar onorari assegnati per questa specialità; l'altro andò a John Chambers nel 1968 per Il pianeta delle scimmie). Fu candidato al premio Oscar anche Jim Danforth per l'animazione dei modelli del Mostro di Loch Ness, del Serpente Marino e dei capelli di Medusa.
@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Le Argonautiche.\n### Descrizione: Le Argonautiche (in greco antico: Τὰ Ἀργοναυτικά?) sono un poema epico in greco antico scritto da Apollonio Rodio nel III secolo a.C.. Unico poema di età ellenistica sopravvissuto, esso racconta il mitico viaggio di Giasone e degli Argonauti per recuperare il Vello d'oro nella remota Colchide. Le loro eroiche avventure e la relazione di Giasone con la pericolosa Medea, principessa e maga colchiana, erano già ampiamente note al pubblico Ellenistico, permettendo così ad Apollonio di superare la semplice narrazione, per presentare un'esposizione che aderisca ed enfatizzi i valori dei suoi tempi - l'età della grande Biblioteca di Alessandria - mentre la sua epica incorpora la sua ricerca nei campi della geografia, dell'etnografia, delle religioni comparate, della letteratura omerica. Comunque, il suo principale contributo alla tradizione epica risiede nell'evoluzione dell'amore tra l'eroe e l'eroina: egli sembra esser stato il primo poeta epico a studiare la «patologia d'amore». Le Argonautiche ebbero un profondo impatto sulla poesia latina: tradotte da Varrone Atacino e imitate da Valerio Flacco, influenzarono Catullo e Ovidio, e indicarono a Virgilio un modello per il suo poema romano, l'Eneide.\n\nAntefatto.\nL'antefatto remoto, che Apollonio non espone, è il mito dei fratelli Elle e Frisso, figli del re di Orcomeno Atamante, che, per sfuggire ai maltrattamenti della matrigna, fuggono sul dorso di un montone dal vello d'oro che li conduce in volo attraverso il mare; durante la traversata Elle cade e muore in quello stretto che porta il suo nome (Ellesponto). Giunto in Colchide, Frisso sposa Calciope (figlia del sovrano locale) e immola il montone affidando il vello d'oro a un drago, che veglia giorno e notte sulla spoglia.\n\nTrama.\nL'opera è suddivisa in quattro libri, per un totale di 5836 versi in esametri.\n\nLibro primo.\nInvocazione a Febo e alle Muse - Motivo della spedizione (1-22)Nella città di Iolco, in Tessaglia, il re Pelia ha assunto il comando su tutta la regione, dopo aver spodestato il fratello Esone. Un oracolo gli ha predetto di guardarsi da un ragazzo che è senza un sandalo, perché quel giovane lo spodesterà. Giasone, il figlio di Esone, costretto ad allontanarsi per non essere ucciso, superati i vent'anni, ritorna a Iolco. Giunto al guado del fiume Anauro, trova una vecchia che non riesce ad attraversarlo. La porta in braccio in mezzo ai flutti e nel fango perde un sandalo. Quando Pelia si vede davanti Giasone, il ragazzo senza un sandalo, decide di sbarazzarsene e gli affida un'impresa ritenuta impossibile: raggiungere la Colchide e conquistare il Vello d'oro.\n\nRassegna degli eroi (23-231)Giasone raduna un nutrito gruppo di giovani valorosi (circa cinquanta eroi):.\nil poeta e cantore Orfeo, Asterione, Polifemo figlio di Elato, Admeto, signore di Fere, i ricchissimi figli di Ermes, esperti di inganni, Erito e Echione e Etalide, Corono, figlio di Ceneo, Mopso Titaresio, l'indovino, Eurimadante, Menezio, Eurizione e il possente Eribote, Oileo, Canto dall'Eubea, destinato a perire prima del ritorno, Clizio e Ifito, Peleo, il genitore di Achille, e suo fratello Telamone, padre di Aiace, il fortissimo Bute e il valoroso Falero, i Dioscuri, Polluce e Castore, Eracle con il suo scudiero Ila, Tifi, il timoniere, Argo di Tespi, figlio di Arestore, il costruttore della nave, Fliante, Taleo, Areo, Leodoco, Nauplio, Idmone, altro indovino, Augia, orgoglioso della sua ricchezza, Meleagro, molto forte e con lui Lacoonte, Ificlo, zio materno di Giasone e Ificlo, figlio di Testio, esperto nel giavellotto, Palemonio, storpio, Asterio, Anfione, Eufemo, il più veloce di tutti, Anfidamante e Cefeo, Anceo, vestito di una pelle d'orsa e armato di una scure a doppio taglio, il tracotante Ida e suo fratello Linceo, dalla vista acutissima, Periclemo, dal potere di mutarsi in ciò che voleva in battaglia, Zete e Calais, i due figli di Borea, Acasto figlio di Pelia e altri ancora.\n\nCongedo (232-316).\nPreparativi al porto e sacrificio a Febo (317-518).\nInizio della navigazione (519-608).\nL'isola di Lemno (609-909)Partiti dalla Grecia, dal porto di Pagase, gli Argonauti giungono sull'isola di Lemno per fare rifornimento. Le donne dell'isola hanno ucciso tutti gli uomini con l'eccezione di Toante, il padre di Ipsipile, che ora è regina.\nNonostante le nuove leggi dell'isola impongano alle donne di uccidere gli Argonauti appena sbarcati, Ipsipile decide di risparmiarli, a condizione che gli uomini della spedizione si uniscano a loro per concepire dei figli: le abitanti di Lemno temono infatti per la sopravvivenza della loro gente, visto che non vi sono uomini con cui accoppiarsi. Gli Argonauti accettano la proposta e si trattengono sull'isola fino a quando Eracle richiama all'ordine i compagni e li convince a proseguire il viaggio.\n\nDa Samotracia al paese dei Dolioni (910-1077)Il re Cizico accoglie ospitalmente gli eroi, che riescono anche a sconfiggere i Giganti prima di ripartire. L'episodio si conclude però in maniera infelice perché una tempesta riporta indietro la nave e di notte, senza riconoscersi, gli Argonauti e i Dolioni combattono fra di loro e il re Cizico muore.\n\nLa Misia (1078-1363)Argo riparte, ma dopo pochi giorni di navigazione, Eracle, che ha rotto il remo, per procurarsi il legno adatto a costruirne un altro, sbarca a terra e nel bosco il suo giovane amico Ila, mandato a prendere acqua, sparisce rapito dalla ninfa della fonte. Nel frattempo gli Argonauti salpano senza accorgersi dei compagni rimasti a terra.\n\nLibro secondo.\nIl paese dei Bebrici (1-163)Amico, re dei Bebrici, sfida nel pugilato tutti coloro che giungono nel suo paese. Polluce accetta la sfida, vince e uccide il re. I Bebrici, per vendicarlo, affrontano gli eroi in battaglia, ma vengono sconfitti.\n\nLa terra di Bitinia (164-530)Giasone e gli Argonauti approdano nella terra dell'indovino Fineo. Una maledizione è stata scagliata dagli dèi sul luogo: gelosi infatti della straordinaria capacità che Fineo ha nel predire gli avvenimenti lo hanno punito rendendolo balbuziente e cieco; per di più gli hanno abbattuto il palazzo e hanno inviato alla sua mensa le mostruose Arpie, che gli insozzano il cibo con i loro escrementi. Giasone e i compagni in breve tempo uccidono i mostri alati e si fanno predire dal vecchio le loro prossime tappe.\n\nLe Simplegadi (531-647)La nave degli Argonauti giunge nello stretto delle Simplegadi, enormi scogli che cozzano continuamente fra di loro, distruggendo inevitabilmente qualunque nave tenti di passarci in mezzo. Purtroppo, non vi è altra strada possibile. Giasone segue i consigli di Fineo e fa volare in avanti una colomba in modo che esse si chiudano; quando si riapriranno la nave tenterà il passaggio. Grazie all'aiuto di Atena, la nave Argo riesce ad attraversare lo stretto, anche se subisce qualche danno alla parte posteriore.\n\nPonto Eusino (648-751)La navigazione prosegue lungo le coste del Ponto Eusino. Apparizione di Apollo sull'isola di Tinia.\n\nIl paese dei Mariandini (752-929)Gli Argonauti sono ospitati dal re Lico. L'indovino Idmone è ucciso da un cinghiale, il timoniere Tifi muore per malattia. Tifi viene sostituito da Anceo e al momento della partenza si unisce agli Argonauti anche Dascilo, figlio di Lico, che può assicurare una buona accoglienza presso i popoli vicini.\n\nLa terra delle Amazzoni e l'isola di Ares (930-1285)Gli Argonauti hanno contatti con i Calibi, i Tibareni e i Mossineci. L'isola di Ares è infestata da uccelli che sono cacciati dagli Argonauti. Incontro con i figli di Frisso, che sono naufragati in viaggio verso la Colchide e che, d'ora in poi si uniscono agli eroi. Oltrepassata l'isola Filireide, arrivano al fiume Fasi.\n\nLibro terzo.\nInvocazione alla Musa Erato (1-5)Gli Argonauti, giunti finalmente nella Colchide, si appostano in un canneto.\n\nLe dee in aiuto di Giasone (6-166)Le dee Era ed Atena si recano da Afrodite affinché persuada il figlio Eros a far innamorare la figlia di Eeta, Medea, di Giasone: le arti magiche della fanciulla possono dare un aiuto decisivo per la conquista del vello.\n\nAlla reggia di Eeta (167-441)Gli Argonauti decidono di tentare di convincere Eeta a cedere il vello e si recano con i figli di Frisso, Telamone e Augia alla sua reggia. Eeta, furioso per la sfida di Giasone, gli impone una prova difficilissima: aggiogare tori enormi dagli zoccoli di bronzo, che soffiano fuoco dalle narici e dalla bocca e seminare dei denti di serpente nella terra arata e poi uccidere i giganti che ne nascono. Per non parlare poi del drago insonne! Giasone accetta la prova.\n\nMedea innamorata (442-1162)Medea, ferita da Eros e ormai perdutamente innamorata, si tormenta per tutta la notte che precede il giorno della sfida. Usa le sue arti magiche e prepara delle pozioni per proteggere Giasone.\n\nSuperamento della prova (1163-1407)Giasone, protetto da un liquido che lo rende invulnerabile, aggioga i buoi che gli sputano fuoco e fiamme, e poi, quando è il momento di uccidere i giganti, getta una pietra lontano affinché costoro, per averla, si uccidano a vicenda.\n\nLibro quarto.\nInvocazione alla musa (1-5).\nConquista del vello (6-182)Medea con un filtro potente addormenta il drago e Giasone si impadronisce del vello d'oro.\n\nFuga dalla Colchide (183-618)La nave Argo salpa con Medea a bordo. Gli Argonauti si dirigono verso l'Istro e ne seguono il corso, ma i Colchi guidati da Apsirto, fratello di Medea, riescono ad arrivare al mare di Crono prima di loro e tagliare le vie di fuga. Giasone e Medea ordiscono contro Apsirto un inganno: lo attirano con dei doni e lo uccidono.\n\nAll'isola di Circe (619-752)L'assassinio necessita della purificazione: Medea e Giasone giungono supplici da Circe e vengono purificati, ma non possono restare.\n\nLe Sirene, Scilla e Cariddi, e le Plancte (753-963)Quando gli Argonauti riprendono la navigazione, devono affrontare numerose insidie: le Sirene, Scilla e Cariddi, e le Plancte.\n\nLa Sicilia e i pascoli delle vacche del Sole (964-981).\nL'isola dei Feaci (982-1227)Gli Argonauti sbarcano sull'isola dei Feaci, da Alcinoo, a cui raccontano la loro storia. Giunge sull'isola anche un altro gruppo di Colchi, che reclama la restituzione di Medea. Alcinoo non vuole la guerra, ma decide che la ragazza vada consegnata al padre solo se è ancora vergine. Arete, sposa di Alcinoo, informa Giasone della decisione del consorte. Per evitare che Medea debba tornare dal padre, vengono quindi celebrate le nozze di Giasone e Medea. Ciò avviene nella grotta un tempo abitata da Macride, figlia di Aristeo, con la partecipazione delle ninfe e degli eroi.\n\nLibia (1228-1637)Una tempesta spinge la nave Argo verso le coste della Libia, dove si insabbia nella Sirte. Le eroine protettrici della Libia soccorrono però gli eroi greci, che sono tuttavia costretti a trasportare la nave attraverso il deserto fino al lago Tritonide, dove può riprendere la navigazione. Lo sforzo immenso del trasporto spinge gli eroi a cercare una fonte: viene d'aiuto quella fatta scaturire il giorno prima da Eracle, indicata agli eroi dalle Ninfe Esperidi, appena private dei pomi d'oro. La ricerca di Eracle non dà però frutto, mentre muoiono gli Argonauti Canto e Mopso. La navigazione riprende e con difficoltà gli eroi escono dal lago Tritonide.\n\nCreta e ritorno in patria (1638-1781)Nella terra di Creta Medea affronta un mostro di ferro chiamato Talo: una guardia meccanica che uccide con palle di bronzo infuocato i visitatori stranieri. Medea fa impazzire Talo con i suoi filtri, quest'ultimo urta la caviglia (unico suo punto debole) su uno spunzone di pietra e muore. Con una degna supplica al dio Apollo, alla fine, Giasone viene ricondotto sano e salvo con la nave degli Argonauti a Iolco.\n\nOrganizzazione spazio-temporale.\nLo spazio.\nLa struttura del poema ha un carattere chiuso e circolare: il punto di partenza e la meta del viaggio coincidono. Gli Argonauti infatti compiono un’impresa per la quale non si sentono motivati, così che il loro vero obiettivo è tornare in Grecia. È proprio l’ἀμηχανία (amechania), ovvero l’incertezza e la mancanza di motivazioni, a dominare buona parte del poema e a costituire il primo motivo di distacco dal modello omerico.\nL’incertezza si riflette pure nei luoghi che gli Argonauti attraversano, dall’atmosfera onirica e surreale, nella quale sembrano sovvertite tutte le leggi naturali; la stessa Colchide è un ‘universo capovolto’ in cui abitano popoli dalle assurde usanze (Calibi, Tibareni, Mossineci), in cui le giovinette sono maghe potenti e in cui la semina dei denti di drago produce un raccolto inconsueto e spaventoso.\n\nIl tempo.\nCosì come lo spazio chiuso in se stesso, anche il tempo trova l’intersezione di più piani cronologici, di modo che passato, presente e futuro sono contenuti l’uno nell’altro. Si tratta di una acronìa diversa dalla atemporalità omerica: in Omero infatti la vicenda comincia in medias res e si colloca in una dimensione remota che riflette il presente, mentre in Rodio la vicenda è autonoma dal presente e il ritmo narrativo va facendosi sempre più accelerato, così che in pochi versi sono concentrati i più svariati eventi.\n\nAdesione alla Poetica di Aristotele e influssi tragici.\nLe Argonautiche di Apollonio rispecchiano i canoni aristotelici di unità di azione (trattano un solo argomento), luogo (la vicenda è narrata dall'inizio alla fine ed anche con chiusura ciclica) e tempo; quest'ultimo punto veniva precisato da Aristotele il quale affermava che una narrazione epica avrebbe dovuto trattare una materia dominabile dalla mente del lettore e più precisamente doveva essere lunga come il «numero di tragedie ammesse a un'unica audizione».\nTuttavia la critica contemporanea ha voluto sottolineare le affinità col dramma non tanto per la forma delle Argonautiche, quanto per il contenuto, per l'atmosfera particolare dal carattere cupo e quasi allucinato. In tal modo Apollonio dimostra di guardare non tanto al poema eroico, quanto alla rilettura di esso effettuata dalla tragedia, fortemente connotata in senso psicologico ed esistenziale, e lontana dalla dimensione dell'epos.\nLa tradizione, a causa della precisione con cui Apollonio riprende le indicazioni dell'epos tradizionale, ha portato a definirlo uno dei più accesi avversari di Callimaco, nonostante oggi si tende a trattare questa definizione come un preconcetto: il nome di Apollonio non è registrato fra quelli dei cosiddetti Telchini e le Argonautiche non rappresentano affatto una negazione dei princìpi estetici callimachei, ma ne costituiscono al massimo il tentativo di andare oltre la frammentarietà dell'esilio. Tornare a Omero passando attraverso la lezione di Callimaco è insomma l'obiettivo di Apollonio.\n\nRinnovamento dell'epos omerico.\nIn realtà i critici moderni tendono a rivalutare molto la qualità artistica e la posizione dello scrittore nella polemica alessandrina. La sua opera infatti non è esente dalla novità: con un abile labor limae egli fu in grado di riprendere in 6000 versi tutta la saga delle Argonautiche, facendo del suo poema un esempio di brevitas ed έκφρασις callimachee (ékfrasis: descrizione particolareggiata). Anche per questo Callimaco, il suo maestro, capì l'innovazione dell'impianto narrativo dell'opera e lo esentò dalle acute e pungenti critiche rivolte ai Telchini, tra i nomi dei quali, riportati dallo scolio fiorentino, Apollonio peraltro non compare.\nSi trovano anche sostanziali differenze da Omero per quanto riguarda le motivazioni dei personaggi: se gli eroi dei grandi poemi erano spinti da forti interessi personali o dall'onore, nelle Argonautiche predomina l'ἀμηχανία (amechanìa) ovvero una mancanza di spinte che muovano i personaggi. Giasone non ha alcun interesse del vello, spesso pensa di rinunciare all'impresa: gli altri eroi si mostrano spesso volubili e restii a proseguire.\nPer quanto riguarda lo stile, l’allontanamento dalla tradizione omerica è individuabile in tre principali fattori:.\nil rifiuto dello stile formulare: se Omero descrive sempre con parole identiche lo stesso fenomeno (ad esempio l’Aurora “dalle dita di rosa”), Rodio varia sempre il proprio registro. In particolare è frequente l’utilizzo dello scorcio, un metodo narrativo moderno che permette di sintetizzare e rimandare ad altri luoghi dell’opera, evitando scene già descritte;.\nnelle similitudini: Apollonio le adopera forse con più frequenza rispetto a Omero, ma ne prende le distanze scandendole su toni intimistici, tipici dell’arte ‘borghese’ di età alessandrina;.\nnella presenza dell’io narrante: se l’aedo omerico non esiste al di fuori del canto ed è anzi il suo stesso canto, Apollonio sottolinea invece il proprio ruolo intervenendo in prima persona e specificando l’originalità della propria opera. Il poeta si è infatti trovato davanti una materia (i “gloriosi fatti degli uomini antichi”) ereditati da una tradizione che egli si è assunto il compito di rinnovare.\n\nI personaggi.\nMedea.\nQuando Giasone colpisce Apsirto, Medea si copre il volto in un gesto ipocrita (aveva infatti già calcolato l’omicidio insieme all’amante); ma nel suo ultimo gesto il fratello raccoglie il suo stesso sangue e macchia di rosso il candido velo e il peplo di Medea: l’atto è quasi un rito di iniziazione che farà diventare la maga una portatrice di morte per il resto della sua vita.\nÈ questo gesto, la macchia sul velo dell’innocenza, a risolvere il conflitto fra pudore e desiderio amoroso della donna. Lo stesso nome della principessa e il modo in cui viene descritta da Apollonio è attraversato da ambiguità: Μήδεια (Medea) è da ricollegarsi al verbo μήδεσθαι (médesthai), che significa “prendersi cura” ma anche “macchinare”, così come il filtro per ammansire i tori è chiamato φάρμακον (phàrmakon) con il doppio significato di “rimedio” e di “veleno”.\nMedea infine incarna il tema del contrasto fra barbarie e civiltà: quando incontra Giasone al tempio di Ecate ella è consapevole della propria estraneità ai valori civili dell’eroe greco, e l’unica legge che conosce è quella di Eros, una forza che la possiede - nonostante le resistenze iniziali che l’avevano indotta addirittura a pensare al suicidio - e che la fa arrivare al tradimento del padre e all’uccisione del fratello.\nIl primo incontro con Giasone è descritto da Apollonio in modo simile al turbamento amoroso di Saffo del frammento 31 («E questo il cuore / mi fa scoppiare in petto // […] la lingua è spezzata, scorre esile / sotto la pelle subito una fiamma, / non vedo più con gli occhi, mi rimbombano / forte le orecchie»):.\n\nGiasone.\nGiasone è visto dai più come un eroe ‘moderno’ che adopera le armi dell’eloquenza e della seduzione, ignorando i conflitti interiori di Medea. Mentre Eeta rappresenta il potere assoluto e la barbarie, l’eroe greco è portavoce di un volere collettivo. Sente tuttavia la propria missione solo come un peso da cui liberarsi al più presto, e non nutre neppure particolare risentimento verso Pelia; anzi in seguito si rivela amaramente pentito di avere accettato quella missione («dovevo oppormi al comando di Pelia e rifiutare subito questo viaggio, se pure mi fosse toccato d’essere fatto a pezzi e morire nel modo più atroce», libro II, 624 ss.).\nInfine Giasone è portavoce della civiltà ellenistica, del greco posto a continuo contatto con una realtà ‘altra’ che lo spinge a diventare esperto del mondo come l’Ulisse dantesco, ma anche consapevole del vuoto in fondo alle cose e all’esistenza umana.\n\nLa lingua.\nLa lingua del poema presenta dei tratti specifici che riflettono la complessità del poema e la pluralità dei modelli letterari scelti dal poeta. La base della lingua del poema consiste, fondamentalmente, nel dialetto epico omerico (con influssi di Esiodo e degli Inni omerici), scelta imprescindibile per chiunque volesse comporre un poema epico. Tuttavia, il poeta non si limita a seguire il modello omerico, in quanto inserisce nella struttura linguistica del testo lemmi che, sulla base della nostra documentazione linguistica greca, non possiamo classificare come termini epici. Vi sono, dunque, vocaboli attestati nella poesia lirica, nel teatro attico (tragedia e commedia), nella prosa (sia erodotea che attica) e lemmi documentati unicamente in età ellenistica che Apollonio condivide con Callimaco, Teocrito, Arato e Licofrone. Notevole è, poi, il numero degli hapax sia lessicali che morfologici, aspetto che potrebbe essere il riflesso sia delle raffinate scelte linguistiche del poeta, sia della presenza di fonti e modelli altrimenti perduti. Dato il carattere artificiale delle lingue letterarie greche va precisato che dietro alle scelte linguistiche di Apollonio deve esserci sicuramente la consultazione di lessici (soprattutto della lingua omerica). Questi lessici venivano definiti glosse, ossia raccolte di termini rari e antiquati. Significativi sono anche i punti di contatto fra Apollonio e i D scholia, materiale esegetico al testo omerico risalente già all'epoca classica, che fanno pensare che Apollonio dovette consultare delle compilazioni simili a quelle confluite nei D scholia (si veda, a tal proposito, l'articolo di Antonios Rengakos, Apollonius Rhodius as a Homeric Scholar in T.D. Papanghelis, A.Rengakos, A Companion to Apollonius Rhodius, Leiden 2001, pp. 199–200). Notevole è anche il fatto che Apollonio, nel rielaborare la lingua omerica, riproduce nel poema gli hapax e i dis legomena (tendenza che è stata evidenziata dagli studi di Fantuzzi: Ricerche su Apollonio Rodio, Roma 1988 p. 26 e 42 segg.). Questi aspetti linguistici sono estremamente significativi anche per il fatto che ci mostrano l'interesse e l'approccio filologico del poeta, che, vale la pena ricordarlo, fu direttore (προστάτης) della Biblioteca di Alessandria dopo Zenodoto e prima di Eratostene. Questa notevole stratificazione linguistica nonché le raffinate riprese e allusioni al testo omerico pongono inevitabilmente il problema del pubblico delle Argonautiche. Benché nel contesto della corte dei Tolomei i poeti potessero diffondere parti delle proprie composizioni attraverso pubbliche letture, è molto probabile che il poeta, esattamente come gli altri poeti ellenistici contemporanei, pensasse a un dotto pubblico di lettori piuttosto che di ascoltatori (cfr. M. Fantuzzi, 'Homeric' Formularity in the Argonautica, in T.D. Papanghelis, A.Rengakos, A Companion to Apollonius Rhodius, Leiden 2001, p. 191).\n\nTradizione manoscritta e fortuna.\nLe Argonautiche furono molto ammirate nell'antichità e rappresentano per noi l'unico poema epico greco integro composto tra l'epoca dei poemi omerici e dell'Eneide di Virgilio. L'ammirazione e la fortuna del poema sono rappresentate sia dal notevole numero di papiri (una trentina che vanno dal III a.C. al I d.C.) e di manoscritti medievali (55 manoscritti che oscillano tra il X sec. e il XVI) sia dalle riprese e rielaborazioni tanto in ambito greco quanto in ambito latino. Di non semplice soluzione è il problema delle varianti testimoniate dai papiri (in particolare in P. Oxy. 2700 datato III a.C. e contenente I, 169-174; 202-243) rispetto al testo della tradizione medievale (sull'argomento cfr. G. Schade, P. Eleuteri, The Textual Tradition of the Argonautica, in T.D. Papanghelis, A.Rengakos, A Companion to Apollonius Rhodius, Leiden 2001, pp. 33–39).\nIn estrema sintesi va detto che i manoscritti medievali sono stati suddivisi in tre famiglie m, w, k (questa, in realtà, una sottofamiglia di w). Il più antico manoscritto di Apollonio, che appartiene alla famiglia m, è il Laurentianus gr. 32.9 (960-980 d.C.) che contiene anche le sette tragedie di Eschilo e di Sofocle. Notevole è anche la massa di commenti e scoli al testo di Apollonio. Teone di Alessandria (I sec. a.C.), Lucillo di Tarra (I sec. d.C.) Ireneo e Sofocle (forse II d.C.) realizzarono dei commenti al poema confluiti nei nostri scoli (K. Wendel, Scholia in Apollonium Rhodium vetera, recensuit Carolus Wendel, Berolini apud Weidmannos 1935), mentre si deve al poeta Mariano (V sec. d.C.) una parafrasi (perduta) in giambi.\nPer quanto concerne la fortuna del poema va detto che sono riscontrabili echi delle Argonautiche nell'Alessandra di Licofrone e nella tarda poesia epica greca (Trifiodoro, Quinto Smirneo, Nonno di Panopoli). Apollonio è anche il modello del poema anonimo Argonautiche orfiche (V d.C.), opera che rappresenta una rielaborazione in chiave orfica del poema ellenistico. Per quanto riguarda gli scrittori latini bisogna ricordare: Publio Terenzio Varrone 'Atacino' che fece una traduzione (di cui possediamo solo alcuni frammenti) in lingua latina del poema; Virgilio, che tenne presente le Argonautiche in particolare nella composizione del IV libro dell''Eneide', dove la figura di Didone trae esplicitamente spunto dalla Medea di Apollonio; Gaio Valerio Flacco, che lo prese a modello per il suo poema (Argonautica).\n\nTrasposizioni cinematografiche.\nGli argonauti (o I giganti della Tessaglia), regia di Riccardo Freda (1960);.\nGli argonauti 2, regia di Don Chaffey (1963).\n\nTraduttori italiani.\nLudovico Flangini, Roma, 1791-1794.\nCoriolano di Bagnolo, Torino, 1836.\nBaccio Dal Borgo, Nistri, Pisa, 1837.\nGiuseppe Rota, Milano, 1852.\nFelice Bellotti, Firenze, 1873.\nAnthos Ardizzoni, Adriatica Editrice, Bari, 1958; Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1967 [trad. integrale].\nGiuseppe Pompella, note e commento, vol I: Libri I-II, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli, 1968; vol. II: Libri III-IV, ivi, Napoli, 1970.\nEnrico Livrea, La Nuova Italia, Firenze, 1973 [trad. parziale].\nTeodoro Ciresola, Rivista di studi classici, Torino, 1975.\nGuido Paduano, introduzione e commento di G. Paduano e Massimo Fusillo, BUR-Rizzoli, Milano, 1986.\nAlberto Borgogno, Collana Oscar Classici greci e latini, Mondadori, Milano, 2003; ora Collana Oscar Classici, Mondadori, 2019.\nSonja Caterina Calzascia, Collezione Classici Greci e Latini, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2019, ISBN 978-88-180-3340-3.\nDaniele Ventre, Mesogea, Messina, 2020, ISBN 978-88-469-2194-9.
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### Titolo: Le Baccanti.\n### Descrizione: Le Baccanti (in greco antico: Βάκχαι?, Bákchai) è una tragedia di Euripide, scritta mentre l'autore era alla corte di Archelao, re di Macedonia, tra il 407 ed il 406 a.C. Euripide morì pochi mesi dopo averla completata.L'opera fu rappresentata ad Atene pochi anni dopo, probabilmente nel 405 a.C., sotto la direzione del figlio (o nipote) dell'autore, chiamato anch'egli Euripide. Venne messa in scena nell'ambito di una trilogia che comprendeva anche Alcmeone a Corinto (oggi perduta) e Ifigenia in Aulide. Tale trilogia di opere fruttò all'autore una vittoria postuma alle Grandi Dionisie di quell'anno.\n\nTrama.\nDioniso, dio del vino, del teatro e del piacere fisico e mentale in genere, era nato dall'unione tra Zeus e Semele, donna mortale. Tuttavia le sorelle della donna e il nipote Penteo (re di Tebe) per invidia sparsero la voce che Dioniso in realtà non era nato da Zeus, ma da una relazione tra Semele e un uomo mortale, e che la storia del rapporto con Zeus era solo uno stratagemma per mascherare la 'scappatella'. In sostanza, quindi, essi negavano la natura divina di Dioniso, considerandolo un comune mortale.\nNel prologo della tragedia, Dioniso afferma di essere sceso tra gli uomini per convincere tutta Tebe di essere un dio e non un uomo. A tale scopo per prima cosa ha indotto un germe di follia in tutte le donne tebane, che sono dunque fuggite sul monte Citerone a celebrare riti in onore di Dioniso stesso (diventando quindi Baccanti, ossia donne che celebrano i riti di Bacco, altro nome di Dioniso).\nQuesto fatto però non convince Penteo: egli rifiuta pervicacemente di riconoscere un dio in Dioniso, e lo considera solo una sorta di demone che ha ideato una trappola per adescare le donne. Invano Cadmo (nonno di Penteo) e Tiresia (indovino cieco) tentano di dissuaderlo e di fargli riconoscere Dioniso come un dio. Il re di Tebe fa allora arrestare lo stesso Dioniso (che si lascia catturare volutamente) per imprigionarlo, ma il dio scatena un terremoto che gli permette di liberarsi immediatamente.\nNel frattempo dal monte Citerone giungono notizie inquietanti: le donne che compiono i riti sono in grado di far sgorgare vino, latte e miele dalla roccia, e in un momento di furore dionisiaco si sono avventate su una mandria di mucche, squartandole vive con forza sovrumana. Hanno poi invaso alcuni villaggi, devastando tutto, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione. Dioniso, parlando con Penteo, riesce allora a convincerlo a mascherarsi da donna per poter spiare di nascosto le Baccanti. Una volta che i due sono giunti sul Citerone, però, il dio aizza le Baccanti contro Penteo. Esse sradicano l'albero sul quale il re si era nascosto, si avventano su di lui e lo fanno a pezzi. Non solo: la prima ad infierire su Penteo, spezzandogli un braccio, è sua madre Agave.\nQuesti fatti vengono narrati a Cadmo da un messaggero che è tornato a Tebe dopo aver assistito alla scena. Poco dopo arriva anche Agave, munita di un bastone sulla cui sommità è attaccata la testa di Penteo che lei, nel suo delirio di Baccante, crede essere una testa di leone. Cadmo, sconvolto di fronte a quello spettacolo, riesce pian piano a far rinsavire Agave, che infine si accorge con orrore di ciò che ha fatto. A quel punto riappare Dioniso ex machina, che spiega di aver architettato questo piano per punire chi non credeva nella sua natura divina, e condanna Cadmo e Agave a essere esiliati in terre lontane. Con l'immagine di Cadmo e Agave che, commossi, si dicono addio, si conclude la vicenda.\n\nCommento.\nUn'opera religiosa?.\nLe Baccanti è considerata una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi. In apparenza il suo messaggio è un monito a tutti gli uomini ad adorare sempre gli dei e a non mettersi contro di essi, e in effetti tradizionalmente quest'opera era sempre stata considerata un'opera religiosa, ossia la riscoperta della religione da parte di un autore che per tutta la vita era stato sempre considerato un laico. La tragedia tuttavia rivela forti ambiguità, rilevate soprattutto dalla critica degli ultimi decenni.\nInnanzitutto è da notare che le virtù che all'inizio dell'opera vengono attribuite al dio (capacità di alleviare le tensioni e le sofferenze degli uomini grazie al vino e ai piaceri fisici e mentali) vengono mostrate poco: Dioniso si dimostra una divinità assolutamente spietata nel punire chi non aveva creduto in lui, al punto di sterminare i suoi stessi parenti (Penteo era infatti cugino del dio, in quanto figlio di Echione e di Agave, sorella della madre di Dioniso, Semele), ed esiliare i sopravvissuti. Tutto questo per pura e semplice vendetta. Inoltre le stesse Baccanti appaiono molto più intente a compiere azioni violente (invadere villaggi, squartare mandrie di mucche e lo stesso Penteo) che non a celebrare la gioia dei riti di Dioniso. La stessa Agave, dopo essere stata Baccante, si allontana gettando a terra i paramenti del dio e augurandosi di non vedere mai più il Citerone.\nSe Euripide avesse voluto mettere in scena un'opera religiosa, forse non avrebbe messo così in evidenza gli aspetti più sconcertanti del dionisismo, ma avrebbe probabilmente posto maggiormente l'attenzione sui lati positivi (che comunque ci sono, ma solo in alcuni canti corali). Per questo motivo alcuni studiosi arrivano a interpretare l'opera in senso del tutto opposto, considerandola non una riscoperta della religione, ma anzi una forte invettiva antireligiosa. E lo dimostrerebbe la critica che Cadmo rivolge a Dioniso verso la fine dell'opera: «Non è bene che gli dei rivaleggino nell'ira con gli uomini», critica cui il dio non dà alcuna risposta, limitandosi a ribattere che questa è da sempre la volontà di Zeus. La tragedia insomma si chiude con molti interrogativi e nessuna risposta, mentre una sola cosa svetta con evidenza su tutte: la spietata vendetta del dio Dioniso.\n\nLo scontro tra Penteo e Dioniso.\nL'opera è quasi completamente imperniata attorno allo scontro tra Penteo e Dioniso, ma nessuno di loro può essere definito un personaggio positivo. Il dio, infatti, come appena visto, è privo di qualsiasi scrupolo e pietà verso gli uomini, mentre il re Penteo non appare come una persona dall'atteggiamento fortemente razionale (cosa che ci si aspetterebbe da chi rifiuta di avere fede in un dio), bensì come un uomo tirannico, irascibile, chiuso nelle proprie convinzioni e non disposto a rimetterle in discussione. In questo senso Penteo rappresenta in effetti l'opposto di quella razionalità che dovrebbe almeno in teoria essere il suo punto di forza. I due personaggi di Dioniso e di Penteo non sono dunque realmente in contrasto l'uno con l'altro, ma speculari, al punto da arrivare ad assomigliare l'uno all'altro verso la fine dell'opera: Penteo travestendosi da Baccante, Dioniso assumendo l'atteggiamento del despota spietato.\n\nLa follia.\nIl filosofo Platone, nel Fedro, afferma che la follia è superiore alla sapienza, poiché quest'ultima è di origine umana, mentre la prima è di origine divina. Uno dei tipi di follia individuati da Platone è appunto quella iniziatica, riconducibile al dio Dioniso. Nelle Baccanti Euripide si dilunga non poco nel descriverne gli effetti, costruendo nell'opera due tipi diversi di tale follia: da una parte il delirio pazzo e sanguinario delle Baccanti quando compiono le azioni violente, dall'altra il comportamento più misurato e tranquillo durante i momenti di riposo ed i riti di adorazione di Dioniso (in particolare nei canti corali). Il primo tipo di follia è rivolto a chi non riconosce il culto di Dioniso e viene perciò punito con la violenza; il secondo è invece quello tipico di chi, accettati i culti dionisiaci, ne riceve i benefici.Nel primo caso, le Baccanti sono animate da forza sovrumana e bestiale, come quando assalgono paesi o squartano vivi uomini e animali. Nel secondo caso, invece, esse appaiono come portatrici di un tipo di società alternativo a quello civilizzato della moderna Tebe, una società a diretto contatto con la natura, in cui la donna dimentica la sua vita cittadina, arrivando ad allattare cuccioli di animali. Qui la follia diventa un mezzo per uscire dagli schemi, raggiungere la conoscenza diretta del dio nel proprio corpo, e, quindi, una maggiore consapevolezza di sé.\n\nNell'opera è in effetti presente una netta differenziazione tra i termini sophòn e sophía: il primo è il sapere, ossia la conoscenza di nozioni e di fatti. La seconda è invece la sapienza, nel senso di saggezza, ossia la capacità di discernere cosa sia davvero importante e di conseguenza quale sia il miglior modo di vivere. Secondo il coro delle Baccanti, possedere il primo non significa necessariamente possedere anche la seconda.\n\nLa fine dell'eroe tragico.\nUna caratteristica tipica della tragedia greca in generale è che il protagonista viene colpito sì da grandi disgrazie, ma non perde mai la propria dignità. Anche personaggi disprezzati da tutti, come Edipo, non vengono mai ridicolizzati o sbeffeggiati. Dioniso invece fa vestire Penteo da donna, e non si fa scrupoli a prenderlo in giro, mettendogli persino a posto i riccioli. In questo modo, per la prima volta un eroe tragico perde la propria dignità e si trasforma in una figura grottesca e quasi comica: una figura assolutamente sconosciuta alla tragedia classica, che sembra così rinnovarsi verso forme nuove di teatro.\n\nI personaggi.\nDioniso: Il dio è proprio il primo personaggio ad apparire sulla scena ed è anche colui che recita il prologo spiegandoci il motivo della sua visita a Tebe: lui deve infatti punire la città che non lo riconosce come figlio di Zeus e gli toglie dunque la sua natura divina.(«Anche se non lo vuole, questa città imparerà a conoscere i riti segreti di Bacco» vv.39-40) Solo per questo il Dio vuole punire Tebe, infatti solitamente Dioniso non è un dio che punisce chiunque, ma solo chi nega la sua divinità. In ogni caso Euripide non voleva che la sua rappresentazione di Dioniso fosse quella tipica, e cercherà quindi di mostrarci il personaggio non come il mero dio orgiastico, benché questo fosse difficile poiché nella tradizione era ormai ben fissa l'idea di Dioniso come divinità legata al vino e al piacere. Dioniso è il padrone che bisogna servire (v.82), le sue ragioni sono l'unica ragione dell'agire del gruppo (vv.83-87), è colui che conduce il corteo e gli indica la meta muovendolo con la follia (v.115-119) ed è il dio che si rallegra per i balli e le feste in suo onore.\nIl coro delle Baccanti: Il coro assume diversa importanza dall'inizio della tragedia alla fine. Se inizialmente domina la scena, alla fine si ritrova ad avere un ruolo marginale, fatto anche di poche battute, per lasciare spazio ai personaggi. L'opera venne del resto rappresentata in un periodo storico in cui l'importanza del coro andava sempre più riducendosi. Si tratta di seguaci fanatiche del dio, verso cui hanno una fede assoluta.\nTiresia: Rispetto al modo in cui veniva descritto nelle tragedie greche, nelle Baccanti si ha una ristrutturazione del personaggio. Più che spiegare il futuro, questo si concentra sul raccontare fatti già noti.Tiresia è il personaggio principale del I episodio e abbandona il suo ruolo principale di indovino per apparire caratterizzato da una cultura aggiornata e agguerrita. Lui teorizza la persistenza e la indefettibilità della tradizione (cioè la cultura disintellettualizzata del popolo) ma allo stesso tempo usa un linguaggio che presuppone una cultura. Proprio per questo il suo personaggio, caratterizzato da forti contraddizioni, serve a mostrare l'impraticabilità di un collegamento tra il culto di Dioniso e la cultura cosiddetta 'intellettuale'.\nCadmo: Cadmo è il padre di Agave e dunque nonno di Penteo. Il suo personaggio è un personaggio ricorrente e nel mito il suo nome era ricollegato alla fondazione di Tebe, tanto che 'cadmeo' era un equivalente di 'tebano'. Inizialmente Cadmo appare in scena come ben predisposto nei confronti del nuovo culto per Dioniso, e per questo motivo appare strano che la vendetta del Dio ricada anche su di lui. Però il suo approcciarsi al Dio è ben diverso da quello di Tiresia: lui infatti più che essere mosso da motivi di fede è mosso dalla volontà di far 'crescere' Dioniso, essendo questo figlio di sua figlia. 'È il figlio di mia figlia, Dioniso; che sia un dio è apparso chiaro agli uomini, ora occorre - per quanto è in nostro potere - che cresca e diventi un grande dio'. Inoltre nel dialogo tra Tiresia e Cadmo emerge il fatto che Cadmo quasi si vergogna del compiere certi riti bacchici come appare, ad esempio, dai vv. 204-205 'ερει τις ως το γηρας ουκ αισχυνομαι, μελλων χορευειν κρατα κισσωσας εμον' (qualcuno dirà che non ho vergogna della mia vecchiaia, se mi accingo a danzare con il capo coronato d'edera). Infatti questo personaggio si preoccupa più del pensiero degli altri piuttosto che della vendetta che potrebbe giungergli dal Dio poiché non aderisce ai suoi riti. Cadmo entra in scena ancora prima che Tiresia mandi qualcuno a chiamarlo; era infatti impaziente e in attesa, e questo si deduce anche dagli enfatici complimenti che rivolge a Tiresia 'voce dotta di uomo dottissimo', lodi che non pareva meritare. Dunque questo personaggio seguita i riti bacchici ma malgrado questo verrà punito per i motivi che lo spingono ad adorare il Dio, motivi propagandistici e nulla più.\nPenteo: Penteo è il re di Tebe che, con l'arrivo del Dio, diventa straniero nella sua stessa città e che, benché fosse il portatore dell'ordine e della legge, è continuamente accusato di essere ανομος (privo di legge). Il suo personaggio appare però anche come un doppio di Dioniso, sua madre Agave infatti è sorella di Semele (madre di Dioniso) e suo padre Echione è l'uomo-serpente, animale sacro al dio. Man mano che la storia si evolve, Penteo si avvicina sempre di più ad assumere le sembianze di una Menade e del dio stesso. Anche nella sua uccisione c'è un richiamo a Dioniso poiché infatti viene ammazzato poiché scambiato per un leone, un'altra delle metamorfosi animali di Dioniso. Attraverso Penteo, sin dal I episodio, si imposta la crisi del potere politico. Inizialmente questo personaggio viene descritto da Euripide con tutte le principali caratteristiche del tiranno, ma alla fine il suo ruolo cambia poiché infatti questo da 'disprezzato' diviene l'oggetto della commiserazione del pubblico. Da oggetto di condanna diventa dunque l'infelice che è andato incontro ad una brutta fine. Euripide qui fa un nuovo uso di questo personaggio: inizialmente è il detentore del potere e ne fa un uso incongruo, nel momento in cui su di lui incombe una rovinosa morte, si trasforma nell'oggetto di commiserazione.\nPrimo messaggero: Il primo messaggero racconta ciò che lui ha visto sul monte e in particolare ciò che ha fatto Agave con le sue sorelle e tutte le donne di Tebe. Il suo racconto dovrebbe avere un carattere di assoluta tipicità, infatti fornisce preziosi indicazione sul dionisismo, cioè su come Euripide vedeva questo culto e i suoi fenomeni.\nSecondo messaggero: Il secondo messaggero appare nel V episodio e presenta un ruolo molto importante, questo infatti evoca gli ultimi attimi di Penteo e funge da narratore di una sorta di conversione nella tragedia: vi è infatti il momento in cui Penteo diviene l'oggetto della commiserazione. Il suo personaggio era fino a quel momento sconosciuto e parla attraverso un discorso che è privo di un effettivo destinatario sulla scena. Il messaggero si rivolge ad una casa che è priva dei suoi titolari, svuotata dall'impatto violento della vicenda e racconta, ma non ha effettivi destinatati di fronte a lui;appena finisce sul racconto va via, senza nessun commento. In questo modo gli spettatori colgono un grande scollamento tra chi parla e chi dovrebbe ascoltare.\nAgave: Agave, madre di Penteo e sorella di Semele, è una di quelle figure femminili immortali e che mai riescono ad essere vinte o sottomesse. Questo personaggio contesta il potere, sia quello regale come baccante che quello del Dio quando, alla fine, andrà dove del Dio non c'è più nessun culto. Benché Dioniso riesca ad annientare Tebe, non riuscirà mai ad annientare Agave. È un personaggio fondamentale che però arriva solo alla fine della tragedia, nell'esodo. Per questo Euripide deve fare in modo che questo attore si affermi immediatamente con forte impatto nel pubblico, poiché infatti Agave, apparendo solo nella parte finale, si trova davanti degli spettatori con delle potenzialità emotive già coinvolte nella vicenda e perciò poco disponibili ad aprirsi a nuovi personaggi.\n\nI riti dionisiaci.\nLe azioni e i rituali descritti nell'opera non sono un'invenzione dell'autore, ma si rifanno fin nei particolari a usanze effettivamente diffuse ai tempi di Euripide. Era infatti reale che un certo numero di donne (dette Baccanti, Menadi o Bassaridi), riunite in gruppi (detti tiasi), ad anni alterni si appartassero sulle montagne per celebrare i riti di Dioniso, e lì compissero azioni quali ridurre a brani un animale con le mani e mangiarne le carni crude. Tali forme di culto non si praticavano certamente più ad Atene nel V secolo a.C., ma erano ancora in uso in zone meno civilizzate del mondo greco. La follia era considerata come indotta dal dio, ma in realtà era stimolata dalla situazione insolita, dal contatto con la natura, dalle danze e dalla musica di sistri e tamburelli. Non è un caso che tali rituali fossero soprattutto femminili: emarginate dalla vita politica e sociale delle poleis, spesso confinate in casa, le donne potevano in questo modo recuperare la loro autonomia, per quanto temporanea e fittizia.\n\nTradizione letteraria.\nI misteri bacchici e le figure delle Baccanti si rifanno a una lunga tradizione letteraria greca, che poi è riverberata durante il Rinascimento italiano e oltre in varie opere, tra cui si possono ricordare:.\n\nFabula di Orfeo, rappresentazione scenica di Poliziano.\nI Baccanali, tragedia di Giovanni Pindemonte.\nLe Baccanti (Bacchanterna), dramma di Erik Johan Stagnelius.\nLe Bassaridi, opera lirica di Hans Werner Henze, su libretto di W. H. Auden e Chester Kallman.\n\nRappresentazioni significative.\nNel 1973 a Londra va in scena Le Baccanti con testo riveduto da Wole Soyinka (futuro premio Nobel per la letteratura), adattata per rappresentare lo scontro di civiltà tra le popolazioni africane e l'invasore europeo. Regista dello spettacolo è Roland Joffé. Il coro delle Baccanti è affiancato da quello degli schiavi dalla pelle nera, e lo stesso Dioniso richiama da vicino altre figure divine come il dio africano Ogun e Gesù Cristo. Lo spettacolo si pone come un atto di accusa verso il colonialismo e, più in generale, a favore delle classi sociali più povere.\nNel 1978 Luca Ronconi a Prato propone una versione dell'opera ridotta a monologo, protagonista Marisa Fabbri, eliminando tutte le peripezie dei personaggi e concentrandosi quindi sul nucleo tragico (e anche patologico) della vicenda. Lo spettacolo è di tipo itinerante, proponendo una sorta di simbolica discesa agli inferi.\nNel 1988 a Delfi il regista peruviano Jorge Guerra Castro mette in scena un Penteo fanatico dell'ordine e della pulizia, continuamente intento a lavarsi le mani e a chiamare disinfestatori per sterilizzare i luoghi contaminati dalle Baccanti. Un Penteo però anche morbosamente attratto da quella sporcizia che tanto aborrisce.\nNel luglio 2021, il regista Carlus Padrissa, uno dei fondatori della compagnia catalana La Fura dels Baus, mette in scena Le Baccanti al teatro greco di Siracusa. Dioniso è un personaggio con tratti demoniaci e animaleschi, mentre le Baccanti, particolarmente numerose (ben 55) e violente, eseguono spesso numeri acrobatici. La musica spazia tra la lirica, il rock e l'elettronica.
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### Titolo: Le baccanti (film).\n### Descrizione: Le baccanti è un film del 1961 diretto da Giorgio Ferroni, ispirato all'omonima tragedia di Euripide.\n\nTrama.\nTebe, la città natale di Dioniso (nato dall'unione tra il dio Zeus e la mortale Semele), soffre di una terribile siccità, che scatena il malcontento popolare. A questo si aggiungono le accuse dell'indovino Tiresia, che adduce la siccità all'ira di Dioniso, incolpando il re Penteo di non credere alla sua natura divina e di non riverirlo.\nManto, figlia di Tiresia, dona dell'acqua a uno sconosciuto, che contraccambia con del vino sacro a Dioniso. Si confida poi con la sua amica Dirce, discutendo dei loro rispettivi destini infelici: Manto diventerà vergine sacra a Demetra, nonostante sia innamorata del servo Lacdamo, mentre Dirce è promessa sposa di Penteo, pur sognando una vita libera dalla corte.\nIn seguito a un presagio riferito da un sacerdote, Agave, sorella di Semele e madre di Penteo, rivela a suo figlio l'esistenza di un'antica profezia, secondo la quale Lacdamo sposerà una vergine sacra a Demetra e loro figlio diverrà re di Tebe. Lacdamo è infatti il figlio di Ino, sorella maggiore di Agave, che l'ha fatto rapire e allevare come un servo per conservare il trono per Penteo. Secondo il sacerdote, Manto è la vergine della profezia e sono giunte voci che conosca già Lacdamo. Per evitare allo stesso tempo il compiersi della profezia e i tumulti popolari, Penteo ordina il sacrificio di Manto in onore di Demetra per ottenere migliori raccolti. Dirce intercede invano presso Penteo per impedire il sacrificio di Manto, confermando involontariamente che questa è già innamorata di Ladcamo.\nSu suggerimento di Tiresia, la notte prima del sacrificio Dirce beve il vino sacro a Dioniso e si reca con altre donne al Monte Citerone, dove incontra lo straniero che ha donato il vino a Manto. L'indomani, lo straniero sobilla il popolo contro Penteo, mentre un fulmine blocca la mano del sacerdote che avrebbe ucciso Manto. La gioventù tebana si reca quindi in massa al Citerone, per celebrare baccanali in onore di Dioniso e il matrimonio tra Manto e Lacdamo. Lo straniero rivela infatti che Lacdamo è in realtà cugino di Penteo e legittimo re di Tebe: secondo le leggi, può quindi prendere in sposa Manto, anche se questa è già stata consacrata a Demetra.\nPenteo invia soldati al Citerone e incarcera i ribelli. Lo straniero riesce a salvarsi, ma l'indomani si reca spontaneamente a palazzo prima delle nozze di Penteo, che lo fa incatenare alle rupi del Citerone. Tuttavia, per placare gli animi del popolo, decide di liberare tutti i giovani catturati, eccetto Manto e Lacdamo.\nDirce visita lo straniero incatenato, del quale si è innamorata: ma lui rivela di essere Dioniso e che presto lascerà il suo corpo mortale. Nel frattempo, Tiresia rivela a Policrate, attuale capo della tribù che fu di Atamante (padre di Lacdamo), che Lacdamo è il vero re di Tebe. I soldati di Policrate liberano lui e Manto e si uniscono alle Baccanti, che sono in battaglia contro l'esercito di Penteo. Lacdamo sconfigge in duello Penteo e diventa il nuovo re di Tebe; Dioniso ascende finalmente a dio, mentre Dirce guiderà le Baccanti.\n\nDifferenze con la mitologia e l'opera di Euripide.\nIl personaggio di Lacdamo non esiste; i figli di Ino e Atamante (Learco e Melicerte) morirono da bambini e nessuno di loro sposò Manto.\nPenteo muore ucciso dalla sua stessa madre, divenuta una baccante sotto il controllo di Dioniso.\nDopo la morte di Penteo, la corona di Tebe passò allo zio Polidoro (unico figlio maschio di Cadmo e futuro bisnonno di Edipo).\nDirce fu la moglie di Lico, che sarà futuro reggente di Tebe per Labdaco (figlio di Polidoro e cugino di Penteo).\nIn virtù di questi fatti, è però possibile che Lacdamo sia ispirato proprio al personaggio di Labdaco.\n\nProduzione.\nDistribuzione.
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### Titolo: Le due bisacce.\n### Descrizione: Le due bisacce è una favola di Esopo.\n\nIl protagonista.\nNon è insolito che favole di origine greca abbiano come protagonisti gli dei. Prometeo, secondo la mitologia greca, era un titano cioè un essere divino fortissimo che aveva creato gli uomini plasmandoli con il fango. Prometeo, protagonista di opere letterarie importanti, è posto qui da Esopo al centro di un racconto molto semplice e breve.\n\nTrama.\nSecondo il racconto, Prometeo, che aveva fabbricato gli uomini, appese al collo di ognuno due bisacce, l'una piena di vizi altrui e l'altra dei vizi propri; quella dei vizi altrui la pose davanti, mentre l'altra la appese dietro. Questo è il motivo per cui gli uomini scorgono a prima vista i difetti altrui, mentre quelli propri non li mettono mai sott'occhio.
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### Titolo: Le metamorfosi (Apuleio).\n### Descrizione: Le metamorfosi (in latino Metamorphoseon libri XI, probabilmente il titolo originario) è un'opera scritta da Lucio Apuleio nel II secolo d.C. È anche noto con il titolo L'asino d'oro (Asinus aureus), con il quale viene citato da sant'Agostino nel De civitate Dei (XVlll, 18). È uno dei tre soli romanzi della letteratura latina a essere pervenuto fino a oggi insieme al Satyricon di Petronio e alla Storia di Apollonio re di Tiro d'autore ignoto, e l'unico sopravvissuto integralmente, poiché degli altri due sono rimasti solo dei frammenti.\nIl protagonista del romanzo è il curiosus Lucio: alla fine dell'opera viene rivelato che è nativo di Madaura, la città della Numidia dove nacque l'autore stesso. Viaggiando in Tessaglia, terra di streghe e incantesimi, egli prova un insaziabile desiderio di vedere e praticare la magia: dopo essersi spalmato un unguento magico, si ritrova trasformato accidentalmente in asino. La trama prosegue seguendo Lucio nelle sue peripezie attraverso lunghe avventure, vicende e repertori di racconti, portandolo finalmente a ritrovare la forma umana e una nuova consapevolezza di sé. Il percorso di caduta, sofferenza e redenzione si concluderà grazie all'intervento della dea Iside, della quale Lucio diverrà un ardente devoto.\n\nOrigine.\nEssendo centrale ne Le metamorfosi il tema della magia, ma non essendo citata l'opera nell'Apologia, che riporta il discorso difensivo dell'autore coinvolto nel 158 in un processo per magia, si desume che la stesura del romanzo sia posteriore a quella data. Il testo potrebbe essere una rielaborazione di un'opera spuria di Luciano di Samosata (pseudo-lucianea), Lucio o l'asino. Inoltre, secondo il patriarca Fozio, la storia di Lucio deriverebbe da un romanzo, per noi perduto, da lui attribuito a Lucio di Patre. Il patriarca, infatti, fa intendere l'esistenza di tre romanzi, l'uno di Lucio di Patre, di cui dice aver letto diversi λόγοι, un altro di Luciano di Samosata e l'ultimo di Apuleio. Il dibattito tra gli studiosi verte attorno alla possibilità che l'opera di Apuleio sia derivata da questa fonte comune, costituita dal romanzo dello sconosciuto Lucio di Patre (il cui nome potrebbe essere anche il frutto di un malinteso dello stesso Fozio, che avrebbe confuso il nome del protagonista con quello dell'autore), oppure dal rimaneggiamento pseudo-lucianeo di Lucio ovvero l'asino.\n\nStruttura.\nIl libro è costituito da un soggetto principale, la metamorfosi di Lucio in un asino a seguito di un esperimento non andato a buon fine. È questo l'episodio-chiave del romanzo, che muove il resto dell'intreccio. Il secondo livello narrativo è costituito dalle peripezie dell'asino che, nell'attesa di riassumere le sembianze umane, si vede passare di mano in mano, mantenendo però raziocinio umano e riportando le sue molteplici disavventure.\nLa narrazione è inoltre spesso interrotta da digressioni di varia lunghezza, che riferiscono vicende degne di nota o di curiosità, relative alle vicende del protagonista o raccontate da altri personaggi.\nUna di queste, la favola di Amore e Psiche, occupa più libri, tanto da costituire un piano narrativo a sé ed essere considerata la chiave di lettura del romanzo o anche una versione in miniatura del romanzo stesso. Le altre digressioni inserite nell'intreccio principale sono costituite da vicende di vario tipo, ove il magico (primi tre libri) si alterna con l'epico (storie dei briganti), con il licenzioso, col tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, con la sola eccezione del libro XI: qui la componente mistica ha il sopravvento e la forma animale di Lucio ha perduto quasi totalmente importanza, mentre nel corso del romanzo proprio la presenza costante delle riflessioni dell'asino crea un effetto di continuità che forma i due livelli di lettura, e scandisce il senso complessivo della vicenda come iter progressivo verso la sapienza.\n\nIl soggetto.\nDegli undici libri, i primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio (omonimo dell'autore, a cui forse proprio dal protagonista venne attribuito tale nome) prima e dopo il suo arrivo a Hypata in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto già durante il viaggio nell'atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane manifesta subito il tratto distintivo fondamentale del suo carattere, la curiosità, che lo conduce ad incappare nelle trame sempre più fitte di sortilegi che animano la vita della città.\n\nOspite del ricco Milone e di sua moglie Pànfile, esperta di magia, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fòtide e la convince a farlo assistere di nascosto a una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Pànfile che, grazie a un unguento, si muta in gufo, Lucio prega Fotide che lo aiuti a sperimentare su di sé tale metamorfosi. Fotide accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio diventa asino, pur mantenendo facoltà raziocinanti umane.\nLucio apprende da Fotide che, per riacquistare sembianze umane, dovrà cibarsi di rose: via di scampo che, subito cercata, è rimandata sino alla fine del romanzo da una lunga serie di peripezie che l'asino incontra. Infine, giunto a Corinto Lucio apprende in sogno che l'indomani ci sarà una solenne festa in onore di Iside; nel corso della cerimonia mangia le rose che adornano il sistro di un sacerdote, riprendendo così forma umana. In segno di riconoscenza si consacra devotamente alla dea, entrando nel ristretto numero di adepti al culto dei misteri isiaci.\n\nAltri piani narrativi.\nUna seconda sezione del romanzo comprende le vicende dell'asino in rapporto a un gruppo di briganti che lo hanno rapito, il suo trasferimento nella caverna montana che essi abitano, un tentativo di fuga insieme a una fanciulla loro prigioniera, Càrite, e la liberazione finale dei due ad opera del fidanzato di lei che, fingendosi brigante, riesce a ingannare la banda.\nIl racconto principale diviene cornice di un secondo racconto, ossia della celebre favola di Amore e Psiche narrata a Càrite dall'anziana sorvegliante. Nei libri successivi, ad esclusione dell'ultimo, riprendono le tragicomiche peripezie dell'asino, che passa dalle mani di sedicenti sacerdoti della dea Siria, dediti a pratiche lascive, a quelle di un mugnaio che è ucciso dalla moglie, a quelle di un ortolano poverissimo, di un soldato romano, di due fratelli, l'uno cuoco e l'altro pasticciere. Altre volte l'asino non è diretto protagonista ma uditore di vicende collaterali dolorose o a lieto fine che hanno a che fare con la magia (un ragazzo accusato a torto di molestia dalla matrigna invaghita di lui, apparentemente ucciso con il veleno e poi risvegliato; un drago che sbrana un ragazzo) oppure no (uccisione del marito della giovane compagna di prigionia di Lucio preso i briganti; la tresca fra una donna sposata e un giovanotto che lei spaccia per un uomo venuto a riparare una giara; una donna persuasa a torto che il marito la tradisca uccide cognata, marito e poi figlia).\nOvunque l'asino osserva e registra azioni e intenzioni con la sua mente di uomo, spinto sia dalla curiosità, sia dal desiderio di trovare le rose che lo liberino dal sortilegio. Della sua natura ambivalente si avvedono per primi il cuoco e il pasticciere, scoperta che mette in moto la peripezia finale. Informato della stranezza, il padrone dei due artigiani, divertito, compra l'asino per farne mostra agli amici. In un crescendo di esibizioni, Lucio riesce a sfuggire, a Corinto, dall'arena in cui è stato destinato a congiungersi con una condannata a morte (la medesima che come detto sopra ha sterminato la propria famiglia per gelosia prima e avidità poi), e nella fuga raggiunge una spiaggia deserta dove si addormenta.\nIl brusco risveglio di Lucio nel cuore della notte apre l'ultimo libro. La purificazione rituale che segue e la preghiera alla luna preparano il clima mistico che domina la parte conclusiva: Lucio riprende forma umana il giorno seguente, mangiando le rose di una corona recata da un sacerdote alla sacra processione in onore di Iside, secondo quanto la stessa dea gli aveva prescritto, apparendogli sulla spiaggia. Grato alla dea, Lucio si fa iniziare al culto di Iside a Corinto; stabilitosi a Roma, per volere di Osiride, si dedica a patrocinare le cause nel foro.\n\nContaminazione di generi.\nLe Metamorfosi sono caratterizzate da uno stile narrativo che nell'antichità mancava di una fisionomia definita; appaiono quindi come una contaminazione di generi diversi (epica, biografia, satira menippea, racconto mitologico, ecc.). Nel caso specifico è problematico il rapporto con le fabulae Milesiae (racconti licenziosi che ispirarono anche Petronio), a cui lo stesso autore riconduce l'opera, ma la perdita pressoché totale della traduzione che Cornelio Sisenna (120–67 a.C.) fece delle originali fabulae Milesiae di Aristide di Mileto (II secolo a.C.) ne rende oscure le origini.\nUn romanzo pervenuto nel corpus delle opere di Luciano di Samosata, un testo oggi totalmente perduto, sviluppa lo stesso intreccio del romanzo latino, col titolo di Lucio o l'asino, in lingua greca e in forma nettamente più concisa rispetto a quella di Apuleio. Tuttavia, non è chiaro quali siano i rapporti relativi e la priorità dell'uno o dell'altro dei due scritti, e se abbiano avuto una fonte comune; inoltre quest'opera è una ripresa in chiave burlesca di un romanzo di Lucio di Patre a noi giunto frammentario.\nÈ certo che il finale, con l'apparizione di Iside e le successive iniziazioni ai misteri di Iside e di Osiride, appartiene ad Apuleio; anche perché il protagonista, un giovane che si definisce greco in tutto il romanzo, in questo libro, inopinatamente, diventa Madauriensis, sovrapponendo l'io–scrivente all'io-narrante.\nSono comunque differenti il significato complessivo e il tono del racconto: infatti, il testo pseudolucianeo rivela l'intenzione di una narrativa di puro intrattenimento, priva di qualsiasi proposito moralistico, mentre le Metamorfosi di Apuleio - sotto l'apparenza di una lettura di puro svago, intessuta di episodi umoristici e licenziosi - assume in realtà i caratteri del romanzo di formazione.\nLucio, il protagonista, è caratterizzato dalla 'curiositas', la quale risulta un elemento positivo entro determinati limiti, che egli non rispetta facendo scattare così la punizione: metamorfosi in asino, animale considerato stupido ed utile solo nel trasporto di grandi carichi. Lucio però mantiene l'intelletto umano, e per questa ragione nel titolo è definito l'asino d'oro, e possiede comunque un punto di vista privilegiato perché osserva gli uomini nei lori gesti quotidiani.\nIl romanzo rappresenta anche una denuncia della corruzione della società: infatti vi sono rappresentati imbroglioni, prostitute ed adulteri. Il percorso che dunque Lucio si trova ad affrontare è di espiazione, in quanto passa dalle mani di briganti e mugnai alle esibizioni circensi. Il protagonista rappresenta l'uomo che pecca, e che solo dopo l'espiazione dei suoi peccati si può salvare, sino ad arrivare alla conversione al culto di Iside diventandone sacerdote.\nNon manca inoltre nell'opera un livello di beffardo cinismo, volto a evidenziare la natura credulona e irrimediabilmente stolta dell'essere umano, animale dotato di intelletto che però coglie l'essenza della vita solo quando tramutato in asino e a costo di atroci sofferenze fisiche e mentali. Lo stesso Lucio, tuttavia, dopo aver ripreso le sembianze umane non fa tesoro delle sue passate sventure, che interpreta come un mero castigo della sua curiositas. Emblematica in tal senso è la sua decisione, nell'ultimo capitolo del romanzo, di dedicare la propria vita al culto di Iside, iniziando a praticare l'avvocatura per permettersi di pagare le ingenti cifre utili per accedere ai vari riti misterici dedicati alla dea, dimenticando completamente come da asino, nel breve periodo nel quale fu a servizio di un gruppo di elemosinanti cialtroni adepti della dea Siria, avesse potuto cogliere l'intento truffaldino che in molti casi si cela dietro le speculazioni di carattere religioso e votivo. Rispetto a questa chiave di lettura, il tratto autobiografico dell'intera opera appare ancora più manifesto: lo stesso Apuleio fu infatti iniziato a diversi culti misterici, che probabilmente non appagarono la sua fame di conoscenza ed anzi lo costrinsero a spendere grosse somme di denaro, tant'è che giunto a Roma, e dopo essere stato iniziato al culto di Osiride ed Iside, iniziò anch'egli la pratica dell'avvocatura (come il suo alter ego Lucio, che non a caso è definito Madauriensis, nonostante fosse nativo di Corinto). Proprio da avvocato prima e conferenziere dopo, Apuleio poté ancor di più testare il carattere ingenuo dell'essere umano, influenzabile da un'oratoria ammiccante e forbita, che lui stesso aveva sviluppato e utilizzato per trarne profitto e svincolarsi dall'accusa di dissolutezza e magia, mossagli dalla famiglia di Pudentilla. Apuleio, nelle Metamorfosi, mantiene da narratore lo sguardo lucido dell'asino che svela al lettore l'inadeguatezza di Lucio, una volta tornato uomo, nel non essere nuovamente soggiogato dalla sua curiositas, metafora di un'umanità ottusa e incapace di trarre lezioni morali dal proprio vissuto.\nNella sua analisi del romanzo, John Winkler propose di identificare il senso del romanzo nel carattere aporetico dello stesso: la prospettiva dell'interprete e del lettore è ciò che conferisce al romanzo il sio senso, e tale senso sarebbe dunque diverso per ciascuno. In questo senso, è possibile definire le Metamorfosi un'opera aperta, come fece già René Martin.\n\nAmore e Psiche.\nAlcuni episodi minori dell'intreccio trovano corrispondenze precise con la vicenda di Lucio, anticipandola o rispecchiandola. Emblematico è il caso della favola di Amore e Psiche che, grazie al rilievo derivante dalla posizione centrale e dalla lunga estensione, assume valore prefigurante nei confronti del destino di Lucio.\nLa trama rispecchia tradizioni favolistiche note in tutti i tempi: la figlia minore di un re, a causa della sua straordinaria bellezza, suscita l'invidia di Venere, la quale manda suo figlio Cupido affinché la faccia innamorare dell'uomo più brutto della terra, ma il giovane, vedendola, se ne innamora e la porta con sé in un castello. Alla fanciulla, che ignora l'identità del dio, è negata la vista dell'amato, pena l'immediata separazione da lui. Tuttavia, istigata dalle due sorelle invidiose, Psiche non resiste al divieto e spia Amore mentre dorme: il giovane dio, svegliato da una goccia di cera della candela che Psiche teneva in mano mentre l'osservava, fugge per non far più ritorno, ma quando Psiche lacerata dal dolore per la perdita dell'amato si getta da una rupe, un attimo prima che tocchi terra, Amore la prende fra le sue braccia così salvandola. La novella si conclude con le nozze e gli onori tributati a Psiche, assunta a dea.\nLa favola di Amore e Psiche svolge nella struttura del romanzo una precisa funzione letteraria: riproduce in scala ridotta l'intero racconto e impone ad esso la giusta chiave di lettura. Tocca al racconto secondario, contenuto nel corpo del romanzo, rendere più complessa la prima lettura attivando una seconda linea tematica (quella religiosa), che si sovrappone alla prima linea tematica (quella dell'avventura) per conferirle un contenuto iniziatico.\n\nInfluenza, traduzioni e rifacimenti.\nIl poema satirico incompiuto L'asino scritto da Niccolò Machiavelli nel 1517 è un rifacimento modernizzato di Le Metamorfosi. Machiavelli trasse ispirazione da Le Metamorfosi anche per alcune novelle.\nLa prima traduzione italiana, nel 1519, col titolo di Apulegio volgare, è di Matteo Maria Boiardo. Un altro rifacimento, noto come L'asino d'oro è dovuto ad Agnolo Firenzuola, pubblicato nel 1550.\n\nTraduzioni italiane.\nL'asino d'oro [o Le metamorfosi], traduzione di Felice Martini, con antiche xilografie, Roma, Formiggini, 1927.\nLe trasformazioni, traduzione di Massimo Bontempelli, Società Anonima Notari, 1928; Garzanti, 1946. - col titolo L'asino d'oro, Einaudi, 1973; Milano, SE, 2011.\nOpere. Metamorfosi o asino d'oro, a cura di G. Augello, Collezione Classici latini, Torino, UTET, 1980.\nMetamorfosi, a cura di Marina Cavalli, Milano, Mondadori, 1995.\nApuleio, Le metamorfosi o L'asino d'oro (testo latino a fronte), trad. Alessandro Fo, Collezione I Classici Classici, Milano, Frassinelli, 2002; Torino, Einaudi, 2010.\nLe Metamorfosi, traduzione di Lara Nicolini, Collezione Classici Greci e Latini, Milano, BUR, 2005, ISBN 978-88-170-0504-3.\nLe Metamorfosi, (testo latino a fronte) Saggio introduttivo, trad. e note di Monica Longobardi, Presentazione di Gian Biagio Conte, Collezione Classici Greci Latini, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2019, ISBN 978-88-180-3362-5. - Foschi, 2019.\nLuca Graverini, Lara Nicolini (a cura di), Metamorfosi. Volume I, Libri I-III, traduzione di Luca Graverini, Collezione Scrittori greci e latini della Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2019, ISBN 978-88-047-1132-2. [primo di 4 voll.].\nLara Nicolini, Caterina Lazzarini, Nicolò Campodonico (a cura di), Metamorfosi. Volume II, Libri IV-VI., traduzione di Luca Graverini, Collezione Scrittori greci e latini della Fondazione Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2023, ISBN 9788804754619.
@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Le metamorfosi (Ovidio).\n### Descrizione: Le metamorfosi (in latino Metamorphosĕon libri XV) è un poema epico-mitologico di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. - 17 d.C.) incentrato sul fenomeno della metamorfosi. Attraverso quest'opera, ultimata poco prima dell'esilio dell'8 d.C., Ovidio ha perfezionato in versi e trasmesso ai posteri le più celebri storie della mitologia antica.\n\nDatazione.\nNell'ultima sua opera (Tristia) composta quando già era esule a Tomi, Ovidio scrisse che le Metamorfosi non erano ancora state ultimate e che dunque le copie esistenti altro non erano che abbozzi da bruciare. Non ci sono dubbi in realtà che il suo lavoro ci sia pervenuto completo. Come ha scritto Elaine Fantham, la sua affermazione altro non era che il tentativo ironico di porsi sullo stesso piano di Virgilio, il quale – come narrava una storia che non sappiamo se essere veritiera o leggendaria – prima della morte chiese che venisse bruciata l'Eneide poiché non era ancora stata completata. Solo grazie all'intervento del principe stesso, Augusto, il poema si conservò. L'affermazione di Ovidio dunque è da intendersi come un'amara constatazione: lo stesso imperatore che aveva salvato l'opera virgiliana, garantendo di conseguenza la fama eterna dello scrittore, ora aveva distrutto la vita di un altro poeta allontanandolo da Roma e da tutti i suoi affetti.\nGli studiosi sono concordi nel datare la composizione dell'opera in un periodo compreso tra il 2 e l'8 d.C. Ovidio aveva già scritto gli Amores, la Medea, le Eroidi, l'Ars amatoria, i Medicamina faciei femineae e i Remedia amoris, distinguendosi nella corte augustea come scrittore di tematiche prevalentemente amorose e licenziose. Contemporaneamente alle Metamorfosi, Ovidio lavorava anche ai Fasti.\n\nFonti e modelli.\nLa scelta ovidiana di usare il 'mito' come materia principale dell'opera deriva dalla poesia alessandrina. Infatti già in essa si trovano rappresentati dèi che si fanno promotori di azioni 'galanti e perverse nei confronti degli uomini'. Se però nella poesia alessandrina il mito rappresenta uno spunto di riflessione che doveva avere effetti moralistici, in Ovidio diventa 'il soggetto dell'opera e un ingegnoso artificio'. Come infatti ha sottolineato il critico e storico statunitense Karl Galinsky “Il rapporto tra Ovidio e i poeti ellenistici è simile a quello che gli stessi poeti ellenistici avevano con i loro predecessori: dimostrava di aver letto e assimilato le loro versioni, ma di saper rimodellare i miti in maniera molto personale”.\n\nProbabilmente, esisteva una vera e propria tradizione di testi il cui argomento principale doveva riguardare le metamorfosi, tanto da presupporre l'esistenza di un genere a sé. Sappiamo ad esempio che Boeus, un grammatico greco di epoca ellenistica, scrisse l'Ornithogonia, un poema andato perduto che raccoglieva una serie di miti sulle trasformazioni di esseri umani in uccelli; che Eratostene di Cirene stilò i Catasterismi, una prosa alessandrina che è giunta sino a noi in forma ridotta e che racconta l'origine mitica delle stelle e delle costellazioni; che Nicandro di Colofone elaborò delle Metamorfosi in cinque libri su miti di eroi ed eroine trasformati dagli dei in piante o in animali; che Partenio di Nicea scrisse gli Erotikà Pathémata (Le pene d'amore), raccolta di 36 storie d'amore dalla conclusione infelice; e che un contemporaneo e amico di Ovidio, Emilio Macro, scrisse anch'egli una Ornithogonia, della quale però è rimasto solo il titolo.D'altronde, sebbene non come tema principale, anche nei poemi omerici ci sono esempi di metamorfosi: nell'Iliade assistiamo a numerose mutazioni di divinità, mentre nell'Odissea celebre è l'episodio presentato nel libro XI della trasformazione dei compagni di Ulisse in porci per opera della maga Circe. Non meno importanti dovettero essere la lettura delle due principali opere di Esiodo: la Teogonia insieme a Le opere e i giorni in cui sono narrati rispettivamente la creazione del mondo e le tappe della storia dell'umanità; e degli Aitia di Callimaco che oltre a essere affini per argomento alle Metamorfosi, presentano una costruzione narrativa a incastro e a concatenazione simile.\nSe queste sono le fonti di cui riusciamo ad avere notizia e a cui si rifece Ovidio, è vero però che questi modificò e personalizzò moltissimo questi modelli. Infatti oltre a essere il poema più lungo conosciuto tra quelli sopra elencati che affronta come tema principale le 'metamorfosi', l'opera segue un ordinamento cronologico nuovo ed è inserito in un contesto storico preciso: l'età augustea.\n\nContenuto e interpretazioni.\nLe Metamorfosi, che in 11 995 versi raccolgono e rielaborano più di 250 miti greco-romani, sono state definite più volte una 'enciclopedia della mitologia classica'. La narrazione copre un arco temporale che inizia con il Chaos (è lo stato primordiale di esistenza da cui emersero gli dei) e che culmina con la morte di Gaio Giulio Cesare e il suo catasterismo.\n\nLa creazione dell'universo: modelli filosofici e letterari.\nElaine Fantham ha provato a rintracciare i modelli filosofici e letterari a cui Ovidio si è rifatto per la sua descrizione dell'origine dell'universo. Tenendo conto che gran parte del pensiero filosofico latino derivava direttamente da quello greco, la Fantham ha introdotto prima di tutto i tre modelli fondamentali descritti da filosofi greci da cui Ovidio poteva pescare: alcuni lo rappresentavano come un organismo vivente, altri come un artificio creato da un essere divino, e altri ancora in termini di una entità politica e sociale. Particolare importanza in questo senso dovette avere ad esempio il Timeo di Platone. Secondo Fantham, infatti, in Tim. 30a e 30b Platone unisce i primi due modelli. Le teorie platoniche vennero poi riprese da Aristotele e dai Sofisti e si sviluppò una vera e propria corrente filosofica che concepiva l'universo come il prodotto di un disegno, antropocentrico e geocentrico (ovvero creato solo ed esclusivamente per il bene dell'uomo e con i corpi celesti – Sole compreso – che giravano attorno alla Terra). A questa corrente si opponeva quella atomistica di Leucippo e Democrito. Quest'ultimo non credeva all'ipotesi dell'unicità e dell'immortalità del cosmo, anzi, credeva che esistessero più mondi, ognuno dei quali corruttibile e quindi “mortale”. Democrito, infatti, considerava la creazione dell'universo non come il prodotto di un disegno, ma come una interazione meccanica tra atomi che dovevano riempire un vuoto.\nPer quanto riguarda i modelli letterari, invece, né Omero né Esiodo concepirono argomenti così complessi: per entrambi il cosmo consisteva soltanto di acqua, terra, aria e di sfere celesti. Solo Esiodo ha ipotizzato l'esistenza di un caos originario antecedente a un'era di equilibrio e stabilità in cui è venuto formandosi l'universo.\nA Roma molta importanza ebbe il pensiero democriteo che - con la mediazione di Epicuro - fu diffuso da Lucrezio tramite il suo De Rerum Natura quasi cinquanta anni prima la nascita di Ovidio. Anche Virgilio ne fu influenzato e nella celebre canzone del Sileno scrive:.\n\nOvidio conosceva molto bene questo scritto di Virgilio e allo stesso modo quelli di Lucrezio, di Esiodo e di Omero. Ma secondo la Fantham Ovidio si è avvicinato al tema in maniera differente: ha elaborato una versione che ha riunito i diversi modelli filosofici e letterari che abbiamo descritto. Infatti se da una parte inizia a descrivere la creazione del mondo con la triade omerica del mare, della terra e del cielo, dall'altra si getta all'indietro nel caos originario, combinando l'idea del vuoto esiodeo con lo spazio atomistico della tradizione democritea e lucreziana. Descrivendo quindi l'origine dell'universo come qualcosa in continuo movimento, in cui la terra non offriva punti dove poter sostare, né l'acqua dove poter nuotare, Ovidio, spiega la Fantham, introduceva così anche il tema della metamorfosi e delle continue trasformazioni che la natura subisce.\n\nL'uomo: creazione, distruzione, rinascita.\nDopo gli uccelli, le bestie e i pesci, con tre parole Ovidio descrive la nascita dell'uomo: natus homo est. Ma il poeta sembra non sapersi decidere su quale sia il vero creatore dell'essere umano. Scrive infatti:.\n\nLa Fantham scrive che Ovidio sembrerebbe preferire la seconda interpretazione e il racconto - insieme all'uso di alcune specifiche parole come rudis (nel senso di “materia grezza”), finxit in effigiem deorum (a immagine degli dei, col verbo fingo che può assumere proprio il significato di “modellare” “scolpire” “forgiare”) e figuras (che in latino poteva avere anche il significato di “statua”) - suggerisce l'idea che Prometeo abbia agito come un artigiano. Il mito sembrerebbe la mescolanza di due versioni precedenti: quella narrata da Protagora nell'omonimo dialogo platoniano (nella quale l'uomo è forgiato dai due fratelli Prometeo ed Epimeteo) e quella più parodica di Callimaco (nella quale l'uomo viene modellato dal fango).\nSe dalla Teogonia Ovidio si era lasciato influenzare per spiegare una parte della sua cosmogonia, un'altra opera esiodea s'intromette nel I libro delle Metamorfosi, Le Opere e i Giorni in cui vengono descritte le diverse età dell'uomo: da quella dell'oro a quella del ferro, passando da quella argentea e del bronzo. L'età del ferro è caratterizzata da “ogni empietà; fuggirono il pudore e la sincerità e la lealtà, e al loro posto subentrarono le frodi e gli inganni e le insidie e la violenza e il gusto sciagurato di possedere” (I.128-31), si scoprirono i metalli preziosi nascosti sottoterra e gli uomini iniziarono a farsi guerra tra loro. Fu in quest'epoca che dal sangue dei Giganti (i quali avevano osato aspirare al regno del cielo ed erano stati annientati da Giove) sparso ovunque, la Terra dette vita a un'altra schiera di esseri umani, ma “anche questa schiatta fu spregiatrice degli dèi, e assetatissima di strage crudele, e violenta. Si capiva che era nata dal sangue” (I.160-2). Da questi esseri aveva origine anche Licaone, il famoso re dell'Arcadia che fu trasformato in lupo per aver servito a Giove come pasto suo figlio Arcade. Fu questo il principale motivo che causò la convocazione dell'assemblea divina nella quale venne deliberata la distruzione del genere umano. Molti critici credono che dietro al piano letterale descritto da Ovidio per l'assemblea, se ne nasconda uno metaforico: in realtà Giove altri non sarebbe che lo stesso Augusto e gli dei minori rappresenterebbero il senato. D'altronde è lo stesso Ovidio a suggerire questa lettura, paragonando la decisione di Giove con quella che a sua volta fece Augusto nel cancellare tutti i traditori e assassini di Cesare (I, 200-5): “Così, quando un'empia schiera infierì per estinguere il nome di Roma nel sangue di Cesare, il genere umano restò sbigottito di fronte a tanto spaventosa e improvvisa sciagura, e un brivido d'orrore percorse il mondo intero; e la devozione dei tuoi non è meno gradita a te, Augusto, di quanto quella degli dèi fu gradita a Giove” (I.200-5).\nUn diluvio quindi ha annientato non solo il genere umano, ma ogni essere vivente. Tuttavia Giove - che durante l'assemblea divina promise che “una stirpe diversa dalla prima, una stirpe di origine prodigiosa” (I.251-2) sarebbe ricomparsa sulla Terra – salvò dal diluvio gli unici due esseri umani che erano stati giudicati “innocuos ambo, cultores numinis ambo” - 'entrambi innocenti, entrambi devoti agli dèi'- (I.327): Deucalione con la cugina e moglie Pirra, rispettivamente figli dei fratelli Prometeo e Epimeteo. Furono loro che ripopolarono la Terra del genere umano: lanciandosi alle spalle dei sassi (le ossa della terra), i sassi stessi si trasformavano in esseri umani. Ecco dunque che si compiva una delle “più sorprendenti metamorfosi” del libro, in cui l'intera natura viene “paragonata a uno scultore”. Per quanto riguarda gli altri animali, essi furono generati dalla terra spontaneamente. In questo caso Ovidio si rifà a una teoria di Lucrezio secondo cui “l'umidità e il calore, se si temperano a vicenda, concepiscono, e dalla loro fusione nascono tutte le cose. Il fuoco, è vero, fa a pugni con l'acqua, ma la vampa umida crea tutto: discorde concordia feconda. Quando dunque la terra, tutta fangosa per il recente diluvio, si riasciugò al benefico calore dell'astro celeste, partorì un'infinità di specie e in parte riprodusse le forme di una volta, in parte creò mostri sconosciuti”(I.430-37).\n\nIl ciclo tebano.\nQuello che viene definito come “ciclo tebano” riguarda alcune storie presenti nel III e nel IV libro delle Metamorfosi che coinvolgono una intera dinastia che ha avuto origine da Cadmo. Questi, figlio di Agenore e fratello di Europa, viene costretto dal padre a partire da casa in cerca della sorella rapita da Giove. Dopo aver errato per il mondo come un esule senza alcun risultato, si rivolge all'Oracolo di Delfi supplicando Apollo di dirgli dove fermarsi, allora il dio rispose “in una campagna deserta incontrerai una vacca che non ha mai conosciuto il giogo, non ha mai tirato l'aratro ricurvo. Seguila per dove ti guiderà, e nella pianura in cui si adagerà costruisci delle mura e chiama Beozia quella regione” (III.10-3). Cadmo riesce nell'impresa, ma in una sorgente vicina al luogo prescelto dimora un enorme e mostruoso serpente che uccide alcuni dei suoi compagni di viaggio. Il futuro re di Tebe riuscirà, dopo un eroico duello, a sconfiggere il mostro, ma non farà in tempo a godere della vittoria che immediatamente una voce misteriosa che “non era chiaro da dove venisse, ma udita fu” disse “che stai a guardare il serpente ucciso, o figlio di Agènore? Anche tu sarai guardato serpente” (III.97-8). Solo la dea Pàllade, protettrice dell'eroe, riesce a distogliere Cadmo dal terrore che lo aveva colpito dopo aver ascoltato quella voce. La dea gli ordina di seminare i denti del serpente “germi di un futuro popolo” (III.103). Allora dal terreno nascono dei guerrieri che si combattono tra loro in una “guerra civile”, solo cinque rimangono in vita - tra questi vi è anche Echione – e accordandosi con loro, Cadmo fonderà la sua nuova città, Tebe. Ma l'origine violenta della città e l'inimicizia di alcune divinità come Giunone (che odiava tutta la stirpe di Cadmo, essendo questi il fratello di Europa e padre di Sèmele, entrambi amanti di Giove) e Diana, provocheranno la rovina se non della città stessa, di tutta la dinastia di Cadmo: Atteone, Ino, Agave, Autonoe, Semele e infine Penteo. Tutte le storie di questi personaggi infatti si concludono tragicamente e Cadmo:.\n\nE così la profezia dettata da quella misteriosa voce si avvera e Cadmo mentre sta subendo la trasformazione guardando la moglie Armonia, le dice: (IV.583-89).\n\nDisperata, anche la moglie supplica gli dèi di trasformare anche lei in serpente: 'Tutti i presenti – presente è il loro seguito – guardano atterriti. Ma lei accarezza il viscido collo del serpente crestato [di Cadmo], e improvvisamente sono in due a serpeggiare con spire congiunte, finché non si ritirano nel folto di un bosco vicino. Ancora oggi non fuggono l'uomo né lo aggrediscono per ferirlo. Serpenti pacifici, non hanno dimenticato che cosa furono un tempo.' (IV.598-603).\nInterpretazione di Hardie, l'Anti-Eneide e il contrasto natura-civiltà: in un articolo del 1990 intitolato “Ovid's Theban History: The First Anti-Aeneid?”, il critico inglese, ipotizza che dietro alle storie riguardanti il ciclo tebano, si nasconda la volontà di Ovidio di costruire una vera e propria “anti-Eneide”, un capovolgimento del tema fondante il poema virgiliano: la fondazione di Roma. A supporto di tale ipotesi, Hardie porta numerosi esempi e paralleli che possono essere fatti tra i due poemi. Ad esempio entrambi gli autori iniziano il libro terzo con la storia di un esule che vaga per il mondo in cerca di un posto dove insediarsi (Met III.6; En I.756 e 2.294-5), marcato in tutti e due i casi da una profezia divina che comanda di fondare la città là dove un animale deve riposarsi e stendersi: una “vacca” in Ovidio (III.10) e una “scrofa” in Virgilio (III.389 ma anche VIII.42). Hardie poi paragona l'episodio in cui Cadmo cerca i suoi compagni nella foresta con l'Ercole virgiliano del libro 8 che va in cerca dei buoi che gli sono stati rubati, e prosegue mettendo in parallelo il combattimento tra Cadmo e il serpente con quello tra Ercole e Caco. Due dettagli, secondo il critico, ci permettono di mettere a confronto i due libri: il primo è che Cadmo mentre combatte il serpente indossa una pelle di leone (3.52-3.81), il costante attributo di Ercole; secondo, che Cadmo attacca il serpente con una grande pietra (molaris, III.59) una parola rintracciabile soltanto nel III libro delle Metamorfosi e nell'VIII dell'Eneide (VIII.250) come una delle armi usate da Ercole contro Caco. Infine in Virgilio la storia di Ercole si conclude con un inno celebrativo in onore dell'eroe che è riuscito a sconfiggere il mostro (VIII.301), mentre quella di Cadmo con una voce misteriosa che gli predice la sua sventura e la sua futura metamorfosi in un serpente. In questo dunque consisterebbe il rovesciamento del poema virgiliano, e Hardie continua a elencare una serie di esempi a sostegno della sua teoria. Particolarmente interessanti sono poi le osservazioni che il critico fa sulla differenza tra città e natura selvaggia. Se la prima sembra essere un rifugio sicuro per i Tebani, la seconda invece si mostra fatale in quasi tutte le storie del ciclo a partire dallo stesso serpente (che dimora in una foresta vicina alla città) e arrivando ad Atteone e a Penteo.\nInterpretazione di Anderson, l'umanizzazione dell'epica: in un articolo del 1993 “Ovid's Metamorphoses”, il critico statunitense prende le distanze non solo dalla teoria di Hardie, ma da tutta una tradizione critica che vede nelle Metamorfosi o una semplice parodia o una brutta copia (nel caso di Brooks Otis) dell'Eneide o, infine, la volontà ovidiana di comporre una anti-Eneide. Il Ciclo Tebano è per lui nient'altro che uno dei tanti esempi che si possono fare sul come Ovidio abbia cercato di umanizzare gli eroi tipici dell'epica. Non nega che ci siano dei collegamenti tra le Metamorfosi e l'Eneide, ma crede che l'intenzione di Ovidio sia quella di “razionalizzare”, di creare un poema non-eroico. Gli esempi che Anderson porta, sono molti, sul ciclo tebano è interessante in particolare l'analisi sul discorso fatto da Penteo ai suoi uomini per spronarli al combattimento contro il dio (e cugino) Bacco e i suoi seguaci, il tipico discorso che un re o un generale fa al proprio esercito prima della battaglia:.\nSecondo Anderson il discorso retorico di Penteo è malfatto (non nel senso stilistico del termine, ma nel senso di identificazione emotiva tra lettore e personaggio), e non ha niente a che fare ad esempio con gli appelli fatti da Enea agli anziani quando ricorda il viaggio pieno di pericoli per mare o ai Penati. Cadmo non aveva dei Penati quando partì in cerca della sorella; il suo obiettivo non era mai stato quello di fondare una città su basi patriottiche e religiose, come invece doveva fare l'eroe troiano. Inoltre, Virgilio non avrebbe mai attribuito il patetico aggettivo “profugos” a delle divinità romane così importanti come i Penati: Enea era un “profugos” (E.I.2), ma i suoi dèi non sono mai stati descritti come “deboli”. Ovidio fa di Penteo un personaggio caratterizzato da un eccessivo patriottismo che oltretutto si rivela sciocco nel momento in cui, ad esempio, sprona i suoi uomini a rifarsi al coraggio e all'eroismo del mostruoso serpente originariamente ucciso da Cadmo. Tutto questo però secondo Anderson non significa che Ovidio abbia voluto creare un anti-Enea, bensì l'esempio più razionale di un essere umano.\n\nL'arte.\nNelle Metamorfosi la gelosia, l'invidia, la vendicatività degli dèi non si riversano solo in amore, ma anche nell'arte: se un mortale osa gareggiare con un dio nel canto, nella poesia, nell'arte, non importa quanto sia bravo o quanto possa essere migliore del dio stesso: subirà una punizione.\n\nPieridi: le Pieridi erano le nove figlie di Piero e di Evippe originarie della Macedonia (Emazia). Decidono di sfidare le Muse in una gara di composizione poetica in cui a fare da giudici siano delle ninfe. Vinte, vengono trasformate in gazze. La loro storia è raccontata dalla musa Urania alla dea Atena dopo che il fatto era già accaduto. Essendo quindi una musa a raccontare la storia, è possibile notare la sproporzione in termini di lunghezza di ciò che viene cantato dalla prima delle Pieridi (dal verso 318 al 331) e delle storie cantate dalle Muse che occupano tutto il resto del libro (dal verso 337 al 661). La Pieride, secondo quanto afferma ancora Urania, non si limitò soltanto a gareggiare con loro, ma nella propria storia insultò gli dèi, cantando “la guerra degli abitanti del cielo, glorificando indegnamente i Giganti e minimizzando le imprese dei grandi dèi, dicendo che Tifeo scatenatosi dagli abissi della Terra mise loro tanta paura, che tutti voltarono le spalle e fuggirono” (V.319-23).\nMarsia: Marsia era un satiro della Frigia che, raccolto il flauto inventato da Atena (e da questa gettato via per la vergogna di doverlo suonare gonfiando le guance), sfidò Apollo in una gara di musica. Non viene descritta la gara nei suoi particolari, la storia infatti parte già da quando Marsia ha perso e viene scorticato vivo dal dio. Ovidio si sofferma molto sulla descrizione del corpo straziato e sanguinolente del satiro.\nAracne: figlia di Idmone di Colofone (nella Lidia), sfida Atena nell'arte della tessitura. Per quanto si dimostri (come fa intendere Ovidio) più brava della dea, Atena non può sopportare che una mortale possa batterla: quando, infuriata, la colpisce alla testa, Aracne scappa disperata e cerca di impiccarsi. Vedendola morente, Atena ne prova compassione e la trasforma in un ragno. Come nel caso della figlia di Pierio (ma questa volta la storia è raccontata dal narratore, non da chi ha già vinto la gara e quindi può mostrarsi di parte), la colpa di Aracne non è solo quella di aver osato sfidare un dio, ma di aver rappresentato nella propria tela, una serie di ingiustizie compiute dagli dèi nei confronti dei mortali:.\nNon poteva rimanere impunito un mortale che osasse tanto contro gli dèi. Contrariamente la tela di Atena raffigura esempi di mortali puniti dagli dei:.\n\nCommentando questa gara Calvino scrisse:.\n\nOrfeo: secondo alcune interpretazioni la causa della morte di Euridice sarebbe dovuta al fatto che Orfeo si credeva superiore ad Apollo nell'arte della poesia. Nelle Metamorfosi però la storia inizia già quando Euridice è morta, e non si fa nessun cenno alle possibili motivazioni che stanno dietro a tale morte. La Fantham invece crede che ci sia una ragione della morte non tanto di Euridice, ma di Orfeo: il poeta, ritirandosi in totale solitudine, avendo come unici ascoltatori animali piante e minerali, incitando gli uomini a dedicarsi soltanto agli amori omosessuali, si sarebbe spinto troppo contronatura, provocando la rabbia delle donne della Tracia che, prese dalla Furia, lo faranno a pezzi.\nPigmalione: sappiamo da altre fonti che Pigmalione non era un artista, ma un re e che da re si infatuò di una statua della dea Venere che prese da un santuario. Ovidio trasforma Pigmalione in un timido scultore, alienato dalla società e sprezzante le donne per la loro volgarità. Solo la statua che egli stesso ha creato merita tutte le attenzioni e i doni possibili, e solo di lei Pigmalione si innamora, pregando gli dei che la rendano reale. A differenza di ciò che accade a Orfeo, il disprezzo di Pigmalione verso le donne e la società, non lo porta alla morte, ma all'esaudimento delle sue preghiere: la statua diventa una donna reale che Pigmalione sposa e dalla quale avrà la figlia Pafo.La Fantham si domanda a questo punto se Ovidio credesse davvero al fatto che un artista potesse trasformarsi in un creatore e dar vita alle cose. Quanto la storia di Pigmalione è da intendersi come il mito di una creazione artistica o piuttosto come la ricompensa per il comportamento devoto e corretto dell'artista? Questo miracolo, continua la Fantham, è in realtà una espressione meno sincera della fede di Ovidio nei poteri dell'arte rispetto ai miti della poesia e della musica che li precedono e li seguono.\nDedalo: nella mitologia greca Dedalo era famoso non solo come architetto, ma anche come grandissimo scultore capace di dar vita alle proprie statue. La Fantham si chiede per quale motivo Ovidio abbia voluto invece presentare Dedalo solo come architetto e inventore, rendendolo il costruttore del labirinto di Creta e l'ideatore delle ali che permetteranno a lui e al figlio Icaro di fuggire dalle prigioni del re Minosse. Forse Ovidio, scrive la Fantham, ha preferito presentarlo solo in questo modo perché le storie riguardanti Dedalo non si concludevano con delle metamorfosi oppure perché non voleva che qualcuno contendesse il titolo di scultore a Pigmalione. D'altronde l'orgoglio dell'artista viene fuori quando per gelosia e invidia uccide il nipote Pernice, inventore della sega e del compasso.\n\nLa rappresentazione del genere femminile.\nIl cambiamento di sesso: nelle Metamorfosi sono quattro i personaggi che subiscono un cambiamento di sesso: Tiresia, Ermafrodito, Ifi e Ceneo.Tiresia fu trasformato da uomo in donna e nuovamente da donna in uomo per aver toccato (entrambe le volte) due serpenti che stavano accoppiandosi. Proprio per questo motivo fu chiamato a rispondere di una discussione che stava avvenendo tra Giove e Giunone: su chi tra la donna e l'uomo goda maggiormente durante un rapporto sessuale. Giove sostiene che sia la donna e Tiresia conferma questa affermazione scatenando l'ira di Giunone che lo punisce rendendolo cieco (ma Giove gli dona il potere della preveggenza). Ermafrodito mentre nuotava in uno stagno presso Alicarnasso, nella Caria, fu aggredito dalla ninfa Salmacide che incantata della sua bellezza si avvinghiò a lui e con lui si fuse in un corpo che è insieme di maschio e di femmina (lo stagno stesso conservò il potere di effemminare i maschi) [IV 285-388].Gli altri due personaggi sono stavolta originariamente femminili e sono indicativi di quanto all'epoca il genere maschile venisse considerato superiore a quello femminile. Un esempio ne è proprio la storia di Ifi [IX 666-797], allevata come maschio perché il padre Ligdo non la uccida. Quest'ultimo era infatti poverissimo e disse alla moglie ancora in gravidanza che avrebbero potuto permettersi soltanto un maschio utile ai lavori di fatica, ma una femmina avrebbero dovuto eliminarla, non avendo risorse per mantenerla. Fu la dea Iside a rassicurare la madre e a dirle di allevare ugualmente Ifi come un maschio. Crescendo la figlia si innamorò di Iante, ma Ifi sentiva che non avrebbe mai potuto possederla. In un disperato monologo Ifi dice di sentirsi mostruosa, più mostruosa di Pasifae che ebbe un rapporto sessuale con un toro, in quanto lei almeno era stata attratta da un toro maschio e aveva avuto modo di consumare le sue voglie perverse. Lei invece era attratta da una persona del suo stesso sesso. Il monologo è esemplificativo di quanto la società greco-romana, per quanto accettasse rapporti omosessuali tra uomini, non accettasse con la stessa tolleranza rapporti omosessuali tra donne. Fu ancora Iside a trasformare Ifi in un maschio proprio durante le nozze con Iante e a esaudire così le sue preghiere.L'ultimo esempio di trasformazione sessuale riguarda Ceni della Perrebia che una volta stuprata da Nettuno, chiese al dio di essere trasformata in uomo così da non dover subire più violenze. Il dio esaudisce le sue preghiere trasformandola non solo in un uomo, ma in un guerriero invulnerabile che, col nome di Cèneo e dalla parte dei Lapiti, dopo aver fatto strage di molti centauri, viene sconfitto dagli stessi solo tramite il rovesciamento di alberi interi sopra di lui.Lo stupro: il tema dello stupro di dèi o uomini ai danni della donna è molto ricorrente all'interno dell'opera. Il poema inizia con il tentativo di stupro di Apollo su Dafne e continua con una serie interminabile di altre storie: lo stupro di Giove su Ino e su Callisto, quello tentato da Pan su Siringa o da Alfeo su Aretusa e molti altri. Come Aracne rende esplicito nel proprio arazzo, gli dei ottengono sempre quello che vogliono e spesso lasciano gravide le vittime delle loro violenze. Come suggerisce la Fantham, il fatto che questo tema sia così ricorrente all'interno dell'opera ci fa capire quanto il pubblico ovidiano ne fosse coinvolto a livello di intrattenimento. Particolarmente cruento è l'unico stupro che ha per protagonisti soltanto esseri umani, quello di Tereo ai danni della cognata Filomela, sorella di Procne. In questa storia Ovidio combina i peggiori crimini a cui l'uomo possa spingersi: oltre allo stupro, l'incesto, l'infanticidio e il cannibalismo. Tereo, come d'altronde Apollo, Pan, Alfeo e tutti gli stupratori, sono descritti come veri e propri predatori, animali che ambiscono sessualmente alla propria preda.La maternità: nelle Metamorfosi la vita delle donne descritte da Ovidio prosegue anche dopo uno stupro, un concepimento, un matrimonio, un parto e nei casi più tragici, anche dopo la perdita prematura del proprio figlio. Ovidio dedica molto più spazio di quanto non abbiano fatto i poeti a lui antecendenti e contemporanei al rapporto madre figlio durante la gestazione e nei primi mesi del neonato. Anche in questo caso gli esempi non mancano: la gravidanza di Semele, odiata da Giunone che con un tranello riuscì a farla uccidere da Giove, porterà alla nascita miracolosa e prematura del dio Dioniso; quella di Latona che partorirà i divini Apollo e Diana, dopo una gestazione passata a fuggire continuamente l'ira di Giunone; quella di Alcmena che partorirà Ercole - contro la volontà ancora una volta di Giunone – grazie alla furbizia di Galantide; e quella tragica di Driope il cui figlio ancora bambino la guarderà trasformarsi nella pianta del loto acquatico (il giuggiolo). La Fantham crede che Ovidio scrivesse per un'audience femminile e sapesse benissimo non soltanto descrivere la donna come l'oggetto del desiderio dell'uomo, ma nella sua psicologia e nella sua posizione all'interno del contesto familiare. Il monologo di Driope, la maternità disperata di Latona, le intimità che si raccontano Alcema e Iole dipingono un mondo femminile conosciuto e profondamente sentito.Le madri in lutto: un tema che merita un paragrafo a parte riguarda proprio la prematura morte dei figli. Nella Roma di Ovidio, così come nella Grecia antica, era usanza che fosse la madre a chiudere gli occhi e a preparare le salme dei familiari morti. Morta lei, sarebbero stati i figli a occuparsi della sua cremazione o della sua sepoltura. Ovviamente era anche allora ritenuto conforme alle leggi naturali che fossero i figli a seppellire i genitori e non il contrario, eppure molto spesso la guerra, le carestie e le malattie invertivano questa legge e non erano rari i casi in cui i corpi dei defunti andavano dispersi e non potevano ricevere degni rituali funebri. È questo uno dei punti chiave su cui Ovidio ricostruisce la narrazione di alcune storie tragiche all'interno del poema. È il caso ad esempio di Climene, madre di Fetonte, folgorato da un fulmine lanciato da Giove. Climene gira il mondo con l'aiuto delle sorelle in cerca della sua salma e quando finalmente riesce a trovarla scopre che è già stata seppellita da alcune ninfe che hanno inciso sulla tomba un epitaffio. Così la madre può solo abbracciare quel nome sulla fredda tomba e le sorelle prolungarono così tanto il loro lutto che si trasformarono in pioppi piangenti (II.340-66). Ci sono poi la storie di Procne che uccide il proprio figlio o quella di Ecuba, ma il prototipo della madre in lutto è - più di tutte queste - Niobe, la moglie di Anfione, che a causa della sua superbia perse i suoi 14 figli (7 femmine e 7 maschi) e il marito. Impedì infatti che i tebani offrissero doni alla dea Latona perché madre soltanto di due figli e a sua volta figlia di “un Titano qualunque”: “che follia è mai questa – dice – anteporre dèi che si conoscono solo per sentito dire a dèi che si vedono? Insomma, perché davanti agli altari si adora Latona, mentre ancora non si degna d'incenso la mia divinità?” [VI.170-72]. Fu Latona a comandare ai suoi due figli Apollo e Diana l'esecuzione dei 14 di Niobe. Ed è questo uno dei tanti casi all'interno del poema epico in cui a morire non sono i colpevoli, ma gli innocenti. La morte dei figli è descritta in maniera molto cruda e caratterizzata da immagini sanguinolente, come nel caso di Alfènore che nel tentativo di estrarre la freccia dal proprio corpo, strappa via un pezzo di polmone. Immobilizzata dal dolore, Niobe, può solo pietrificarsi.\n\nL'amore.\nSono stati molti i critici che hanno individuato come tema principale delle Metamorfosi l'amore, e non c'è dubbio che quello che Brooks Otis nel 1970 ha definito “the patos of love” (la passione d'amore) sia il cuore dell'opera che si sviluppa a partire dall'episodio di Tireo del libro VI e si conclude al libro XI con i racconti d'amore cantati da Orfeo.\n\nGli amori proibiti.\nMedea: dopo lo stupro di Filomela per opera di Tereo nel libro VI di cui abbiamo già parlato, è Medea il primo personaggio che introduce il colpo di fulmine e il complesso meccanismo psicologico dell'innamoramento, creando l'archetipo delle donne innamorate dei libri successivi. Il VII libro è infatti dedicato agli Argonauti o più precisamente a Giasone che con altri eroi greci partì alla ricerca del vello d'oro. Il pubblico di Ovidio già conosceva il racconto mitologico grazie all'opera di Apollonio Rodio, Le Argonautiche, e all'adattamento di Varrone: Giasone riesce nella missione grazie all'aiuto della maga Medea che pur di seguirlo uccide anche il fratello Apsirto. L'eroe greco però abbandona Medea per sposare la principessa greca Glauce. Scacciata in esilio, Medea uccide la sposa e i figli di Giasone. Nella tradizione classica, la fonte primaria del racconto è la tragedia di Euripide, che fu riadattata da Ennio all'inizio del II secolo a.C.. Ovidio si interessò molto al personaggio tanto da scriverne una tragedia (Medea) - andata perduta ma considerata al tempo il suo capolavoro - e un monologo inserito in una delle lettere delle Eroidi. La Medea delle Metamorfosi però è diversa da ogni altra Medea apparsa nelle opere precedenti: per lei Ovidio scrive un monologo che riflette sulla lotta tra ragione e sentimento:Il suo amore per lo straniero è avvertito come azione proibita e la maga è consapevole del suo possibile sviluppo nefasto. Così, nonostante la storia di Ovidio si concentri principalmente sull'esercizio della magia da parte di Medea per salvare il padre di Giasone e distruggere il suo nemico Pelia, i lettori del primo monologo sentono la drammatica ironia generata dalle prospettive di Medea, dai tragici eventi che verranno a svilupparsi in seguito e da come un futuro immaginato riesca a innescare una serie di pensieri e desideri pieni di speranza. La voce della ragione fa costantemente parlare Medea in seconda persona singolare (17-8, 21-4, 69-71). Nel monologo comprendiamo che il dovere e la castità hanno trionfato fino a quando non hanno incontrato Giasone, poi l'amore ha preso il controllo e il dovere è stato dimenticato. Da questo punto di vista, Medea anticipa gli amori incestuosi e proibiti di Scilla, di Biblide e Mirra che seguiranno nei libri successivi.\nScilla: Scilla è figlia di Niso re di Megara (VIII libro), si innamora di Minosse re di Creta durante l'assedio di questi alla città del padre. Decide di porre fine alla guerra tradendo Niso, ovvero tagliandogli durante il sonno il capello rosso che, secondo la versione ovidiana, garantiva l'inespugnabilità della città. Quando Scilla lo consegna a Minosse insieme alle chiavi di Megara, il re cretese conquista la città, ma non porta con sé la principessa, inorridito lui stesso dal suo gesto. Disperata, Scilla si tuffa in mare per raggiungere le navi di Minosse che tornava in patria. Il padre, guardandola, si tuffa disperato probabilmente per ucciderla, ma si trasforma in aquila marina, mentre Scilla in gabbiano.\nBiblide: l'altra storia d'amore proibita si svolge al libro IX e ha per protagonisti i figli Biblide e Cauno, gemelli figli di Mileto (a sua volta figlio di Apollo) e di Ciànea. Man mano che crescono insieme Bibilide si accorge che l'affetto che nutre nei confronti di Cauno è più di un semplice amore fraterno. Dopo un tormentato monologo il cui meccanismo è simile a quelli di Medea, Scilla e come vedremo di Mirra, Biblide decide di scrivere una lettera a Cauno in cui confessa il proprio amore. Respinta, scappa in preda al rimorso e alla follia fin quando sfinita dal troppo errare non si scioglie in lacrime, trasformandosi in una fonte che prenderà il suo nome.\nMirra: nel libro X Orfeo si propone di narrare gli amori omosessuali degli dei per i mortali, ma si sofferma a un certo punto a cantare l'amore incestuoso di Mirra per il padre, un amore che secondo lui può essere stato indotto soltanto da una Menade, non da Cupido. La principessa avrebbe molti corteggiatori, ma lei li respinge tutti perché nessuno somigliante a Cinira, suo padre. Ovidio introduce il racconto con venti versi in cui non dice niente del fatto, ma si limita a descriverlo aumentandone la suspense con aggettivi e allusioni all'oscenità di ciò che sta per raccontare (“Canterò cose terribili. Allontanatevi, o figlie, allontanatevi, o padri! [...]” X.300). D'altronde il pubblico ovidiano conosceva già la storia di Mirra e la rielaborazione più prossima del mito era la Zmyrna (l'altro nome con cui è conosciuta la principessa), un poema di Cinna, amico di Catullo. Come nel caso di Medea, anche l'innamoramento di Mirra è descritto attraverso un lungo monologo in cui contrastano la ragione e il sentimento. Stesso Mirra infatti ammette che l'amore provato nei confronti del padre è vergognoso e ispirato da una Furia, ma è la nutrice a interrompere i suoi pensieri e a convincerla a passare all'azione. Numerosi critici hanno notato che la scena è stata ispirata dall'Ippolito di Euripide in cui la nutrice di Fedra la matrigna innamorata del figliastro Ippolito, va da lui a confidargli il segreto. A differenza però della tragedia euripidea in questo caso l'amore incestuoso viene consumato e l'atto sessuale combinato dalla nutrice avviene di notte con luna e stelle coperte e con Mirra che travestita va dal padre Cinira che la aspetta in una stanza buia. Ma come con Tereo una volta non basta e lei consuma la sua passione fino a quando il padre non decide di accendere una luce per vedere con chi ha a che fare. Appena vede la figlia, sguaina la spada per ucciderla, ma Mirra riesce a scappare. Rimasta gravida del padre fugge per nove mesi, poi sfinita supplica gli dèi che le diano una pena consona alla sua empietà: ovvero che non meriti né la morte e quindi la discesa nell'Ade, né tantomeno la vita. Gli dèi esaudiscono la preghiera trasformandola in un albero, la Mirra appunto. In questo modo la principessa perde la sua umanità ma continua a stillare lacrime profumate dall'albero. Ovidio dedica poi ampio spazio alla descrizione di come Lucina riesca a estrarre dall'albero il bambino che Mirra aspettava: Adone. In questo modo Orfeo si ricollega in parte al proprio proposito iniziale di raccontare gli amori omosessuali degli dei per i mortali, anche se in questo caso l'amore descritto è eterosessuale, tra Venere e, appunto, Adone.\n\nI tragici amori degli dèi per i mortali.\nCiparisso e Giacinto: prima di parlare di Venere e Adone, Ovidio nel libro X si sofferma appunto a cantare due racconti d'amore omosessuale, del genere degli aitia callimachei, che legano gli dèi ai mortali. La prima storia riguarda Ciparisso, un giovane di Ceo amato da Apollo che involontariamente uccide un cervo sacro e addomesticato di cui era amico. Disperato e in preda ai rimorsi supplica di dèi di poter essere in lutto per l'eternità. Apollo, dispiaciuto esaudisce la sua preghiera e lo trasforma così in un cipresso.L'altro racconto riguarda invece Giacinto, anche lui amatissimo da Apollo, ma ucciso accidentalmente da un disco lanciato dal dio stesso mentre stavano giocando. Dopo il disperato tentativo di riportarlo in vita, Apollo pronuncia il lamento che Orfeo riproduce, concludendo con la promessa che un nuovo fiore avrebbe imitato nella scrittura il suo pianto di dolore, che avrebbe avuto un secondo impiego nell'onorare un eroe. Si allude a questo punto alle lettere AIAI, Ajax ovvero Aiace di cui si parlerà nel libro XIII.Per quanto i racconti sembrino molto simili nella loro tragicità, esistono delle differenze. Il racconto di Ciparisso è introdotto per spiegare l'origine dell'albero del cipresso e la storia d'amore tra il ragazzo e il dio viene menzionata solo in funzione del fatto che Apollo esaudisce la preghiera di Ciparisso, come fosse una forza esterna alla storia e non un personaggio reale e visibile agli occhi del ragazzo. Nel caso di Giacinto invece non si parte dalla pianta per descrivere la trasformazione, ma viceversa si parte dalla storia d'amore tra il ragazzo e il dio entrambi fisicamente presenti nel racconto, con Apollo che disperato prova a rianimare Giacinto quando accidentalmente lo colpisce col disco col quale stavano giocando.\nVenere e Adone: per quanto riguarda invece la storia d'amore tra Adone e Venere, essa sembra che si basi maggiormente sul rapporto materno e protettivo che ha Venere nei confronti di Adone. La dea si diverte ad andare a caccia con lui, e lo avverte, ammonendolo, che dovrebbe cacciare solo animali non pericolosi ed evitare leoni e i cinghiali, animali che lei disprezza totalmente. Adone ne chiede il motivo e Venere inizia a raccontare la storia di Atalanta, la principessa d'Arcadia che, non volendosi sposare, sfida ogni pretendente a batterla nella corsa con il patto che se lo sfidante dovesse perdere la gara sarà condannato a morte, ma che in caso contrario potrà sposarla. In molti cercheranno di affrontare la gara, ma tutti non riusciranno nell'impresa.Solo Ippòmene pronipote di Nettuno riesce a vincere distraendo la principessa col lancio di tre frutti d'oro, dono di Venere, e dunque ottiene la sua mano; ma poiché Ippòmene una volta riuscito nell'impresa non ringrazia la dèa, ella si vendica accendendo in loro un ardimento all'interno di un tempio sacro. I due vengono così trasformati in leone che mostrano la loro aggressività uccidendo e mangiando gli altri esseri umani. Raccontata questa storia e avvisato dunque Adone di non avvicinarsi a questi animali aggressivi, la dea se ne va, ma il ragazzo durante una battuta di caccia viene ucciso proprio da un cinghiale. Venere che lo raggiunge quando ormai era morto, disperata, trasforma il suo sangue in un fiore, l'anemone e annuncia che ogni anno Adone verrà ricordato tramite una festività che da lui prenderanno il nome, le feste Adonie.\n\nL'amore coniugale.\nDeucalione e Pirra: quella di Deucalione e Pirra è, tra tutte le coppie, forse quella meno caratterizzata. Sono i soli due esseri umani considerati giusti dagli dèi a essere sopravvissuti al diluvio universale che ha annegato ogni essere vivente. È grazie a loro e alle loro preghiere che il genere umano viene a ricrearsi e ha la possibilità di riscattarsi. La loro funzione però è solo questa, non si descrive la coppia come tale e non siamo a conoscenza di quel che succederà loro una volta compiuta la loro missione di riformare il genere umano dalle pietre che devono lanciarsi alle spalle.\nCadmo e Armonia: è il primo esempio di amore coniugale ben definito e in un certo senso archetipo dei successivi. D'altronde secondo la tradizione mitologica le nozze di Cadmo e Armonia furono le prime della storia a cui partecipò tutto l'Olimpo. Sebbene la loro dinastia fu maledetta e tutti i loro figli e nipoti perirono a causa dell'uccisione del serpente sacro da parte di Cadmo (vedi Ciclo Tebano), i due coniugi perdurarono nell'amarsi anche da anziani. Quando Cadmo venne trasformato in serpente, la moglie scongiurò gli dèi che anche lei subisse la stessa trasformazione. “Ancora oggi, non fuggono l'uomo né lo aggrediscono per ferirlo. Serpenti pacifici, non hanno dimenticato che cosa furono un tempo” (IV.602-3).\nFilemone e Bauci: poveri e pii vecchietti della Frigia, Bauci e il marito Filemone sono i soli a ospitare Giove e Mercurio, cui offrono un pasto frugale, e soli si salvano quando gli dèi sommergono la zona; la loro capanna si trasforma in un tempio. Quando Giove per ricompensarli dice loro di esprimere un desiderio, Filemone (consultatosi brevemente con Bauci) chiede:.\nOrfeo ed Euridice: in Ovidio il loro rapporto prima delle nozze non è descritto. È solo Orfeo a sentire così tanto la mancanza della coniuge da discendere nell'Ade per riportarla con sé nel mondo dei vivi. Fallendo in questo tentativo, vive nel ricordo della moglie e giura che non guarderà più nessuna donna e anzi invita gli uomini a dedicarsi solo ad amori omosessuali. Le donne della Tracia però colte dalla Furia, lo faranno a pezzi. Quando Orfeo muore e scende nell'Ade può finalmente raggiungere la sua amata Euridice e stare con lei. Come hanno notato Segal e la Fantham, sembrerebbe che un amore sincero non possa avverarsi nel mondo reale, ma abbia bisogno di una trasformazione che se nel caso di Cadmo e Armonia e di Filemone e Bauci si rispecchia in una metamorfosi, nel caso di Orfeo ed Euridice in un passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti. Solo in questo modo è possibile un lieto fine.\nCefalo e Procris: come scrive la Fantham, quella tra Cefalo e Procri è una storia d'amore diversa dalle altre perché basata sulla gelosia. La vicenda è raccontata dallo stesso Cefalo a Foco che incuriosito dal suo giavelloto ne chiede la provenienza. Cefalo risponde che gli è stato regalato, ma avrebbe preferito non averlo mai ricevuto visto quel che capitò successivamente. Così inizia a raccontare la sua storia. Cefalo fu rapito dall'Aurora, ma era così innamorato di Procri che la dea lo ricacciò indietro dalla moglie avvertendolo però che si sarebbe pentito di tale scelta. Cefalo rimuginando su questo avvertimento crede che la moglie possa essergli stata infedele. Decide così di rendersi irriconoscibile a Procri e di corteggiarla facendole una serie di proposte. Quella respinge ogni corteggiamento, mostrandosi fedele fintanto che l'uomo non le fa una offerta così conveniente da lasciarla per un attimo perplessa. Cefalo sfrutta questa sua perplessità e si svela maledicendola. I due però si riappacificano e passano giorni felici insieme. Ma durante una battuta di caccia Procri, preoccupata per alcune dicerie che volevano Cefalo amante dell'Aurora, segue in segreto il marito, il quale sentendo un rumore tra i cespugli e credendo si trattasse di una preda lancia il giavellotto trafiggendo così la moglie. Le dicerie che erano arrivate all'orecchio di Procri nascevano in realtà da un fraintendimento: Cefalo era infatti solito riposarsi un poco dalla calura durante le battute di caccia e pronunciare queste parole:.\nAura, viene così scambiata per una donna. Ovidio ha cambiato e semplificato i tratti tradizionali del racconto che si basava su molti più fraintendimenti. La Procri di Ovidio è innocente. Nicandro e altri scrittori greci avevano invece scritto che alcune infedeltà sia da parte di Cefalo sia da parte di Procri erano avvenute sul serio. In una versione, Cefalo era stato lontano da sua moglie per otto anni solo per verificare la sua fedeltà, prima di tornarsene travestito sul malevolo consiglio dell'Aurora. In un'altra, Procris era fuggita dal Re Minosse di Creta, diventandone la sua padrona e curandolo da una ripugnante malattia. In cambio di tale servizio Minosse, non Diana (come vuole invece la versione di Ovidio), le regalò la lancia magica. Lei stessa poi si travestì da giovane uomo, cercando l'amicizia di Cefalo e offrendogli la lancia in cambio di una relazione omosessuale (e dato che Cefalo prese la lancia, dobbiamo dedurne che accettò). Ovidio ha poi potuto giocare sulla somiglianza delle due parole latine Aurora e Aura (impossibile invece in greco), basando su quello tutto il fraintendimento del racconto. La Fantham, paragonando questa storia d'amore coniugale alle altre (in particolar modo a quella di Cadmo e Armonia, di Filemone e Bauci e a quella, come vedremo, di Alcione e Ceice), crede che in realtà i due coniugi non si amassero veramente o almeno che Cefalo non amasse così tanto Procri, per quale ragione altrimenti non si sono trasformati insieme? La risposta rimane incerta, nel racconto che Cefalo fa a Foco comunque non sembrerebbero esserci dubbi sull'amore che prova lui nei confronti della moglie scomparsa.Ceice e Alcione: anche in questo caso Ovidio è intervenuto cambiando il racconto tradizionale, secondo cui i coniugi sarebbero stati puniti per essersi posti al pari della coppia divina Giove e Giunone, tanto da farsi chiamare con i loro nomi. Ovidio elimina ogni forma di colpevolezza dalla loro storia, rendendo sia Alcione sia Ceice vittime innocenti del destino. Ha poi arricchito la storia inserendovi la grandiosa descrizione della tempesta che sommerge la nave e affoga Ceice con tutto l'equipaggio, caratterizzando Alcione con un particolare sesto senso femminile, incrementando il pathos del racconto con una serie di tecniche narrative (lo sguardo di Alcione che guarda la nave allontanarsi e poi sparire all'orizzonte, e quello tentato da Ceice verso casa quando ormai è troppo lontano e consapevole di essere spacciato). Il poeta mette ripetutamente espressioni di devozione e di dolore in bocca ai protagonisti in modo che il suo pubblico si immedesimi in questi sentimenti: né la terribile tempesta nella parte centrale della narrazione, né la descrizione della misteriosa casa del Sonno permettono ai lettori di dimenticarsi dell'amore dei due protagonisti. Così come succede con Filemone e Bauci, con Cadmo e Armonia e con Orfeo ed Euridice, la salvezza sta nella trasformazione. Sia Alcione sia Ceice infatti si trasformano in gabbiani (o albatri o comunque uccelli marini) e possono così vivere insieme felici.\n\nGli eroi.\nLe Metamorfosi traggono molta della loro vitalità dai racconti delle imprese degli eroi, in particolar modo quelli pre-Omerici, che erano scelti per affrontare avventurose missioni o vagavano per il mondo greco quando ancora era disabitato, affrontando mostri, briganti, popolazioni selvagge e piaghe di ogni tipo. Cadmo affrontò il serpente per fondare Tebe nella Beozia, Cefalo la volpe di Teumesso, Peleo il lupo in Tessaglia, e i migliori e più brillanti eroi greci dovettero cacciare il cianghiale inviato da Diana nella Calidone.\nMentre col il termine di eroe si intende generalmente figlio di un dio e un mortale, non tutti gli eroi ebbero genitori divini. Ovidio dedica molto spazio in particolare a questi quattro eroi: Perseo, figlio di Giove e Danae; Teseo, figlio di Nettuno e di Etra; Giasone, figlio di genitori mortali; e Ercole, figlio di Giove e Alcmena. Mentre il pubblico greco e romano poteva appassionarsi ad esempio al racconto pieno di suspense del combattimento tra Cadmo e il serpente, Ovidio ha voluto prendere da queste storie solo ciò che offriva una occasione nuova e una soddisfacente messa in scena della virtus, “virilità”, mostrata sia attraverso il coraggio, ma anche con l'ingenuità.\nD'altronde Ovidio presenterà tutti gli eroi più famosi della tradizione greco-romana (non solo quelli pre-omerici quindi, ma anche quelli omerici e romani) trascurando le loro imprese più note, non volendosi probabilmente mettere sullo stesso piano di Omero e di Virgilio. Si concentrerà invece su avventure poco conosciute e soprattutto sulle metamorfosi che con gli eroi assumono la connotazione di una vera e propria apoteosi.\n\nGli eroi pre-omerici.\nGiasone: Giasone è una eccezione perché Ovidio in questo caso preferisce concentrarsi maggiormente sul personaggio di Medea che in realtà oltre a essere la vera protagonista dell'episodio è anche colei cui vanno meriti della missione riuscita.\nPerseo: Perseo è il primo eroe che porta con sé qualcosa di nuovo. Prima di tutto Ovidio lo introduce quando ha già combattuto e vinto Medusa nella sua impresa più celebre. Due sono le imprese a cui deve sottoporsi nelle Metamorfosi, entrambe svoltesi in terra africana e al tempo meno note: quella con Atlante e il salvataggio di Andromeda.\nTeseo: anche per quanto riguarda Teseo, Ovidio preferisce introdurlo quando ha già compiuto gran parte delle sue fatiche più note combattendo i briganti insediati tra Trezene e Atene e ripulendo l'Istmo di Corinto. Viene presentato quando giunge alla corte del padre Egeo che non lo riconosce. A riconoscerlo è invece Medea la nuova moglie del re (e dunque madrina dell'eroe) che prova ad avvelenarlo con l'aconite per paura che, ora che è tornato in patria, venga scelto come il vero successore al padre al posto del proprio figlio. Anche in questo caso Ovidio preferisce soffermarsi sull'origine di tale veleno e accennare soltanto all'impresa di Ercole che, secondo la tradizione, liberò Teseo dall'Ade trascinando via dagli Inferi Cerbero (dalla bava del quale nacque appunto l'aconite).\nErcole: la vita di Ercole includeva troppe fatiche perché Ovidio potesse inserirle tutte all'interno della propria opera. Per quanto l'eroe all'interno delle Metamorfosi sia quello, tra gli eroi pre-Omerici, più amato dal pubblico ovidiano, il poeta non poteva dedicargli così tanto spazio. Infatti i romani adottarono il culto di Ercole prima di ogni altro culto greco, tanto da non farne più solo un eroe greco, ma un eroe romano. Nelle Metamorfosi l'eroe non si incontra mai direttamente, ma sempre attraverso il racconto di qualcuno: nel libro IX a raccontare le sue imprese è Acheloo, il dio fluviale interrogato da Perseo sul perché avesse un corno spezzato. La causa fu proprio Ercole che combatté con lui per ottenere la mano di Deianira. Vengono poi brevemente raccontate le fatiche principali dell'eroe, ma Ovidio ha particolare interesse a descrivere la terribile morte di Ercole e soprattutto la sua deificazione. Infatti dietro alla drammaticità dell'evento Ercole simboleggia il primo uomo reso divino dopo la morte, facendo dell'eroe l'archetipo di Enea e più avanti di Cesare.\nLa Fantham ha notato che ci sono due affermazioni particolarmente rilevanti in questa descrizione della deificazione, evidenziate in corsivo nel testo. Parte meliore è il sintagma con cui Ovidio si riferisce a sé stesso negli ultimi versi del poema (XV.875) quando eterna il proprio poema; augusta gravitate verendus era un omaggio ad Augusto stesso. D'altronde i romani non distinguevano propriamente i nomi propri dagli aggettivi con la lettera maiuscola e Ovidio scelse la parola augusta verendus proprio come riferimento al proprio imperatore. Il poeta sta invitando i suoi lettori a vedere nella deificazione di Ercole una premonizione di quel che succederà successivamente a Ottaviano - conosciuto appunto come Augusto dal 27 a.C., in greco come Sebastos, in latino come verendus.\n\nGli eroi omerici.\nAchille: Ovidio non vuole mettersi sullo stesso piano di Omero e dedica ad Achille due episodi che nell'Iliade non vengono descritti: il duello con Cicno e la morte dell'eroe stesso. Cicno, figlio di Nettuno, era invulnerabile al ferro. Quando Achille si abbatte su di lui, si infuria non riuscendo a comprendere il motivo per cui non riesca a infliggere nessun danno all'avversario. Riesce a sconfiggerlo solo strozzandolo con il laccino dell'elmo. Il padre Nettuno, impietosito, lo trasforma in un cigno. Come nel caso del primo combattimento di Ercole presentato nelle Metamorfosi (quello contro Nesso), il primo duello di Achille è legato alla sua morte. È infatti proprio Nettuno a prendere l'iniziativa contro l'eroe greco, ricordando tra le tante atrocità commesse anche l'uccisione del figlio Cicno. Chiede che sia Apollo a occuparsi della sua morte, e infatti sarà proprio Apollo a indirizzare l'arco di Paride contro Achille uccidendolo. L'eroe greco ricompare un'altra volta all'interno del poema: la prima volta risorge dagli Inferi e ordina agli amici achei imbarcati di tornare in patria dopo la vittoria a Troia e di sacrificare per lui Polissena, l'ultima e la più giovane discendente di Priamo. Infine di Achille si parla indirettamente in occasione della contesa della propria armatura e per l'uccisione di Memnone, figlio dell'Aurora.\nUlisse: di Ulisse si parla solo nell'episodio della contesa dell'armatura di Achille con Aiace. Aiace voleva riscattare l'armatura per sé, dicendo che sarebbe servita molto di più a un uomo come lui che sapeva combattere piuttosto che a un uomo come Ulisse che sapeva usar bene solo la lingua e l'intelligenza per sopravvivere. Ulisse a sua volta, in un discorso retoricamente perfetto ricostruito per intero da Ovidio, riesce a far passare Aiace come uomo di soli muscoli e di poco cervello e, inoltre, a darsi i meriti di gran parte dei successi avuti durante la guerra di Troia. La contesa sarà quindi vinta da Ulisse e Aiace non sopportando l'offesa ricevuta si toglierà la vita. Per quanto riguarda invece le famose peripezie omeriche narrate nell'Odissea, è Macarèo, un naufrago dell'equipaggio di Ulisse dimenticato nel Lazio, a raccontare velocemente a Enea tutte le peripezie dell'eroe greco, soffermandosi in particolare sulle metamorfosi subite dai suoi compagni nell'isola di Circe.\n\nEnea e gli eroi romani.\nEnea: come nel caso degli eroi omerici, Ovidio non vuole metterersi sullo stesso piano di Omero né tanto meno di Virgilio. Così anche nel caso di Enea accenna soltanto alle sue avventure più importanti. È la deificazione dell'eroe troiano che interessa al poeta.\nRomolo: ancora una volta come nel caso ormai di molti altri eroi delle Metamorfosi, Ovidio elenca abbastanza velocemente le imprese del primo re di Roma. È la sua divinizzazione a essere descritta con maggiore attenzione, questa volta per opera di Marte che ne chiede il permesso a Giove:.\nCipo: Cipó era un pretore romano che mentre si specchiava su di un fiume si accorse di avere due corna in testa. Chiestane la spiegazione a un indovino, gli venne riferito che quelle corna erano un simbolo di potere e se soltanto ne avesse avuto la volontà sarebbe potuto entrare a Roma e incoronarsi re fintanto che fosse restato in vita. Cipo però rifiutò pubblicamente di entrare a Roma, negando di volersi fare re. Come segno di riconoscimento per tale scelta, il popolo romano regalò a Cipo un enorme territorio fuori dalle mura e per ricordarlo in eterno furono scolpite sulle porte di bronzo della città corna uguali alle sue.\nEsculapio: Esculapio o Asclepio è il figlio di Apollo e di Coronide che, esperto nella medicina, dopo essere stato fulminato per aver ridato vita a Ippolito, resuscita e diviene immortale, il dio della medicina. Il popolo romano, devastato da una peste che sta infestando la città, decide di consultare l'oracolo di Delfi per supplicare Apollo di aiutarli. Apollo però dice loro che solo suo figlio Esculapio potrà salvarli e che dovranno cercarlo in una città più vicina a Roma di quanto non sia Delfi: Epidauro. Esculapio, in forma di serpente, parte da Epidauro e arriva a Roma insediandosi nell'isola Tiberina e guarendo così il popolo romano dalla peste.\nGiulio Cesare e Ottaviano: con Cesare si concludono le divinizzazioni dei mortali e degli eroi. Anche in questo caso Ovidio si sofferma poco a raccontare le imprese gloriose del generale romano. Più importanza viene data alla congiura e alla sua morte. È ancora una volta Venere, la madre di Enea da cui Cesare discende, a fare del generale romano un dio. La metamorfosi in questo caso consiste nella trasformazione dell'anima di Cesare in stella cometa.\nMa come comprendiamo seguitando nella lettura, anche Augusto seguirà il destino del padre,.\n\nIl discorso di Pitagora: vegetarianismo e metempsicosi.\nNell'ultimo libro delle Metamorfosi Pitagora è il protagonista di un discorso di più di quattrocento versi (vv.60-478). Il tema centrale è il mutare del Tutto. Introdotto nel poema come maestro di Numa a Crotone, Pitagora apre la sua “lezione” con un appassionato invito, in nome della pietà, a non cibarsi di carne ma dei soli prodotti della terra, parla quindi dell'immortalità dell'anima e della metempsicosi, e dicendo di ricordarsi di essere personalmente stato, in una vita anteriore, il troiano Euforbo, spiega come tutto si trasformi e nulla si distrugga; come tutto scorre, e come le anime trasmigrano da un corpo in un altro, così il tempo al pari del fiume e il cielo e gli astri continuamente mutano, e l'anno e la vita hanno più fasi; e gli elementi trapassano l'uno nell'altro, e le figure cambiano perpetuamente, ogni cosa rinnova il proprio aspetto; si nasce e si muore, cambiano le età del mondo, la terraferma può cedere il posto al mare e viceversa, fiumi fonti laghi hanno acque con proprietà diverse, isole città monti sorgono e scompaiono, l'Etna non sempre butterà fuoco, esseri nuovi possono nascere da corpi di animali defunti, gli animali si riproducono e la crescita è cambiamento, la fenice rigenera sé stessa, la natura offre insomma infiniti esempi di trasformazioni; e anche la storia (popoli e paesi) è mutamento continuo, e mutamento sarà anche, un giorno, lo sviluppo della potenza di Roma. La chiusa è un nuovo invito al vegetarianismo.\n\nInterpretazione di Bernardini: molti studiosi a questo punto si sono chiesti che cosa sia esattamente questo discorso: è un'esposizione valida delle dottrine pitagoriche, oppure no? Dà una motivazione filosofica all'intero poema, o è più che altro un pezzo di bravura? E come si concilia comunque il suo fondo razionalistico col resto dell'opera, dove dappertutto trionfano mito e fantasia? E perché Ovidio ha scelto Pitagora? Crede nel pitagorismo?Bernardini scrive che “la difficoltà di giudicare proviene da due ordini di ragioni: primo, la solita ambiguità ovidiana, cioè la straordinaria capacità di Ovidio di combinare gioco e serietà; secondo, noi abbiamo delle vere teorie di Pitagora, come è noto, soltanto una conoscenza indiretta, lacunosissima e spesso deformata, e nel discorso molti elementi comunque certi e basilari del pitagorismo sono ignorati, mentre molte contaminazioni sembrano sicure”. Per quanto riguarda le fonti, il materiale costituito dalle testimonianze trasmesseci sul pitagorismo da autori anteriori a Ovidio o coevi, è insufficiente per svolgere un'indagine sul discorso considerato come “tessuto di idee. Possiamo soltanto presumere che il poeta abbia attinto a qualche opera (perduta) di Varrone, o forse, ma è una ipotesi ancora più vaga, agli oscuri Nigidio Figulo o Sozione'.I tre temi principali su cui si basa il discorso sono il vegetarianismo, la metempsicosi e il ciclo degli elementi, tutti temi che secondo Bernardini sono assimilabili al pitagorismo e al neopitagorismo di epoca augustea e che quindi rendono l'idea dell'intenzione ovidiana di restituire l'immagine del Pitagora storico, piuttosto che di un personaggio letterario. Molti studiosi hanno individuato un'influenza lucreziana all'interno del discorso, ma secondo Bernardini Ovidio si è servito soltanto del linguaggio e dello stile lucreziani per ribaltare le teorie dell'epicureismo e quindi di Lucrezio stesso. Il discorso è calato nel linguaggio poetico-filosofico creato da Lucrezio per due ragioni che si sommano tra di loro: perché Ovidio qui vuole scrivere una parte “lucreziana” (dopo averne composta una enniana, una omerica e poi una virgiliana) e perché nel suo gusto della mimesi, un filosofo deve poter parlare col gergo e nello stile di un filosofo-tipo. E così l'aemulatio diviene smisurata; Ovidio si maschera da Lucrezio: usa il lessico e il periodare lucreziano, usa vezzi lucreziani (et quoniam, nonne vides, ecc.), usa motivi lucreziani. Eppure fa tutto questo per presentare una dottrina agli antipodi dell'epicureismo, per dire cose che Lucrezio non solo non ha detto, ma non avrebbe mai detto e in certi casi ha anzi confutato. D'altronde il personaggio scelto da Ovidio è Pitagora, e Pitagora non può ovviamente dire che cose coerenti con la dottrina di Pitagora, cosicché se Lucrezio, come qui, aveva per caso confutato una tesi pitagorica, Pitagora non può che riaffermarla negando la tesi lucreziana.A questo punto Bernardini si chiede perché Ovidio abbia scelto proprio Pitagora. Pitagora si inserisce nel momento in cui il carmen perpetuum, fluendo verso i mea tempora, sta per passare dai tempi del mito alla storia, quando l'epoca delle belle fiabe finisce e la ragione spinge alla ricerca del quae sit rerum natura. A questo punto la figura di questo pensatore poteva subentrare quanto mai a proposito: Pitagora, e nessun altro filosofo, era perfettamente al suo posto, in un'opera sul tema delle metamorfosi, perché predicatore di quella forma suprema di metamorfosi che è la metempsicosi. Questa trascende le metamorfosi individuali non solo per la sua universalità, ma anche perché al di là dei capricci della fortuna o del fato si presenta come una legge della natura. È per questo che la lezione prende a un tratto una piega decisamente razionalistica e si tramuta in un interminabile compendio di metamorfosi naturali che ha lo scopo di continuare e completare l'esposizione delle metamorfosi mitologiche: ormai, con Numa e Pitagora, siamo nella storia, e l'interesse poggia sulla spiegazione di fatti e di eventi con base storica più o meno accertabile: fondazione di Crotone, culto del dio Virbio, leggenda di Cipó, importazione del culto di Esculapio in Roma. In tutti questi miti l'elemento metamorfico c'è, ma è accessorio. Così, col passaggio dalla fantasia alla ragione, il discorso di Pitagora irrompe non come una motivazione del poema, ma come un culmine della lettura e della rappresentazione dei prodigi del mondo.\nInterpretazione di Segal: l'analisi di Segal parte da un punto di vista diverso rispetto a quello del Bernardini. Il critico statunitense nel saggio Mito e filosofia nelle Metamorfosi: l'augusteismo di Ovidio e la conclusione augustea del libro XV, inserisce il discorso pitagoreo in una problematica critica più ampia: l'augusteismo o l'antiaugusteismo ovidiano (v. sotto), se cioè Ovidio abbia rispettato i canoni augustei della serietà morale. Lasciando da parte per ora il dibattito critico su tale problematica, guardiamo solo all'interpretazione di Segal sulla sezione pitagorica del poema. In maniera del tutto opposta a quanto affermato da Bernardini, Segal crede che Ovidio non abbia voluto presentare le teorie pitagoree “come un culmine della lettura e della rappresentazione dei prodigi del mondo”, tutt'altro egli crede che Pitagora sia stato introdotto come personaggio da parodiare. Per quanto il tono della sezione sia molto più elevato e solenne di quello usato in quasi tutto il resto del libro; per quanto Ovidio sembri prendere una posizione contro gli spargimenti di sangue, esaltando la pace, lasciando trapelare qua e là una concezione più elevata degli dei; per quanto la lunghezza straordinaria del discorso sottolinei la sua importanza tematica, Segal crede che dietro a questa superficie di solennità si nasconda una sottile ironia. In primo luogo, scrive Segal, è discutibile quanto la figura di Pitagora fosse dignitosa e seria agli occhi del romano colto dell'epoca di Ovidio. Le metempsicosi di Pitagora (Euforbo, Omero, Pitagora, un pavone) potevano essere oggetto di ridicolo e il Pitagora ovidiano non fa nulla per evitare il rischio del ridicolo. Ovidio infatti, in un lieve accenno parentetico, ma molto probabilmente ironico, sottolinea i ricordi delle trasmigrazioni del suo narratore (XV.160-2): Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia / ero Euforbo figlio di Panto, colui ch'ebbe un tempo / infitta in pieno petto la lancia del minore degli Atridi (XV.160-2).In generale per i romani, nonostante la rinascita di interesse legata alla figura del dotto Nigidio Figulo, Pitagora e i pitagorici erano “tipi equivoci”: avevano per esempio fornito a Cicerone l'opportunità di un'invettiva contro Publio Vatinio (Contro Vatinio VI.14). Anche nel II secolo a.C. sembra che a essi si sia guardato con diffidenza, come si può probabilmente inferire dalla storia molto discussa del rogo dei presunti libri pitagorici ordinato dal Senato. Sembra che le caratteristiche dei pitagorici li abbiano spesso resi lo zimbello dei mimi. Leonardo Ferrero ha scritto sul pitagorismo romano della tarda Repubblica:Allo stesso modo sembra poi che anche il vegetarianismo dei pitagorici sia stato oggetto di particolare scherno nella letteratura romana. I divieti alimentari, naturalmente, potevano essere ammirati perché contribuivano a una vita sana e semplice, ma più spesso venivano satireggiati per la loro vacuità, come si nota in Orazio (Satire. II, VI, LXIII) e in Giovenale (III, 229). Queste restrizioni dietetiche hanno inoltre una lunga storia di dileggio letterario: erano una barzelletta corrente, ad esempio, tra i poeti comici dell'Atene del IV secolo. Pertanto, quando Ovidio fa del vegetarianismo il punto focale del discorso di Pitagora, la serietà dell'intero episodio è almeno dubbia.In ultimo Segal afferma che la metempsicosi descritta da Ovidio, non rassomiglia molto a quella teorizzata dal Pitagora storico: l'anima è immortale, certamente, ma invece di essere infine purificata dalle impurità terrene e raggiungere il divino come dovrebbe essere nelle teorie pitagoree, sembra attraversare una serie infinita di cambiamenti di domicilio senza che questo comporti necessariamente una trasformazione in una forma migliore. Il processo cui Pitagora si riferisce è ciclico piuttosto che progressivo. L'anima non migliora, e Pitagora è infatti molto esplicito a proposito della sua immutabilità: così io dico che l'anima rimane sì sempre la stessa / ma va trasmigrando in nuove, diverse figure (XV.171-2).\nLa dottrina del filosofo, dunque, sostiene e dichiara il tono immorale e amorale delle trasformazioni puramente mitiche precedenti, e non le eleva.\n\nLa questione dell'augusteismo.\nLa critica letteraria del Novecento ha dibattuto non poco su quanto l'opera ovidiana rientrasse nei canoni dell'augusteismo. Per quanto non siano stati definiti con chiarezza che cosa siano questi canoni e quali siano i criteri che sottintendono alla parola “augusteismo”, generalmente come esempio di “opera augustea” si fa riferimento all'Eneide virgiliana. Essa, secondo certi critici, coincide perfettamente con alcune strategie politiche augustee: la finalità morale, l'eternazione di Roma, il rispetto sacrale delle divinità. Prendendo tutti questi criteri come modello, la critica letteraria, ha messo in dubbio l'“augusteismo” di Ovidio arrivando anche a delle conclusioni estreme, come quella di Brooks Otis secondo cui Ovidio fallì miseramente nelle sue intenzioni di scrivere un poema epico e come quella di Charles Segal, secondo cui la stesura delle Metamorfosi poté essere una delle possibili cause del successivo esilio del poeta sulmonese.\n\nL'antiaugusteismo di Ovidio per Segal e Otis.\nIl problema dell'augusteismo o antiaugusteismo delle Metamorfosi si risolve in due questione tra loro collegate. Innanzitutto: quanto sul serio dobbiamo prendere la struttura filosofica che circonda gli episodi puramente mitici del poema? E, in secondo luogo, come dobbiamo considerare il materiale quasi storico del libro 11 (dal verso 194 alla fine), cioè lo spostamento da Troia a Roma, e che rapporto ha questo materiale con il poema nel suo complesso? Nella seconda edizione di Ovid as an Epic Poet Otis, Brooks Otis, abbandonando la sua precedente convinzione che le Metamorfosi “possono essere un deliberato tentativo da parte del poeta di migliorare la propria posizione nei confronti di Augusto”, è giunto a sottolineare le tensioni presenti in Ovidio stesso: Ovidio desidera da un lato usare gli artifici tecnici, il vocabolario e perfino le nozioni morali dei suoi contemporanei augustei, ma, d'altra parte, l'inclinazione del suo talento poetico è antiaugustea. Da questo punto di vista Ovidio voleva creare un'epica augustea, ma era incapace di farlo. Ne deriva un'incongruenza di stile e di materia che si rivela con maggior forza nei libri conclusivi del poema.\nPer Segal la coloritura filosofica dell'introduzione del poema presenta una visione essenzialmente stoica dell'uomo come sanctius animal formato a immagine degli dei onnipotenti, che ha una posizione eretta e osserva i cieli e le stelle (1.76-88). Tuttavia la successiva narrazione delle Quattro Età si sofferma non sull'affinità dell'uomo con la divinità, quanto piuttosto sulla sua inclinazione alla violenza e al male. D'altronde la prima metamorfosi del poema è proprio un racconto dell'impenitente malvagità umana: Licaone, per la sua perfidia è trasformato in un lupo. Nella storia seguente, quella di Deucalione e Pirra, l'idea dell'origine divina dell'uomo (divino semine, I.78) è abbandonata a favore di una seconda creazione dalla terra e dalla pietra (I.400-15) e si scopre che questa seconda creazione è singolarmente consona alla natura umana (I.414-5). Nonostante l'idea dell'origine divina dunque, l'uomo incomincia ad apparire in una luce meno favorevole non appena Ovidio si addentra nella narrazione. Presto l'uomo diventa la parte malata e cattiva del creato, un maleficio che Giove deve distruggere allo scopo di preservare ciò che resta (I.190-3).\nNon si deve dunque pensare che questa introduzione implichi una qualche visione filosofica più alta, che sarà ripresa nella conclusione. È anzi interpretabile come una preparazione per le narrazioni successive di amore passione e violenza. Benché sembri iniziare con un linguaggio e un atteggiamento verso la natura umana che sono lontani dalla giocosa sensualità e amoralità delle storie immediatamente seguenti, essa giunge ben presto a una posizione coerente con l'impostazione della maggior parte del poema: la natura umana è incline a passione malvagie, ed esiste, accanto all'uomo una classe privilegiata di potenze semidivine che appartengono a una concezione del mondo più mitica che filosofica.\nLe storie di Licaone, del diluvio e di Pitone sono abbastanza augustee nella loro enfasi sul potere ordinatore e sul carattere morale degli dei. Ma i racconti che presto definiscono il vero tono del poema disperdono nettamente questa impressione positiva. Nelle storie immediatamente seguenti di Dafne e Io, i protagonisti sono le divinità preferite di Augusto, Apollo e Giove. Quest'ultimo ha appena sconvolto l'equilibrio degli elementi allo scopo di purificare la terra dall'influenza corrutrice dell'uomo. Ma gli dei ora appaiono in atteggiamento tutt'altro che edificante. Il contrasto cancella l'immagine degli dei onnipotenti costruito nella prima parte del libro.\nUn passo molto noto sarà sufficiente a mostrare in che modo la divinità responsabile e giusta degli episodi di Licaone e Deucalione ceda di fronte a una visione meno nobile. Giove (I.595-7) invita Io a condividere con lui l'intimità di un pergolato ombroso, assicurandole: “-nec de plebe deo, sed qui caelestia magna/ sceptra manu teneo, sed qui vaga fulmina mitto. / Ne fuge me-. Fugiebat enim' (“ -non un dio comune: io sono il dio che tiene nella mano lo scettro del cielo e lancia i fulmini vaganti. Non fuggirmi!-. Sì, perché lei fuggiva”).\nQuesto è l'effetto di cui Ovidio è consumato maestro, la riduzione del sublime al ridicolo. L'ironica semplicità dell'eco, fugiebat enim, sottolinea l'imbarazzo amoroso e l'impotenza del re degli dei, nel momento in cui l'oggetto del desiderio preferisce fuggire. Questo è lo spirito che domina l'intero poema: una sicura, arguta, ironica padronanza della realtà delle passioni e delle follie umane, perfino quando esse appaiono in veste divina.\nNel poema manca un'immagine unitaria dell'umano e del divino. Il ritratto che ne consegue è incoerente e, nella migliore delle ipotesi, amorale. Manca anche una chiara definizione dell'ordine della natura; e vi è corrispondentemente una mancanza di definizione dell'uomo e degli dei. Il libro I per esempio presenta da un lato il malvagio Licaone e il pio Deucalione dall'altro; questa giustapposizione è ripetuta nel libro 8, con Filemone e Bauci che sono premiati per la loro sincera pietà, e il superbo e violento Erisittone che è orrendamente punito per la sua empietà. Ma tali esempi non fanno parte di nessuno schema coerente, né toccano realmente l'essenza del poema.\nIn un mondo in costante cambiamento fra un ordine di creature più alto e uno più basso, la differenza fra il divino e il bestiale può talvolta sembrare davvero molto sottile: la storia di Europa è una drammatica riprova di quanto sia trascurabile questa differenza. Se gli uomini diventano animali o piante e se gli dei diventano animali o uomini, ogni prospettiva morale unitaria si dissolve. La metamorfosi può anche eliminare una vera soluzione ai problemi morali sollevati dai miti, poiché spesso distrugge l'integrità interna e l'unità della persona di fronte al dilemma morale. Nel mondo di Ovidio passione e lussuria sono raramente vinte o contrastate, raramente affrontate in un autentico conflitto morale tale da essere risolto solo in termini morali. Invece le passioni lavorano sulla personalità dell'individuo coinvolto finché questi è trasformato nell'equivalente bestiale o elementare di quella passione: il crudele Licaone in lupo, il lussurioso Giove in toro, Aracne dall'efficienza meccanica e sciocca, in un ragno, Tereo in un'upupa dal becco lungo, gli impetuosi Ippomene e Atalanta in leoni, e così via.\n\nL'augusteismo dell'ultimo libro.\nInterpretazione augustea: il XV libro rappresenta, secondo molti critici letterari, l'intenzione ovidiana di riavvicinarsi ai canoni augustei. In particolare il lungo discorso di Pitagora è il passaggio cruciale per coloro che riconoscono nelle Metamorfosi la presenza di una seria problematica filosofica. Hermann Fraenkel ha sostenuto che Ovidio non ha realizzato una completa integrazione della filosofia nella sostanza del suo poema, ma per molti studiosi l'esca di uno schema filosofico si è dimostrata un'attrazione irresistibile. Come abbiamo visto Otis pone grande enfasi sulle contraddizioni tra la personalità antiaugustea di Ovidio e lo stile augusteo e tratta la sezione su Pitagora come un completamento del finale “augusteo”. “Il discorso di Pitagora è in effetti il vero culmine del poema; l'apoteosi di Cesare è solo il corollario formale e la sua ratifica”. Anche Buchheit considera il discorso di Pitagora “un ulteriore, importante anello di congiunzione” nel movimento verso l'alto del poema dal caos al cosmo. W. Anderson, che altrimenti riconosce le caratteristiche negative e non augustee del poema, concede tuttavia uno scopo oggettivamente augusteo alla sezione su Pitagora. Pitagora, sostiene Anderson, costituisce un contrappeso positivo ai precedenti racconti di lussuria e cambiamento senza fine, e simbolizza le possibilità dell'autocontrollo, della ragione e della filosofia al di sopra e contro la passione e l'egoismo; infine “insegna a Numa a cercare ciò che vi è di permanente nelle cose”. Alfonsi scorge nel discorso un tentativo di rendere il tema della metamorfosi qualcosa di più di “una curiosità erudita e folcloristica”, e di trovare una “norma per spiegare la storia universale degli uomini e delle cose dal caos iniziale all'ordine organizzato di Roma”.\nInterpretazione antiaugustea di Segal: come abbiamo visto (v. sopra), Segal crede che dietro a una superficie augustea, nel discorso di Pitagora si celi in realtà una sottile ironia parodica in linea con tutto il poema. Il critico statunitense apporta altri importanti esempi a sostegno della sua teoria. Ancora all'interno del discorso pitagoreo scorge un altro elemento di sovversione all'ideologia augustea: la negazione di una possibile Roma aeterna. La traslazione geografica dalla Grecia all'Italia sembra testimoniare l'idea augstea di un movimento evolutivo della storia che tocca il suo culmine in Roma. In realtà però, anche Roma rientra nel contesto del cambiamento, del flusso, e perfino del declino. L'età dell'oro cede infine il passo a quella del ferro (XV.260-1). Le caratteristiche fisiche della terra mutano (XV.260-306), e cambiamenti di varia natura avvengono sia negli uomini sia negli animali (307-417). Infine (420 ss.), i popoli e le nazioni crescono e decadono in potere e grandezza (420-2): così vediamo mutare le età / vediamo popoli acquistare potenza, / altri crollare. Ed è significativo che sia proprio questo lungo discorso sull'infinità del mutamento a condurre a Roma. Il contesto immediato in cui si parla di Roma sottolinea tanto il collasso delle antiche civiltà quanto la nascita delle nuove (XV.424-31): ora Troia abbattuta mostra solo antiche rovine / e le tombe degli avi in luogo delle sue ricchezze. / Fu illustre Sparta, ed ebbero potenza la grande Micene / e le rocche di Cecrope e di Anfione. / Sparta ora è terreno di poco prezzo e caduta è l'alta Micene / Tebe, la Tebe di Edipo, è ormai solo un nome, / solo un nome è Atene, la città di Pandione. / Ed ora è fama che stia sorgendo la dardania Roma. Ovidio non ci sorprende perché non concede ciò che ci aspetteremmo, ovvero un riferimento all'idea augustea della Roma aeterna. W.S. Anderson ha letto accuratamente questo passo “Ovidio sapeva (e mostrava di sapere) che non esisteva qualcosa come la Roma aeterna': l'accostamento di Roma nascente alle città decadute del passato, ormai nient'altro che nomi (XV.429 ss), indica chiaramente il destino che egli intravedeva per la sua città”. Ciò che resta, e si staglia come unico elemento eterno, non è Roma, ma la poesia'. È nella propria fama di poeta che Ovidio crede ed è con sé stesso, non con Roma o con Augusto, che conclude il poema (XV.871-9): Così è solo l'opera del poeta a essere eterna, non Roma, e la “potenza di Roma” è solo la cornice e il veicolo della fama del poeta. È importante considerare anche il contesto immediato di questo passo. I 125 versi precedenti (XV.745-870) sono stati dedicati all'apoteosi dei Cesari, Giulio e Augusto. Secondo Segal, passare alla deificazione dell'imperatore a un autoencomio in prima persone è, da un punto di vista augusteo, un anticlimax molto brusco. Dal momento che Ovidio sta scrivendo una lunga narrazione, un carme perpetuum modellato almeno in parte su di un'epica impersonale, l'effetto è di gran lunga più violento di quanto lo sarebbe nel caso della conclusione di un poema più personale. Qui dunque, nel punto cruciale della conclusione del poema, Ovidio fa seguire all'adulazione convenzionale dell'imperatore una sottile affermazione del trionfo finale del poeta sui fasti dei governanti e dei governi e sui loro programmi, culturali e ideologici. Questa ironia sembra proprio dello stile di Ovidio, benché nella sua finezza sia forse più coraggiosa e sferzante di quanto ci si potrebbe aspettare. Secondo Segal quindi, è probabile che Ovidio sentisse necessaria o utile la presenza di un augusteismo di facciata alla fine della sua opera. Ma queste sezioni del poema rimangono, appunto, solo una facciata, un educato assenso alle direttive ufficiali al di sopra dell'amoralità che resiste nei racconti, che dopo tutto costituiscono il nerbo del poema. Un esame più attento degli ultimi libri rivela che la serietà augustea è rovesciata almeno in parte dalla vivacità non augustea della passione di Circe e da tocchi esagerati che sfiorano la parodia nel discorso di Pitagora. Quest'ultima – poi – non contiene una dottrina filosofica positiva capace di fornie una giustificazione morale e spirituale al poema nel suo complesso, ma si limita a riaffermare il principio del cambiamento senza fine e senza uno scopo definito. Questi caratteri della narrazione per il critico statunitense, suggeriscono che l'assenso di Ovidio agli ideali augustei è, più che solamente formale, deliberatamente ironico.\n\nGalinsky e la conciliazione delle teorie.\nGalinsky nel saggio Ovid's Metamorphoses and Augustan cultural thematics (1999) crede che sia importante mettere in chiaro tre concetti prima di poter parlare di “augusteismo” o “antiaugusteismo” di Ovidio:.\n\nPrima di tutto non dobbiamo credere che Augusto fosse l'unico critico letterario del tempo. E pertanto è sbagliato farsi un'idea del princeps come l'uomo che decideva cosa fosse di suo gradimento e cosa no. Non ci sono dubbi che perfino le opere dei poeti della generazione d'oro (Virgilio e Orazio) sarebbero state realizzate diversamente se fossero state scritte da Augusto.\nNon abbiamo la prova che Augusto occupasse il suo tempo a controllare la correttezza politica di tutte le opere letterarie del suo tempo. Dalla Vita di Donato sappiamo che seguì e si interessò alla stesura virgiliana dell'Eneide; Svetonio (89.2) scrive che Augustus ingenia saeculi sui omnibus modis fouit (“incoraggiò i geni del suo tempo in tutti i modi possibili”) e fu presente alle loro orazioni e recitazione pubbliche. Eppure potremmo controbilanciare questo assunto proprio con le parole usate da Ovidio nei Tristia (II.239), quando il poeta (in esilio a Tomi) scrive che il principe non aveva tempo da sprecare per leggere l'Ars Amatoria occupato come era negli affari di stato e negli impegni politici (impegni che Ovidio non dimentica di enumerare in ben 25 versi [213-38]). E lo stesso Ovidio, sempre nei Tristia, supplica Augusto di prendersi un poco di tempo per leggere le Metamorfosi e accorgersi così quanto gli era sempre stato fedele. Sebbene questo passaggio sia stato spesso interpretato come una richiesta adulatrice da parte del poeta, non è detto che non vada interpretato come quello che è realmente: dedicare un po' di tempo alla lettura di un'opera. D'altronde non dobbiamo presumere che siccome le opere degli scrittori augustei sono al centro dei nostri dibattiti accademici, lo fossero anche per Augusto stesso che aveva sicuramente altro di cui occuparsi.\nInfine, se vogliamo parlare di augusteismo e quindi di “ideologia augustea”, dovremmo almeno definirne i termini. I critici letterari, più degli storici hanno sempre insistito sul concetto di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” parlando delle opere di Virgilio, Orazio, Ovidio e di tutti i poeti che hanno scritto tra la crisi della Repubblica e la nascita del Principato. Così Galinsky mette a punto alcune caratteristiche in comune tra l'epoca augustea e le Metamorfosi, dimostrando quanto sia fondamentalmente inutile parlare di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” ovidiano:1) Già il titolo dell'opera Metamorfosi, rappresenta di per sé un elemento costitutivo dell'epoca augustea: il cambiamento. Dopo la battaglia di Azio, ogni cosa stava cambiando. Nell'incipit del poema In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora, la parola forma, come Lothar Spahlinger ha recentemente notato, connota l'“essenza psichica”, mentre corpora riguarda la presenza fisica, l'apparenza concreta (Spahlinger 1996 28-29). Questo è un concetto molto presente all'interno dell'opera ed è sottolineato in gran parte di tutte le metamorfosi: la forma cambia, ma l'essenza è preservata. Questo avrebbe potuto offendere un Augusto che stava cambiando ogni cosa? Secondo Galinsky no. Anzi lo storico statunitense prosegue la sua analisi apportando una serie di esempi che dimostrano quanto lo stesso Augusto si facesse promotore di un cambiamento che comunque si fondava sull'antico e questa convergenza di cambiamento e conservazione dell'originaria essenza era un concetto fondamentale per la politica augustea. In questo senso anche il concetto di Roma aeterna, tante volte usato dai critici per dimostrare l'anti-augusteismo di Ovidio, perde di significato perché lo stesso Augusto predicava il cambiamento.\n2) Anche nelle riforme augustee della religiose era molto palpabile questo concetto tra cambiamento e conservazione. Galinsky fa molti esempi, basti quello del tempio di Castore e Saturno ricostruito splendidamente sulle vecchie fondamenta.\n3) Un altro carattere distintivo della cultura augustea rintracciabile nelle Metamorfosi era l'inclusione e l'unione di tutte le precedenti tradizioni e modelli. Augusto stesso, come subito è reso chiaro dalle prime parole delle Res geastae (ma anche tramite altre fonti), si considerava non l'erede o di Cesare o di Pompeo o di Alessandro o di Scipione o di Romolo o di Numa, ma di tutti loro insieme. E abbiamo visto quanto sia appunto importante questa commistione di stili, generi, tradizioni diverse anche nelle Metamorfosi.\nGalinsky conclude affermando quindi che è inutile parlare di “augusteismo” o di “antiaugusteismo” ovidiano. Quando guardiamo alle Metamorfosi dovremmo allargare i nostri orizzonti invece di rimanere legati a una prospettiva che, a suo modo di vedere, limita la comprensione del genio artistico ovidiano. Le Metamorfosi, come ha dimostrato il critico statunitense con gli esempio precedenti, non sono né augustee né antiaugustee, ma sono semplicemente un prodotto della cultura augustea. Nel periodo successivo alle guerre civili, Virgilio scrisse, nella prima decade della politica augustea, un “monumento poetico” al desiderio di stabilità e conservazione. Le Metamorfosi, invece si sono concentrate sull'altro aspetto della cultura augustea, più caratteristico della decade successiva: il cambiamento.\n\nLa questione del genere.\nA lungo si è discusso a quale genere appartenesse un'opera tanto innovativa come quella ovidiana. Per gli studiosi è stato subito chiaro che l'intenzione di Ovidio fosse quella di scrivere un poema epico. D'altronde l'utilizzo dell'esametro, il tipico metro della tradizione epica usato da Omero e da Virgilio, presupponeva proprio questo, che ci trovassimo di fronte a un altro poema epico. Quello che però non ha convinto - e su cui i critici hanno dibattuto per tutto l'inizio del XX secolo - è stata la scelta tematica fatta da Ovidio: non l'epopea di un unico eroe, ma un'infinità di storie legate insieme da un unico elemento, le metamorfosi. D'altronde non dobbiamo scordare che Ovidio, prima di scrivere il poema, era considerato il più famoso poeta elegiaco della corte augustea insieme a Properzio. Anderson ha notato che proprio i primi due versi delle Metamorfosi sono in un certo senso esemplificative del passaggio da poeta elegiaco a epico:.\n\nTenendo presente che un distico elegiaco è formato da un esametro e da un pentametro, il critico statunitense scrive che l'uso delle parentesi nel secondo verso trasformava quello che il pubblico augusteo si aspettava essere un pentametro, in esametro. La cesura del verso infatti cade proprio lì, sulla parola coeptis, ovvero al punto in cui un poeta elegiaco sarebbe andato a capo per comporre di seguito un altro esametro e poi un altro pentametro e così via. Detto questo Anderson crede che confinare l'opera ovidiana in un'etichetta come quella di 'poema epico' solo per il fatto che sia stata scritta in esametri non abbia nessun senso. Brooks Otis prima di lui in un saggio che ebbe molta fortuna, Ovid as an Epic Poet, affermò che Ovidio avesse sì, l'intenzione di scrivere un poema epico in linea con la tradizione virgiliana, ma che alla fine riuscì soltanto a scriverne una parodia, una copia inferiore, naufragando disastrosamente nel suo iniziale obiettivo: questo perché in realtà Ovidio non riuscì mai a liberarsi della sua vera natura di poeta elegiaco, una natura che mal si addice ad essere combinata con l'epica. Gli esempi che Brooks portava a convalidamento della sua teoria erano moltissimi: si concentravano soprattutto sul ciclo di Cadmo e su quello della guerra di Troia, nei quali il tipico eroismo omerico-virgiliano viene ridotto, secondo il critico statunitense, a pura parodia. Brooks ripudiò poi, con l'edizione successiva dello stesso saggio, la sua interpretazione, scrivendo infatti:.\n'Io avevo parlato di due Ovidio, di uno augusteo e di uno, se così si può dire, comico-amoroso, che continuamente si influenzavano a vicenda. Ho anche affermato che l'Ovidio augusteo impediva all'Ovidio comico-amoroso di realizzare in pieno i suoi propositi e alla fine l'ho condannato, constatando che aveva composto un buon lavoro di poesia inferiore. Quello che ho scritto, ora lo ripudio totalmente.'Eppure Brooks, anche nella seconda edizione, persisteva nel voler inserire l'opera ovidiana in un genere preciso, commettendo, secondo Anderson, un errore perché spesso questa problematica appartiene più al critico moderno che non alle reali intenzioni dell'autore. D'altronde nella letteratura latina si trovano esempi di satire e di poemi didascalici composti in esametri e che nulla hanno a che fare con il poema epico.\nSecondo Anderson, dunque, e secondo la critica più recente che comprende anche gli scritti di Segal e di Bernardini, l'opera ovidiana non si può etichettare in un genere preciso, potremmo dire semplicemente che le Metamorfosi sono un poema in esametri che abbraccia tutta una serie di generi letterari esistenti fino a quel momento a Roma: dal parodico al satirico comprendendo anche, ovviamente, l'epico.\n\nDifferenze con i poemi epico-tradizionali: la teoria di Segal sulla deeroizzazione.\nCome scrive Charles Segal “quale che sia la legittimità con cui possono aspirare allo status di poema epico, le Metamorfosi si inseriscono senz'altro in questa tradizione e la reinterpretano per la letteratura occidentale. In questa reinterpretazione Ovidio utilizza soprattutto due tecniche: la soppressione o la svalutazione dell'elemento eroico grazie allo spostamento del centro del racconto e alla leggerezza dei toni; e la combinazione con altri generi e stili, in special modo con i temi erotici dell'elegia e i caratteri intellettualistici, eruditi ed eleganti della narrativa e della poesia didascalica ellenistiche (in primis callimachee)'.\nGli esempi che Segal porta a compimento della sua tesi si concentrano soprattutto sui tipici eroi della tradizione epica omerica e virgiliana e più in generale della mitografia greca (Achille, Ulisse ed Enea, ma anche Peleo o Perseo). Peleo e Achille nel poema ovidiano sfuggono continuamente al combattimento o al duello e non vengono connotati dai tratti eroici tipici della tradizione che li ha tramandati a Ovidio.\nPeleo, innamorato di Teti, cerca di accoppiarvisi: lei, spaventata si trasforma per ben due volte, prima in un uccello, poi in un albero, eppure “Peleo continua a insistere” solo “quando la dea si trasforma in una tigre striata, egli, ben poco eroicamente, rimane atterrito e “lascia la stretta” (11 246)”. Quando invece, ormai sposato con Teti, Peleo dovrà affrontare un lupo mostruoso che distrugge gli armenti di Ceice, non ci sarà nessun combattimento eroico, perché la stessa Teti trasformerà quel lupo in roccia (11 397-406).\n\nAllo stesso modo Achille, quando compare per la prima volta nel poema ovidiano, ci viene presentato come “un giovane deluso la cui iniziale spavalderia si trasforma in un'angosciante mancanza di fiducia in sé stesso, non appena il corpo di Cigno [la cui pelle era invulnerabile al ferro] piega la sua spada (12, 86 -113). Anche in questo caso, come nell'episodio precedente, la metamorfosi si sostituisce alla dura necessità di una battaglia omerica”. Achille infatti riuscirà a battere (strozzandolo) Cigno solo perché questi inciamperà sbadatamente su un sasso, ma non farà neppure in tempo a godere della vittoria che guarderà lo sconfitto volare via dall'armatura in forma di cigno, trasformato così dal padre Nettuno: “un improvviso finale a sorpresa ritrae l'eroe in un atteggiamento piuttosto realistico: perplesso, deluso, disorientato, e inerme”.\nCome si capisce dunque, “la negazione dell'attivismo eroico - di cui l'Iliade e l'Eneide sono insieme simbolo e modello - costituisce uno dei motivi conduttori del poema.” D'altronde la metamorfosi è in sé stessa una modalità di ridimensionamento dell'eroismo epico-tradizionale. Proprio scegliendo questo tema Ovidio si poneva in un rapporto ambiguo con quella tradizione.\nSegal individua quattro modi in cui il tema delle metamorfosi ridimensiona l'eroismo epico tradizionale:.\n\nLa dissoluzione dell'identità: nella tradizione epica l'eroe può ridefinire, sviluppare o ampliare la concezione di sé, ma una forte unità di identità personale è data come parte essenziale del suo destino e carattere epico. Nei momenti di prova, l'eroe è pronto a riaffermare la sua identità in prima persona. Ulisse, ad esempio, può ancora vantare nell'Odissea la sua abilità e la sua perizia di fronte alla mitezza dei Feaci. Invece gli eroi ovidiani sono frammentati nelle loro identità e nelle loro imprese dalla rapida sequenza di eventi mutevoli e di episodi da cui essi emergono solo occasionalmente. Il tipo di eroe che appare con maggior frequenza è l'amante piuttosto che il guerriero, l'adolescente immaturo e instabile piuttosto che l'uomo maturo e affidabile.\nLa Gloria eroica e il nome eterno: nel sistema dell'eroismo epico un ruolo centrale è occupato dalla fama immortale dell'eroe, ricordata e conservata per sempre nella memoria del suo popolo e nel canto che lo celebra. Ettore prima di battersi con Aiace, per esempio, affronta la morte con piena fiducia nell'immortalità (Iliade, 7. 81-91). La metamorfosi invece di assicurare fama eterna, grazie al canto epico, causa la dissoluzione nell'immanenza dei processi naturali, e riporta l'attenzione ai nostri legami con il mondo corruttibile e cangiante degli animali e delle piante. Dafne o Siringa, Narciso o Ciparisso, Giacinto o Alcione: tutti incominciano come individui e finiscono nel generico, sopravvivono come specie di uccelli, alberi, fiori, ma non come individui.\nMancanza di un modello unico di valori eroici: la brusca soluzione di continuità della narrazione non agisce solo contro lo sviluppo di personalità eroiche ben determinate, ma impedisce anche che un singolo personaggio diventi il paradigma mitico dell'esperienza eroica o la personificazione di un unico sistema di valori assoluti. Nessun mito preso singolarmente è in grado di interpretare una parte significativa dell'esistenza umana e ogni personaggio rappresenta “tipi” o modelli di personalità (lussuria, desiderio, avarizia, ira) piuttosto che un'esistenza rivolta ad affrontare gesta grandiose.\nMancanza di un centro narrativo: l'assenza di una continuità narrativa è parallela alla natura cangiante del mondo fisico: la trama della narrazione subisce cambiamenti continui proprio come i corpi sottoposti a un cambiamento continuo. Il mondo di Ovidio non conosce un centro stabile, al contrario di quello virgiliano.\n\nStile.\nLe metamorfosi possiedono una struttura ipotattica: l'autore, consapevole della sua bravura, articola i periodi attraverso l'utilizzo di molte proposizioni subordinate. Ne deriva una struttura articolata e sfarzosa. L'autore predilige aggiungere piuttosto che eliminare: abbondano, ad esempio, gli aggettivi che ricorrono nelle descrizioni dei personaggi.\n\nStruttura.\nTutti gli episodi cantati nel poema hanno come origine una delle cinque grandi forze motrici del mondo antico: Amore, Ira, Invidia, Paura e Sete di conoscenza; non esistono azioni, né di dei né di uomini, non riconducibili a questi motori invisibili. I racconti delle metamorfosi presentano una struttura fissa; sono quattro le tipologie di miti presenti:.\n\nla prima narra l'attrazione di un dio o di un uomo nei confronti di una donna, mortale o divina. Normalmente il racconto si conclude o con l'appagamento del desiderio sessuale del protagonista o con la fuga, a volte possibile solo con la trasformazione della donna.\nla seconda presenta un capovolgimento delle parti: è la donna che si innamora di un uomo. Questo amore non si affievolisce con la consumazione di un atto sessuale, ma continua a perdurare nel tempo, procurando dei grandi cambiamenti nei luoghi dove vivono le innamorate (così, ad esempio, per Arianna e Teseo, Medea e Giasone, Scilla e Minosse).\nla terza concerne storie di uomini che hanno osato sfidare gli dei (Apollo e Marsia, Atena e Aracne). Questi racconti finiscono sempre con la vittoria del dio e con la morte o con la punizione degli uomini o delle donne che hanno sfidato la divinità.\nla quarta è concentrata sul duello: due personaggi, spesso due mortali, si sfidano in un duello mortale che si conclude con la morte di uno dei due combattenti (Achille e Cigno, Perseo e Fineo).Nei primi dieci libri i miti vengono raccontati senza rispettare un preciso ordine cronologico, molte volte Ovidio utilizza i suoi personaggi per raccontare miti che sono antecedenti al periodo in cui vivono i protagonisti, Orfeo, Nestore dopo la morte di Cigno, sono solo alcuni degli svariati episodi in cui l'autore utilizza questo espediente.\nDopo il decimo libro, con la trattazione della guerra di Troia, le storie iniziano a essere raccontate con una successione cronologica ben scandita. La scelta non è casuale: con Omero i miti, che prima erano confusamente tramandati per via orale, vengono riordinati e scritti per la prima volta, allo stesso modo Ovidio inizia a raccontare i miti con una scansione temporale ordinata solo dopo aver trattato i racconti che furono cantati dal sommo poeta greco.\nIn tutto il poema ricorrono anche numerosi elogi ad Augusto molte sono le lodi che Ovidio compie, le più articolate sono presenti nell'episodio di Apollo e Dafne e negli ultimi versi del XV libro.\n\nTradizione manoscritta.\nCome annota Bernardini: “In Storia della tradizione e critica del testo (1934), Giorgio Pasquali scriveva che nel caso delle Metamorfosi la recensione rimane, almeno sin qui, tipicamente aperta: cioè essendo escluso che i codici a noi pervenuti discendano da un unico archetipo, e dovendosi invece pensare che essi continuino una pluralità di edizioni antiche, non è possibile fissare una lezione meccanicamente, in base al criterio genealogico; si deve ricorrere al iudicium, fondandosi di volta in volta su criteri interni.” Infatti, nonostante la grande popolarità che le Metamorfosi ebbero sin da quando vennero composte - intorno quindi all'anno dell'esilio (8 d.C.) - nessun manoscritto ci è pervenuto di quell'epoca. D'altronde il poema venne bollato come 'opera pericolosamente pagana' e probabilmente molti manoscritti vennero distrutti o andarono persi soprattutto durante il periodo della cristianizzazione dell'Impero. Esistono dei frammenti risalenti al IX e al X secolo; ma i primi veri manoscritti che siamo in grado di utilizzare per la ricostruzione testuale, sono databili intorno all'XI secolo. Vi sono due editiones principes: quella bolognese del 1471 e quella romana del 1471-72. Tra le edizioni successive, notevole è quella di Daniel Heinsius (Leida, 1629), ma un primo fondamentale lavoro di collatio venne svolto dall'olandese Nikolaes Heinsius che tra il 1640-52 riuscì a collazionare più di cento manoscritti e a pubblicare poi l'edizione critica dell'opera (Amsterdam, 1652). Con i criteri della filologia moderna, sono da segnalare l'importante edizione del Merkel (Lipsia, 1851) sulla quale si fonda la recentio dell'attuale testo teubneriano e quella di Von Hugo Magnus (Berlino, 1914). A oggi si conoscono più di 400 manoscritti registrati da Franco Munari nel suo “Catalogue” (London, 1957). Ma per quanto il numero dei manoscritti disponibili sia notevolmente aumentato durante il XX secolo (il filologo Lafaye nel 1928 segnalava che se conoscevano poco più di 150), la situazione non è cambiata da come la descrisse Pasquali nel 1934. “Anzi” come annota ancora Bernardini “si è in un certo senso aggravata, essendo ormai chiaro che codici prima considerati deteriori rispetto alla classe battezzata O da Magnus presentano in molti luoghi lezioni buone.\n\nEdizioni.\nTesto latino.\n(LA) Publio Ovidio Nasone, Metamorphoses, Antuerpiae, apud heredes Martini Nutii, 1618.Il testo antico fu perduto, ma esistono oltre quattrocento manoscritti di epoca medioevale, completi o frammentari. Una lista non esaustiva di questi testi è stata compilato dal filologo classico e traduttore italiano Franco Munari.\n\nEdizioni italiane.\nPublius Ovidius Naso, Ovidio Metamorphoseos Vulgare, a cura di Giovanni Bonsignori, Stampato in Venetia, Lucantonio Giunta, 1501-1598, Giovanni Rosso -1519, I ed. 1497. URL consultato il 1º aprile 2015.\nLe metamorfosi, traduzione di Leopoldo Dorrucci, Firenze, Tipografia di G. Barbèra, 1885, p. 573.\nLe metamorfosi, trad. e cura di Piero Bernardini Marzolla, Collana I Millenni, Torino, Einaudi, 1979, p. 708, ISBN 978-88-06-17695-2.\nMetamorfosi, a cura di Mario Ramous, con un saggio di Emilio Pianezzola, Note di Luisa Biondetti e M. Ramous, Dizionario mitologico di Luisa Biondetti, Collezione I Libri della Spiga, Milano, Garzanti, 1992, ISBN 978-88-115-8675-3.\nLe metamorfosi, traduzione di Giovanna Faranda Villa, 2 voll., Introduzione di Gianpiero Rosati, note di Rossella Corti, Collana I Classici, Milano, BUR, settembre 1994.\nOvidio, Opere. Volume II: Le metamorfosi, edizione con testo a fronte, trad. di Guido Paduano, Introduzione di Alessandro Perutelli, Commento di Luigi Galasso, Biblioteca della Pléiade, Torino, Einaudi, 2000, ISBN 978-88-446-0039-6. - Nuova ed. riveduta, Collezione I Millenni, Torino, Einaudi, 2022, ISBN 978-88-062-4221-3.\nMetamorfosi, testo critico basato sull'edizione oxoniense del 2004 di Richard John Tarrant, a cura di Alessandro Barchiesi, Introduzione di Charles Segal, trad. di Ludovica Koch e Gioachino Chiarini, commento di A. Barchiesi, Philip Hardie, Edward J. Kennedy, Joseph D. Reed e Gianpiero Rosati, 6 voll., 2005-2015. [I: libri I-II, 2005; II: libri III-IV, 2007; III: libri V-VI, 2009; IV: libri VII-IX, 2011; V: libri X-XII, 2013; VI: libri XIII-XV, 2015].\nLe metamorfosi, trad. e cura di Serafino Balduzzi, Milano, Cerebro, 2011, p. 256, ISBN 978-88-96782-47-7.\nLe Metamorfosi di Ovidio, trad. e cura di Vittorio Sermonti, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli, 2014, ISBN 978-88-17-07263-2. - Collezione I Libri della Spiga, Milano, Garzanti, 2023, ISBN 978-88-110-0004-4.\nOvidio, Metamorfosi, edizione con testo a fronte, traduzione di Nino Scivoletto, UTET, 2013 ISBN 9788841886946.\n\nTraduttori in inglese.\nHorace Gregory.\nRolfe Humphries.\nFrank Justus Miller.\n\nTraduttori in francese.\nJean de Vauzelles (1557),.\nPierre Du Ryer (1693).\nAntoine Banier (1732).\nJoseph-Gaspard Dubois-Fontanelle (1767).\nAnge-François Fariau de Saint-Ange (1800).\nMathieu-Guillaume-Thérèse Villenave (1806-1807).\nJoseph Cabaret-Dupaty (1862).\nGeorges Lafaye (1925-30).\nJoseph Chamonard (1936).\nDanièle Robert (2001).\nOlivier Sers (2009).\nMarie Cosnay (2017).\n\nL'edizione del 1557.\nUna delle più celebri traduzioni delle Metamorfosi edita in Francia risale al 1557. Pubblicata con il titolo La Métamorphose d'Ovide figurée (La Metamorfosi di Ovidio illustrata) dalla Maison Tournes (1542-1567) a Lione, è il risultato della collaborazione dell'editore Jean de Tournes e Bernard Salomon, importante incisore del XVI secolo. La pubblicazione è edita in formato in-ottavo e presenta i testi di Ovidio accompagnati da 178 illustrazioni incise.\nTra gli anni 1540-1550 si instaura a Lione tra i vari editori una vera e propria corsa alla pubblicazione dei testi dell'poeta antico. Jean de Tournes si trova così a far fronte ad un’aspra concorrenza che pubblica anch’essa nuove edizioni delle Metamorfosi, la cui diffusione nel campo dell’editoria contemporanea fa seguito al moltiplicarsi delle traduzioni. Jean de Tournes pubblica per la prima volta i primi due libri di Ovidio nel 1456, versione a cui fa seguito una ristampa illustrata nel 1549. Il suo principale concorrente è Guillaume Roville, il quale pubblica i testi illustrati da Pierre Eskrich nel 1550 e successivamente nel 1551. Nel 1553, egli pubblica i primi tre libri con la traduzione di Barthélémy Aneau, che segue alla traduzione dei primi due libri da parte di Clément Marot. Tuttavia, la versione del 1557 pubblicata dalla Maison Tournes rimane la versione che gode di maggiore fortuna, come attestato dalle menzioni storiografiche.\nLe edizioni cinquecentesche delle Metamorfosi costituiscono un cambiamento radicale nel modo di percepire i miti. Nei secoli precedenti, i versi del poeta antico erano stati letti soprattutto in funzione del loro impatto moralizzante, mentre a partire dal sedicesimo ne viene esaltata la qualità estetica ed edonistica. Il contesto letterario dell'epoca, marcato dalla nascita della Pléiade, è indicativo di questo gusto per la bellezza della poesia.\n“La scomparsa dell'Ars Amatoria e dei Remedia amoris segna la fine di un'epoca gotica nell'editoria ovidiana, così come la pubblicazione nel 1557 della Métamorphose figurée segna l'appropriazione da parte del Rinascimento di un'opera che è tanto in linea con i suoi gusti quanto la moralizzazione delle Metamorfosi lo era stata con le aspirazioni del XIV e XV secolo'.\nL'opera fu ripubblicata in francese nel 1564 e nel 1583, sebbene fosse già stata pubblicata in italiano da Gabriel Simeoni nel 1559 con alcune incisioni aggiuntive.\nAlcune copie del 1557 sono oggi conservate in collezioni pubbliche, presso la Biblioteca nazionale di Francia, la biblioteca municipale di Lione, la Brandeis University Library di Waltham (MA) e la Biblioteca del Congresso a Washington D.C., negli Stati Uniti. Una copia digitale è disponibile su Gallica. Sembrerebbe inoltre che una copia sia stata messa in vendita da Sotheby's.\n\nLe illustrazioni.\nNell'edizione del 1557 pubblicata da Jean de Tournes figurano 178 incisioni di Bernard Salomon che accompagnano il testo di Ovidio. Il formato è emblematico della collaborazione tra Tournes e Salomon, che esiste fin dal loro sodalizio a metà degli anni 1540: le pagine si sviluppano attorno ad un titolo, un'incisione con una strofa ottonaria e un bordo ordinato.\nLe 178 incisioni non sono state realizzate tutte in una volta per il testo integrale, ma hanno origine da una ripubblicazione dei primi due libri nel 1549. Nel 1546 Jean de Tournes pubblicò una prima versione non illustrata dei primi due libri delle Metamorfosi, per la quale Bernard Salomon preparò ventidue incisioni inziali. Salomon esaminò diverse edizioni illustrate delle Metamorfosi antecedenti prima di lavorare alle sue incisioni, che nonostante ciò non mancano di una spiccata originalità.\nNel libro Bernard Salomon. Illustrateur lyonnais, Peter Sharratt afferma che le tavole di questa edizione, assieme a quella della Bibbia illustrata dal pittore nel 1557, sono i lavori di Salomon che evidenziano maggiormente il processo illustrativo basato su 'un miscuglio di ricordi '. Tra le edizioni precedenti da lui consultate, ne spicca una in particolare: Metamorphoseos Vulgare, pubblicata a Venezia nel 1497, la quale presenta analogie nella composizione di alcuni episodi, come la 'Creazione del mondo' e 'Apollo e Dafne'. Nel disegnare le sue figure, Salomon utilizza inoltre il canone di Bellifontaine, a testimonianza dei suoi primi anni da pittore. Tra le altre opere, realizzò alcuni affreschi a Lione - affreschi per i quali si ispirò ai recenti lavori a Fontainebleau.\nPiù noto in vita per la sua attività di pittore, il lavoro di Salomon su La Métamorphose d'Ovide figurée lasciò comunque un segno sui suoi contemporanei. Tali illustrazioni contribuirono alla celebrazione dei testi ovidiani nella loro dimensione edonistica. A questo proposito, Panofsky parla di 'xilografie di straordinaria influenza' e lo storico dell'arte americano Rensselaer W. Lee definisce l’opera come 'un evento di grande portata nella storia dell'arte'.\nAd oggi, nel Musée des Beaux-arts et des fabrics di Lione, è possibile osservare pannelli di legno che riproducono il modello delle incisioni di Salomon per le Metamorfosi di Ovidio del 1557.
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### Titolo: Le rane.\n### Descrizione: Le rane (in greco antico: Βάτραχοι?, Bátrachoi) è una commedia teatrale di Aristofane, messa in scena per la prima volta ad Atene, alle Lenee del 405 a.C., dove risultò vincitrice. Fu in seguito replicata, forse l'anno successivo (fatto alquanto atipico per quei tempi), per il suo valore artistico e sociale.\n\nTrama.\nDioniso, dio del teatro, decide di raggiungere l'Ade per riportare in vita Euripide. Tanto Sofocle quanto Euripide, infatti, sono ormai morti (entrambi erano deceduti nel 406 a.C., pochi mesi prima che la commedia di Aristofane fosse rappresentata), e i tragediografi più giovani non hanno la stessa creatività e lo stesso genio. Di conseguenza, riportare Euripide in vita è l'unico modo per salvare la tragedia dal declino.All'inizio della commedia, Dioniso e il suo servo Xantia chiedono ad Eracle quale sia la strada più rapida per giungere all'Ade; quest'ultimo, dopo qualche presa in giro, risponde che è necessario attraversare una palude, l'Acheronte. Quando i due giungono laggiù, il traghettatore Caronte fa salire Dioniso sulla sua barca per portarlo sull'altra riva, mentre Xantia è costretto a girare intorno alla palude a piedi. Durante la traversata, Dioniso e Caronte incontrano le rane (Caronte le chiama rane-cigni), col loro gracidare: brekekekex koax koax. Esse intonano un canto in onore di Dioniso, ma senza accorgersi che il dio è proprio lì con loro. Dioniso è presto infastidito dal loro canto e protesta, ma le rane continuano, non riconoscendolo nemmeno. Tuttavia, quando il dio imita il loro verso, esse si zittiscono.Alla fine Dioniso e Xantia si rivedono alle soglie dell'Ade, dove incontrano un gruppo di anime, gli iniziati ai culti misterici, che cantano in onore di Iacco. Poco dopo i due incontrano Eaco, che scambia Dioniso per Eracle (il primo infatti si era vestito a imitazione del secondo) e comincia a insultarlo e minacciarlo. Eaco era infatti furioso nei confronti di Eracle, che aveva rubato il suo cane Cerbero. Spaventato, il dio scambia i suoi abiti con Xantia, che è meno impaurito del suo padrone. I due vengono entrambi frustati, ma alla fine l'equivoco è chiarito.Euripide viene finalmente rintracciato, mentre è nel mezzo di un litigio con Eschilo a proposito di chi meriti di sedere sul trono di miglior tragediografo di tutti i tempi: ognuno dei due ritiene sé stesso il migliore. Comincia allora una gara, con Dioniso come giudice: i due autori citano a turno versi delle loro tragedie, e tentano di sminuire quelli del contendente. Alla fine viene portata in scena una bilancia e ognuno dei due autori viene invitato a recitare alcuni suoi versi; la citazione che 'pesa' di più (ed è dunque migliore) farà pendere la bilancia in favore del proprio autore. Eschilo esce vincitore da questa gara, ma a quel punto Dioniso, che inizialmente intendeva riportare in vita Euripide, non sa più a chi sia meglio concedere questo onore. Decide che sceglierà l'autore che darà il miglior consiglio su come salvare Atene dal declino. Euripide dà una risposta generica e poco comprensibile ('Se adesso va tutto male, forse facendo tutto il contrario ce la caveremo'), mentre Eschilo dà un consiglio più pratico ('Le navi sono le vere risorse'). Infine Dioniso decide di riportare in vita Eschilo, che, prima di andare, affida al dio Plutone il compito di riservare il trono di miglior tragediografo a Sofocle, raccomandandogli di non lasciarlo mai ad Euripide.\n\nCommento.\nAtene in quegli anni.\nNel 405 a.C. Atene stava attraversando uno dei periodi più difficili della sua storia: la guerra del Peloponneso stava per finire, e la polis era sul punto di perdere la sua supremazia sul mondo greco (soltanto un anno dopo, infatti, Atene si sarebbe arresa a Sparta). Per questo motivo, la città viveva una situazione di forti tensioni interne, poiché varie fazioni si combattevano per ottenere il potere: nel 411 a.C. la forma di governo democratica venne abbandonata e sostituita da un'oligarchia, ma appena un paio d'anni dopo gli oligarchi persero l'autorità e venne restaurata la democrazia. Era un periodo molto incerto e difficile, anche perché nessuno poteva prevedere quale sarebbe stato il destino di Atene se la città fosse uscita sconfitta dalla guerra.Inoltre, i due più grandi tragediografi ancora in vita, Sofocle ed Euripide, erano entrambi morti nel 406 a.C., sicché sembrava che per Atene il futuro non sarebbe più stato luminoso come il passato, in campo sia militare sia teatrale. In quest'atmosfera Aristofane scrive una commedia profondamente nostalgica, in cui riportare in vita i morti è l'unico modo per ridare ad Atene gli splendori del passato.\n\nLa salvezza di Atene.\nLe rane è piena di riferimenti a questa difficile situazione, tanto che il viaggio di Dioniso, che inizialmente è descritto come un tentativo di salvare la tragedia, con il progredire della vicenda diventa anche un tentativo di salvare Atene. Al suo apparire, il coro degli iniziati ai culti misterici canta:.\n\nLa decadenza di Atene è così evidente che gli iniziati chiamano gli ateniesi 'i morti di lassù', sperano che nessuno sarà privato dei diritti civili e affermano che la città è caduta nelle mani di persone malvagie e poco affidabili:.\n\nIl viaggio di Dioniso assume dunque questa doppia valenza di possibilità di salvezza per il teatro e per Atene, ed è lo stesso Dioniso a dirlo:.\n\nMa perché un poeta dovrebbe essere preferito ad altre persone, nell'ottica della salvezza della città? Risponde Euripide:.\n\nIn altre parole, Aristofane vuole affermare che la città per salvarsi deve essere gestita da persone oneste e corrette, e la tragedia concorre proprio a creare questo tipo di persone.\n\nLa sfida tra Eschilo ed Euripide.\nUna volta che Euripide è stato rintracciato, la parte restante della commedia è una sfida tra questi ed Eschilo per decidere chi sia il miglior tragediografo di tutti i tempi, con Dioniso nei panni di giudice. I due autori cominciano allora a canzonarsi l'un l'altro, mettendo in luce i propri meriti e i difetti dell'avversario. Il risultato è una sorta di critica letteraria in chiave comica, dove molte delle caratteristiche principali dei due autori sono analizzate con attenzione. È tuttavia evidente la preferenza di Aristofane per Eschilo: l'innovatore Euripide è senz'altro più bersagliato.La prima parte della sfida ha ancora una volta come oggetto la pericolosa situazione di Atene. Quando Euripide critica lo stile complesso e talvolta oscuro di Eschilo, quest'ultimo risponde che attraverso le sue tragedie, per esempio I sette contro Tebe o I Persiani, ha dato il suo contributo a formare dei buoni cittadini, mentre Euripide, mettendo in scena personaggi che erano non modelli di virtù, ma figure dotate sì di pregi, ma anche di grandi difetti, ha contribuito alla decadenza della città.\n\nQuesto, d'altro canto, è un problema ancora molto sentito al giorno d'oggi: descrivere il male è un modo per insegnarlo, o è un modo per indurre gli spettatori a riflettere?Finita la parte dedicata ad Atene, comincia un'analisi dei prologhi dei due autori, ed Euripide prende in giro Eschilo per il suo stile retorico e pieno di ripetizioni:.\n\nQuando è il turno di Eschilo di criticare i prologhi di Euripide, il primo mostra che i versi del secondo sono prevedibili e la loro metrica è spesso identica. Infatti tali versi possono sempre concludersi con la strana espressione 'perse la boccetta'.\n\nI due autori citano numerose altre tragedie, finché alla fine Dioniso fa la sua scelta, decidendo di riportare in vita Eschilo. La scelta del dio è in effetti anche quella di Aristofane, che preferiva le opere tradizionali di Eschilo e Frinico a quelle dell'innovatore Euripide. Tale preferenza è peraltro evidente nelle Rane già prima della gara tra i due tragediografi. Infatti, all'inizio della commedia, quando Dioniso dice ad Eracle di voler riportare in vita Euripide, ecco cosa ribatte il secondo:.\n\nQuando poi Dioniso e Caronte incontrano le rane, succede qualcosa di strano: gli anfibi cantano in onore di Dioniso, ma quando lo vedono non lo riconoscono neanche e lo considerano solo un seccatore. È probabile che ciò avvenga perché, amando Euripide, Dioniso sta tradendo il suo ruolo di dio del teatro, sicché anche le creature che lo amano non lo riconoscono.\n\nIl potere della poesia.\nIl titolo della commedia, Le rane, è sempre stato considerato alquanto atipico. L'incontro di Dioniso con le rane, coro secondario della commedia, che cantano il loro amore per la poesia, è un singolo episodio che non lascia tracce nel prosieguo della storia, perché dunque dare l'onore del titolo ai simpatici anfibi? Sono state date molte spiegazioni, spesso in contraddizione le une con le altre. Un punto di vista interessante e prudente è che capita spesso, nelle opere teatrali ma anche nei romanzi e in ogni scritto in cui si racconti una storia, che un episodio, per quanto poco importante, diventi un simbolo dell'intera vicenda. Il significato degli eventi si cristallizza su questo simbolo, che acquista così importanza a prescindere da quanto spazio abbia effettivamente. Se questo è successo, almeno parzialmente, nelle Rane, allora gli anfibi (che sono in effetti rane-cigni dalla voce meravigliosa) appaiono simboleggiare il valore ed il potere della poesia, poiché proprio su questo è incentrato il loro canto e il loro breve dialogo con Dioniso. E come abbiamo visto poc'anzi questo potere può, secondo la visione ideale di Aristofane, persino portare la salvezza alla città di Atene.\n\nIl coro e i Misteri eleusini.\nIl coro principale della commedia è composto di iniziati ai culti misterici, e anche se non viene detto esplicitamente quali siano tali culti, è evidente che il riferimento è ai Misteri eleusini, la religione misterica più diffusa e rinomata della Grecia classica. Tali Misteri erano legati alle dee Demetra e Kore; la loro origine risale al 1600 a.C. circa, e il loro obiettivo era di elevare l'uomo sopra la sfera umana verso quella divina, e di assicurare la sua redenzione, promettendo poteri divini e ricompense nell'aldilà, oltre che felicità e benessere durante la vita.\n\nQuesto scritto di Marco Tullio Cicerone riassume bene la reputazione e la fama che i Misteri eleusini acquisirono all'interno e all'esterno del mondo greco. Nelle Rane, è il coro degli iniziati a cantare i testi più strettamente connessi all'attualità, nonché a stigmatizzare la situazione sociale ed i problemi di Atene, auspicando una rapida soluzione; questo poiché, proprio in quanto iniziati, essi hanno un buon trattamento nell'Ade, una relazione più stretta con gli dei e una maggiore saggezza nel vedere i problemi dei vivi.\n\nRappresentazioni significative.\nNel 2017 e nel 2018 la commedia è stata rappresentata al teatro greco di Siracusa con la regia di Giorgio Barberio Corsetti; nel cast spicca una coppia comica molto popolare, Ficarra e Picone, rispettivamente nei panni di Dioniso e Xantia. Il 1º settembre 2018 una rappresentazione è stata trasmessa in prima serata su Rai1, ottenendo quasi due milioni di telespettatori.
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### Titolo: Le supplici (Euripide).\n### Descrizione: Le supplici (Ἱκέτιδες, Hikétides) è una tragedia di Euripide, rappresentata per la prima volta tra il 423 e il 421 a.C. Esiste una omonima tragedia di Eschilo, che però racconta un diverso episodio della mitologia greca.\n\nTrama.\nUn gruppo di donne di Argo si riunisce presso l'altare di Demetra ad Eleusi: sono le madri dei guerrieri argivi morti nel fallito assalto a Tebe (quello raccontato da Eschilo ne I sette contro Tebe), per supplicare gli ateniesi di aiutarle a dare degna sepoltura ai figli. I tebani, infatti, negano la restituzione dei cadaveri. Il re Teseo decide di aiutarle, sicché si rivolge all'araldo tebano, ingaggiando con lui un intenso dialogo nel quale il re difende i valori di democrazia, libertà, uguaglianza di Atene, contrapposti alla tirannide di Tebe.La guerra tra le due poleis diventa così inevitabile, e si conclude con la vittoria di Atene e la conseguente restituzione dei cadaveri. Il re di Argo, Adrasto, che accompagna le madri, si incarica di celebrare i caduti con un discorso. Durante il rito funebre, Evadne, moglie del caduto Capaneo, si getta da una roccia sul rogo dove veniva cremato il marito, in un atto di estrema dedizione coniugale. Alla fine appare ex machina la dea Atena, che fa giurare ad Adrasto eterna riconoscenza di Argo verso Atene, predicendo inoltre la prossima caduta di Tebe.\n\nCommento.\nIl patriottismo.\nLa maggior parte degli studiosi è sicura che questa tragedia sia stata scritta poco dopo la sconfitta di Atene contro Sparta alla battaglia di Delio del 424 a.C., in piena guerra del Peloponneso. Ciò significa che la tragedia stessa (come anche Gli Eraclidi dello stesso autore) aveva una funzione patriottica: ricordare agli ateniesi la propria grandezza nei confronti della rivale Sparta. Infatti, nel momento in cui il re Teseo confronta la democrazia ateniese con la tirannide tebana, concludendo che solo la democrazia può garantire la libertà, appare evidente l'intenzione di Euripide di dimostrare la superiorità di Atene sull'oligarchia spartana. In ogni caso, il risalto che l'autore dà alle esequie per i morti in guerra è un chiaro indizio del sostanziale antimilitarismo di Euripide (evidente anche in altre tragedie quali Le Troiane e l'Elena).\n\nI difetti della democrazia.\nPer molti studiosi è evidente l'analogia euripidea tra il mitico re Teseo e il contemporaneo Pericle, perlomeno nelle posizioni politiche a difesa della democrazia. D'altro canto, nel dialogo tra Teseo e l'araldo tebano, traspaiono anche le incertezze e i dubbi di Euripide a proposito del sistema di governo ateniese. Teseo infatti descrive il sistema democratico per come dovrebbe essere (lo Stato appartiene a tutti i cittadini, i quali hanno uguali diritti a prescindere dalla loro ricchezza), ma è un sistema assai lontano da quello effettivamente vigente nella Atene di quegli anni, una città in grosse difficoltà militari e sociali. Quando l'araldo ribatte a Teseo, descrivendogli i difetti della democrazia (troppe persone che comandano significa essere sempre ondivaghi, difendendo gli interessi ora dell'uno, ora dell'altro), egli dà un ritratto abbastanza fedele della situazione ateniese, al punto che parecchi autori ritengono che, stanco delle inefficienze della democrazia, Euripide in quegli anni stesse in realtà assestandosi verso posizioni non democratiche.
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### Titolo: Lebes gamikos.\n### Descrizione: Il lèbes gamikòs, o 'lebes nuziale', (plurale - lèbetes gamikòi) è una forma della ceramica greca antica usata nelle cerimonie nuziali (letteralmente, significa vaso da matrimonio). Veniva probabilmente usato per l'aspersione rituale della sposa prima del matrimonio.\nIl corpo del vaso era costituito da una coppa profonda, simile ad un piccolo dinos, fortemente segnata all'altezza della spalla, collo distinto (ma non sempre presente) e orlo sporgente; poteva essere dotata di piede o reggersi su un alto piedistallo con il quale formava un oggetto unico. Due alte e diritte anse si impostavano sulla spalla e la coppa era chiusa da un coperchio sormontato da un'alta ed elaborata maniglia. È possibile che si sia sviluppato dal cratere a forma di kotyle (kotyle-krater o skyphos-krater), una tipologia di origine attica diffusa nella seconda metà del VII secolo a.C. La decorazione pittorica, tipicamente riferita a scene nuziali, derivate dalla mitologia o dalla vita quotidiana, rivestiva sia la coppa che il supporto.\nIl lebes gamikos compare ad Atene nell'ultimo quarto del VI secolo a.C. dove rimane in produzione fino alla metà del IV secolo a.C.; in Italia continua ad essere prodotto fino alla fine del secolo. Uno dei più antichi esemplari conosciuti proviene da Smirne, è datato al 580-570 a.C. ed è dipinto da Sophilos (o dalla sua bottega), con la rappresentazione della processione per il matrimonio di Elena e Menelao.
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### Titolo: Leda.\n### Descrizione: Leda (in greco antico: Λήδα?, Lḕda) è un personaggio della mitologia greca. Fu regina di Sparta.\n\nGenealogia.\nFiglia di Testio e di Euritemi (citata anche come Leucippe) o Deidamia (figlia di Periere), sposò Tindaro e fu madre di due figli, i gemelli Dioscuri (Castore e Polluce), e di cinque figlie, Elena, Clitennestra, Timandra, Filonoe e Febe.\nSecondo la tradizione, Elena e Polluce erano figli di Zeus piuttosto che di Tindaro. La versione più diffusa del mito narra che Leda si unì prima a Tindaro e poi a Zeus in forma di cigno, e in seguito depose due uova: dalla prima nacquero Castore e Clittemnestra, figli di Tindaro, e dalla seconda Polluce ed Elena, figli di Zeus.\n\nMitologia.\nLa leggenda narra che Zeus, innamoratosi di Leda, si trasformò in un cigno per sedurla sulle rive del fiume Eurota e, una volta ottenuta la sua attenzione, si accoppiò con lei. (Altre versioni sostengono che Zeus si fosse prima palesato nella sua virilità per poi accoppiarsi con la fanciulla.) Successivamente la donna depose un uovo che schiudendosi lasciò uscire i figli Elena e Polluce, e la stessa notte giacque anche con il marito Tindaro. Da questo amplesso divenne dunque madre di Castore e Clitennestra.\nIl mito però è confuso poiché alcuni autori sostengono che solo Elena sia di origine divina, mentre Polluce, Castore e Clitennestra erano figli di Tindaro.\nAltri tramandano che le uova deposte fossero due e che dalla prima nacquero Castore e Clitennestra come figli di Tindaro e di stirpe mortale mentre dalla seconda Polluce ed Elena, figli di Zeus.\nAlcune varianti del mito e la pittura si legarono a una lettura più semplice dell'episodio e immaginarono che i quattro figli uscirono tutti dall'uovo e che fossero tutti figli di Zeus.\n\nSecondo un'altra versione del mito, Zeus, in veste di cigno inseguito da un'aquila, si rifugiò nel grembo di Nemesi e in seguito all'amplesso Nemesi depose un uovo che Ermes mise tra le cosce di Leda, mentre era seduta su uno sgabello a gambe divaricate. A tempo debito la donna diede alla luce Elena e Zeus immortalò l'immagine del Cigno e dell'Aquila nel cielo a memoria della sua avventura, mentre Leda fu divinizzata in seguito col nome di dea Nemesi.\nSi pensa anche che per probabile assonanza dei nomi, Leda fosse la dea Leto (Latona), che generò Apollo ed Artemide a Delo. Il mito dell'uovo color giacinto ricorda quello dell'uovo rosso pasquale chiamato glain che i Druidi cercavano ogni anno sulla riva del mare. Secondo il mito celtico l'uovo veniva emesso dalla dea nella sua metamorfosi in serpente marino e la leggenda di Leda con l'uovo posto tra le cosce è forse scaturita da una raffigurazione della dea accovacciata su uno sgabello da partoriente ed in procinto di partorire Apollo con la testa del dio che le usciva dal grembo.\n\nInfluenza culturale.\nA Leda è intitolata la Leda Planitia su Venere.\n\nArte.\nPittura.\nLeda e il cigno di Géricault.\nLeda di Leonardo da Vinci.\nLeda e il cigno di Michelangelo.\nLeda col cigno attribuita a Cesare da Sesto, copiata dalla Leda del Da Vinci.\nLeda di Correggio.\nLeda e il cigno di Tintoretto.\nLeda Atomica di Salvador Dalì.\nLeda di Alberto Remo Carlo Lanteri.\nLeda del Ghirlandaio.\nLeda e il cigno di Rubens.\n\nLetteratura.\nLa Leda senza cigno, racconto di Gabriele D'Annunzio.\nLeda and the Swan, poesia di William Butler Yeats.\n\nMusica.\nSwan Upon Leda, canzone di Hozier.\nLeda, canzone di The Angels of Liberty.\n\nTelevisione.\nOrphan Black, serie televisiva in cui si cita il mito di Leda e dei Dioscuri.
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### Titolo: Leimone.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Leimone era il nome di uno dei figli di Tegeate e di Mera, la figlia di Atlante.\n\nIl mito.\nAveva diversi fratelli: Scefro e Archedio e secondo altre versioni a questo elenco si aggiungevano Cidone, Catreo e Gorti che forse era il figlio di Radamanto).\nDi lui si parla anche in un'altra occasione: quando vide il suo fratello Scefro parlare con il dio Apollo fraintese le sue parole, e pensò che lo stesse calunniando pesantemente. Trovò allora giusto intervenire uccidendolo, in realtà stava parlando serenamente con la divinità. Artemide che si trovava con il fratello vendicò immediatamente la morte del ragazzo uccidendo lo stesso Leimone. La furia della divinità colpì l'intero regno.\nIn ricordo di ciò il popolo dei Tegeati istituì una festa durante la quale una sacerdotessa della dea dava simbolicamente la caccia a un ragazzo proprio per ricordare tale avvenimento.).
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### Titolo: Lelapo.\n### Descrizione: Nella mitologia greca Lelapo (in greco antico: Λαῖλαψ?, Laîlaps) era un cane tanto veloce che nessuna preda riusciva a sfuggirgli. Questo cane ebbe un lungo elenco di proprietari, tra cui Procri, figlia del Re Eretteo di Atene e moglie di Cefalo. Le fonti divergono su come Procri sia venuta in possesso dell'animale: secondo una versione, il cane le fu dato da Artemide, dea della caccia; secondo un'altra, Lelapo fu il cane dato da Zeus a Europa, dal cui figlio Minosse, re di Creta, passò a Procri. Insieme al cane le fu offerto un giavellotto che non mancava mai il bersaglio; questo si dimostrò un regalo sfortunato, poiché fu con esso che il marito Cefalo l'uccise accidentalmente durante una partita di caccia.\nCefalo ereditò il cane e se lo portò dietro a Tebe (nella Beozia, a nord di Atene) dove una volpe malvagia stava devastando la campagna. La volpe di Teumesso era tanto veloce da apparire destinata a non essere mai catturata. Secondo il mito, tuttavia, il cane da caccia Lelapo era destinato a catturare qualsiasi preda gli capitasse a tiro. Zeus tramutò dunque entrambi in pietre, e sistemò il cane in cielo come il Cane Maggiore.
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### Titolo: Lelego (re di Laconia).\n### Descrizione: Lelego (in greco antico: Λέλεξ?, Lélex) è un personaggio della mitologia greca. Fu un autoctono della Laconia ed il primo re dei Lelegi.\n\nGenealogia.\nPer gli autori più antichi fu un autoctono, ovvero nato dalla terra. Sposò la ninfa naiade Cleocaria o Peridia e fu padre di Milete e Policaone, Bomoloco e Terapne.\nSecondo Stefano di Bisanzio è figlio di Sparto e padre di Amicla.\n\nMitologia.\nFu un eroe della popolazione chiamata lelegi e fu il primo re della Laconia e dopo la sua morte gli abitanti diedero al suo regno il nome di Lelegia. Mileto, il maggiore dei suoi figli, ricevette il regno in successione.\nPer lui era stato eretto un heroon a Sparta.
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### Titolo: Lemniadi.\n### Descrizione: Le Lemniadi (o donne di Lemno) sono le abitanti dell'isola greca di Lemno. Nel mito greco sono ricordate per aver trascurato gli obblighi cultuali nei confronti di Afrodite e perciò condannate dalla dea ad essere respinte dai mariti.\n\nLa punizione di Afrodite.\nNon è chiaro il motivo per cui Afrodite decide di punire le donne di Lemno. Si ipotizza una dimenticanza, una negligenza o addirittura un disamore nei confronti della dea. La separazione che viene a crearsi tra le Lemniadi e Afrodite, dea dell'amore e custode dei legami matrimoniali, ha come conseguenza l'allontanamento delle Lemniadi da parte dei loro mariti.\nLa dea infatti avrebbe inflitto loro un odore ripugnante non rendendole più desiderabili agli uomini, che presero con sé delle concubine tracie, catturate come schiave nel corso di spedizioni di guerra.\nPer vendetta allora le Lemniadi nel corso di una notte fecero strage dei loro mariti infedeli e dei figli di sesso maschile che avevano avuto da quelli.\n\nLe Lemniadi e gli Argonauti.\nQuando gli Argonauti giungono nell'isola di Lemno, le Lemniadi indossano armi e sono piene di frenesia guerriera, spaventose quanto le Tiadi 'divoratrici di carne cruda.'.\nLentamente tuttavia sembrano voler riacquistare la loro condizione femminile di mogli e madri. Iniziano a cedere alle richieste di un araldo inviato dagli Argonauti e fanno avere agli stranieri vino e cibo, a condizione che non entrino in città.\nIn seguito decidono di dare loro il benvenuto portando sulla spiaggia gli xenia (ξένια), doni che si fanno per salutare gli stranieri. Questi doni dell'ospitalità stabiliscono un vincolo con gli Argonauti.\nInfine, gli Argonauti riescono ad unirsi alle donne di Lemno al termine di giochi e gare, dove i premi sono costituiti da abiti tessuti dalle donne stesse, e in occasione di una festa nella quale i sacrifici più belli vengono offerti in onore di Efesto di Lemno e della sua sposa Afrodite.\n\nApollonio Rodio.\nNella sua versione, Apollonio Rodio sottolinea due particolari che indicano il ritorno delle Lemniadi alla condizione femminile. Innanzitutto, il matrimonio collettivo con gli Argonauti è provocato da Afrodite stessa, per riportare la specie umana a Lemno: si dice infatti che questi matrimoni siano unioni feconde.\nInoltre, mentre la città in festa di riempie di banchetti e danze, Lemno esala un odore gradevole, dove il fumo delle carni sacrificali si mescola al profumo degli aromi bruciati in onore di Afrodite.\nIn questo modo è ristabilita la comunicazione tra la terra di Lemno e gli dei e dall'altro lato il puzzo delle donne è allontanato definitivamente dall'odore profumato che fa rinascere il favore della dea del desiderio amoroso.\n\nEschilo.\nNella versione eschilea gli Argonauti si presentano a Lemno per svernare sull'isola ma le Lemniadi impediscono loro di sbarcare finché non giurano di unirsi a loro.\n\nNozze e guerra.\nLe nozze e la guerra costituiscono i due poli entro cui si sviluppa questo racconto mitico. Nella società antica il matrimonio per la giovane donna e la guerra per il giovane uomo sono le due istituzioni che, come spiega Jean-Pierre Vernant, segnano per l'uno e per l'altra la realizzazione della loro rispettiva natura, uscendo da uno stato nel quale ciascuno partecipa ancora dell'altro.\n\nLa dysosmìa.\nNel mito delle Lemniadi la negazione del matrimonio è espressa in due termini. Da un lato la condizione guerriera delle donne e dall'altro il cattivo odore da loro emanato (dysosmìa).\nQuesto odore infetto verrebbe secondo alcuni dalla bocca delle Lemniadi, secondo altri dal loro sesso.\nUna terza versione lo localizza nelle ascelle, in quella parte del corpo della quale l'autore dei Problemi aristotelici giustifica il cattivo odore con l'assenza di aerazione, che genera una sorta di putrefazione (sepsis).\nNella versione di Mirsilo di Metimna, la responsabile del cattivo odore sarebbe la maga Medea che, passando al largo di Lemno con Giasone, avrebbe gettato in mare dei phàrmaka, forse a base di ruta, considerata una pianta anafrodisiaca.\n\nLa festa di Lemno.\nOgni anno a Lemno le donne sono separate dagli uomini e dai ragazzi, a causa del cattivo odore che diffondono intorno.\nSecondo Mirsilo di Metimna la separazione dura un giorno, ma secondo Antigono di Caristo si prolungherebbe per parecchi giorni.\nChe la dysosmìa delle donne sia provocata dall'ingestione di spicchi d'aglio, come nelle Sciroforie, o che sia una finzione, voluta dalla festa, la distanza rituale tra le donne e gli uomini si inserisce in una cerimonia più vasta, durante la quale tutti i fuochi di Lemno sono spenti per diversi giorni.Alle due sequenze del mito (separazione delle donne dai mariti; rinnovamento della vita con il matrimonio collettivo degli Argonauti) corrispondono i due tempi del rito.\n\nPrima fase: la scomparsa del fuoco, del calore, della cucina e dei sacrifici comporta l'abolizione di ogni vita normale.\nSeconda fase: il ritorno del fuoco puro, portato dalla nave che va a prelevarlo da Delo, comporta la nascita di una nuova vita a Lemno.\n\nL'interpretazione di Marcel Detienne.\nNel celebre studio sulla cultura degli aromi nel mondo antico, Marcel Detienne collega il loro uso alla capacità di unire due termini opposti (l'uomo e la donna) e l'alto e il basso (la terra e il cielo, ovvero le divinità).\nIl puzzo, al contrario, rinvia alla separazione e alla disgiunzione.\n'Lemno potrebbe allora apparire come un mondo marcio dove, secondo uno schema dimostrato da Claude Lévi-Strauss, la mediazione tra la Terra e il Sole non è più assicurata dal fuoco alimentare, che in Grecia si presenta in un primo tempo come fuoco del sacrificio. La separazione tra gli uomini e le donne, contrassegnata dall'odore di putredine, corrisponderebbe così a un'altra separazione, questa volta cosmica, tra il Sole e la Terra.'.
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### Titolo: Leode.\n### Descrizione: Leode è un personaggio dell'Odissea di Omero.\n\nIl mito.\nLeode, figlio del nobile Enope, era uno dei Proci, giovani e subdoli pretendenti al trono di Itaca, allorché Ulisse, il re, era impegnato nella guerra di Troia: era anche aruspice, dotato di preveggenza. Ulisse, una volta tornato in patria, dovette vedersela coi pretendenti che si erano insediati nella reggia volendo sposare, in sua assenza, la moglie Penelope. Aiutato dal figlio Telemaco e dai servi fedeli dette il via a una grande strage nella sala del palazzo. Quello dei Proci cui Odisseo riservò la sorte peggiore fu proprio Leode che, vista la carneficina, si gettò alle sue ginocchia implorando di essere risparmiato, ma il re di Itaca, sordo alle sue preghiere, raccolse la spada di Agelao (un pretendente ucciso poco prima dall'eroe acheo), e con questa gli tagliò la testa che cadde al suolo mentre ancora parlava.
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### Titolo: Leodoco.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Leodoco (o Leodico) era il nome di uno dei figli di Biante e di Però.\n\nNella mitologia.\nSecondo Apollonio Rodio, quando Giasone, un eroe greco, chiamò a raccolta tutti gli uomini valorosi per unirsi a lui nella spedizione per la raccolta del vello d'oro Leodoco fu uno dei tanti che rispose all'appello, anche se durante il viaggio non si distinse per le sue imprese.\nLeodoco aveva due fratelli chiamati Talao e Areo.
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### Titolo: Leone di Nemea.\n### Descrizione: Leone di Nemea (in greco antico: Νεμέος λέων?, Neméos léōn) o Leone Nemeo, è una creatura della mitologia greca.\n\nAspetto.\nIl mito parla di un enorme leone che tormentava la popolazione di Nemea la cui pelliccia era impenetrabile dalle armi, poiché non poteva essere ferita da ferro, bronzo o dalla pietra ed era necessaria la sola forza della mano umana per la sua sottomissione.\n\nGenealogia.\nSecondo Esiodo era figlio di Ortro e Chimera oppure, secondo Apollodoro era figlio di Tifone, mentre Igino invece, scrive che sia figlio di Selene.\nPer Esiodo anche la Sfinge sarebbe nata dai suoi stessi genitori (Ortro e Chimera) e i due sarebbero così fratelli.\n\nMitologia.\nIl leone apparteneva ad Era che lo aveva cresciuto sulle colline attorno alla città di Nemea e luogo dove terrorizzava ed assaliva la gente.\nFu cacciato ed ucciso da Eracle che, giunto nei pressi della sua dimora, cercò invano di trafiggerlo usando arco e frecce ma, avendo la pelliccia invulnerabile ne fu protetto e non subì ferite. Da Eracle fu poi aggredito a colpi di clava e per difendersi fuggì in una caverna con due uscite, che fu però bloccata dall'avversario che poi continuò ad assalirlo entrando dall'altra parte. Intrappolato, fu poi raggiunto e cinto al collo con un braccio per essere soffocato fino alla morte. Eracle poi se lo caricò sulle spalle e lo portò a Cleone.\nIn seguito Eracle scuoiò il leone ed utilizzò per se stesso la pelliccia, ottenendo una difesa invincibile contro i nuovi pericoli che avrebbe affrontato.\nIl leone Nemeo fu posto da Zeus tra i segni dello zodiaco, dove formò la costellazione del leone.\nIgino aggiunge che già a quei tempi si pensava che il leone fosse il re degli animali e che per questo motivo sia stato messo tra le stelle.\n\nAltre versioni.\nAlcuni dicono anche che l'accaduto del leone sia successo a Caudium nel Sannio caudino, odierna Montesarchio, in una delle grotte del Taburno.
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### Titolo: Leonteo.\n### Descrizione: Leonteo (in greco antico: Λεοντεύς?, Leontéus) è un personaggio della mitologia greca. Fu un re dei Lapiti e partecipò alla guerra di Troia.\n\nGenealogia.\nFiglio di Corono, fu il padre di Issione.\n\nMitologia.\nFu uno dei pretendenti di Elena e partecipò alla guerra di Troia (assieme a Polipete) con quaranta navi.\nDurante la guerra uccise Antifate, Menone, Iameno, Oreste e ferì Ippomaco. Partecipò ai giochi funebri organizzati in onore di Patroclo, dove sfidò il suo amico e altri valorosi combattenti in una gara di lancio del peso.\n\n(Omero, Iliade, XII, vv.188-89, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).\nDopo la guerra non fece ritorno in patria ma si spostò a Colofone e secondo Aristotele mori nella terra dei Medi.
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### Titolo: Leontofono.\n### Descrizione: Leontofono (in greco antico: Λεοντοφόνος, 'uccisore di leoni') è una figura della mitologia greca, figlio di Ulisse e della bella figlia di Toante, re d'Etolia nonché compagno di Odisseo durante la guerra di Troia.\n\nIl mito.\nDopo l'uccisione dei pretendenti, Odisseo fu condannato da Neottolemo, figlio di Achille, nominato giudice per dirimere la questione. Odisseo acconsentì ad accettare il verdetto e Neottolemo stabilì che egli lasciasse l'isola e che gli eredi dei pretendenti versassero a Telemaco, sostituto del padre in qualità di re, un adeguato compenso per i danni subiti. Odisseo si recò in Etolia presso il re Toante, ne sposò la figlia (o la sedusse non rispettando le regole della Xenia) e con lei generò Leontofono.\n\nPareri secondari.\nNella Telegonia si afferma che Odisseo avesse passato gli anni d'esilio non solo in Etolia, bensì anche in Tesprozia, dove sposò la regina Callidice e da lei ebbe un figlio chiamato Polipete.
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### Titolo: Les Troyens.\n### Descrizione: Les Troyens (I Troiani) è un'opera in cinque atti di Hector Berlioz su libretto dello stesso compositore, ispirato all'Eneide di Virgilio.\n\nOpera.\nIl fiasco del Benvenuto Cellini nel 1838 indusse Berlioz a ricercare altre forme di espressione musicale diverse dall'opera lirica. Occorrerà pertanto attendere circa vent'anni per la composizione di una nuova opera, incoraggiato dalla compagna di Franz Liszt, principessa Carolyne von Sayn-Wittgenstein, a cui poi Berlioz dedicò il suo nuovo lavoro.\nComposta fra il 1856 ed il 1858, Les Troyens incontrò grandi difficoltà ad essere messa in scena. L'opera dovette essere scissa in due opere più brevi, La Prise de Troie, della durata di un'ora e mezza e Les Troyens à Carthage, di due ore e mezza. Berlioz riuscì a vedere soltanto la rappresentazione della seconda parte, rappresentata al Théâtre Lyrique di Parigi il 4 novembre 1863. La prima parte venne eseguita in forma di concerto nel 1879.\nL'opera integrale, pressoché completa, venne data per la prima volta al Großherzoglichen Hoftheater di Karlsruhe il 6 e 7 dicembre 1890 alla presenza di André Messager. Le ragioni della mancata rappresentazione dell'opera completa furono la lunghezza (quattro ore, durata raggiunta peraltro da alcune opere di Wagner) e la profusione di mezzi scenici richiesti per l'allestimento - fra cui il famoso cavallo - , oltre alle grandi masse orchestrali e corali. Al momento delle prove precedenti la prima, l'originalità delle partitura sconcertò gli interpreti a tal punto che il direttore del teatro, Carvalho, fu costretto a concedere più tempo per familiarizzare con essa. L'opera Les Troyens à Carthage non fu un insuccesso; anzi, fu giudicata in modo molto positivo da Clément e Larousse nel Dictionnaire des opéras del 1905, alla voce « Les Troyens » (la dicitura non è precisa, perché è considerata solo la seconda parte dell'opera, quella cartaginese).\nLa prima parigina venne data soltanto nel 1921, ma in una versione abbreviata. La prima vera esecuzione integrale, in una sola serata, venne data nel 1957 al Covent Garden a Londra. Essa fu seguita da una incisione discografica nel 1969 diretta da Colin Davis, edizione di riferimento ancora oggi (anche se la versione più completa di Charles Dutoit è del 1994, integrando il preludio di Troyens à Carthage all'inizio del terzo atto).\n\nPersonaggi.\nIl ruolo della protagonista, negli atti I e II, è quello di Cassandra e negli atti III, IV e V, quello di Didone. Spesso i due ruoli vengono interpretati dalla stessa cantante. È stato il caso di Régine Crespin della quale rimane una registrazione di arie del 1965 sotto la direzione di Georges Prêtre. Il quinto atto è detto l'atto di Didone, realizzato in tre quadri, comprende il monologo Ah, ah, je vais mourir e l'aria Adieu, fière cité alla fine del secondo quadro. La morte di Didone e le sue invettive contro Roma sono fra le pagine più celebri dell'opera.\nIl ruolo del protagonista è quello di Enea, il cui pezzo d'ingresso, (Du peuple et des soldats), è uno dei più spettacolari dell'opera: il tenore arriva correndo e narra la morte di Laocoonte cantando una frase dalla tessitura molto complessa e difficile. Il suo duetto con Didone del IV atto, (Nuit d'ivresse et d'extase infinie), è stato il pezzo più acclamato, sin dalla prima rappresentazione.\nI personaggi di Ettore e Andromaca appaiono entrambi in maniera non tradizionale. Andromaca appare con il figlio Astianatte nel primo atto, in una pantomima durante il canto del coro. Ettore, invece, appare sotto forma di uno spettro nel primo quadro del II atto; egli invita Enea a partire da Troia ed a fondare Roma (Ah !… fuis, fils de Vénus).\n\nCast della prima assoluta.\nTrama.\nLa prise de Troie.\nAtto 1.\nIl popolo troiano finalmente esce dalle mura della città, per la prima volta dopo dieci anni di guerra, esultando per la scomparsa della flotta greca (Coro: Ha! Ha! Après dix ans) e si dirige ad osservare l'enorme cavallo di legno che i Greci hanno lasciato sulla piana ormai deserta. La sola Cassandra, la profetessa mai creduta, è inquietata da un sinistro presagio, ed è l'unica a sospettare che il cavallo di legno sia in realtà un tranello (Aria: Malheureux Roi!). Invano la donna cerca di convincere l'amato Corebo a lasciare la città: l'uomo decide di rimanere accanto alla donna che ama (Duetto: Reviens à toi).\nMentre sfila in processione la famiglia regale, Enea porta la notizia di un terribile prodigio: il sacerdote Laocoonte, nutrendo gli stessi dubbi di Cassandra, ha cercato di distruggere il cavallo di legno lanciandogli contro un giavellotto ed esortando il popolo a distruggere l'idolo, ma due serpenti giganteschi, sorti dal mare, l'avevano stritolato e divorato (Ottetto: Châtiment effroyable!). Priamo, per implorare il perdono di Pallade Atena, divinità a cui è dedicato il cavallo, ordina di portare il colosso nella città, le cui mura sono state già aperte per favorirne l'ingresso. L'atto si chiude con la sconvolta Cassandra che, in preda all'orrore, assiste alla gioiosa processione e all'ingresso del cavallo nella città (Marcia: Du roi des dieux).\n\nAtto 2.\nIl sonno di Enea è turbato da presagi funesti: in sogno gli appare l'ombra di Ettore, che gli ordina di partire per l'Italia per rifondare una nuova Troia (Recitativo: Fuis, fils de Venus!). L'amico Panteo e Corebo esortano Enea e il figlio Ascanio ad unirsi alla resistenza, dato che il saccheggio è già iniziato. La scena si sposta dentro il palazzo di Priamo, dove le donne stanno implorando la salvezza della città presso l'altare di Cibele. Cassandra, ascoltata troppo tardi, annuncia di voler morire, ora che Corebo è stato ucciso nella battaglia: la maggior parte delle donne prende la sua decisione, e le titubanti vengono cacciate in malo modo. All'ingresso dei soldati greci, Cassandra si uccide, seguita dalle sue compagne, e spira gridando 'Salva i nostri figli, Enea! Italia, Italia!'.\n\nLes Troyens à Carthage.\nAtto 3 (1).\nIl popolo cartaginese inneggia alla loro regina Didone, che, in poco tempo, ha fondato un regno già prospero e solido. La regina è però ancora velata dalla malinconia, e la sorella Anna, scherzando, la esorta ad innamorarsi di nuovo e a prendere marito: ma Didone, il cui primo sposo Sicheo era stato ucciso dal fratello, ha giurato di non volere più amare (Duetto: Sa voix fait naître). Il poeta di corte Iopa annuncia l'arrivo della flotta troiana e la suppliche degli esuli, che vengono accolti di buon grado da Didone: improvvisamente, Narbal, consigliere di corte, annuncia che Iarba, Re dei Numidi e pretendente disprezzato dalla regina, sta attaccando i campi cartaginesi. Enea si rivela allora alla regina, offrendosi di aiutarla a sconfiggere il nemico per ringraziarla dell'ospitalità. Didone accetta l'alleanza, ed Enea parte ad aiutare i cartaginesi con i suoi (Finale: C'est le Dieu Mars).\n\nAtto 4 (2).\nNarbal si lamenta con Anna delle distrazioni di Didone, da troppo tempo intenta, anziché alle cure del regno, a spettacoli, danze e banchetti: Anna rimprovera il serioso consigliere, rallegrandosi per la felicità che la sorella sta ritrovando accanto ad Enea (Duetto: De quels revers menaces-tu Carthage). La regina, innamorata di Enea, trova consolazione solo nei racconti di guerra dell'esule troiano (Quintetto: Voyez, Narbal, la main légère). I due amanti si concedono una nuova notte d'amore (Duetto: Nuit d'ivresse), funestata dall'improvvisa voce del dio Mercurio, che per tre volte grida 'Italia!' indicando a Enea il mare.\n\nAtto 5 (3).\nPanteo raduna i troiani, esortandoli a prepararsi: Enea è continuamente turbato dalle ombre di Ettore, Priamo, Cassandra e Corebo che gli ingiungono di partire senza più indugi. La partenza viene funestata dall'arrivo di Didone, furente, che pretende spiegazioni: Enea, abbattuto, le ricorda l'ordine divino, ma la regina non sente ragioni e maledice lo spergiuro, che sale sulla nave (Duetto: Errante sur tes pas).Didone, calmatasi, implora la sorella di correre alle navi per chiedere un ultimo colloquio con Enea, ma Iopa e il coro annunciano l'improvvisa partenza della flotta troiana. La regina, in preda al furore, dapprima esorta i cartaginesi a inseguire il traditore, ma poi, resasi conto del suo delirio, comunica a tutti la sua decisione di offrire alle divinita dell'Ade i pegni d'amore lasciati da Enea, per purgare l'anima da un amore così fatale. Rimasta sola, Didone progetta il suicidio e dà l'addio alla città (Aria: Adieu, fière cité).I sacerdoti di Plutone sono pronti al rito; Anna e Narbal precedono l'arrivo della regina invocando una maledizione su Enea e i Troiani. Didone arriva, esaminando per l'ultima volta i regali di Enea, così cari, ma ora così funesti, e, impugnata la sua spada, si trafigge a morte. Il popolo è sconvolto e maledice la razza di Enea, ma la regina, in preda al delirio, vede il trionfo della nuova città fondata da Enea, e spira (Imprecazione: Haine éternelle à la race d'Énée!).\n\nStruttura musicale.\nLa seguente ripartizione musicale è basata sulla traduzione in italiano del libretto.\n\nAtto I.\nN. 1 - Introduzione Ha! Ha! Dopo dieci anni (Coro, Soldato).\nN. 2 - Recitativo ed Aria di Cassandra I Greci sono scomparsi!... - Sventurato sovrano!.\nN. 3 - Duetto fra Corebo e Cassandra Torna in te, vergine adorata!.\nN. 4 - Marcia ed Inno Dei protettori della città eterna (Coro).\nN. 5 - Combattimento col cesto.\nN. 6 - Pantomima Andromaca e suo figlio! (Coro).\nN. 7 - Narrazione di Enea O re! La folla del popolo.\nN. 8 - Ottetto con doppio coro Castigo tremendo! (Enea, Sinone, Corebo, Priamo, Panteo, Ascanio, Ecuba, Coro, Cassandra).\nN. 9 - Recitativo e Coro La dea ci protegga - Fate corteggio a questo oggetto sacro (Enea, Priamo, Sinone, Corebo, Priamo, Panteo, Ascanio, Ecuba, Coro).\nN. 10 - Aria di Cassandra Oh ricordo crudele!.\nN. 11 - Finale I: Marcia Troiana O amata figlia del re degli dei (Coro, Cassandra).\n\nAtto II.\nN. 12 - Scena e Recitativo O luce di Troia!... - Ah!... Fuggi, figlio di Venere! (Enea, Spettro di Ettore).\nN. 13 - Recitativo e Coro Che speranza ci è ancora permessa, Panteo? - La salvezza dei vinti (Coro, Enea, Panteo, Ascanio).\nN. 14 - Coro delle Troiane Ah! Possente Cibele.\nN. 15 - Recitativo e Coro Non tutti moriranno - Eroina d'amore (Cassandra, Coro).\nN. 16 - Finale II Complici della sua gloria (Coro, Cassandra, Capo).\n\nAtto III.\nN. 17 - Coro I cieli di Cartagine.\nN. 18 - Canto nazionale Gloria a Didone.\nN. 19 - Recitativo ed Aria di Dione Abbiamo visto passare sette anni appena - Già da lontane sponde (Didone, Coro).\nN. 20 - Entrata dei costruttori.\nN. 21 - Entrata dei marinai.\nN. 22 - Entrata dei contadini.\nN. 23 - Recitativo e Coro Popolo! tutti gli onori - Gloria a Didone (Coro, Anna, Narbal).\nN. 24 - Recitativo e Duetto fra Didone ed Anna I gioiosi canti - La sua voce fa nascere nel mio seno.\nN. 25 - Recitativo ed Aria di Didone Sfuggiti a gran fatica - Errando sui mari.\nN. 26 - Marcia Troiana.\nN. 27 - Finale III Quasi non oso annunciare (Narbal, Didone, Coro, Enea, Panteo, Iopa, Ascanio, Anna).\n\nAtto IV.\nN. 28 - Caccia reale e tempesta (Pantomima).\nN. 29 - Duetto fra Narbal ed Anna Di quali disgrazie minacci Cartagine.\nN. 30 - Marcia per l'entrata della regina.\nN. 31 - Balletti Amaluéè (Coro).\nN. 32 - Scena e Canto di Iopa Basta, sorella mia - O bionda Cerere.\nN. 33 - Recitativo e Quintetto Perdona, Iopa, perfino la tua voce - Andromaca sposare (Didone, Enea, Anna, Iopa, Narbal).\nN. 34 - Recitativo e Settimino Ma cacciamo questi tristi ricordi - Tutto è pace e incanto intorno a noi! (Enea, Didone, Anna, Iopa, Narbal, Ascanio, Panteo, Coro).\nN. 35 - Duetto fra Enea e Didone Notte d'ebrezza.\n\nAtto V.\nN. 36 - Canzone di Ila Vallata sonora (Ila, Soldati).\nN. 37 - Recitativo e Coro Preparate tutto - Ogni giorno vede accrescersi (Panteo, Coro, Ombre).\nN. 38 - Duetto fra i due soldati Per Bacco!.\nN. 39 - Recitativo a tempo ed Aria di Enea Inutili rimpianti!... - Ah! Quando verrà.\nN. 40 - Scena delle Ombre Enea!... (Ombre, Enea, Spettro di Priamo, Spettro di Corebo, Spettro di Ettore, Spettro di Cassandra).\nN. 41 - Scena e Coro In piedi, Troiani, destatevi, all'erta! - Cogliamo l'occasione propizia (Enea, Coro).\nN. 42 - Duetto fra Didone ed Enea Errando sui tuoi passi.\nN. 43a - Monologo di Didone Morirò... sommersa nel mio dolore immenso.\nN. 43b - Aria di Didone Addio, fiera città.\nN. 44 - Cerimonia Funebre Dei dell'oblio (Coro, Anna, Narbal).\nN. 45 - Coro Ah! Soccorso! (Anna, Narbal, Coro, Didone).\nN. 46 - Imprecazione Odio eterno alla razza di Enea! (Coro).\n\nDiscografia parziale.\nRegistrazioni video.
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### Titolo: Lete (fiume dell'oblio).\n### Descrizione: Il Lete è il fiume dell'oblio della mitologia greca e romana. Era originariamente il nome della figlia della dea Eris.\n\nIl Lete (o Amelete) da Platone a Virgilio.\nIl fiume è presente nel X libro della Repubblica di Platone, dove viene narrato il mito di Er, disceso nell'oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime.\nNei frammenti degli orfici troviamo la raccomandazione, agli iniziati che sono giunti nell'aldilà e si apprestano a entrare in una nuova vita, di bere poco l'acqua per ricordare, chi beve troppo ha l'oblio, cercando di far tesoro del proprio passato per conseguire un superiore livello di saggezza.\nL'opera latina più famosa che ne parla è l'Eneide di Virgilio, nel VI libro, e le anime dei Campi Elisi vi si tuffano quando devono reincarnarsi dimenticando le vite passate, secondo la concezione pitagorica della metempsicosi. Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull'onda del fiume Lete (En., VI 714-715).\n\nIl Lete nella letteratura medievale e moderna.\nIl Lete è citato da Dante Alighieri nel Purgatorio: Dante immagina che in questo fiume, situato nel paradiso terrestre, sul monte del Purgatorio, si lavino le anime purificate prima di salire in Paradiso, per dimenticare le loro colpe terrene. Dante lo chiama però Letè, per la sua difficoltà nel riconoscere gli accenti nei nomi di derivazione greca. Accanto al Letè scorre il fiume del ricordo delle cose buone del proprio passato, l'Eunoè; i due fiumi potrebbero essere ricollegati ad antiche fonti di un sito oracolare della Beozia, dove scorrevano appunto Lete e Mnemosine, e dove bevevano i pellegrini.\nSul mito di due fonti di segno opposto sarebbero nati molti episodi di opere letterarie nelle letterature europee moderne, soprattutto nel Quattrocento.\nIl Lete ha un ruolo importante all'interno della tragedia goethiana del Faust, e ricorre spesso anche in poesie di Baudelaire.\nLudovico Ariosto, nel suo Orlando Furioso, ne parla.\n\nEtimologia.\nIl toponimo del mitologico fiume Lete, ἡ Λήθη, il fiume dell'oblio, viene da λανθάνω che significa 'sono nascosto': preceduto da un α privativo, indica disvelamento, rivelazione: 'quindi ἀλήθεια è lo stato del non essere nascosto', ed in questo senso è stato oggetto della speculazione filosofica di Martin Heidegger.
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### Titolo: Leuce.\n### Descrizione: Leuce (in greco antico: Λεύκη, Lèukē, 'bianca') è un personaggio della mitologia greca.\n\nMito.\nLeuce era una ninfa Oceanina, figlia del Titano Oceano. Fu l'amante di Ade, dio dei morti, prima che questi sposasse Persefone, e visse con lui agli Inferi fino alla morte. Dopo la sua scomparsa, Ade trasformò il suo cadavere in un pioppo bianco, che posizionò nei Campi Elisi, vicino alla Fontana della Memoria.\nQuando l'eroe Eracle visitò gli Inferi durante una delle sue dodici fatiche, s'incoronò con un diadema fatto proprio con le foglie di quest'albero.\n\nSignificato.\nIl pioppo bianco è caratterizzato da foglie bicolori, verdi da un lato e bianche dall'altro.\nSecondo Servio, ciò rappresentava la dualità terrena-ctonia, motivo per cui Eracle, che trionfò sia nel mondo dei vivi che in quello dei morti, lo scelse come simbolo. In seguito, Eracle fu reso il patrono dei giochi olimpici, e in suo onore il pioppo venne usato nelle corone dei vincitori.\nIl pioppo era anche usato nei riti dionisiaci, in onore della doppia natura di Dioniso-Zagreo, e nei riti in onore di Zeus a Elide, in onore del suo aspetto di Zeus Ctonio. Era anche un elemento tipico dei riti funebri.\nRobert Graves, nelle sue ricostruzioni della natura allegorica dei riti, suggerisce una sincretizzazione fra Leuce e Persefone, essendo il pioppo bianco sacro anche a quest'ultima, e definisce il pioppo come uno dei tre alberi della rigenerazione, insieme all'ontano e al cipresso.
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### Titolo: Leucippo (figlio di Lampro).\n### Descrizione: Leucippo (in greco antico: Λεύκιππος?, Léukippos) è un personaggio della mitologia greca. Figlia di Galatea e Lampro, a sua volta figlio del nobile Pandione, Leucippo fu cresciuta come un ragazzo dalla madre per salvarla dalle ire del padre e successivamente fu trasformata in un uomo dalla dea Latona.\n\nMitologia.\nQuando Galatea rimase incinta, il marito Lampro pregò gli dei di concedergli un figlio maschio ed ordinò alla moglie di disfarsi nel neonato nel caso fosse femmina. Mentre il marito era al pascolo, Galatea partorì una bambina e, mossa a compassione e spinta da presagi divini, decise di far credere al marito di aver dato alla luce un maschio e per questo diede alla bambina il nome di Leucippo. Giunta la pubertà, Leucippo acquisì grande bellezza e le sue nuove forme tradivano il suo vero sesso, mettendola dunque in pericolo di vita.\nLa madre Galatea si recò al tempio di Latona e pregò la dea di trasformare la figlia in un maschio. Citando illustri precedenti come quelli di Tiresia, trasformato da uomo a donna e poi di nuovamente in uomo, oppure quello della fanciulla Cenide, mutatasi nel virile Ceneo il Lapite, Galatea riuscì a persuadere la dea, che mutò quindi il sesso di Leucippo da femminile a maschile.\n\nCulto a Creta.\nPer celebrare la trasformazione miracolosa, gli abitanti di Festo diedero a Latona l'epiteto di Fitia (dal greco φύω, 'far crescere'), perché aveva fatto crescere il pene a Leucippo. Stando ad Antonino Liberale, i cretesi stabilirono la festa della Ecdysia (da ἑκδύω, 'spogliare'), perché la fanciulla Leucippo si spogliò del peplo per diventare un uomo a tutti gli effetti. Per le donne cretesi divenne quindi una consuetudine sdraiarsi accanto alla statua di Leucippo prima delle nozze.
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### Titolo: Leucosia (mitologia).\n### Descrizione: Leucosia (in greco antico: Λευκωσία?) è una sirena e una figura della mitologia greca e romana.\n\nIl mito.\nSecondo il mito greco, Leucosia era il nome di una delle tre ancelle della dea Persefone, con la quale vivevano nell’antica Hipponion (odierna Vibo Valentia).\nLeucosia e le sue sorelle rappresentavano una vera e propria minaccia per i marinai. Annidate sugli scogli, con la dolcezza del loro canto ammaliavano i naviganti che costeggiavano le sponde del Tirreno, dal Circeo a Scilla; i naviganti perdevano il controllo delle navi e facevano naufragio, finendo per essere divorati.\nNella tradizione figurativa e in quella letteraria, le sirene sono generalmente tre: Partenope (‘quella che sembra una vergine’), Leucosia (‘quella che ha candide membra’) e Ligea (‘la melodiosa dalla voce incantevole’). Esse sarebbero state mutate in uccelli da Demetra per punirle di non aver aiutato la loro compagna di giochi Persefone (figlia di Zeus e Demetra), quando Ade (il dio degli inferi) la rapì mentre insieme a loro stava cogliendo fiori, trascinandola nell’Averno.\nIl poeta ellenistico Licofrone, nel suo enigmatico poema Alessandra, è il primo a raccontare la storia della sirena Leucosia e delle sue sorelle. Secondo Licofrone esse operano insieme ma quando Odisseo rifiuta di fermarsi al loro canto le costringe al suicidio. Si gettano in mare dall'alto di una rupe e il mare conduce i loro corpi in luoghi diversi.\n\nLeucosia e Punta Licosa.\nIl corpo di Leucosia emerse nelle acque del golfo di Poseidonia (Paestum) da cui il nome di Leucosia dato a un'isoletta presso quella città, Punta Licosa.\nA Castellabate, dove Leucosia si arenò, ogni anno si tengono i 'Concerti sull'acqua' dedicati alla sirena.\nLe manifestazioni musicali si svolgono dinanzi all'isolotto di Licosa (punta estrema del golfo di Salerno nel comune di Castellabate) con la partecipazione di un complesso di musica sinfonica.\nIn quell'area la memoria della Sirena Leucosia è avvertita sin dall'epoca greco-romana, ed è testimoniato anche da una delle quattro porte di Paestum chiamata Porta Serena ed aperta ad Oriente.'Sul promontorio Enipeo, scagliata con violenza, Leucosia occuperà per molto tempo lo scoglio col suo nome,.\ndove il rapido Is ed il vicino Lari versano le loro acque'.
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### Titolo: Leucotea.\n### Descrizione: Leucotea (in greco antico: Λευκοθέα?, Leukothéā) e letteralmente 'dea bianca', da intendersi forse come ''la dea che scorre sulla schiuma del mare' è un personaggio della mitologia greca ed è una divinità del mare.\nNella mitologia romana viene identificata con la dea Mater Matuta.\n\nGenealogia.\nLa dea Leucotea non è stata generata e non ha avuto sposo facendola originare direttamente da Ponto, il mare primordiale, in altre versioni è una mortale divinizzata o una ninfa.\n\nMitologia.\nDi Leucotea, la 'dea marina bianca' ed a volte invocata dai marinai in difficoltà, si ha l'esempio più esplicito nell'Odissea quando Omero scrive che emerge dal mare e dona un velo ad Odisseo, quasi naufrago ed in balia dei venti mentre, a riguardo della sua adorazione terrena, ne esiste traccia tra gli scritti di Alcmane che, nel settimo secolo a.C., scriveva dell'esistenza di un santuario a lei dedicato.\nSe si considera che la tradizione mitologica dei greci è sempre stata quella di attribuire ad ogni personaggio divino un'ascendenza immortale, la figura di Leucotea rappresenta un'eccezione poiché nei suoi riguardi non esiste alcuna testimonianza che confermi questa consuetudine ed invece sono molte le opere (o leggende) che le attribuiscono un'origine umana.\n\nLe origini mortali.\nTra le due versioni che fanno risalire Leucotea ad una precedente donna mortale, la più diffusa porta ad Ino che, nel riassunto dei suoi svariati miti, commise (o assistette a) un crimine verso i suoi figli ed in seguito si gettò nel mare.\nIno fu poi tramutata in Leucotea per volere degli dei.\nDiversamente dal numero di autori che scrivono di Ino, uno solo (Diodoro Siculo, che tra l'altro non scrive di Ino), racconta di una ninfa di nome Alia che si gettò nel mare per la vergogna della violenza subita dai suoi stessi figli.\nAnche Alia prese in seguito il nome di Leucotea.\nNella consuetudine delle diverse leggende il contatto del corpo mortale con il mare trasforma la protagonista in una Dea.\n\nApoteosi del personaggio.\nDopo che si gettò in mare, Leucotea fu trasportata da un delfino fino alle spiagge di Corinto dove il re locale (Sisifo) istituì i Giochi Istmici e delle celebrazioni annuali in suo onore.\nNella vicina Megaride la tradizione invece dice che furono le onde a portarne il corpo a riva e che fu trovato e seppellito da due donne vergini.\nA Rodi, l'isola di cui scrive Diodoro Siculo, divenne dea dopo essersi gettata in mare.\nIl latino Cicerone asserisce che è da ritenersi divina come Leucotea in Grecia ed a Roma con il nome di Matuta.\n\nIl Vortice di Alba Domna.\nIl mito di Leucotea è stato da alcuni legato all'Alto Ionio Cosentino, in Calabria, e più precisamente all'area costiera prospiciente la Torre di Albidona. Secondo la leggenda, è qui che dimora la dea, la quale di tanto in tanto si affaccia in superficie, generando un grande vortice, che alcune antiche carte geografiche indicano come Vortice di Alba Domna o di Albidona.\nLeucotea, infatti, in greco significa proprio 'dea bianca'. Da qui si può presupporre anche l'etimologia del toponimo Albidona, derivante proprio dal latino alba domna (cioè 'signora bianca'), derivante a sua volta da Λευκοθέαā (cioè 'dea bianca').\nLo stesso vortice, secondo quanto narra lo storico Eliano, sarebbe stato responsabile dell'affondamento di 300 navi della flotta inviata nel 377 a.C. da Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, per sconfiggere la città di Thurii.A qualche miglio dalla battigia albidonese (nei pressi della Secca o Banco di Amendolara), invece, la leggende vuole invece collocata l'omerica isola di Ogigia, dove Ulisse, di ritorno verso Itaca, incontra la dea Calipso.\n\nCulto di Leucotea.\nIl culto, i templi ed i monumenti dedicati a Leucotea, si estendeva dalla Grecia continentale, alle isole egee, alle coste del Mar Nero e fino all'Etruria.\nLa più antica attestazione giunta a noi del culto di Leucotea e risalente al III secolo a.C. è una stele in marmo rinvenuta a Larissa oggi conservata all'Archaeological and Byzantine Myseum of Larissa di Volos.\nNella mitologia romana viene identificata con la dea Mater Matuta, ed Leucotea si ricollega Ovidio, per spiegare l'usanza romana di portare in braccio al tempio di Mater Matuta in occasione della festività dei Matralia, non i propri figli ma quelli dei fratelli.\n\nAutori contemporanei.\nLeucotea viene citata più volte nell'opera Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese e in uno dei Cantos di Ezra Pound.
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### Titolo: Libetra.\n### Descrizione: Libetra (in greco antico: Λείβηθρα o Λίβηθρα?), a volte chiamata Libetria, era un'antica città della Macedonia nella regione storica della Pieria.\nSecondo la mitologia a Libetra le Muse seppellirono Orfeo.\n\nGeografia.\nIl sito in cui sorgeva la città è stato trovato ai piedi dell'Olimpo, nei pressi della attuale città di Leptokarya. Nel sito sono state ritrovate anche delle tombe risalenti all'età del bronzo (tardo elladico III B-C). Poco distante è stata scoperta una strada lastricata che sale verso il Monte Olimpo. La città fu probabilmente distrutta verso la fine del II secolo a.C. da un terremoto e/o da un'inondazione dei fiumi che scendono dall'Olimpo, e da allora abbandonata.
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### Titolo: Libri sibillini.\n### Descrizione: I Libri sibillini erano una raccolta di responsi oracolari scritti in lingua greca e conservati nel tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio, poi trasferiti da Augusto nel Tempio di Apollo Palatino.\n\nReligione romana.\nLa storia della religione romana tramanda di come la Sibilla Cumana (secondo altre fonti la Sibilla Eritrea) avesse offerto libri, che erano in numero di nove, al re romano Tarquinio il Superbo, il quale però considerò il prezzo di questi ultimi troppo esoso. La Sibilla allora bruciò tre di questi libri e offrì di nuovo i sei rimasti al re. Il re Tarquinio rifiutò ancora, quindi la sibilla ne bruciò altri tre. Riformulò quindi la proposta a Tarquinio, che questa volta accettò, però al prezzo iniziale dei nove volumi :.\n\nI libri sibillini furono quindi affidati alla custodia di due membri patrizi (duumviri sacris faciundis), che in seguito furono aumentati fino ad un numero di quindici, comprendendo fra essi anche cinque rappresentanti del popolo. Il loro ruolo consisteva nel consultare gli oracoli su richiesta del Senato (i lectisternia), per evitare di contrariare gli dèi con nuove imprese. I libri venivano conservati in una camera scavata sotto il tempio di Giove Capitolino.\nI libri bruciarono in un incendio nell'83 a.C. e si tentò di ricostruirli cercandone i testi presso altri templi e santuari. Queste nuove raccolte furono ricollocate nel tempio di Apollo Palatino grazie all'interessamento dell'imperatore Augusto.\n\nRimasero presso il tempio di Apollo Palatino fino al V secolo, dopo di che se ne persero le tracce. Rutilio Namaziano nel suo poema De Reditu suo accusa aspramente il generale Stilicone di averli bruciati nel 408.
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### Titolo: Lica.\n### Descrizione: Lica (in greco Λίχας?) era il nome di uno degli araldi di Eracle nella mitologia greca.\n\nIl mito.\nEracle inviò il suo giovane araldo Lica a Eraclea Trachinia affinché recuperasse una veste prodigiosa. Ebbe da Deianira la veste intrisa dal sangue di Nesso, la donna in realtà pensava ad essa come un potente filtro d'amore, come le aveva raccontato lo stesso Nesso morente, ma si trattava invece di un veleno molto potente. Se ne accorse in ritardo, osservando la fine di una sola goccia caduta a terra, non riuscendo poi ad avvertire in tempo il suo amato del pericolo imminente.L'unguento di cui era intrisa la veste era avvelenato con il sangue del mostro Idra di Lerna. Dopo che Eracle ebbe indossato la veste fu travolto da un dolore insopportabile, che l'avrebbe accompagnato poi fino alla morte, e pensò che il giovane Lica lo avesse avvelenato. Così lo prese e lo scagliò giù dal promontorio.Altri invece narravano una diversa fine di Lica, Ovidio ad esempio racconta di come egli venne scagliato nel mare d'Eubea, e da lì venne tramutato in roccia.\nUna leggenda dice che Lica si sia diviso in mille pezzi che hanno creato tutte le isole che si trovano sul mar Egeo.\n\nOmonimia.\nQuesto Lica non va confuso con il giovane latino omonimo citato nel libro X dell'Eneide che prende parte alla guerra contro Enea sbarcato nel Lazio dopo la caduta di Troia.
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### Titolo: Liceo di Aristotele.\n### Descrizione: Il Liceo (in greco antico: Λύκειον?, Lýkeion) era un luogo dove Aristotele fondò la scuola che fu chiamata Liceo e anche peripatetica.\n\nGeografia ed etimologia.\nSito alle pendici meridionali del Licabetto, ad Atene, era un luogo esteso tanto da essere adatto alle esercitazioni militari. Pericle vi aveva fondato un ginnasio successivamente ampliato da Licurgo. Il nome della località derivava da un santuario dedicato ad Apollo Licio.\nNella mitologia greca 'Licio' era un epiteto attribuito ad Apollo o perché riferito al termine «lupo» (λύκος) o al fatto che il dio appena nato era stato portato in Licia, (Λυκία) o infine perché si voleva indicare la sua caratteristica di divinità solare (dalla radice λευκ-, λυκ- «candore, luce»).\n\nLa scuola.\nIl nome peripatetica della scuola aristotelica deriva dal greco Περίπατος, «la passeggiata» (da περιπατέω «passeggiare», composto di περι «intorno» e πατέω «camminare») cioè quella parte del giardino dove era un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli camminavano discutendo.\nSecondo la pedagogista Bianca Spadolini il Liceo, come l'Accademia di Platone, non avrebbe avuto nessuna finalità religiosa e i suoi discepoli erano divisi come in un tiaso tra quelli che erano iniziati e frequentavano la scuola come interni (gli 'esoterici') a cui erano riservate le lezioni più specialistiche e complesse e coloro che partecipavano come discepoli esterni ('essoterici'), uditori a cui era dedicata la parte divulgativa della dottrina.\n\nIl piano di studi probabilmente si basava sull'insegnamento:.\n\ndelle scienze teoretiche dedicate all'osservazione degli enti e del loro divenire (fisica, zoologia, psicologia) e degli enti immobili (metafisica e teologia);.\ndelle scienze pratiche, che dovevano guidare all'azione (etica e politica);.\ndelle scienze poietiche (retorica e poetica).La logica non compariva come scienza, ma come strumento propedeutico allo studio di qualsivoglia scienza.Alla morte di Aristotele, avvenuta nel 322 a.C., Teofrasto gli succedette nella direzione del Liceo. Nel 287 a.C., alla morte di Teofrasto, la direzione fu assunta da Stratone di Lampsaco.\nIl Liceo fu depredato da Filippo V di Macedonia e successivamente da Lucio Silla. Il nome continuò ad essere usato per indicare la scuola peripatetica e in seguito fu riferito a quei luoghi pubblici dove si tenevano dissertazioni letterarie e filosofiche.
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### Titolo: Licimnio.\n### Descrizione: Licimnio o Licinnio (in greco antico Λικύμνιος Likýmnios) è un personaggio della mitologia greca, imparentato con Eracle e fratellastro di Alcmena in quanto figlio illegittimo di Elettrione e di Midea.\nUna fonte cita una sua sorella di nome Alco (Ἀλκώ).\nLa sua sposa fu Perimede.\n\nMitologia.\nLicimnio era uno degli zii di Eracle e fu protagonista di una disputa che includeva lui e i suoi fratelli contro i figli di Pterelao. L'oggetto del contendere era il furto di una mandria ad opera dei discendenti di Pterelao. I figli di Elettrione possessori della mandria ingaggiarono feroce battaglia contro i colpevoli e alla fine soltanto Licimnio rimase in vita fra i suoi fratelli.\n\nMorte.\nFu ucciso, quando era anziano, dal nipote Tlepolemo; ma i motivi di quel gesto nei racconti del mito non furono chiariti, anche se secondo fonti minori si trattò di un incidente, perché Licinnio ormai quasi cieco cadde dinanzi a lui quando stava castigando uno schiavo finendo per colpirlo.\n\nDiscendenza.\nLicinnio ebbe i figli Eono, Argeio e Mela che furono i compagni di Eracle.
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### Titolo: Licomede.\n### Descrizione: Licomede re di Sciro, noto anche come Licurgo, è un personaggio della mitologia greca.\n\nIl mito.\nNella mitologia greca, Licomede era il re di Sciro, isola dell'Egeo. Prima della guerra di Troia, Teti inviò suo figlio Achille, all'epoca adolescente, alla corte di Licomede, perché una profezia aveva decretato che sarebbe morto a Troia. Achille si travestì così in abiti femminili, mescolandosi alle dodici figlie del re, tra cui Deidamia che poi sposò e da cui ebbe un figlio, Neottolemo.\nUlisse e Menelao vennero inviati a Sciro da Agamennone per cercare Achille e farlo imbarcare per la guerra di Troia, riuscendo a identificarlo grazie ad uno stratagemma di Ulisse, che donò alle figlie del re, note per la loro bellezza, dei gioielli ed una spada, dicendo loro di scegliere il dono che preferivano. Mentre le figlie del re scelsero i vari gioielli, Achille prese in mano la spada e in questo modo si smascherò, consentendo ai due inviati di Agamennone di farlo imbarcare per Troia. Neottolemo fu allevato da Licomede fino a che anch'egli andò alla guerra, quando essa era ormai nelle sue fasi finali.In alcune leggende Licomede viene anche indicato come l'uccisore di Teseo: il re di Sciro accolse infatti Teseo, costretto a lasciare Atene dopo che gli era stato usurpato il trono da Menesteo, in realtà Licomede e Menesteo erano amici, e insieme architettarono un piano per eliminare l'eroe, il quale fu spinto giù da Licomede in un dirupo durante una passeggiata sulle montagne.
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### Titolo: Ligea (mitologia).\n### Descrizione: Ligea (in greco antico: Λιγεία?, Lighèia) è una figura della mitologia greca dal canto ammaliatore, raffigurata con busto di donna e con corpo di uccello con coda e ampie ali; è una sirena che con le sue doti canore e di seduzione attrae e uccide ignari gli uomini, trascinandoli nel mare.\n\nIl mito.\nNella tradizione figurativa e in quella letteraria le sirene sono generalmente tre, si tratta delle sorelle: Partenope, Leucosia e Ligea.\nLa mitologia classica ha fatto costantemente riferimento alle sirene come una sorta di 'muse del mare' dal dolcissimo e ammaliante canto che attirava i naviganti prima nell'oblio della loro patria e dei loro più cari affetti e poi conducendoli alla rovina.\nIl mito venne introdotto sulle coste tirreniche dai coloni greci che vi si stabilirono a partire dall'VIII secolo a.C.\nEsse vivevano nell’antica Hipponion (odierna Vibo Valentia) ed erano compagne di giochi di Persefone, alla quale stavano insieme anche quando Ade, dio degli Inferi, l'aveva rapita.\nFu Demetra a trasformarle in sirene, come punizione per non aver cercato di impedire il ratto della figlia.\nLa storia della sirena Ligea e delle sue consorelle Partenope e Leucosia è narrata dal poeta ellenistico Licofrone nel poema Alessandra. Nei suoi versi racconta la tragica fine della sirena che si gettò in mare dall'alto di una rupe in seguito al passaggio di una nave uscita indenne dal suo canto ammaliante.\n\nLigea e Terina.\nLe onde del mar Tirreno avrebbero rigettato il corpo di Ligea sulla riva tirrenica della Calabria, presso Lamezia Terme o Terina. Secondo gli studi condotti da Michele Manfredi-Gigliotti (Cfr. bibliografia in calce), Ligea si arenò sulla spiaggia della città di Terina, nei pressi della foce del fiume Ocinaro (oggi denominato Savuto), dove i Terinei eressero, a ricordo dell'avvenimento, un sepolcro. Il luogo degli eventi, secondo Manfredi-Gigliotti, non si identifica con l'odierna Lamezia Terme, bensì con il Piano di Terina ove sorgeva la città magno-greca, in territorio di Nocera Terinese.\nSono moltissimi gli autori antichi che hanno scritto di avere visto, e letto, l'epitaffio sul cenotafio della sirena Ligea, vicino al fiume Savuto (un tempo Ocinaro).Questo epitaffio rinvenuto sulla tomba ( rectius, cenotafio) della sirena Ligea è stato un rompicapo per archeologi, linguisti, storici e studiosi in genere, per circa ottocento anni, sin quando, nel giugno del 2022, il nodo gordiano della decifrazione letterale non è stato sciolto dallo studioso Michele Manfredi-Gigliotti. L’epitaffio, nel suo contenuto letterale, esplicito e non acronimo, è:.\nLigea Qanei Zwsa Dwdekamenos Rw..\nLigea- LIGEA; Qanei-MUORE (con valore di presente storico); Zwsa-VISSUTA (participio passato da zaw-VIVERE); Dwdekamenos-DODICI MESI); Rw=R’-Valore numerico della Rw= CENTO.\nTraduzione definitiva: Ligea muore che visse cento anni (infatti, cento moltiplicato per dodici mesi, dà il risultato di milleduecento mesi, ossia cento anni).\nTerina città della Magna Grecia, eretta dai Crotoniati nel VI secolo a.C., storicamente vide i suoi abitanti dispersi da Annibale nel 203 a.C., e la sua vera e propria fine nel 950 d.C. ad opera dei Saraceni, che la distrussero durante una delle loro incursioni sulle coste calabre.\nSulle splendide monete coniate a Terina, alcune delle quali sono ritenute dei capolavori della numismatica antica, c'è la più antica testimonianza delle acque termali di Caronte. Infatti, sul dritto c'è impresso il dolce profilo di una fanciulla alata mentre riempie un vaso d'acqua ad una sorgente che sgorga dalla testa di un leone, chiara simbologia iconografica di una fonte sacra.\nSi tratta della rappresentazione del simulacro della sirena Ligea (la melodiosa), la cui salma, sospinta dalle onde del Tirreno, fu gettata sulla spiaggia del golfo lametino dove ricevette onorata sepoltura dalle pietose mani dei naviganti e a cui più tardi i terinei elevarono culto religioso.\nLa sirena avrebbe rappresentato la personificazione della città di Terina (che significa ‘la tenera’). La sirena Ligea, raffigurata con un busto di donna con le braccia nude ed il corpo di uccello con coda e ampie ali, compare in varie monete di Terina, seduta su un cippo mentre gioca con una palla, oppure mentre riempie un'anfora con l'acqua che sgorga dalla bocca di un leone.\nInoltre Ligea compare in statue isolate ed in rilievi ad ornamento di tombe, in genere mentre suona la cetra, oppure in vasi dipinti, mosaici, pitture e sarcofagi romani.\nSulle monete di Terina, la figura alata di Ligea è accompagnata da alcuni attributi caratteristici di Afrodite, evidentemente attributi della divinità trasferiti alla sacerdotessa della stessa.\nInfatti su una faccia c'è una fanciulla alata che reca in mano una colomba o una lepre e un ramoscello di mirto, sull'altra faccia una figura muliebre alata, assisa su un poggio e volta a sinistra, che stringe nella mano sinistra un caduceo e con la destra tiene un'anfora appoggiata sulle ginocchia, nella quale cade l'acqua che scorre da una testa di leone (simbolo di una fonte) situata su una muraglia di pietre e ai piedi si vede un cigno nuotante nella fontana.\nLa colomba, la lepre e il ramoscello di mirto sono i simboli di Afrodite attribuiti alle sue alate sacerdotesse (dette ierodule). Alla schiera delle ierodule si possono ascrivere le sirene, ossia le fanciulle che incantavano col fascino della loro voce e dei loro amorosi richiami i naviganti.\n\nIn questi versi il nome di Ligea e quello di Terina appaiono associati e la fonte e l'anfora simboleggiano il fiume Ocinaro (l'attuale Bagni) che attraversa Caronte e che con le sue acque tergeva il sepolcro della sirena.\nDunque, il mito di Ligea, cantato da Licofrone, è legato all'esistenza di Terina, portata alla luce nell'area denominata Jardini di Renda posta a sud di Caronte a poca distanza, interrata dalle piene del Bagni dopo la sua distruzione ad opera di Annibale.Nel 1998 nella Piazzetta S. Domenico, a Nicastro è stata inaugurata una statua, opera dell'artista Dalisi, dedicata alla sirena Ligea.
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### Titolo: Limós.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Limós (λιμός; Fame) è la raffigurazione della carestia; si tratta della figlia di Eris. Di lei parla Virgilio, indicandola come cattiva consigliera, al fianco di tanti compagne sue pari, un essere mostruoso.\n\nIl mito.\nLa sua dimora viene rivelata da Ovidio: nella Scizia, nella parte più remota e gelata del mondo conosciuto dai Greci e dai Romani. A lei fanno compagnia secondo l'autore Gelo, Brivido e Pallore. La sua pelle è quella di una vecchia, rinsecchita, gli occhi appaiono infossati, i suoi capelli sono ispidi. Una volta operò per volere della dea Cerere, in quell'occasione ai danni di Erisittone: il suo tocco lo portò ad avere una fame che non veniva mai saziata..
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### Titolo: Linceo (figlio di Afareo).\n### Descrizione: Linceo (in greco antico: Λυγκεύς?, Lynkéfs) è un personaggio della mitologia greca. Fu principe di Messene, Argonauta e partecipò alla caccia al cinghiale calidonio.\n\nGenealogia.\nFiglio di Afareo e di Arene.\nNon sono noti nomi di spose o progenie.\n\nMitologia.\nDotato di una vista eccezionale ed in grado di vedere attraverso le cose o sottoterra fu, come il fratello Idas, un Argonauta a bordo della nave Argo e trascorse il viaggio per mare e verso la Colchide facendo la vedetta.\nSempre con il fratello Idas partecipò alla caccia al cinghiale calidonio e fu rivale dei Dioscuri (Castore e Polluce) nella contesa di una mandria e delle promesse spose Febe ed Ileria (dette Leucippidi poiché figlie di Leucippo).\n\nLa rivalità con i Dioscuri.\nLa rivalità con i Dioscuri è raccontata in due versioni diverse:.\nPiù giovane del fratello, di lui Apollodoro scrive che si ritrovò a mangiare un quarto di mucca aiutato da Idas e poi, dopo aver preso (con l'inganno) i capi migliori della mandria precedentemente razziata con i Dioscuri ed essere fuggiti, dovette combattere contro gli stessi Dioscuri furibondi per l'inganno subito da Idas.\nVide Castore nascosto ed in procinto di uccidere il fratello e lo avvisò, e dopo che Idas lo uccise, riuscì a colpire Polluce con un sasso ma questi con la lancia lo trafisse.\nIgino e Teocrito invece, scrivono che Leucippo (loro zio e padre delle Leucippidi), promise le due figlie a lui e ad Idas ma si lasciò tentare dai doni offerti dai Dioscuri ed acconsentì al matrimonio con gli ultimi due.\nCosì, cercando di recuperare le due donne assieme al fratello, prese le armi ed attaccò i due rivali ma fu colpito a morte da Castore e fu seppellito dal fratello.\nDopo la sua morte (e quella successiva del fratello), la loro dinastia si estinse ed il regno del padre passò a Nestore, eccetto ciò che già apparteneva ai figli di Asclepio (Macaone e Podalirio).