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@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Gasterochiri.\n### Descrizione: I Gasterochiri erano sette ciclopi dalla mole gigantesca. Si chiamavano così perche per guadagnarsi da vivere, ovvero da mangiare, facevano i muratori (γαστήρ gastér=pancia/stomaco, χείρ keír=mano|Γαστηρόχειρες Gasterocheires=Gasterochiri).\nErano artigiani originari della Licia.\n\nStoria.\nPreto dopo essere stato scacciato da suo fratello Acrisio tornò con un esercito licio nell'Argolide e si portò dietro i sette ciclopi. L'esercito era stato fornito da Iobate re di Licia, nonché suocero di Preto. I ciclopi edificarono le mura di Tirinto, che divenne la fortezza di Preto e in seguito, le mura di Micene e Midea, per conto del nipote di Acrisio, Perseo figlio di Danae e Zeus.\nPerseo è ritenuto il fondatore di Micene.\nI Gasterochiri usarono pietre così grandi per edificare le imponenti mura di questa città, che si diceva che due muli non avrebbero potuto spostarle: nacque così la leggenda dei muratori dalle dimensioni ciclopiche.
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### Titolo: Gea.\n### Descrizione: Gea o Geo o Ge (in greco antico: Γῆ?, Ghḕ), oppure Gaia (in greco ionico e quindi nel greco omerico Γαῖα Gàia), è, nella religione e nella mitologia greca, la dea primordiale, quindi la potenza divina, della Terra.\nDea primigenia dall'inesauribile forza creatrice è considerata nella religione greca l'origine stessa della vita. Fu madre di molti figli, tra cui Urano (il cielo), Ponto (il mare), e i dodici Titani, a loro volta progenitori degli dèi Olimpici. Corrisponde alla romana Tellus.\n\nGaia (Gea) nella Teogonia di Esiodo.\nLa Teogonia di Esiodo racconta come, dopo Caos (Χάος), sorse l'immortale Gaia (Γαῖα), progenitrice dei Titani e degli dèi dell’Olimpo.\nDa sola e senza congiungersi con nessuno, Gaia genera Urano (Οὐρανός, Cielo stellante) pari alla Terra, generò quindi, sempre per partenogenesi, i monti, le ninfe (Νύμφη nýmphē) dei monti e Ponto (Πόντος, il Mare).\nUnendosi a Urano, Gaia genera i Titani (Τιτῆνες): Oceano (Ὠκεανός), Ceo (Κοῖος), Crio (Κριός), Iperione (Ύπέριον), Giapeto (Ἰαπετός), Teia (Θεία), Rea (Ῥέᾱ oppure Ῥεία), Temi (Θέμις), Mnemosine (Μνημοσύνη), Febe (Φοίβη), Teti (Τηθύς) e Crono (Κρόνος).\nDopo i Titani, l'unione tra Gaia e Urano genera i tre Ciclopi (Κύκλωπες: Bronte, Sterope e Arge); e gli Ecatonchiri (Ἑκατόγχειρες): Cotto, Briareo e Gige dalle cento mani e dalla forza terribile.\nUrano, tuttavia, impedisce che i figli da lui generati con Gaia, i dodici Titani, i tre Ciclopi e i tre Centimani, vengano alla luce. La ragione di questo rifiuto risiederebbe, per Cassanmagnago, nella loro 'mostruosità'. Ecco che la madre di costoro, Gaia, costruisce dapprima una falce e poi invita i figli a disfarsi del padre che li costringe nel suo ventre. Solo l'ultimo dei Titani, Crono, risponde all'appello della madre e appena Urano si stende nuovamente su Gaia, Kronos, nascosto lo evira. Il sangue versato dal membro evirato di Urano gocciola su Gaia producendo altre divinità: le Erinni (Ἐρινύες: Aletto, Tesifone e Megera), le dee della vendetta, i terribili Giganti (Γίγαντες) e le Ninfe Melie (Μελίαι).\nPonto (Πόντος, il Mare) genera Nereo (Νηρεύς) detto il 'vecchio', divinità marina sincera ed equilibrata; poi, sempre Ponto ma unitosi a Gaia, genera Taumante (Θαῦμᾱς), quindi Forco (Φόρκυς), Ceto (Κητώ) dalle belle guance, ed Euribia (Εὐρύβια).\nGaia e Tartaro generano Tifone (Τυφῶν) 'grazie all'aurea Afrodite' . Questo essere gigantesco, mostruoso, terribile e potente viene sconfitto dal re degli dèi (Zeus) e relegato nel Tartaro insieme ai Titani e da dove spira i venti dannosi per gli uomini. Infine Gaia unendosi a Tartaro generò Pallante (Παλλάς) un gigante che tentò di violentare Atena durante la Gigantomachia nella quale perse la vita.\n\nGenealogia (Esiodo).\nNon mostrati vi sono i figli di Gea e Ponto, ovvero Nereo, Taumante, Forco, Ceto e Euribia, e Tifone, avuto da Tartaro.\n\nAltre versioni.\nSecondo Igino, Gea non era una divinità primigenia, ma nacque invece dall'unione tra Etere e Emera, a loro volta figli di Caos e Caligine.\nTra i figli di Gea, oltre a quelli citati nella Teogonia, altre fonti riportano Erittonio (nato dal seme di Efesto caduto sulla terra), Anteo e Cariddi (da Poseidone), Trittolemo (da Oceano), Bisalte (da Elio), Ofiotauro, Pitone, i Gigeni, i Cureti, e altri ancora.\n\nAltri miti riguardanti Gea.\nApollodoro (Biblioteca I,1) sostiene che Gea abbia dapprima partorito i Centimani (Ecatonchiri) e poi i Ciclopi. Urano, il loro padre, gettò questi ultimi nel Tartaro; allora Gea gli partorì i sei Titani (Oceano, Ceo, Iperione, Crio, Giapeto e, per ultimo, Crono) e le sette Titanidi (Teti, Rea, Temi, Mnemosine, Febe, Dione e Tia).Irata con Urano che aveva gettato nel Tartaro i precedenti figli, Gea incita i Titani a sopraffare il padre: tutti accolgono l'invito di Gea tranne Oceano. Aggredito il padre, Crono lo evira.\n\nApollodoro (Biblioteca I,6), ci dice che Gea partorì i Giganti, in quanto adirata per la sorte subita dai Titani e sapendo che nessuno degli dèi dell'Olimpo poteva ucciderli ma solo un mortale andò alla ricerca di una pianta magica che impedisse loro di morire anche per mano degli uomini. Saputo ciò, Zeus colse per primo la pianta.\nEratostene (Catasterismi XIII), ci dice che Museo raccontò che Gea nascose in un antro la spaventosa capra, figlia del dio Elio, affidandola poi alla ninfa Amaltea (Ἀμάλθεια) la quale con il suo latte nutrì Zeus infante.\nZeus celò Elara, una delle sue amanti, dalla vista di Hera nascondendola sotto terra. Talvolta viene quindi riportato che il gigante Tizio, il figlio che Zeus ebbe da Elara, sia stato in realtà figlio di Elara e di Gea.\nGea concesse l'immortalità ad Aristeo.\nAlcuni studiosi credono che Gea fosse la divinità che originariamente parlava per bocca dell'Oracolo di Delfi. Ella passò i suoi poteri, a seconda delle versioni, a Poseidone, Apollo o Temi. Apollo è il dio a cui più di ogni altro è collegato l'Oracolo di Delfi, esistente da lungo tempo già all'epoca di Omero, perché in quel luogo aveva ucciso il figlio di Gea Pitone, impossessandosi dei suoi poteri ctonii. Hera punì Apollo per questo gesto costringendolo a servire per nove anni come pastore presso il re Admeto.\nNell'antica Grecia i giuramenti fatti in nome di Gea erano considerati quelli maggiormente vincolanti, assieme a quelli in nome di Ade e del fiume infernale Stige.\n\nGea nell'arte.\nNell'arte classica Gea poteva essere rappresentata in due modi diversi:.\n\nNelle decorazioni vasali ateniesi veniva ritratta come una donna dall'aspetto matronale che emergeva dalla terra soltanto per metà, spesso mentre porgeva ad Atena il piccolo Erittonio (futuro re di Atene) perché lo allevasse.\nNei mosaici di epoca successiva appare come una donna che si sta stendendo a terra, circondata da un gruppo di Carpi, divinità infantili che simboleggiano i frutti della terra.
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### Titolo: Gerione (mitologia).\n### Descrizione: Gerione (in greco antico: Γηρυών?, Ghēryṑn) è un personaggio della mitologia greca figlio di Crisaore e di Calliroe e fratello di Echidna.\n\nAspetto.\nEra un gigante con tre teste, tre busti e sei braccia ma con un solo bacino e di conseguenza due sole gambe.\n\nMitologia.\nGerione era il Re dell'Isola dell'Eritea, situata nell'Oceano occidentale e che si estendeva fino ai confini di Tartesso e possedeva una mandria di vacche rosse consacrate ad Apollo che erano sorvegliate dal pastore Euritione (figlio di Ares e dell'esperide Eritea) e dal cane a due teste Ortro.\nLa cattura dei buoi e l'uccisione di Gerione, Ortro ed Euritione costituirono la decima fatica di Eracle: infatti Euristeo ordinò a Eracle di catturare quei buoi ed Eracle partì usando la barca dorata di Helios, che si fece dare in prestito. Giunto sull'isola, uccise Gerione e si prese i suoi buoi. Era, infuriatasi, mandò uno sciame di mosche a uccidere i buoi, ma Eracle sconfisse anche queste.\n\nInfluenza culturale.\nGerione è il protagonista della Gerioneide di Stesicoro.\nAll'uccisione di Gerione da parte di Ercole è legato un mito sull'origine della Torre di Ercole a La Coruña.\nGerione è uno dei personaggi della Commedia di Dante. A Gerione sono intitolati i Geryon Montes su Marte.\nIl protagonista del romanzo in versi di Anne Carson, Autobiografia del rosso, è un mostro rosso con le ali, ispirato alla figura di Gerione.\nGerione compare anche nel quarto libro della saga di Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo.\nIn Devil May Cry 3, terzo capitolo della saga videoludica liberamente ispirata alla Divina Commedia, uno dei boss è chiamato Geryon, anche se qui prende la forma di un cavallo demoniaco.
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### Titolo: Ghiacciaio Pan.\n### Descrizione: Il ghiacciaio Pan (in inglese Pan Glacier) è un ghiacciaio lungo circa 13 km situato sulla costa di Bowman, nella parte sud-orientale della Terra di Graham, in Antartide. Il ghiacciaio, il cui punto più alto si trova 721 m s.l.m., fluisce verso nord terminando circa 3,7 km a sud-ovest del nunatak Victory.\n\nStoria.\nLe pendici del ghiacciaio Pan furono mappate per la prima volta da W.L.G. Joerg basandosi su fotografie aeree scattate da Lincoln Ellsworth nel novembre del 1935. Il ghiacciaio fu poi nuovamente fotografato nel dicembre 1947 durante una ricognizione aerea effettuata nel corso della Spedizione antartica di ricerca Ronne, 1947—48, e infine nel dicembre 1958 una spedizione del British Antarctic Survey, che all'epoca si chiamava ancora Falkland Islands and Dependencies Survey (FIDS), lo esplorò via terra e lo mappò interamente. Il ghiacciaio fu poi battezzato dal Comitato britannico per i toponimi antartici in onore di Pan, il dio della pastorizia nella mitologia greca.
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### Titolo: Giacintidi.\n### Descrizione: Le Giacintidi (in greco antico: Ὑακινθίδες?, Hyakinthídēs) furono due sorelle, Protogenia e Pandora, figlie di Eretteo, sesto re di Atene, e di Prassitea.\nDurante la guerra, quando un esercito giunse dalla Beozia, entrambe si offrirono come vittime sacrificali nel momento in cui l'esercito nemico avanzava verso Atene. Le due giovani furono immolate su una collina chiamata Giacinto, da cui presero il nome di Giacintidi.
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### Titolo: Giacinto (mitologia).\n### Descrizione: Giacinto (in greco antico: Ὑάκινθος?, Hyákinthos) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe di Sparta.\nNel mito letterario rappresenta un giovinetto di eccezionale bellezza amato dal dio Apollo, ma ammirato e desiderato anche da Zefiro, Borea e Tamiri.\n\nGenealogia.\nFiglio di Amicla e di Diomeda o di Piero (Πίερος, figlio di Magnete) e di Clio o di Ebalo.\n\nMitologia.\nL'amore di Apollo nei suoi confronti era tanto grande che, pur di stare costantemente vicino al ragazzo, tralasciava tutte le sue principali attività e accompagnava l'inseparabile amante ovunque egli si recasse; secondo alcuni miti, Apollo accettò di diventare servo di Giacinto pur di stargli accanto.\nApollo dovette respingere i numerosi amanti di Giacinto, fra cui Zefiro, dio del vento dell'ovest, che lo sfidò due volte per la mano di Giacinto. Inutile dire che Apollo vinse entrambe le volte.\nUn giorno, Apollo e Giacinto incominciarono una gara di lancio del disco, in preparazione alle Olimpiadi a cui il principe doveva partecipare; Apollo lanciò per primo ma il disco, deviato nella sua traiettoria da un colpo di vento alzato dal geloso Zefiro, finì col colpire alla tempia Giacinto, ferendolo così a morte. Apollo cercò di salvare l'adolescente tanto amato, adoperando ogni arte medica a sua conoscenza, ma non poté nulla contro il destino. Decise, a quel punto, di trasformare il bel ragazzo in un fiore dall'intenso colore, quello stesso del sangue che Giacinto aveva versato dalla ferita.\nIl dio, prima di tornarsene in cielo, chinato sul fiore appena creato, scrisse di proprio pugno sui petali le sillabe 'ai', 'ai', come imperituro monumento del cordoglio provato per tanta sventura, che lo aveva privato dell'amore e dell'amicizia del giovane. Tale espressione di dolore, tuttora, si vuol ravvisare nei segni che sembrano incisi sulle foglie del giacinto e che sono simili alle lettere A e I (segno dei lamenti divini per la perdita subita).\n\nL'episodio è narrato nel X libro delle Metamorfosi di Ovidio. Secondo il poeta latino furono invece le lacrime divine a colorare i petali del fiore appena creato, imprimendogli così il segno imperituro del dolore provato; tale fiore mitologico è stato identificato nel tempo con varie piante differenti, tra cui l'iride, il Delphinium e la viola del pensiero: anche altre figure semidivine morte nel fiore della loro giovinezza sono state trasformate in 'protettori della vita vegetativa', ad esempio Narciso, Ciparisso e lo stesso Adone.\nLo Pseudo Apollodoro dice che anche Tamiri fu conosciuto per esser stato uno dei precedenti amanti di Giacinto, pertanto anche il primo essere umano ad aver amato un altro maschio e dando in tal modo origine alla pederastia.\n\nCulto a Sparta.\nSecondo una versione spartana locale del mito, Giacinto e la sorella Polyboea sono stati assunti nell'alto dei Cieli fino a giungere ai Campi Elisi per opera delle tre dee Afrodite, Atena e Artemide.\nIl suo culto in qualità di eroe greco si svolgeva ad Amicle, un villaggio della Laconia a sudovest di Sparta e risale all'età micenea. Il santuario (temenos) è cresciuto attorno al tumulo rappresentante la sua tomba e si trovava, durante l'epoca della Grecia classica, ai piedi della statua di Apollo. I miti letterari servono quindi a collegarlo con i culti locali e identificarlo col dio.\nGiacinto era il nume tutelare di una delle principali feste spartane, le Giacinzie, che si tenevano annualmente ogni estate; la festa durava tre giorni, il primo dei quali era dedicato al lutto per la morte dell'eroe divinizzato, gli ultimi due invece celebravano la sua rinascita in qualità di 'Apollo Hyakinthios'. Le Giacinzie esistevano ancora ai tempi dell'impero romano.\n\nAnche a Mileto si svolgevano feste in suo onore, le 'Hyacinthotrophies'; uno dei mesi del calendario dorico prende il suo nome, 'hyakinthios'. La figura di Giacinto appare sulle prime monete di Taranto, città della Magna Grecia.\n\nInterpretazione.\nIl nome Giacinto è di origine pre-ellenica, come indicato dal suffisso -nth. Secondo l'interpretazione del mito classico, la sua storia è una metafora della morte e rinascita della Natura, il tutto assistito dalla nuova divinità apollinea giunta assieme ai Dori ed è molto simile al mito riguardante Adone.\nParimenti è stato suggerito anche che Giacinto fosse una divinità pre-ellenica soppiantata da Apollo attraverso il 'caso' della sua morte, al quale rimane associato nell'epiteto di 'Apollon Hyakinthios'.\nBernard Sergent, allievo di Georges Dumézil, crede che sia piuttosto una leggenda iniziatica, a fondazione della concezione sociale data dalla pederastia spartana. Apollo insegna come diventare un giovane uomo compiuto; infatti, secondo Filostrato, Giacinto apprende non solo il lancio del disco, ma anche tutti gli esercizi della Palestra (il Gymnasium), il tiro con l'arco, l'arte della musica, la divinazione e infine anche a suonare la cetra. Inoltre, Pausania riferisce che Giacinto, nella statuaria, è talvolta rappresentato con la barba, a volte senza barba; evoca anche la sua apoteosi, rappresentato sul piedistallo della statua rituale come giovane ad Amyclae, suo luogo di culto. Il poeta Nonno menziona la risurrezione del giovane da Apollo.\nPer Sergent la morte e risurrezione, così come l'apoteosi, rappresentano il passaggio all'età adulta.\n\nNell'arte.\nCitazioni letterarie.\nLa figura mitologica di Giacinto viene citata da Thomas Mann nel suo romanzo di maggior successo La morte a Venezia, quando la bellezza del valoroso principe di Sparta viene accostata a quella di Tadzio, co-protagonista del racconto di Mann, osservato sulla spiaggia di Venezia in tutto il suo folgorante splendore: 'Ed era Giacinto che credeva di vedere, Giacinto che deve morire, perché amato da due numi. Sentiva l'invidia tormentosa di Zefiro per il rivale che dimentica l'oracolo; vedeva il disco guidato da una gelosia crudele colpire la testa leggiadra; accoglieva il corpo reciso e il fiore sbocciato dal dolce sangue recava la dedica del suo dolore eterno...' (pag.85).
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### Titolo: Giardino delle Esperidi.\n### Descrizione: Il giardino delle Esperidi è un luogo leggendario della mitologia greca.\nEra stato donato da Gea a Zeus che a sua volta lo aveva dato ad Era come regalo nuziale ed in esso cresceva un melo dai frutti d'oro che era custodito dal drago Ladone e dalle tre Esperidi.\n\nLeggenda.\nCome undicesima fatica, ad Eracle era stato ordinato di cogliere tre mele d'oro dalla pianta. Per evitare il drago Ladone, Eracle allora propose al titano Atlante di reggergli il cielo che teneva sulle spalle il tempo necessario al titano per prendere i tre frutti dal giardino, ma quando questi fu di ritorno rivelò ad Eracle di non essere più disposto a riprendersi il cielo sulle spalle.\nL'astuzia di Eracle fu di fargli notare che, se ora spettava a lui l'onere di reggere il cielo per mille anni (così come aveva fatto in precedenza il titano), avrebbe avuto bisogno di un aiuto per sistemarselo meglio sulle spalle; Eracle chiese ad Atlante di tornare a reggere la volta del cielo ancora per un momento, attese che questi lasciasse a terra le mele rubate e che momentaneamente gli sollevasse il cielo e, dopo aver riavuto le proprie spalle libere, legò il rivale per raccogliere le mele e consegnarle ad Euristeo.\n\nRappresentazioni artistiche.\nErcole nel giardino delle Esperidi di Pieter Paul Rubens (1638 circa).
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### Titolo: Giasone (mitologia).\n### Descrizione: Giasone (pronuncia: Giasóne o Giàsone, in greco antico: Ἰάσων?, Iásōn) è una figura della mitologia greca, discendente di Ermes per parte di madre ( di cui era il bisnipote) e, secondo alcune tradizioni, del dio Apollo per via paterna.\nFiglio di Esone, re di Iolco, e di Alcimede, fu sposo della maga Medea. È noto per essere stato a capo della spedizione degli Argonauti, finalizzata alla conquista del vello d'oro.\nVolendo riconquistare il trono di Iolco usurpato al padre Esone dal fratellastro Pelia, Giasone dovrà andare alla conquista del vello d'oro, la pelle dell'ariete dorato che si trova nella Colchide presso il re Eeta, a capo di un gruppo di eroi, gli Argonauti, che formano l'equipaggio della nave Argo. Grazie all'aiuto della maga Medea, figlia di Eeta, riuscirà nell'impresa e, dopo le molte peripezie che caratterizzeranno tutto il viaggio, tornerà a Iolco per reclamare il trono che fu del padre. Morirà trovandosi sulla stessa Argo, ormai fatiscente, a causa di un suo cedimento.\n\nIl mito.\nI primi anni.\nPelia, figlio del dio del mare Poseidone e di Tiro (madre anche di Esone e quindi suo fratellastro), era assetato di potere e ambiva a dominare l'intera Tessaglia. Dopo un'aspra contesa detronizzò Esone, uccidendo tutti i suoi discendenti, ma Alcimede, moglie di Esone, che aveva appena avuto un piccolo di nome Giasone, lo salvò da Pelia, facendo raggruppare le donne intorno al neonato e facendole piangere per far credere che il bambino fosse nato morto. Alcimede mandò il figlio dal centauro Chirone perché badasse alla sua educazione e per sottrarlo alla violenza di Pelia; questi, sempre timoroso che qualcuno potesse usurpargli il trono, consultò un oracolo che lo avvertì di stare attento all'uomo con un solo sandalo.\nGiasone crebbe sotto l'ala protettrice del saggio centauro che lo istruì nell'arte della caccia e nell'uso delle armi tanto che l'eroe, ancora adolescente, trovandosi di fronte ad un feroce leopardo che terrorizzava gli abitanti della regione di Dasoktima Polydendriou, dopo un duro scontro, riuscì ad avere la meglio sulla pericolosa fiera e a guadagnarsi il rispetto dei contadini e pastori della valle.\nSempre da allora Giasone avrebbe indossato la pelle del leopardo come mantello, memore del primo grande successo conseguito con le sue sole forze.\nMolti anni dopo, mentre a Iolco si tenevano dei giochi in onore di Poseidone, arrivò Giasone, che perse uno dei sandali nel fiume Anauro mentre aiutava un'anziana (che era in realtà la dea Era travestita) ad attraversarlo; la donna lo benedisse perché sapeva cosa Pelia gli avrebbe riservato. Quando entrò nella città (l'odierna Volos) fu annunciato come l'uomo con un solo sandalo: Giasone reclamò il trono del padre, ma Pelia gli disse che l'avrebbe ottenuto solo dopo aver conquistato il vello d'oro. Giasone accettò la sfida.\n\nLa conquista del vello d'oro.\nGiasone radunò un gruppo di eroi, noti con l'appellativo di Argonauti dal nome della nave Argo, tra cui figuravano il suo stesso costruttore Argo di Tespi, Calaide e Zete, figli di Borea e capaci di volare, Eracle, Teseo, Acasto (il figlio dello stesso re Pelia e, dunque, cugino di Giasone), la cacciatrice Atalanta, Ila, Meleagro, Filottete, Peleo, Telamone, Orfeo, Castore e Polluce, Linceo, Anceo, il timoniere Tifide, Laerte, Idmone, Polifemo di Larissa, Nauplio, Anceo il piccolo e Mopso, Issione ed Eufemo. Giasone, per decidere il capitano che avrebbe guidato la spedizione, propose un'elezione od una lotteria, ma Eracle, parlando a nome di tutti gli eroi, disse che nessuno sarebbe stato più degno e meritevole del compito di Giasone. Terminati i preparativi per la partenza e fatti i dovuti sacrifici per ingraziarsi gli dei, la gloriosa nave Argo fu pronta a prendere il largo.\n\nL'isola di Lemno.\nL'isola di Lemno, situata al largo della costa occidentale dell'Asia Minore, era abitata da donne che avevano ucciso i loro mariti: esse avevano trascurato di venerare Afrodite, la quale le aveva punite rendendole maleodoranti al punto da essere ripudiate dai maschi dell'isola. Gli uomini si erano allora legati a delle concubine provenienti dalla prospiciente terraferma, la Tracia, e le donne, furibonde, uccisero tutti i maschi mentre dormivano. Il re Toante venne salvato dalla figlia Ipsipile, che lo fece fuggire su una piccola nave, e le donne di Lemno vissero per qualche tempo senza uomini con Ipsipile come loro regina.\nDurante la visita degli Argonauti, le donne si unirono con loro creando una nuova razza denominata Mini: lo stesso Giasone divenne padre di due gemelli avuti dalla regina. Eracle li spinse a ripartire, disgustato dalla loro ridicolaggine, e restò fuori dai bagordi, fatto strano se si considerano le tante relazioni che ebbe con altre donne.\n\nCizico.\nDopo Lemno gli Argonauti approdarono nella terra abitata dai Dolioni, venendo amichevolmente accolti dal loro giovanissimo re Cizico, che era figlio di un amico defunto di Eracle. Il sovrano rivelò ai navigatori che la loro terra era vessata dai continui attacchi dei pirati e Ancor più dai temibili giganti Dolioni ( esseri grandi la metà di un ciclope ma dotati di molte braccia)., dopo che Eracle con le sue frecce ne uccise molti che tentavano di distruggere la nave Argo scagliandovi pietre e Giasone aiutato da Atalanta ebbe la meglio sul loro capo decollandolo, il re Cizico decise di invitare gli eroici navigatori al suo stesso matrimonio donando loro il peso del divino Eracle in doni e monili preziosi. Poi ripartirono ma persero l'orientamento, riapprodando nuovamente nello stesso luogo in una notte senza luna; ciò fece sì che Dolioni e Argonauti non si riconoscessero. Cizico e i suoi uomini scambiarono gli Argonauti per pirati e li assalirono ma ebbero la peggio e tra le vittime ci furono lo stesso re (trafitto proprio dalla lama di Giasone) e il grande guerriero Artace ucciso per mano del forte Telamone. Solo all'alba gli Argonauti si resero conto del terribile errore che avevano commesso e non rimase altro da fare che seppellire i Dolioni morti. Clite, la moglie di Cizico, si suicidò per il dolore.\n\nMisia.\nQuando gli Argonauti giunsero nella Misia, alcuni di essi, tra cui Eracle e il suo servo Ila, andarono in perlustrazione alla ricerca di cibo e acqua. Le ninfe, che abitavano il corso d'acqua da dove si stava rifornendo Ila, furono attratte dal suo bell'aspetto e lo attirarono nel fiume. Il forte Polifemo udì le sue grida di aiuto e si mise a cercarlo disperatamente. Non riuscendo a trovarlo Giasone organizzò una ricerca per tutta l'isola, ma vana, Teseo trovò le anfore vuote di Ila nei pressi del corso d'acqua e Giasone concluse che il ragazzo fosse morto annegato, ma Eracle e Polifemo non vollero desistere: erano così intenti nella ricerca che lasciarono che gli Argonauti ripartissero senza di loro (sotto consiglio dello stesso Ermes ). Di Ila, tuttavia, non si seppe più nulla.\n\nBitinia.\nAncora alla ricerca di acqua Giasone decise di perlustrare l'entroterra di una lussureggiante costa della Bitinia assieme ai fratelli Dioscuri, Teseo e Idmone., arrivati nei pressi di una fonte gli Argonauti dovettero superare l'avversità del grosso Amico, un uomo gigantesco che sfidava a pugilato (sino all'ultimo sangue) chiunque volesse abbeverarsi alla fonte dono di suo padre Poseidone.\nDopo la vittoria di Polluce che con abilità e destrezza riuscì a superare la forza bruta del gigante, gli eroi risparmiarono lo sconfitto e ripresero il largo orgogliosi di avere tra le loro fila il pugile più capace della Grecia.\n\nFinea e le Arpie.\nGiasone giunse quindi alla corte di Finea nella Tracia dove Zeus mandava le Arpie, donne alate, a rubare ogni giorno il cibo del re ed insozzare la sua tavola: tempo prima, infatti, il sovrano si era reso colpevole di rivelare ai mortali il futuro e destino progettato dagli dei inquanto ospite al banchetto divino sul monte olimpo. Giasone ebbe pietà dello scheletrico sovrano e uccise le Arpie al loro arrivo dopo un breve ma intenso scontro adoperando reti e funi della nave Argo; in altre versioni, Calaide e Zete le scacciarono in volo e solo una venne uccisa dal giavellotto di Giasone. In cambio del favore Finea rivelò a Giasone la posizione della Colchide e come superare le Simplegadi, isole in perenne collisione. Gli Argonauti ripresero dunque il loro cammino.\n\nLe Simplegadi.\nL'unico modo per raggiungere la Colchide era quello di passare attraverso le Simplegadi, enormi scogli in perenne collisione che stritolavano tutto ciò che passasse attraverso loro. Fineo aveva raccomandato a Giasone di liberare una colomba mentre si avvicinavano a queste isole: se la colomba fosse riuscita a passare avrebbero dovuto remare con tutte le loro forze, mentre se fosse stata stritolata la sorte della spedizione sarebbe stata destinata al fallimento. Giasone liberò la colomba, che riuscì a passare perdendo solo qualche piuma dalla coda: gli Argonauti allora remarono con tutte le loro forze, riuscendo a passare e riportando solo un lieve danno alla poppa della nave. Da quel momento le isole in collisione rimasero unite per sempre, lasciando libero il passaggio.\n\nAttraverso il Mar Nero.\nGli Argonauti ripresero il largo dopo essersi fermati lungo le coste del Ponto Eusino per riparare la poppa della nave precedentemente danneggiata e rifornirsi di viveri. Prima di tirare innanzi vennero raggiunti da Polifemo che dalla Misia non aveva smesso di seguire le loro tracce sicuro che avrebbe ritrovato i suoi compagni: Tifide e lo stesso Giasone si dissero rammaricati per averlo dovuto abbandonare, pur avendo compiuto il volere degli dei. Giunti sulle sponde dell'isola di Tinia Giasone decise di perlustrare l'entroterra col giovane Laerte e l'indovino Idmone, che tuttavia consigliò ai compagni di tornare sulla nave, dopo aver scorto con loro, nei pressi di un'altura, l'imponente sagoma del dio Apollo, temendo di trovarsi su un suolo sacro alla divinità. Dopo qualche giorno di navigazione, gli Argonauti attraccarono al paese dei Mariandini, dove vennero ospitati dal re Lico con tutti gli onori., nonostante l'ospitalità questa si rivelò una tappa amara del viaggio: durante una battuta di caccia al cinghiale tenuta tra il sovrano, Telamone, Atalanta e Idmone, quest'ultimo venne disarcionato e ucciso dalla bestia (poi finita da Atalanta), mentre il timoniere Tifide morì d'una malattia improvvisa spirando tra le braccia di Linceo e Anceo che lo avrebbe sostituito nel governare la nave Argo. Alla luce dei tristi avvenimenti, il re Lico chiese a Giasone che suo figlio Dascilo potesse prendere parte alla ricerca del vello come segno di amicizia ed in virtù dei buoni rapporti del suo regno con i popoli vicini.\n\nMolti Incontri.\nIl figlio di Lico essendo poliglotta si rivelò sin da subito un valido membro argonauta, anche in virtù delle conoscenze sulle strane usanze, tradizioni e costumi tra i popoli barbari che abitavano le coste e isole del Mar Nero. Sfruttando l'odio che Tibareni e Mossineci provavano per i potenti e bellicosi Calibi signori della forgiatura del ferro, gli Argonauti guidarono una piccola rivolta e saccheggiarono una delle loro roccaforti (la odierna Trebisonda), anche se al prezzo della vita di Polifemo, in assoluto il più forte Argonauta dopo Telamone, che per difendere i gemelli Castore e Polluce dalle orde nemiche fece scudo del proprio corpo. Dopo aver sepolto il loro compagno con i dovuti onori, Giasone decise di ripartire non appena il tempo lo avesse consentito., non avevano ancora preso il largo che due navi delle famigerate Amazzoni li intercettarono: provenivano da una colonia che confinava con i bellicosi Calibi. Nonostante l'odio e rancore che esse ancora provavano per Teseo che aveva assaltato con Eracle la loro madrepatria e ucciso la regina, esse decisero di ospitarli riconoscenti per avere meno pressioni sui loro confini e che Dascilo figlio del loro alleato facesse parte del gruppo, a patto che Teseo restasse sulla nave e Giasone e i suoi deponessero le armi durante il periodo di permanenza sulle loro coste.\n\nL'isola di Ares.\nSuccessivamente gli Argonauti si avvicinarono pericolosamente all'isola di Ares, luogo di rifugio degli uccelli del lago Stinfalo dopo che Eracle, durante la sua sesta fatica, li scacciò dalla loro terra natia. La particolarità di queste pericolose bestie stava nel fatto di possedere becchi e artigli di bronzo, che adoperavano colpendo in stormo: in un batter d'occhio distrussero la vela della nave Argo e ferirono il giovane Laerte, Igino ed il timoniere Anceo. In cerca di vendetta e volendo mettere alla prova le proprie abilità Giasone decise di sbarcare sull'isola assieme ad alcuni tra i più forti e capaci cacciatori e guerrieri Argonauti. Un nugolo di frecce investì le terribili bestie alate che da quel giorno non si fecero mai più vedere da quelle zone. Terminata la gara, a Giasone spettò la vittoria avendo ucciso il numero maggiore di uccelli (7), seguito da Atalanta e Polluce (6), poi Telamone, Zete, Filottete e Linceo (5), ancora Teseo e Castore (4), ed infine Igino (3) e Nauplio (2).\nGli eroi ritornarono a bordo dell'Argo dopo quella battuta di caccia, solo Teseo contestò il risultato della gara, forse proprio per essere stato battuto in uno dei suoi passatempi preferiti da una donna... .\n\nI naufraghi.\nGli eroi ripresero la navigazione, questa volta sicuri che sarebbero arrivati alla foce del fiume Fasi e, quindi, dritti alla metà del viaggio, tuttavia il viaggio era più faticoso a causa di venti contrari e cattivo tempo, ma purtroppo non c'era traccia di terra su cui sbarcare. Trascorsi che furono due giorni gli argonauti soccorsero alcuni uomini dal relitto di una nave incagliata in alcuni scogli. Dascilo li riconobbe subito: erano infatti i figli di Frisso, il ragazzo che aveva dato in dono il vello d'oro in cambio dell'ospitalità ricevuta, e quindi nipoti del re Eeta, fuggiti dopo che questi (che sempre li aveva odiati per il loro aspetto greco) aveva ucciso il loro padre e sottratto i loro averi. Giasone li accolse tra le sue fila dopo aver rivelato lo scopo della missione e aver promesso che li avrebbe riportati nella città greca d'origine di Frisso come premio per il loro contributo all'impresa.\n\nL'arrivo nella Colchide.\nGiasone arrivò nella Colchide (sull'attuale costa georgiana del Mar Nero) per conquistare il vello d'oro, che il re Eeta aveva avuto da Frisso. Eeta promise di darlo a Giasone a patto di superare tre prove, ma una volta saputo di cosa si trattava Giasone si disperò. Era ne parlò con Afrodite, la quale chiese al figlio Eros di far innamorare di Giasone la figlia di Eeta, Medea, così da aiutarlo.\nNella prima Giasone doveva arare un campo facendo uso di due tori dalle unghie di bronzo che spiravano fiamme dalle narici e che doveva aggiogare all'aratro. Medea gli diede una pomata che lo protesse dalle fiamme dei tori, consentendogli di superare la prova.\nNella seconda Giasone doveva seminare nel campo appena arato i denti di un drago, i quali, germogliando, generavano un'armata di guerrieri. Ancora una volta Medea istruì Giasone su come poteva fare per avere la meglio: egli lanciò un sasso in mezzo ai guerrieri che, incapaci di capirne la provenienza, si attaccarono tra di loro annientandosi.\nNella terza Giasone doveva sconfiggere il gigantesco drago insonne che era a guardia del vello d'oro. La bestia mise in seria difficoltà l'eroe che schivava i suoi colpi ed il soffio di fuoco mortale ricambiando con micidiali fendenti di spada: infatti Giasone non voleva fare altro che stancare e ferire la bestia quel tanto per potersi avvicinare. Gli spruzzò una pozione ricavata da alcune erbe, datagli sempre da Medea: il drago si addormentò ed egli poté conquistare il vello d'oro.\nGiasone scappò con l'Argo insieme a Medea, che aveva rapito il fratellino Apsirto. Inseguiti da Eeta, Medea uccise il fratello, lo fece a pezzi e lo gettò in acqua: Eeta si fermò a raccoglierli, perdendo di vista la Argo.\n\nViaggio di ritorno.\nSulla via del ritorno Medea profetizzò ad Eufemo, timoniere dell'Argo, che egli un giorno avrebbe regnato sulla Libia, cosa che si verificò attraverso un suo discendente, Battus.\n\nFuori dalle mappe.\nZeus, per punirli dell'uccisione di Apsirto, inviò una serie di tempeste che mandarono fuori rotta l'Argo: quest'ultima parlò e disse che dovevano purificarsi recandosi da Circe, una ninfa che viveva sull'isola di Eea. Per evitare d'essere circondati da una flotta nemica e riattraversare il pericoloso stretto dei Dardanelli, Giasone decise di raggiungere l'isola di Circe seguendo un periglioso percorso risalendo il Danubio ed i suoi affluenti sino al Mare Adriatico e da li al fiume Po sino al Mar Tirreno e, quindi, all' isola di Eea. Una volta purificati dalla ninfa, gli Argonauti ripresero il viaggio verso casa che tuttavia si rivelò ricco di ostacoli e insidie.\n\nMostri marini e Sirene.\nChirone aveva raccontato a Giasone che senza l'aiuto di Orfeo gli Argonauti non sarebbero riusciti a superare il luogo abitato dalle sirene, le stesse incontrate da Ulisse. Le Sirene vivevano su tre piccoli isolotti rocciosi e cantavano bellissime melodie che attiravano i naviganti, facendoli schiantare contro gli scogli. Appena Orfeo sentì le loro voci prese la lira e suonò delle melodie ancora più belle e più forti di quelle delle sirene, surclassandole. Ma ancora più terribile sarebbe stato il superamento dello stretto presidiato da Scilla e Cariddi: Scilla era un agitatissimo serpente di mare gigante a sei teste, mentre il roccioso Cariddi risucchiava e rigettava acqua senza posa, in modo che le navi perdessero il controllo e finissero dritte tra le bocche di Scilla. Anche all'imponente Argo accadde lo stesso, due teste del mostro seminarono il panico tra i naviganti, ma per fortuna Giasone con un colpo fulmineo di spada fece ritrarre la prima testa ferita ad un occhio, mentre la seconda stritolata dalle braccia di Telamone venne allontanata dai colpi d'ali dei figli di Borea, i quali, poi, aggrappandosi al timone allo stesso modo allontanarono la mitica nave dallo stretto.\n\nUn breve riposo.\nL' Argo aveva un ingente bisogno di riparazioni a seguito del superamento del pericoloso stretto che, inoltre, era costato la vita a tre dei valorosi argonauti, uno dei quali era proprio il secondogenito dei figli di Frisso che si erano imbarcati come naufraghi poco prima dell'arrivo in Colchide. Fortunatamente per Giasone e i suoi il fato aveva decretato che avrebbero attraccato sulle coste dell'isola dei Feaci (l'odierna Corfù).\nGli Argonauti vennero accolti con tutti gli onori alla corte di Alcinoo, il quale ospitò per un mese gli eroi offrendo loro banchetti, giochi, doni e provviste per il resto del viaggio. Tuttavia vennero raggiunti da una delegazione proveniente dalla Colchide che intendeva riportare Medea a casa. Il saggio e giusto sovrano acconsentì a patto che la giovane donna fosse ancora vergine e nubile., dopo aver seguito il discorso la moglie del sovrano Arete avvisò subito i due ospiti innamorati che organizzarono un rapido matrimonio nelle caverne dell'isola suggellando così il loro amore e mantenendo la loro promessa.\n\nBloccati nella Sirte.\nDopo essere riusciti a vincere in astuzia i delegati di Eeta, gli Argonauti ripresero il mare sapendo di essere ad un passo dal traguardo, tuttavia poco dopo aver scorto le coste dell'isola greca di Leucade, una tremenda tempesta sul mare li portò, ancora una volta, fuori rotta. Le onde e venti erano così forti e impetuosi che la nave Argo si ritrovò incagliata e bloccata tra le sabbie della Sirte (nell'attuale Tunisia). Fortunatamente Giasone e i suoi uomini non si dettero per vinti e, sotto consiglio delle tre eroine di Libia, trasportarono sulle spalle per 12 giorni la mitica imbarcazione, sino al lago Tritonide. Lungo il tragitto il profeta Mopso venne ucciso da un serpente velenoso dopo averlo urtato involontariamente; bestia solitaria e pigra, eppure in grado di avvelenare tre buoi con un sol morso.\n\nLa valle delle Esperidi.\nDurante quella lunga traversata del deserto gli eroi avevano quasi consumato tutte le scorte di cibo ed acqua, ma arrivati al lago scorsero la valle delle Esperidi e la pianura delle mele d’oro vegliate dal temibile drago Ladone (che fece ricordare ai due novelli sposi la pericolosa bestia a guardia del vello). Le custodi Esperidi che di solito cantavano, piangevano: Eracle era appena partito dopo aver ingannato il loro povero padre Atlante che, sperando invano nella libertà, aveva preso i pomi d'oro per poi essere tradito. Gli Argonauti confortarono le tre giovani che come segno di riconoscenza permisero agli Argonauti di approfittare dei frutti della valle. Giasone e i suoi cercarono invano di raggiungere il vecchio amico Eracle: solo Linceo con la sua incredibile vista riuscì a scorgerlo ormai troppo lontano! Prima di riuscire, con l'aiuto del dio Tritone, a riprendere il mare tramite un passaggio che collegò temporaneamente il lago Tritonide al Mediterraneo, Canto venne ucciso mentre cercava di rubare delle pecore dal pastore Cafauro, venendo poi subito vendicato dai suoi cugini (attirando su di loro l'ora del dio Apollo).\n\nTalo.\nLa Argo arrivò quindi nell'isola di Creta, protetta dal gigante di bronzo Talo. Quando la nave cercava di avvicinarsi, Talo scagliava enormi sassi, tenendola alla larga. Il gigante aveva una vena che partiva dal collo e arrivava alla caviglia, tenuta chiusa da un chiodo di bronzo. Medea gli fece un incantesimo: Talo impazzì e Giasone, giunto a riva assieme al cugino Acasto e a Filottete, rimosse il chiodo, facendogli fuoriuscire l'unica vena, e il gigante morì dissanguato. L'Argo poté riprendere il suo cammino.\n\nIl ritorno.\nMedea, usando i suoi poteri magici, convinse le figlie di Pelia che lei era in grado di ringiovanirne il padre tagliandolo a pezzi e bollendolo in un calderone pieno di acqua e erbe magiche. Per dimostrare le sue capacità, Medea operò questa magia su un agnello, che saltò fuori dal calderone. Le ragazze, molto ingenuamente, fecero a pezzi il padre, mettendolo nel calderone e condannandolo così alla morte, dal momento che Medea non aggiunse le erbe magiche. Il figlio di Pelia, Acasto, mandò in esilio Giasone e Medea per l'uccisione del padre e i due si stabilirono a Corinto.\n\nIl tradimento di Giasone e la sua morte.\nA Corinto, Giasone si innamorò di Glauce (citata anche come Creusa) figlia del re Creonte e la sposò. Quando Medea gli rinfacciò la sua ingratitudine, Giasone replicò che non era lei che doveva ringraziare bensì Afrodite che l'aveva fatta innamorare di lui.\nInferocita con Giasone per essere venuto meno alla promessa di amore eterno, Medea si vendicò dando a Glauce un vestito incantato come dono di nozze e che prese fuoco facendola morire insieme al padre accorso in suo aiuto e uccidendo, inoltre, Mermero e Fere, i due figli che la stessa Medea aveva avuto da Giasone.\nQuando quest'ultimo venne a saperlo, Medea era già andata via, in volo verso Atene su un carro mandatole dal nonno, il dio del sole Elio.\nIn seguito Giasone con l'aiuto di Peleo (il padre di Achille), attaccò e sconfisse Acasto, riconquistando il trono di Iolco.\nAvendo disatteso la promessa di fedeltà fatta a Medea, Giasone perse i favori della dea Era e morì solo ed infelice. Mentre dormiva a poppa della ormai fatiscente Argo, rimase ucciso all'istante da un suo cedimento: fu questa la maledizione degli dei per essere venuto meno alla parola data. Secondo una variante l'eroe morì di crepacuore dopo aver appreso la notizia dell'uccisione dei figlioletti.\n\nLetteratura classica.\nPoemi epici.\nSebbene alcuni degli episodi della storia di Giasone risalgano a vecchie leggende, l'opera principale legata a tale personaggio è il poema epico Le Argonautiche di Apollonio Rodio, scritto ad Alessandria nel III secolo a.C.\nUn'altra Argonautica è stata scritta in latino da Gaio Valerio Flacco nel I d.C. ed è composta da otto volumi. Il poema si interrompe bruscamente con la richiesta di Medea di accompagnare Giasone nel suo viaggio di ritorno. Non è noto se una parte del poema epico sia andato perduto o se non sia mai stato finito.\nUna terza versione è l'Argonautica Orphica, che evidenzia il ruolo di Orfeo nella storia.\n\nGiasone nella letteratura postclassica.\nDante Alighieri menziona brevemente Giasone nel XVIII canto della Divina Commedia, dove viene collocato nell'ottavo cerchio dell'inferno (quello dei fraudolenti) e più precisamente nella prima bolgia (quella dei ruffiani e seduttori) per aver sedotto e abbandonato prima Ipsipile e poi Medea, costretto, come tutti gli altri che espiano la sua stessa colpa, a correre nudo sotto le sferzate dei demoni.\nLo stesso Dante menziona nuovamente Giasone nel canto II del Paradiso paragonando l'eccezionale impresa per conquistare il vello d'oro alla propria impresa poetica. Lo ricorderà, ancora una volta, alla fine della terza cantica (Par: XXXIII), per sottolineare lo stupore e la dimenticanza che l'esperienza mistica ingenera in Dante attraverso la visione di Dio, le quali superano addirittura quelle provocate dalla mitica impresa dagli Argonauti.\nVincenzo Monti inaugura il suo 'inno al sig. di Montgolfier' con un peana a Giasone e agli Argonauti paragonando l'audacia delle due imprese, una di navigazione e l'altra di volo.\n\nTragedia.\nLa storia della vendetta di Medea su Giasone è narrata da Euripide nella sua tragedia Medea e nell'omonima opera di Seneca. Non ci è pervenuta una tragedia con lo stesso titolo composta da Ovidio.\n\nTeatro.\nUbaldo Mari, Giasoneide, o sia la Conquista del Vello d'Oro (Livorno, 1780).\n\nMusica.\nIl musicista italiano Francesco Cavalli compose il dramma Il Giasone su libretto di Giacinto Andrea Cicognini rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1649.\n\nCinema.\nIl mito di Giasone e degli Argonauti è stato raccontato più volte sul grande schermo, da I giganti della Tessaglia - Gli argonauti del 1960 diretto da Riccardo Freda a Gli Argonauti (titolo originale Jason and the Argonauts) del 1963 per la regia di Don Chaffey, a Medea del 1969 diretto da Pier Paolo Pasolini, a La cosa d'oro del 1972 diretto da Edgar Reitz, fino al film TV del 2000 Giasone e gli Argonauti per la regia di Nick Willing.
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### Titolo: Giganti (mitologia greca).\n### Descrizione: I giganti (chiamati anche Ctoni) sono figure mitiche e leggendarie (dèi, demoni, mostri, uomini primitivi) della mitologia greca, accomunate dalla caratteristica altezza.\nSecondo i greci, alcuni giganti (per esempio Encelado) erano sepolti da allora nelle profondità della terra; i terremoti erano interpretati come sussulti di queste creature sepolte. Altre creature gigantesche della mitologia greca, i ciclopi (Κύκλωπες), gli ecatonchiri (Ἑκατόγχειρες) i titani, sono però distinte dai gigantes.\nNella mitologia greca, giganti sono diversi personaggi, di solito divisi in due categorie:.\n\nVentiquattro giganti combatterono la gigantomachia. Potevano essere sconfitti solamente da un semidio con l’aiuto di un Dio. La caratteristica di questi 24 Giganti è di avere un corpo per metà di uomo e per metà di bestia (solitamente serpente). Ognuno di essi era nato per distruggere una divinità specifica. Il più famoso tra i Giganti era Porfirione nato per distruggere Zeus.\nSi racconta anche di come Pallade, figlio del re di Atene Pandione, avesse generato una stirpe di uomini dal corpo enorme, giganti.\nAlpo: gigante siciliano, figlio di Gea sconfitto da Dioniso.\nDamiso il più veloce dei giganti.\nGigeni: tribù di giganti a sei braccia figli di Gea (o di Rea identificata con la dea madre Cibele) affrontati dagli Argonauti.Giganti figli di Poseidone.\n\nAnteo: re di Libia, ucciso da Eracle.\nOrione: il gigante cacciatore, amante di Eos.\nI liguri Alebione e Dercino.\nCrisaore figlio di Medusa.\nGli Aloadi.\nIdas: non fu un vero e proprio gigante, ma la sua altezza era superiore a quella dei suoi contemporanei e quella del suo gemello Linceo figlio di Afareo.Giganti figli di Ares.\n\nDiomede: re dei Bistoni.\nCicno il brigante.\nLicaone re di Macedonia. Come Cicno e Diomede è stato ucciso da Eracle, ma non ci è pervenuto il mito.Giganti figli di Efesto.\n\nCaco il mostruoso razziatore di bestiame, era in grado di sputare fuoco.\nTalos: gigante di bronzo, non era figlio di Efesto, ma fu creato da lui, così che Zeus potesse metterlo a guardia di Europa.Giganti figli di Zeus.\n\nTizio figlio di Zeus ed Elara, prigioniero nel Tartaro.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giganti.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Giganti, su Theoi Project.
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### Titolo: Gigantomachia.\n### Descrizione: La Gigantomachia (dal greco antico γιγαντομαχία, 'la guerra dei giganti' o 'tra giganti': parola a sua volta composta da γίγας -αντος, gigas -gigantos, 'gigante'; e μάχη, machē, ovvero 'battaglia', 'guerra', 'scontro') è la lotta che i Giganti ingaggiarono contro gli Dei dell'Olimpo, aizzati dalla loro madre Gea e dai Titani.\n\nIl mito.\nPer raggiungere la vetta dell'Olimpo i Giganti dovettero mettere tre monti uno sopra l'altro, ma furono sconfitti e cacciati sotto l'Etna. I dodici dèi dell'Olimpo non vinsero grazie alle proprie forze, ma dovettero ricorrere all'aiuto di un semidio: Eracle, figlio di Zeus e di una mortale.\nI Giganti che parteciparono furono ventiquattro, altissimi e terribili, con lunghi capelli inanellati e lunghe barbe e code di serpenti a coprire i piedi. Alcioneo ne fu il capo. Fu anche il primo che Eracle abbatté. Poi fu la volta di Porfirione: riuscì quasi a strangolare Era ma, ferito al fegato da una freccia di Eros, la sua brama omicida si trasformò in lussuria e tentò di violentare la dea. Zeus divenne pazzo di gelosia e abbatté il gigante con una folgore. Eracle lo finì a colpi di clava.\nEfialte ebbe uno scontro con Apollo che, sempre con l'aiuto di Eracle, riuscì a trarsi in salvo. E la storia si ripete con Eurito contro Dioniso, Clizio contro Ecate, Mimante contro Efesto, Pallante contro Atena: sarà sempre Eracle a essere risolutivo. Demetra ed Estia, donne pacifiche, stanno in disparte, mentre le tre dispettose Moire scagliano pestelli di rame da lontano.\nScoraggiati, i Giganti superstiti scappano. Atena, assunte dimensioni gigantesche superiori a quelle dei giganti, riesce a scagliare un grosso masso contro Encelado che crolla in mare e diventa l'isola di Sicilia. Poseidone strappa un masso a Coo e lo scaglia nel mare, dove diventa l'isola di Nisiro, nel Dodecaneso. Ermes abbatte Ippolito e Artemide Grazione, mentre i proiettili infuocati lanciati dalle Moire bruciano le teste di Agrio e Toante.\nSileno, il satiro nato dalla Terra, si vantò di avere fatto fuggire i Giganti col raglio del suo asino, ma Sileno era sempre ubriaco, e veniva accolto all'Olimpo solo per ridere di lui.\nAlcuni Giganti erano detti centimani poiché avevano cento mani. Nell'esegesi del mito si potrebbe considerare che tale storia racconti una battaglia di popolazioni non elleniche (o greche) che combattevano in 'centurie' (gruppi di cento) e che veneravano la Madre Terra come Dea Creatrice. I Greci Achei e Dori avevano infatti ridotto la 'madre terra' a una sorella di Zeus, Demetra. Tale conflitto vide vittoriosi gli Elleni e il loro Pantheon.\n\nSchieramenti.\nGli alleati di Zeus.\nZeusOlimpi.\nPoseidone.\nEra.\nAres.\nAtena.\nApollo.\nDioniso.\nAfrodite.\nEfesto.\nErmes.\nArtemide.\nDemetra.\nAltre divinità.\nEstia (cedette il suo trono sull’Olimpo in favore di Dioniso).\nEros.\nAde.\nPersefone.\nMoire.\nEcate.\nPan.\nEracle.\nBronte.\n\nI Giganti.\nGea, la Madre Terra, progenitrice dei Giganti.\n24 Giganti, tra cui:.\nAlcioneo, capo dei rivoltosi.\nDamaseno.\nEncelado.\nEfialte.\nPallante.\nIppolito.\nPorfirione.\nMimas.\nGrazione.\nPolibote.\nOto.\nClizio.\nAgrio.\nToante.\nEurito.\n\nCoo.\nEcatonchiri.\nCotto.\nGige.\nBriareo.\n\nNell'arte.\nScultura.\nLa lotta tra i giganti e gli dei fu rappresentata da Fidia nell'interno dello scudo della sua statua di Atena. La Gigantomachia fu rappresentata anche nell'Altare di Pergamo.\n\nLetteratura.\nClaudio Claudiano (370-408) scrisse il poema La gigantomachia, di cui sono pervenuti sino a noi solo 128 esametri.\n\nPittura.\nNel Palazzo del Te a Mantova esiste una sala chiamata la 'Sala dei Giganti', i cui affreschi rappresentano il tema della gigantomachia o della conseguente 'caduta dei giganti', opera del pittore Giulio Romano (1499?-1546).
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### Titolo: Gige (ecatonchiro).\n### Descrizione: Gige, o Gie (in greco antico: Γύγης?, Gýghēs) è uno dei giganti dalle cento braccia della mitologia greca, gli Ecatonchiri, generati dall'unione tra Gea e Urano. Briareo e Cotto sono suoi fratelli. Gige partecipò insieme a Cotto alla lotta contro gli Olimpici e fu rinchiuso da Zeus nel Tartaro, dove venne sorvegliato insieme agli altri suoi compagni dal fratello Briareo.
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### Titolo: Gigea (ninfa).\n### Descrizione: Gigea è il nome di una ninfa nella mitologia greca.\n\nMito.\nViene nominata nell'Iliade, come ninfa della palude omonima nell'Asia Minore. Dall'unione con un re della Meonia generò due figli maschi: Talemene e Ifitione. Quest'ultimo prese parte alla Guerra di Troia in difesa degli assediati, insieme ai due figli del fratello, Mestle e Antifo.
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### Titolo: Gigeni.\n### Descrizione: I Gigeni (dal greco Γηγενεῖς Ghēgenèis; sing. Γηγενής Ghēgenḕs - ovvero 'nati dalla terra') erano una tribù mitica di giganti con sei braccia che combatterono contro gli Argonauti nella Misia. I primi racconti della loro esistenza si trovano nell'Argonautica di Apollonio Rodio.
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### Titolo: Giocasta.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Giocasta (in greco antico: Ἰοκάστη?, Iokástē) era la figlia di Meneceo e la madre di Edipo. Omero si riferisce a lei con il nome di Epicasta. La sua storia, così come quella di Edipo, viene raccontata nella tragedia Edipo re di Sofocle e ha dato vita a un complesso psicanalitico, noto appunto come complesso di Giocasta.\n\nGiocasta, figlia di Meneceo, sorella di Creonte, sposò Laio, re di Tebe. L'Oracolo di Delfi predisse che il figlio di Laio avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Per impedire che la profezia si avverasse, Laio fece abbandonare il proprio figlio su una montagna, con i piedi legati, e annunciò la sua morte. Il bambino fu salvato da un pastore e fu condotto alla corte del re di Corinto, dove gli fu dato il nome di Edipo: giunto alla maggiore età, Edipo si recò presso l'oracolo di Delfi, che fece anche a lui una profezia, predicendo che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Per non sottostare al destino preannunciato Edipo lasciò quelli che credeva i propri genitori e si incamminò verso Tebe.\nEdipo proprio sotto il tempio di Delfi uccise in una lite a un crocevia Laio, che non sapeva essere suo padre, e l'auriga Polifonte ed entrò a Tebe in trionfo dopo aver risolto l'enigma della Sfinge. Giocasta, riconoscente nei confronti dello sconosciuto eroe, lo sposò; in tal modo i due portarono inconsapevolmente a compimento la profezia ed ebbero quattro figli. Edipo dopo dieci anni, scoprì il proprio passato. Giocasta, compresa la verità prima di lui, si impiccò. Nelle Fenicie euripidee, ispirate alla versione del mito raccontata da Stesicoro, Giocasta sopravvive alla rivelazione dell'incesto e cerca di portare la pace tra Eteocle e Polinice in lotta per la supremazia su Tebe: quando i suoi figli si uccidono a vicenda, la regina non regge al dolore e si pugnala sui loro cadaveri.\n\nGenealogia.\n{Genealogia tebana}.\n\nAltri progetti.\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giocasta.\n\nCollegamenti esterni.\n\n(EN) Giocasta, su Goodreads.
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### Titolo: Giochi Erei.\n### Descrizione: I giochi Erei erano delle gare di atletica femminile che si tenevano presso lo stadio di Olimpia a partire dal VI secolo a.C.. La competizione era dedicata alla dea Era ed è stata la prima gara sportiva femminile ufficiale di cui si conservi testimonianza storica. I giochi Erei si svolgevano probabilmente lo stesso anno dei Giochi olimpici, prima delle gare maschili.\n\nStoria.\nSecondo alcune fonti, la prima edizione dei giochi risale al VI secolo a.C.. Lo scrittore Pausania il Periegeta, nella sua opera Periegesi della Grecia, scritta intorno al 175 a.C., scrisse che Ippodamia costituì un gruppo conosciuto come 'sedici donne' fra le partecipanti ai giochi Erei, in segno di gratitudine per il suo matrimonio con Pelope. Altri testi indicano che le 'sedici donne' erano portatrici di pace fra Pisa e Elis e, grazie alla loro competenza politica, divennero le amministratrici dei giochi Erei.Le donne greche vennero autorizzate a partecipare alle stesse feste a cui partecipavano gli uomini dopo il periodo classico. La scarsità di riferimenti è la prova che questi cambiamenti possono essere stati non graditi dall'influenza romana. A Roma, le ragazze provenienti dalle famiglie benestanti erano autorizzate a partecipare alle feste degli uomini. Un'iscrizione del I secolo trovata a Delfi dice che due giovani donne avevano gareggiato in gare (non le Olimpiadi) alla festa di Sebasta, a Napoli, durante il periodo imperiale e nelle gare di Domiziano per le donne ai Ludi capitolini di Roma nell'86.\n\nCaratteristiche.\nCome le gare maschili, i giochi Erei erano originariamente costituiti solo dalle corse pedestri. Le campionesse vincevano corone di ulivo, carne di mucca o di bue dell'animale sacrificato ad Era e il diritto di dedicare statue con incisi i loro nomi o dipingere i loro ritratti sulle colonne del tempio di Era. Sono ancora evidenti i punti in cui venivano attaccati i ritratti sul tempio, anche se le opere d'arte sono scomparse Le donne gareggiavano, divise in tre gruppi di età, su una pista dello Stadio Olimpico che era 5/6 della lunghezza della pista degli uomini. Pausania descrive come si presentavano per le gare: 'con i capelli pendenti, una tunica (chitone) poco sopra il ginocchio e con la spalla destra nuda fino al seno'.Anche se gli uomini gareggiavano nudi e le donne vestite, il chitone era anche l'abbigliamento indossato dagli uomini che facevano un lavoro fisico pesante. Così, le concorrenti erano vestite come gli uomini. Se questo e l'esistenza dei giochi Erei possono dirci qualcosa riguardo al clima sociale delle donne di quel periodo è incerto. Sappiamo che alle donne era proibito competere o addirittura assistere ai giochi olimpici antichi, pena l'essere gettate dalle scogliere del Monte Typaion. Le ragazze non erano incoraggiate a essere atlete. Quelle cresciute a Sparta erano l'eccezione, poiché venivano formate agli stessi eventi sportivi dei ragazzi, dato che il comune pensiero a Sparta era che donne forti avrebbero generato bambini che sarebbero diventati forti guerrieri. Queste atlete non erano sposate e gareggiavano nude o indossando abiti corti. I ragazzi erano autorizzati a guardare le atlete, nella speranza di combinare matrimoni e avere dei figli. Una gara dedicata a Dioniso (dio del vino e del piacere) potrebbe essere stata anche, per la comunità più giovane, un rito di passaggio.
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### Titolo: Giove e Teti.\n### Descrizione: Giove e Teti è un dipinto a olio su tela (324x260 cm) di Jean-Auguste-Dominique Ingres, realizzato nel 1811 e conservato nel Musée Granet di Aix-en-Provence.\n\nStoria e descrizione.\nIngres prese in prestito la materia di questo quadro dal primo canto dell'Iliade di Omero, dove la nereide Teti, madre dell'eroe Achille, chiede a Giove di favorire i Troiani nelle battaglie della guerra di Troia affinché il figlio, allontanatosi dall'esercito per una disputa con Agamennone sulla schiava Briseide, torni a combattere.Ingres, che era affascinato dall'episodio omerico sin dal 1806 (come testimonia una missiva inviata a Forestier il Natale di quell'anno), iniziò la monumentale tela di Giove e Teti nel 1810, per poi portarla a compimento l'anno successivo. L'opera, che costituì l'ultimo invio del pensionato all'Accademia di Francia (envoi de Rome), era assai apprezzata da Ingres, il quale riteneva la tela di una tale bellezza che «anche i cani arrabbiati, che vogliono azzannarmi, dovrebbero esserne commossi» e, ancora, affermò che si trattava di «un quadro divino che dovrebbe far sentire l'ambrosia a una lega di distanza». Ciò malgrado, Giove e Teti venne accolta assai freddamente dagli accademici francesi, che criticarono soprattutto l'eccessiva altezza del collo di Teti, attribuita addirittura a una disfunzione della tiroide della modella. L'opera, pertanto, rimase invenduta sino al 1834, quando venne acquistata dal governo francese, che la inviò poi a Aix-en-Provence su richiesta del pittore François Marius Granet. Nel Novecento Giove e Teti è stato anche sottoposto ad un intervento di restauro, che ha mirato soprattutto a ripristinare la resa cromatica originaria del dipinto.Il dipinto raffigura Teti, che è genuflessa e abbigliata con un drappo grigio-verde e un velo bianco, mentre intercede presso Giove in favore del figlio: la sua mano sinistra sfiora il mento del dio, lisciandogli la barba, mentre quella destra gli cinge le ginocchia, quasi ad abbracciarle. Giove, invece, siede imperturbabile su un maestoso trono, alla cui base sono riportate immagini che rievocano la Gigantomachia: è ammantato in un drappo rosato, e al suo fianco siede l'aquila, icona del dio e simbolo del potere di Roma. Assorto in un'aura di ieraticità divina, Giove presenta una barba fluente e una criniera di capelli scuri, con il capo cinto da un'aureola a sette raggi appena abbozzata. Nel cielo burrascoso alle spalle del dio, solcato da luminescenze rossastre, si scorge inoltre il volto di Giunone, la gelosa moglie di Giove.La composizione poggia su una struttura piramidale, descritta dal manto di Giove e dalla schiena di Teti, e su una griglia modulare che mette in enfasi gli elementi notevoli del dipinto (come ad esempio le braccia del re degli dei). La figura di Teti è collocata lungo la direttrice orizzontale del dipinto, mentre Zeus segue l'andamento dell'asse orizzontale, che contribuisce a ribadirne la maestosità divina.
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### Titolo: Giudizio di Paride (Filippo Tagliolini).\n### Descrizione: Il Giudizio di Paride è una scultura in porcellana biscuit di Filippo Tagliolini (Fogliano di Cascia 1745- Napoli 1809), che dal 1780 fino alla morte lavorò come modellatore presso la Reale Fabbrica della porcellana di Napoli (attiva tra il 1771 e il 1807).\nIl Giudizio di Paride, insieme al Carro dell'Aurora e alla Caduta dei Giganti è tra i più grandi gruppi prodotti dalla Reale Fabbrica di Napoli, e uno tra i pochi che possa essere legato direttamente all'attività di Tagliolini. Si conosce infatti un documento del 1801 in cui l'artista è pagato per l'intervento diretto su un gruppo di tale soggetto. Dell'opera si conoscono più esemplari, conservati presso il Museo di Capodimonte, il Museo di San Martino a Napoli, l'Accademia Tadini a Lovere.
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### Titolo: Giudizio di Paride (Raffaello).\n### Descrizione: Il Giudizio di Paride era un disegno del pittore italiano Raffaello Sanzio, andato perduto, ma noto attraverso delle incisioni a bulino di Marcantonio Raimondi.\n\nDescrizione.\nIl tema è uno dei più rappresentati della storia dell'arte, venendo rappresentato dai pittori di epoche diverse come il Rinascimento e il Barocco o dai pittori del ventesimo secolo. In effetti, il capolavoro perduto dell'Urbinate si rifaceva in parte a un sarcofago romano su questo tema. La scena ritraeva più gruppi figurativi immersi in un paesaggio agreste, pieno di alberi. Al centro si trovava il gruppo più importante, quello con Paride e le tre dee.\nParide porgeva a Venere la mela della discordia mentre la dea dell'amore veniva incoronata da una Vittoria alata. Ai suoi piedi c'era il figlio Cupido, mentre vicino a Paride si trovava il messaggero degli dèi, Mercurio. La dea Giunone, riconoscibile dal pavone che si trovava ai suoi piedi, sembrava colta nell'atto di minacciare il principe troiano. Minerva afferrava l'abito del quale si era privata per rivestirsi, mentre l'elmo e lo scudo con la testa di Medusa giacevano al suolo. A destra c'era un gruppo di divinità fluviali, delle quali una guardava lo spettatore, mentre un altro personaggio alzava lo sguardo e vedeva il dio Giove tra le nuvole, seduto su un trono. Al centro i Dioscuri trainavano il carro del Sole.La stampa del Raimondi deriva da un disegno che Raffaello stesso realizzò per la traduzione incisoria. Secondo lo storico dell'arte Giorgio Vasari, quest'opera 'stupì tutta Roma', consentendo la produzione di copie e derivazioni.\n\nEredità.\nNonostante l'opera sia andata perduta, questa ha comunque influenzato profondamente la storia dell'arte. Infatti, la parte di destra con le divinità fluviali ispirò il pittore francese Édouard Manet per La colazione sull'erba nel 1863: la posa delle divinità fluviali venne recuperata per due uomini borghesi, mentre la figura che poggia la mano sul mento e guarda lo spettatore sarebbe divenuta una donna (la modella Victorine Meurent), la cui nudità non giustificata da temi mitologici o storici avrebbe causato uno scandalo. Dal Giudizio di Paride sono stati tratti un arazzo e una maiolica. Esiste inoltre un altro affresco che riprende proprio questa porzione del disegno raffaellesco, la Caduta di Fetonte di Cesare Castagnola, che si trova all'esterno del palazzo Piacentini di Castelfranco Veneto.
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### Titolo: Giudizio di Paride (Rubens).\n### Descrizione: Il Giudizio di Paride è un dipinto di Pieter Paul Rubens, a olio su tavola (199x379 cm), quest'opera fu realizzata tra il 1638 ed il 1639. Oggi l'opera è conservata al Museo del Prado.\n\nStoria.\nNel corso della sua carriera, Rubens dipinse varie versioni sul tema del giudizio di Paride; una giovanile di piccole dimensioni si conserva sempre nel Prado, e un'altra è alla National Gallery di Londra. Questa, l'ultima, fu dipinta tra il 1638 e il 1639, quando l'artista era malato di gotta.L'opera gli fu commissionata da Filippo IV di Spagna con la mediazione del cardinale-infante Ferdinando d'Austria, fratello del suddetto e governatore dei Paesi Bassi, per decorare lo scomparso palazzo del Buon Ritiro. Si dice che quando visitò lo studio di Rubens e vide l'opera, affermò: 'È una delle opere migliori della sua arte, ma le dee sono troppo nude e si dice che la figura di Venere sia una ritratto di sua moglie'.Nel diciottesimo secolo, Carlo III ordinò che venisse bruciata perché era ritenuta un'opera impudica, assieme ad altri dipinti di nudo come Adamo ed Eva del Durero. Alla fine il re decise di salvare tutti i quadri, a patto che venissero rinchiusi in delle sale dall'accesso limitato nell'Accademia di San Fernando. Il secolo successivo, questa e altre opere furono trasferite al Prado.\n\nDescrizione.\nQui Rubens tratta l'episodio mitologico in maniera orizzontale, in modo tale che le figure sembrino formare un fregio. Seduto sul tronco di un albero, il pastore Paride deve scegliere la dea più bella dell'Olimpo, e ha l'aspetto dubbioso proprio di un compito tanto difficile. Il dio Ermete, con il caduceo e il petaso, regge la mela d'oro che costituisce il premio. Dinnanzi a loro si trovano le tre dee contendenti, da sinistra a destra: Atena, dea guerriera e della saggezza, con le armi che la caratterizzano al suolo e avvolta in un velo di seta argentata; Afrodite, la dea dell'amore, è al centro, avvolta da un panno color cremisi e con suo figlio Eros ai piedi; infine c'è Era, la regina dell'Olimpo in quanto sposa di Zeus, rappresentata di spalle, mentre si toglie il ricco mantello di velluto ricamato in oro che la ricopre, in una bella posa serpentinata e con un pavone reale, un suo attributo, appollaiato sul ramo di un albero vicino. Un putto volante si prepara a incoronare Afrodite, mostrando quale sarà il verdetto, mentre rivolge uno sguardo complice allo spettatore. Secondo la tradizione, per la dea Afrodite posò Hélène Fourment, la seconda moglie dell'artista.Sullo sfondo si vede un gregge di pecore e un paesaggio crepuscolare tranquillo con degli alberi e dei prati. Quel che risalta nel quadro è tanto la composizione, percorsa da linee diagonali e ritmi contrapposti così che si evita qualunque sensazione di rigidità, quanto la bellezza del colore, l'insistenza nel nudo (contrastando la bianchezza della pelle delle dee con la carnagione scura dei personaggi maschili) e l'attenzione per i dettagli, come il luccichio delle armi, dei gioielli o dei tipi diversi di tessuti che coprono parzialmente le dee, rappresentati fedelmente.
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### Titolo: Giudizio di Paride.\n### Descrizione: Il Giudizio di Paride, nella mitologia greca, è una delle cause della guerra di Troia e (nella più tarda versione della storia) della fondazione di Roma.\n\nEpisodio mitologico.\nZeus allestì un banchetto per la celebrazione del matrimonio di Peleo e Teti, futuri genitori di Achille. Eris, la dea della discordia, non fu invitata e, irritata per questo oltraggio, raggiunse il luogo del banchetto e gettò una mela d'oro con l'iscrizione 'alla più bella'.\nLe tre dee che la pretesero, scatenando litigi furibondi, furono Era, Atena e Afrodite. Esse parlarono con Zeus per convincerlo a scegliere la più bella tra loro, ma il padre degli dèi, non sapendo a chi consegnarla, stabilì che a decidere chi fosse la più bella non potesse essere che il più bello dei mortali, cioè Paride, inconsapevole principe di Troia, il quale era prediletto dal dio Ares.\nErmes fu incaricato di portare le tre dee dal giovane troiano, che ancora viveva tra i pastori e conduceva al pascolo le pecore, e ognuna di loro gli promise una ricompensa in cambio della mela: Atena lo avrebbe reso sapiente e imbattibile in guerra, consentendogli di superare ogni guerriero; Era promise ricchezza e poteri immensi, tanto che a un suo gesto interi popoli si sarebbero sottomessi, e tanta gloria che il suo nome sarebbe riecheggiato fino alle stelle; Afrodite gli avrebbe concesso l'amore della donna più bella del mondo.\nParide favorì quest'ultima, scatenando l'ira delle altre due. La dea dell'amore aiutò quindi Paride a rapire Elena, moglie di Menelao, re di Sparta, e il fatto fu la causa scatenante della guerra di Troia.\n\nRilettura allegorica nel Medioevo.\nIl giudizio di Paride fu un motivo molto amato nel Medioevo perché permetteva una interpretazione morale o tropologica delle diverse opzioni che si presentano all'uomo nella sua entrata nell'età adulta: la saggezza di Atena-Minerva rappresentava la vita contemplativa, le ricchezze di Era-Giunone la vita attiva, e l'amore di Afrodite-Venere la vita di piaceri. È con questa funzione che l'episodio è raccolto, per esempio, nello Speculum doctrinale di Vincenzo di Beauvais.\nAnche Raimondo Lullo riprende questo esempio, nell'Arbre exemplifical, ma lo rilegge in chiave completamente diversa e metafisica, parlando di come «il Cerchio, il Quadrato e il Triangolo si incontrarono in Quantità, che era la loro madre, la quale aveva un pomo d'oro e domandò ai suoi figli se sapevano a quale dovesse dare quel pomo d'oro».\n\nIconografia.\nIl soggetto mitologico ha ispirato, fin dall'antichità, innumerevoli opere d'arte, tra le quali (in ordine cronologico):.\n\nOlpe Chigi, ceramica greca policroma di Corinto di artista anonimo (intorno al 640 a.C.). Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, Roma.\nIl giudizio di Paride, anfora etrusca del Pittore di Paride (anni 530 a.C.), Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera.\nBassorilievi del pulpitum, nello teatro di Sabratha, al fine del II secolo.\nIl giudizio di Paride, dipinto di Sandro Botticelli (1485-1488). Fondazione Giorgio Cini, Venezia.\nGiudizio di Paride, opera perduta di Raffaello (1514 circa), nota tramite un'incisione di Marcantonio Raimondi.\nIl giudizio di Paride, dipinto di Lucas Cranach il Vecchio (circa 1528).\nIl giudizio di Paride, dipinto di Michiel van Mierevelt (1588), Stoccolma.\nGiudizio di Paride, dipinto di Pieter Paul Rubens (1638-1639?).\nPaesaggio classico montuoso con il giudizio di Paride, dipinto di Johannes Glauber (fine XVII secolo).\nIl giudizio di Paride, dipinto di Anton Raphael Mengs (1757), San Pietroburgo.\nGiudizio di Paride, scultura in porcellana di Filippo Tagliolini (circa 1801), di cui si conoscono più esemplari.\nIl giudizio di Paride, dipinto di Enrique Simonet (1904).
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### Titolo: Glauco (figlio di Minosse).\n### Descrizione: Glauco (in greco antico: Γλαῦκος?, Glàukos) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Minosse re di Creta e di Pasifae.\n\nGlauco e Polido.\nAncora bambino rincorrendo una palla o un topo, cadde in un pithos di miele e morì. Minosse consultò un oracolo (dei Cureti o di Apollo). Questo propose un enigma e disse che la persona che fosse stata in grado di risolverlo, avrebbe ritrovato Glauco. Polido lo trovò morto e Minosse lo obbligò a resuscitarlo, chiudendolo dentro un antro con il cadavere del piccolo.\nIn quel mentre Poliido scorse un serpente che si stava approssimando al cadavere di Glauco e lo uccise. Un secondo serpente, visto il suo simile morto, si dileguò tornando poco dopo con dell'erba che cosparse sul corpo del rettile che dopo alcuni sussulti, si rianimò. Alla vista di questa scena Poliido prese quell'erba e la applicò sul corpo del bambino, che di lì a poco riprese a vivere. Minosse - non contento - volle che Poliido insegnasse a Glauco l'arte mantica, compito al quale il saggio adempì, onde poi fargliela dimenticare prima di tornare in patria.
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### Titolo: Glauco (figlio di Sisifo).\n### Descrizione: Glauco (in greco antico: Γλαῦκος?, Glàukos), è un personaggio della mitologia greca. Fu re di Corinto.\n\nGenealogia.\nFiglio di Sisifo e di Merope, sposò Eurimede e divenne padre di Ipponoo (più conosciuto come Bellerofonte) e di Deliade (conosciuto anche come Alcimene o Peirene).\n\nMitologia.\nSuo padre (Sisifo), cercò di combinargli un matrimonio con Mestra ma nonostante il pagamento di preziosi regali, lei eluse il matrimonio e si lasciò rapire da Poseidone che la portò su un'isola.\nGlauco possedeva dei cavalli che nutriva con carne umana e che preservava da qualsiasi accoppiamento perché risultassero sempre i più veloci nelle corsa dei carri e con questi cavalli partecipò ai giochi funebri organizzati da Acasto in onore del padre (gli Athla epi Pelia). Afrodite però, irritata per il trattamento che Glauco riservava ai suoi animali, il giorno precedente alla corsa (dove Glauco avrebbe gareggiato contro Iolao), li fece fuggire dalla stalla per fermarli nei pressi di un pozzo sacro e lasciargli mangiare un'erba che dava follia, per poi farli tornare alla loro stalla.\nIl giorno della gara, i cavalli si imbizzarrirono e Glauco cadde dalla biga restando però imbrigliato nelle redini ed essere trascinato dai cavalli per tutta corsa fino a restarne ucciso ed esserne divorato dai suoi stessi cavalli.\nSecondo Pausania, Glauco divenne un Tarasippo (una specie di fantasma o spauracchio) per tutti gli auriga ed i partecipanti alle corse con i cavalli di tutti i successivi Giochi Istmici.
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### Titolo: Glaucopide.\n### Descrizione: Glaucopide è un epiteto che caratterizza la dea greca Atena, corrispondente alla divinità etrusca e latina Menrwa-Minerva. Si tratta di un celebre epiteto omerico, che ricorre in molti luoghi della letteratura greca arcaica. L'epiteto, dal greco «sguardo glauco» (γλαυκῶπις -ιδος, comp. di γλαυκός «lucente, glauco» e ὤψ ὀπός «sguardo»), viene interpretato secondo due possibili accezioni: dea «dagli occhi glauchi» (azzurri, lucenti) o dea «dagli occhi di civetta».Le due accezioni in greco antico si sovrappongono: pertanto la dea glaucopide è la dea dai lucenti occhi di civetta. La civetta (e in generale gli strigiformi, cioè i rapaci notturni, fra cui la specie più caratteristica è appunto Athene noctua), essendo un uccello sacro, un animale totem, veniva indicata con un appellativo indiretto, che significava la glauca, l'uccello dagli occhi lucenti, il cui connotato tipico era la sapienza (l'uccello che vede al buio diviene allegoria della ragione, i cui occhi penetrano anche il buio dell'incertezza).La civetta, e in genere i rapaci notturni, erano associati, sin dal tardo mesolitico, a una dea madre della morte e della rigenerazione. Tale divinità femminile preindoeuropea viene a vario titolo assimilata dai popoli semiti e indoeuropei venuti a contatto col mondo del Mediterraneo e dell'Europa del neolitico. In Grecia, le Arpie e le Chere (e in origine le stesse sirene, che nel mito più arcaico erano immaginate come metà uccello e metà donne), sono filiazioni, insieme ad Atena, dell'antica dea madre uccello, il cui culto sopravvive, fra recuperi e demonizzazioni, fino alla diffusione del cristianesimo.\nNell'immaginario cristiano antico e medievale, la dea civetta della sapienza, della morte e della rigenerazione, definitivamente demonizzata e associata all'aspetto conturbante e negativo della femminilità, è collegata alla figura di Lilith (demonizzazione già ebraica della dea madre uccello), e diviene immagine della strega (dal latino volgare striga, latino classico strix, strige, civetta).
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### Titolo: Gli inviati di Agamennone.\n### Descrizione: Gli inviati di Agamennone (o Achille riceve gli ambasciatori di Agamennone) è un dipinto a olio su tela di Jean-Auguste-Dominique Ingres del 1801 (quando l'artista aveva appena vent'anni) prodotto espressamente per il concorso Prix de Rome. Questa era già la sua seconda partecipazione al Premio, ed il tema mitologico-letterario gli permise di vincere il 'Gran Premio' assegnato da Jules Antoine Vauthier.\nLa pittura fa parte delle collezioni dell'École nationale supérieure des beaux-arts.\n\nDescrizione e stile.\nIl soggetto è ispirato al poema epico Iliade di Omero, e precisamente al passo in cui è descritta l'ambasceria inviata da Agamennone ad Achille che qui appare in compagnia dell'amante Patroclo: si tratta di una dimostrazione del prestito da parte dell'artista di figure tratte dall'antica arte greca, in particolare uno dei convenuti, Ulisse, viene qui ritratto con un mantello rosso drappeggiato derivante da una scultura dello pseudo-Fidia.\nRappresentante dello stile neoclassico e paragonato alla scuola del suo maestro Jacques-Louis David, Ingres contiene e porta tuttavia con sé in questo periodo il marchio di alcune tra le caratteristiche più notevoli di John Flaxman, a partire dal momento in cui ne vede l'opera esposta a Parigi.
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### Titolo: Glicone.\n### Descrizione: Glicone (in greco antico: Γλύκων?, Glýkon) era una divinità dalle fattezze di serpente con testa semi-umanoide, manifestazione del dio Asclepio; il suo culto fu fondato nel II secolo in Paflagonia da Alessandro di Abonutico, intorno al 140, e si protrasse fino almeno al III secolo.\nLa maggior parte delle informazioni su questo culto provengono da Luciano di Samosata, che ne parla nel suo libello critico Alessandro o il falso profeta. Secondo quanto riportato da Luciano, Alessandro riuscì a creare e tenere vivo il culto sfruttando la credulità della gente grazie a trucchi ben congegnati, come presunti ritrovamenti di oggetti di origine divina, finti oracoli e un vero serpente ammaestrato di grandi dimensioni, aiutato da una buona dose di carisma e di teatralità, assicurandosi un vasto seguito in tutto l'Impero romano.\n\nOrigine del culto.\nProbabilmente Alessandro trasse l'idea dalla Macedonia, una regione dove esistevano già residui di antichi culti simili.\nLe informazioni sull'origine del culto provengono dal racconto di Luciano di Samosata, che vi era decisamente ostile, mentre alcune indicazioni sulla sua espansione sono date dai ritrovamenti archeologici. Secondo Luciano, Alessandro diede inizio al culto per ovviare alle proprie difficoltà economiche; assieme a un complice di nome Cocconas si procurò un enorme serpente ammaestrato a Pella, città che vantava una lunga tradizione di domesticazione di tali animali. Finsero poi di ritrovare nel santuario di Apollo di Calcedonia delle tavolette (da loro stessi create e nascoste, ma attribuite ad Asclepio) su cui era scritto che lo stesso Asclepio e suo padre Apollo intendevano venire nel Ponto e stabilire la loro dimora ad Abonutico.\n\nGli abitanti di Abonutico, il villaggio natale di Alessandro, in fermento per la notizia, edificarono un tempio per accogliere il dio, nel quale Alessandro andò ad abitare professandosi suo profeta; Luciano aggiunge che Alessandro recitava la parte, fra le altre cose, profetizzando molto teatralmente con tanto di schiuma alla bocca (con l'aiuto dell'erba saponaria). Inoltre, si era lasciato crescere i capelli in lunghi boccoli biondi, indossava un farsetto bianco e porpora e un mantello bianco, e portava una scimitarra imitando la figura di Perseo, del quale diceva di essere discendente tramite sua madre.\nDopo alcuni giorni svuotò un uovo d'oca, inserì al suo interno un serpente neonato, lo sigillò con cera e biacca e lo nascose nel fango vicino al tempio. Radunata la folla, dopo aver vagato intorno al tempio pronunciando frasi senza senso e alcune parole in ebraico e fenicio, ma chiamando di quando in quando 'Apollo' e 'Asclepio', estrasse l'uovo dalla pozza in cui lo aveva messo e lo aprì, mostrando il serpente all'interno e scatenando il giubilo fra i presenti, che interpretarono l'evento come una manifestazione di Asclepio. Pochi giorni dopo, mentre la notizia dell'accaduto si diffondeva, sostituì il serpente piccolo con quello grande, causando stupore fra la gente per l'improvvisa crescita; se lo avvolse attorno al corpo in modo che la testa non si vedesse, ne fece spuntare una fittizia (un burattino dalle fattezze umane fatto di lino, con tanto di capelli biondi) e rimase seduto in una piccola stanza con poca luce, dove la gente era costretta a restare per poco tempo a causa del continuo afflusso di folla in entrata. Alessandro ripeté la cosa più volte, soprattutto in presenza di uomini ricchi. In seguito diede al serpente il nome di Glicone, dichiarando che era la 'terza stirpe di Giove' e la 'luce degli uomini' e, usando gli stomaci di due gru come casse e canali di risonanza, lo trasformò in un oracolo parlante (ma questo genere di vaticini, nota Luciano, era riservato a uomini molto facoltosi). Facendosi pagare pochi oboli per ciascun oracolo, Luciano di Samosata racconta che Alessandro riusciva a guadagnare fra le 70.000 e le 80.000 dracme ogni anno, potendo così ampliare le dimensioni del culto e circondarsi di numerosi collaboratori retribuiti.\nGlicone, fra le altre cose, era invocato per scovare ladri, schiavi fuggiaschi e tesori sepolti, per ottenere la salute e per la fertilità: le donne che non riuscivano a restare incinte si rivolgevano al dio per avere un figlio e, secondo Luciano, Alessandro prevedeva anche metodi 'più terreni' per esaudire il loro desiderio; questo parrebbe in parte confermato da un'iscrizione ritrovata a Cesarea Trocetta (oggi Manisa), dove viene citato un sacerdote di Apollo di nome 'Mileto, figlio di Glicone di Paflagonia' (per i bambini nati per 'intervento divino' non era insolito avere un nome riferito al dio in questione). Alessandro ebbe figli da diverse donne sposate, fatto di cui i rispettivi mariti andavano molto fieri.\n\nEspansione.\nLa fama del serpente cominciò a diffondersi fuori dalla Paflagonia, nelle circostanti regioni della Bitinia, della Tracia e della Galazia, e cominciarono ad essere realizzate monete commemorative, placche dipinte e statue di bronzo e d'argento. Il culto in breve raggiunse Roma, oltre a tante altre province; iscrizioni latine ritrovate in Mesia superiore e in Dacia ne attestano la presenza lungo il Danubio e una statuina di marmo ritrovata a Costanza (finora l'unica rappresentazione scolpita di Glicone) dimostra, probabilmente, l'esistenza di un culto pubblico nell'antica Tomis.\nNel 160 l'oracolo poteva già vantare un protettore, il console Publio Mummio Sisenna Rutiliano, governatore dell'Asia, suo fervente seguace, che poi sposò anche la figlia di Alessandro (che il profeta diceva di aver avuto da Selene). Nel 166 godette di ulteriore fortuna quando, durante una epidemia, la formula magica «Febo dalle lunghe trecce dissiperà la nube della piaga» (citata da Luciano, ma testimoniata da un'iscrizione realmente rinvenuta ad Antiochia) era incisa sugli stipiti delle porte, per proteggere dalla malattia.\nDagli strati bassi della popolazione il culto raggiunse l'aristocrazia, grazie anche all'imperatore Marco Aurelio, che ne era un seguace; Luciano riporta un aneddoto secondo il quale l'oracolo, in occasione delle guerre marcomanniche, aveva promesso 'vittoria, gloria e pace' se due leoni fossero stati gettati vivi nel Danubio (l'oracolo prevedeva anche l'uso di spezie aromatiche e altri sacrifici); l'ordine fu eseguito, ma i romani furono pesantemente sconfitti, e Alessandro, per salvare la reputazione, affermò che Glicone aveva predetto la vittoria, ma non aveva detto per quale schieramento. Una vittima degli oracoli di Glicone fu Marco Sedazio Severiano, governatore della Cappadocia che, fidandosi di una predizione favorevole ricevuta dal dio, invase l'Armenia: dopo soli tre giorni le armate partiche sterminarono la sua legione, e Severiano si suicidò per evitare di cadere in mano al nemico.\nCrescendo di dimensioni, il culto si attirò le inimicizie di alcuni gruppi di persone, in particolare i cristiani e gli epicurei; in risposta, Alessandro proclamò che i nemici di Glicone dovevano essere lapidati (cosa che tentò di mettere in atto più di una volta). Istituì, inoltre, la celebrazione dei misteri di Glicone, copiando quelli eleusini: essi si aprivano con una condanna contro atei, cristiani ed epicurei e si concludevano con il 'matrimonio sacro' (ierogamia), in cui Alessandro e Rutilia, la moglie di un ufficiale romano, impersonando Endimione e Selene, amoreggiavano su un divano sotto gli occhi del marito di lei e del resto della folla. Stando sempre al resoconto di Luciano di Samosata, Alessandro avrebbe cercato di eliminare anche lo stesso Luciano, di ritorno da un incontro con il falso profeta cui dedicherà la sua opera omonima, pagando il capitano della nave su cui si era imbarcato affinché lo gettasse in mare; fato a cui lo scrittore scampò grazie all'onestà del capitano che, alla fine, rifiutò di eseguire il compito.\nAlessandro morì intorno al 170 (secondo Luciano divorato da una gangrena al piede) ma la messinscena da lui orchestrata gli sopravvisse per almeno un secolo, come dimostrato anche dal ritrovamento di oggetti legati al culto in tutta l'ampia zona compresa fra il Danubio e l'Eufrate. Alessandro, dopo la morte, fu riconosciuto come figlio di Podalirio e nipote di Asclepio e la sua figura associata a quella di Glicone. Il culto, inoltre, potrebbe essersi in parte ricollegato a quello di Sarapis, anch'esso talvolta rappresentato come un serpente con testa umana e identificato con Asclepio.
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### Titolo: Gorgades.\n### Descrizione: Le gorgadi o gorille sono esseri mitologici, parte dei popoli mostruosi, caratterizzati dal corpo interamente ricoperto di pelo.\nAbitavano alcune isole al largo della costa atlantica dell'Africa.
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### Titolo: Gorgoneion.\n### Descrizione: Nell'antica Grecia, il gorgoneion (in greco antico: Γοργόνειον?) era, in origine, un pendente orrorifico apotropaico che rappresentava la testa di una Gorgone. Il gorgoneion è associato sia a Zeus sia ad Atena, che secondo il mito lo hanno entrambi indossato come pendente. Era anche frequentemente presente sulle egide reali, come esemplifica il Cammeo Gonzaga.\n\nEvoluzione.\nOmero si riferisce alla Gorgone in quattro occasioni, ogni volta alludendo alla sola testa, come se la creatura fosse priva di corpo. La studiosa Jane Ellen Harrison scrive che 'Medusa è una testa e nulla più... una maschera con un corpo aggiunto successivamente'. Fino al V secolo a.C., la testa era raffigurata come particolarmente orribile, con una lingua sporgente, zanne di cinghiale, guance rigonfie, bulbi oculari fissi verso l'osservatore e serpenti attorcigliati intorno al volto.\nLo sguardo fisso frontale e diretto, 'apparentemente rivolto fuori dal suo contesto iconografico e direttamente sfidante l'osservatore', era fortemente innaturale nell'antica arte greca. In alcuni casi una barba (simboleggiante probabilmente strisce di sangue) era aggiunta al suo mento, facendola apparire come una divinità orgiastica affine a Dioniso.\nI gorgoneia che decorano gli scudi di guerrieri su vasi greci della metà del V secolo sono considerevolmente meno grotteschi e minacciosi. Entro quell'epoca, la Gorgone aveva perso le sue zanne e i serpenti erano piuttosto stilizzati. Il marmo ellenistico noto come la Medusa Rondanini illustra la trasformazione finale della Gorgone in una bella donna..\n\nUso.\nI gorgoneia appaiono per la prima volta nell'arte greca al volgere dell'VIII secolo a.C. Una delle più antiche rappresentazioni è su uno statere di elettro scoperto durante degli scavi presso Pario. Altri esempi degli inizi dell'VIII secolo furono trovati a Tirinto. Se andiamo ancora più indietro nella storia, c'è un'immagine simile proveniente dal palazzo di Cnosso, databile al XV secolo a.C. Marija Gimbutas sostiene addirittura che 'la Gorgone risale almeno al 6000 a.C., come illustra una maschera in ceramica proveniente dalla cultura di Sesklo'.Nel VI secolo, i gorgoneia di tipo canonico 'a maschera di leone' erano ubiquitari sui templi greci, specialmente a e intorno a Corinto. I gorgoneia sui frontoni erano comuni in Sicilia; la più antica occorrenza essendo probabilmente nel Tempio di Apollo a Siracusa. Intorno al 500 a.C., cessarono di essere usati per la decorazione di edifici monumentali, ma erano ancora presenti sulle antefisse di strutture più piccole per tutto il secolo successivo.A parte i templi, le immagini della Gorgone sono presenti su vestiti, piatti, armi e monete ritrovate in tutta la regione mediterranea dall'Etruria alla costa del Mar Nero. Le monete con la Gorgone erano coniate in 37 città, rendendo la sua immagine sulle monete seconda come ubiquità numismatica soltanto ai vari principali dei dell'Olimpo. Sui pavimenti a mosaico, il gorgoneion era di solito raffigurato accanto alla soglia, come se la proteggesse da intrusi ostili; sulle fornaci attiche, il gorgoneion sopra la porta della fornace proteggeva dagli incidenti.Le immagini della Gorgone rimasero popolari anche nei tempi cristiani, specialmente nell'Impero bizantino, compreso la Rus' di Kiev, e furono riportate in auge in Occidente dagli artisti del Rinascimento italiano. Sono documentati studi di Leonardo e il Caravaggio realizzò dei celebri gorgoneia realisticamente dipinti su scudi di legno.\nIn tempi più recenti, il gorgoneion fu adottato da Gianni Versace come logo per la sua società di moda.\n\nOrigine.\nSecondo la Gimbutas, i gorgoneia rappresentano certi aspetti del culto della Dea Madre associato all''energia dinamica della vita'. Ella definisce il gorgoneion come un'immagine quintessenzialmente europea. Jane Ellen Harrison, d'altro canto, afferma che molte culture primitive usano maschere rituali simili per dissuadere il proprietario con la paura dal fare qualche cosa di sbagliato, o, come lo chiama lei, per fargli la faccia brutta: 'Prima viene l'oggetto rituale; poi si genera il mostro per giustificarlo; poi si fornisce l'eroe per giustificare l'uccisione del mostro'.\n\nGalleria d'immagini.
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### Titolo: Gortina (città antica).\n### Descrizione: Gortìna (in greco antico: Γόρτυν o Γόρτυνα?, Górtyn o Górtyna) era una polis greca situata sull'isola di Creta.\n\nStoria.\nGortina fu fondata secondo Pausania dagli abitanti di Tegea, antica città dell'Arcadia.\nStrabone, rifacendosi a Eforo, riferisce di una tradizione Laconica, legata quindi alla città di Sparta. Anche Conone attribuì la sua fondazione ad abitanti della Laconia, in particolare ad Achei espulsi da Amicle e Minii di Lemno e Imbro.\nGli scavi (condotti già dagli anni 1884-1887 dalla missione archeologica italiana sotto la guida di Federico Halbherr, e più tardi dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene) hanno dimostrato che il sito era già abitato nel Neolitico e in epoca minoica. Fra le scoperte italiane, fondamentale per la conoscenza della società dell'antica Grecia, è una grande iscrizione in lingua greca (dorica) della fine del VI e l'inizio del V secolo a.C., contenente le cosiddette 'Leggi di Gortina' riguardanti principalmente il diritto di famiglia.\nIl nome della città è riferito nell'Iliade e nell'Odissea. La fondazione di Gortina è ascrivibile al periodo geometrico del VII secolo a.C., epoca cui risalgono le prime iscrizioni e i primi templi. Nel III secolo a.C. Gortina era diventata una città potente, specialmente dopo la distruzione della rivale Festo, avvenuta intorno al 150 a.C., conquista che le aveva valso anche il controllo del porto di Matala e della parte occidentale della Messarà.\nNel 221 a.C. scoppiò una guerra civile a causa del contrasto che opponeva una fazione che voleva un'alleanza con Cnosso ad un'altra che preferiva un'alleanza con la città di Lyttos. Seguì una serie di conflitti con Cnosso cui pose fine la conquista romana dell'isola di Creta, avvenuta nel 68 a.C. Gortina divenne la capitale della nuova provincia di Creta e della Cirenaica. La città andò incontro ad una forte crisi e fu probabilmente abbandonata nell'VIII secolo, infatti quando i Saraceni conquistarono l'isola nell'864 d.C. mossero la capitale a Chandax.
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### Titolo: Grandi Dei.\n### Descrizione: Grandi Dei è la traduzione italiana del greco Μεγαλοι θεοι, divenuto in lingua latina Di Magni.\n\nL'appellativo indica gruppi di divinità arcaiche, di varia composizione e provenienza, che compaiono in molte culture mediterranee.\nIl più noto dei luoghi di culto dei Grandi Dei è il Santuario dei grandi dei di Samotracia, in Grecia, caratterizzato dalle imponenti mura del VI secolo a.C. e che presenta, nella parte nord, le rovine del palazzo dove si celebravano i riti d’iniziazione di un misterioso culto orientale, quello dei Cabri, divinità legate alla fertilità e al mare. Il Museo Archeologico di Paleopolis raccoglie, fra i vari reperti archeologici, anche una copia della famosa statua di Nike il cui originale è conservato al Louvre di Parigi.\n\nFonti letterarie ed epigrafiche.\nSotto questa denominazione erano adorati soprattutto Dioscuri, Cabiri (Καβειροι, beot. e più tardi Καβιροι, di qui in avanti = Cabiri) e i Grandi Dei di Samotracia, ma sovrapposizioni e fusioni possono osservarsi in rapporto a Anaci, Dattili, Coribanti, Cureti, Penati e Telchini. Sull'identità e perfino sui nomi di questi gruppi di dei esisteva incertezza già tra gli autori antichi, così come è dubbio il significato della parola greca.\nLe attestazioni bibliografiche più antiche conosciute al riguardo, sono del V secolo a.C.:.\n\nuna tragedia di Eschilo dal titolo Cabiri, nella quale le avventure degli Argonauti venivano ambientate nell'isola di Lemnos, fu rappresentata nel 466 a.C. circa. In essa i Cabiri compaiono come demoni offerenti vino.\nErodoto nelle Storie (II,51) afferma, circa l'isola di Samotracia, che i suoi abitanti avevano recepito il culto misterico dei Cabiri dai Pelasgi. Ai Pelasgi apparteneva un culto di Ermes itifallico, che si presume connesso ai culti di Samotracia.\nAnche Stesimbroto il Tasio definisce Cabiri gli dèi dei misteri samotraci, che tuttavia nelle iscrizioni sull'isola vengono identificati solo come Megaloi Theoi o Samotrakes Theoi (Grandi Dei o Dei di Samotracia): nomi generici, come si vede, che insieme all'essere i Cabiri una divinità 'multipla' fanno pensare a divinità arcaiche proprio in quanto poco individualizzate. L'uso del termine Grandi Dei è dominante dall'epoca ellenistica.Le funzioni dei Grandi Dei di Samotracia, come attestano numerose fonti, sono anzitutto relative alla protezione dei propri iniziati dalle tempeste. Anche a Pergamo, dove si diceva avessero assistito alla nascita di Zeus, si attribuiva loro il potere di mitigare i venti forti, e i marinai sembrano per questo motivo aver costituito una parte rilevante dei loro fedeli.\nSono presentati anche come fabbri, connessi per discendenza a Efesto, ed erano presenti in culti connessi alla fecondità. A Tessalonica, in particolare, un Cabiro (che un mito descriveva come ucciso dai due fratelli e la cui testa, incoronata, si diceva seppellita sull'Olimpo) compare in un'iscrizione quale protettore della città.\n\nCulti attestati.\nIl culto dei Grandi Dei di Samotracia era tra i culti misterici più importanti dei suoi tempi e si diffuse molto lontano dall'isola. Mantenne però, anche, la caratteristica di culto nazionale macedone.\nTuttavia il numero e i nomi dei Cabiri variano nelle tradizioni:.\n\nMnasea di Patera, nel II secolo a.C., ne nomina 4;.\nDionisodoro cita un Cabiro Casmilo che identifica con Ermes;.\nA Tebe veniva onorato un vecchio Cabiro insieme con un bambino dagli attributi di coppiere, “Pais”, come dimostrato da un frammento di vaso, confermato da iscrizioni, proveniente dal Kabeiron di Tebe.\nA Delo i Cabiri sono presenti almeno dalla fine del IV secolo a.C. (IGXI 2, 144).\nA partire dal II secolo a.C. i Cabiri veri e propri, i Megaloi Theoi, e i Samotrakes Theoi si legano nel culto ai Dioscuri, come è confermato in iscrizioni del Samothrakeion.\nStrabone indica quali maggiori luoghi di culto dei Cabiri, accanto a Lemnos e Imbro, anche alcune città della Troade, senza però nominarle.Dionigi di Alicarnasso sosteneva che Enea aveva portato con sé in Italia i simulacri dei Grandi Dei di Samotracia, e riferiva che gli Etruschi praticavano il culto dei Cabiri.\nPer questa via i Grandi Dei si installarono a Roma come componenti primarie e primitive del Pantheon romano, assumendo varie personificazioni: Penati (identificati in questo caso con Giove, Giunone, Minerva e Mercurio), Dioscuri, Cadmili.
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### Titolo: Grazione.\n### Descrizione: Grazione era un gigante, figlio di Gea e Tartaro, che partecipò alla guerra tra Dei e Giganti suoi alleati, chiamata Gigantomachia. Combatté contro Artemide, ma venne sconfitto da lei e Eracle.\nEgli infatti, come tutti i giganti, doveva essere sconfitto da un dio e un semidio uniti.\nRispetto ai suoi fratelli era basso, ma aveva grandi capacità con l'arco e un potere sulla luce lunare.\nVenne esiliato sotto l'Etna o, secondo alcune versioni, nel Tartaro, insieme ai suoi fratelli.
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### Titolo: Greco (mitologia).\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Greco era uno dei figli del dio Zeus e della mortale Pandora, ed eponimo dei Greci. Era il fratello di Latino, eponimo dei latini.\nDiscendente di Deucalione, fu, secondo la mitologia, uno degli antenati degli Elleni, assieme ai cugini Eolo, Doro, Ione, Acheo, Magnete e Macedone.\nNell'antica Grecia il termine 'greco' si riferiva in realtà soltanto a una delle tribù dei più ampio popolo degli Elleni, e il personaggio va quindi visto come antenato ed eponimo di questa specifica tribù. I Greci, probabilmente originari della Beozia, furono tra i principali colonizzatori della Magna Grecia, che da loro prese il nome, e furono perciò, tra le tribù elleniche, quella che ebbe maggiori contatti con i latini. Da questa vicinanza originò il termine 'greci' con cui in seguito furono conosciuti tutti i popoli ellenici, nella lingua latina e di conseguenza nella maggior parte delle lingue europee moderne.
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### Titolo: Grotta di Melissani.\n### Descrizione: La grotta di Melissani (in greco moderno: Μελισσάνη), conosciuta anche come lago di Melissani, è una grotta carsica sull'isola di Cefalonia, in Grecia. Si trova vicino al villaggio di Karavomilos, circa 2 km a nord ovest di Sami e circa 5 a sud est di Agia Effimia.\nDimenticata per secoli, la grotta è stata riscoperta nel 1951 dallo speleologo Giannis Petrohilos; è lunga 160 metri, larga 40 e alta 36 metri. All'interno contiene un lago, lungo 60 metri, largo 40 e profondo fino a a 39 metri, con una temperatura dell'acqua di circa 10°.\nLe stalattiti risalgono dai 16.000 ai 20.000 anni fa. Al centro del lago, dove inizia la parte coperta della grotta, c'è un'isoletta di 30 metri di lunghezza, alta circa 9 metri.\nLa grotta può essere visitata sia con barche a remi, sia a piedi attraverso un corto tunnel pedonale che scende fino alle sponde del lago interno alla grotta, il cui soffitto è in parte crollato a seguito del terremoto di Cefalonia del 1953, il che la rende scenograficamente ancor più attraente, con la luce proveniente dall'apertura che divide la grotta in due zone, una illuminata dalla luce diurna e l'altra buia (quest'ultima particolarmente ricca di alghe e stalagmiti).\nParticolarmente scenografico è anche l'ingresso della grotta, sul quale crescono piante, e caratterizzato dal colore della roccia simile a quello del mieleSecondo la mitologia greca la ninfa Melissani, delusa dall'amore non corrisposto verso il dio Pan, si suicidò, cadendo nelle acque del lago. L'acqua, dolce e salata insieme (in quanto il lago è collegato anche con il mare), la ricchezza di decorazioni stalattitiche e stalagmitiche, i ritrovamenti effettuati nella grotta che attestano che essa fu un tempio dedicato a Pan, un satiro divinizzato al nome del quale si tenevano qua riti orgiastici, rendono questo luogo, situato in un minuscolo villaggio di pescatori, davvero surreale.
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### Titolo: Gruppo del Laocoonte.\n### Descrizione: Il gruppo scultoreo di Laocoonte e i suoi figli, noto anche semplicemente come Gruppo del Laocoonte, è una copia romana in marmo di una scultura ellenistica della scuola rodia, (h 242 cm) conservata, nel Museo Pio-Clementino dei Musei Vaticani, nella Città del Vaticano. Raffigura il famoso episodio narrato nell'Eneide che mostra il sacerdote troiano Laocoonte e i suoi figli assaliti da serpenti marini.\n\nStoria.\nStoria antica e datazione.\nPlinio raccontava di aver visto una statua del Laocoonte nella casa dell'imperatore Tito, attribuendola a tre scultori provenienti da Rodi: Agesandro, Atenodoro e Polidoro. Scrive Plinio:.\n\nLa tradizionale identificazione della statua dei Musei Vaticani con quella descritta da Plinio è ancora generalmente accettata, visto anche che la residenza privata di Tito si doveva trovare proprio sul colle Oppio, dove la statua venne poi ritrovata. Accettata è anche l'attribuzione ai tre artisti della scuola rodia, autori anche del gruppo statuario con l'episodio di Ulisse e Polifemo, della grotta presso la villa di Tiberio a Sperlonga.\nVarie date sono state proposte per questa statua, oscillanti tra metà del II secolo a.C. alla metà del I secolo d.C.; Bernard Andreae, in alcuni studi, ha ipotizzato che il Laocoonte sia una copia di un originale bronzeo ellenistico, come dimostrerebbero alcuni dati tecnici e stilistici. Sulla parte posteriore della statua si trova infatti del marmo lunense, non utilizzato prima della metà del I secolo a.C., inoltre alcuni dettagli rimandano inequivocabilmente alla fusione a cera persa: ad esempio il mantello che ricade sulla spalla del giovane a destra fino a toccargli il ginocchio deriva quasi certamente da un espediente tecnico necessario a costituire un passaggio per il metallo fuso. Si è ipotizzato che l'originale fosse stato creato a Pergamo, come suggeriscono alcuni confronti stilistici con opere della scuola locale: i pacifici rapporti tra la città dell'Asia minore e Roma erano infatti rafforzati dai miti legati a Troia, dai quali discendevano le leggende di fondazione di entrambe le città.\nPlinio comunque attesta la presenza a Roma della statua marmorea a metà del I secolo d.C. attribuendola a scultori attivi un secolo prima. Infatti alcune iscrizioni trovate a Lindo, sull'isola di Rodi fanno risalire la presenza a Roma di Agesandro e Atenodoro a un periodo successivo al 42 a.C., e in questo modo la data più probabile per la creazione del Laocoonte deve essere compresa tra il 40 e il 20 a.C., per una ricca casa patrizia, o più probabilmente per una committenza imperiale (Augusto, Mecenate), anche se il Laocoonte sembra lontano dallo stile neoattico in auge nel periodo. Visto il luogo di ritrovamento è anche possibile che la statua sia appartenuta, per un periodo, a Nerone.\n\nIl ritrovamento.\nLa statua fu trovata il 14 gennaio del 1506 scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de Fredis (antenato di Pierre De Coubertin), nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone: l'epitaffio sulla tomba di Felice de Fredis in Santa Maria in Aracoeli ricorda l'avvenimento. Allo scavo, di grandezza stupefacente secondo le cronache dell'epoca, assistettero di persona, tra gli altri, lo scultore e pittore Michelangelo e l'architetto Giuliano da Sangallo. Questi era stato inviato dal papa a valutare il ritrovamento, secondo la testimonianza di Francesco, giovane figlio di Giuliano (che, ormai anziano, ricorda l'episodio in una lettera del 1567). Secondo questa testimonianza fu proprio Giuliano da Sangallo a identificare i frammenti ancora parzialmente sepolti con la scultura citata da Plinio esclamando 'Questo è Hilaoconte, che fa mentione Plinio'. Esistono comunque testimonianze coeve che danno la stessa identificazione della scultura appena rinvenuta.\n\nLa collocazione al Belvedere.\nLa statua fu acquistata subito dopo la scoperta dal papa Giulio II, che era un appassionato classicista, e fu sistemata, in posizione di rilievo, nel cortile ottagonale ('Cortile delle Statue') progettato da Bramante all'interno del complesso del Giardino del Belvedere proprio per accogliere la collezione papale di scultura antica.\nTale allestimento è considerato l'atto fondativo dei Musei Vaticani. Da allora il Laocoonte, assieme all'Apollo del Belvedere, costituì il pezzo più importante della collezione, e fu oggetto dell'incessante successione di visite, anche notturne, da parte di curiosi, artisti e viaggiatori.\n\nRestauri e integrazioni.\nQuando il gruppo scultoreo fu scoperto, benché in buono stato di conservazione, presentava il padre e il figlio minore entrambi privi del braccio destro. Dopo un primo ripristino, forse eseguito da Baccio Bandinelli (che ne eseguì una delle prime copie, intorno al 1520, oggi agli Uffizi, per Giulio de' Medici), del braccio del figlio minore e di alcune dita del figlio maggiore, artisti ed esperti discussero su come dovesse essere stata la parte mancante nella raffigurazione del sacerdote troiano. Nonostante alcuni indizi mostrassero che il braccio destro fosse, all'origine, piegato dietro la spalla di Laocoonte, prevalse l'opinione che ipotizzava il braccio esteso in fuori, in un gesto eroico e di forte dinamicità. L'integrazione fu eseguita in terracotta da Giovanni Angelo Montorsoli e il restauro ebbe un successo duraturo tanto che il Winckelmann, pur consapevole della diversa posizione originaria, si dichiarò favorevole al mantenimento del braccio teso.\nIntanto, tra il 1725 e il 1727, Agostino Cornacchini eseguì un restauro del gruppo scultoreo che versava in condizioni di degrado. Vennero sostituiti il braccio di terracotta del Laocoonte e quello in marmo del figlio, evidentemente rovinati, con altri dall'identica posa.\nLa statua fu confiscata e portata a Parigi da Napoleone il 27 e 28 luglio 1798 con il Trattato di Tolentino come oggetto delle spoliazioni napoleoniche. Fu sistemata nel posto d'onore nel Museo del Louvre dove divenne una delle fonti d'ispirazione del neoclassicismo in Francia. Con la Restaurazione, fu riportata in Vaticano nel 1815, sotto la cura di Antonio Canova e nuovamente restaurata.\nNel 1906 l’archeologo praghese Ludwig Pollak rinvenne fortuitamente il braccio destro originario di Laocoonte nella bottega di uno scalpellino romano, che si presentava piegato, come Michelangelo aveva immaginato: l’arto, acquistato dall'archeologo stesso, fu donato poco dopo al Vaticano e ricollocato alla spalla solo nel 1959, da Filippo Magi, che rimosse tutte le integrazioni non originali, secondo i princìpi del restauro moderno.\n\nInfluenza culturale.\nLa scoperta del Laocoonte ebbe enorme risonanza tra gli artisti e gli scultori e influenzò significativamente l'arte rinascimentale italiana e nel secolo successivo la scultura barocca. Straordinaria fu infatti l'attenzione suscitata dalla statua, e se ne trova traccia nelle numerose lettere degli ambasciatori che la descrivono, nei disegni e nelle incisioni che subito dopo incominciarono a circolare per l'Europa. Il forte dinamismo e la plasticità eroica e tormentata del Laocoonte ispirò numerosi artisti, da Michelangelo a Tiziano, da El Greco ad Andrea del Sarto.\nMichelangelo ad esempio fu particolarmente impressionato dalla rilevante massa della statua e dal suo aspetto sensuale, in particolare nella rappresentazione delle figure maschili. Molti dei lavori di Michelangelo successivi alla scoperta, come lo Schiavo ribelle e lo Schiavo morente, furono influenzati dal Laocoonte. Molti scultori si esercitarono sul gruppo scultoreo facendone calchi e copie anche a grandezza naturale. Inoltre, Raffaello Sanzio ne prenderà spunto per disegnare la torsione visibile nella Pala Baglioni.\nIl re di Francia insistette molto per avere la statua dal papa o almeno una sua copia. A tal fine, lo scultore fiorentino Baccio Bandinelli ricevette l'incarico dal cardinale Giulio de' Medici, futuro papa Clemente VII, di farne una copia, oggi conservata agli Uffizi. Il re di Francia, però, dovette accontentarsi di inviare, intorno al 1540, lo scultore Francesco Primaticcio a Roma per realizzare un calco al fine di ricavarne una copia in bronzo destinata a Fontainebleau. Un'altra copia si trova nel Gran Palazzo dei Cavalieri di Rodi a Rodi. Una copia in gesso, appartenuta al Mengs, si trova nell'Accademia di belle arti di Roma.\nIl fascino della scultura coinvolse per secoli artisti e intellettuali come Gian Lorenzo Bernini, Orfeo Boselli, Winckelmann e Goethe, diventando il fulcro della riflessione settecentesca sulla scultura. La tragica mobilità di questa statua è uno dei temi del saggio Laokoön, di Lessing, uno dei primi classici di critica dell'arte.\n\nDescrizione e stile.\nIl gruppo statuario raffigura la morte di Laocoonte e dei suoi due figli Antifate e Timbreo mentre sono stritolati da due serpenti marini, come narrato nel ciclo epico della guerra di Troia, ripreso successivamente nell'Eneide da Virgilio, in cui è descritto l'episodio della vendetta di Atena, che desiderava la vittoria degli Achèi, sul sacerdote troiano di Apollo, che cercò di opporsi all'ingresso del cavallo di Troia nella città.\nLa sua posa è instabile perché nel tentativo di liberarsi dalla morsa dei serpenti, Laocoonte richiama tutta la sua forza, manifestando con la più alta intensità drammatica la sua sofferenza fisica e spirituale. I suoi arti e il suo corpo assumono una posa pluridirezionale e in torsione, che si slancia nello spazio. L'espressione dolorosa del suo viso unita al contesto e la scena danno una resa psicologica caricata, quasi teatrale, come tipico delle opere del 'barocco ellenistico'. La resa del nudo mostra una consumata abilità, con l'enfatica torsione del busto che sottolinea lo sforzo e la tensione del protagonista. Il volto è tormentato da un'espressione pateticamente corrucciata. Il ritmo concitato si trasmette poi alle figure dei figli. I lineamenti stravolti del viso di Laocoonte, la sua corporatura massiccia si contrappongono alla fragilità e alla debolezza dei fanciulli che implorano, impotenti, l'aiuto paterno: la scena suscita commozione ed empatia nell'animo di chi guarda.\nLa statua è composta da più parti distinte, mentre Plinio, in effetti, descrisse una scultura ricavata da un unico blocco marmoreo (ex uno lapide). Tale circostanza ha creato sempre molti dubbi di identificazione e attribuzione.\n\nGalleria d'immagini.
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### Titolo: Guerra di Troia.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, la guerra di Troia fu una sanguinosa guerra combattuta tra gli Achei e la potente città di Troia, presumibilmente attorno al 1250 a.C. o tra il 1194 a.C. e il 1184 a.C. circa, nell'Asia minore.\nGli eventi del conflitto sono noti principalmente attraverso i poemi epici Iliade ed Odissea attribuiti ad Omero, composti intorno al IX secolo a.C. Entrambi narrano una piccola parte del conflitto: l'Iliade i fatti avvenuti durante l'ultimo anno di guerra, l'Odissea, oltre al viaggio di Odisseo per tornare in patria, narra la conquista di Troia. Le altre opere del 'Ciclo Troiano' sono andate perdute e sono conosciute solo tramite testimonianze posteriori. Singoli episodi sono infatti descritti in innumerevoli testi della letteratura greca e latina, e dipinti o scolpiti in numerose opere d'arte.\nSecondo l'Iliade, la guerra ebbe inizio a causa del rapimento di Elena, regina di Sparta, ritenuta la donna più bella del mondo, per mano di Paride, figlio di Priamo re di Troia. Menelao, marito di Elena, e il fratello Agamennone radunarono un esercito, formato dai maggiori comandanti dei regni greci e dai loro sudditi, muovendo guerra contro Troia.\nIl conflitto durò dieci anni, con gravissime perdite da entrambi gli schieramenti. Fra le vittime vi fu Achille, il più grande guerriero greco, figlio del re Peleo e della ninfa Teti. Achille era re dei Mirmidoni di Ftia, che condusse in molte battaglie contro Troia, venendo infine ucciso da Paride che, per vendicare la morte del fratello Ettore, lo colpì con una freccia al tallone, suo unico punto debole. Troia infine cadde grazie all'astuto Odisseo, re dei Cefalleni, e al suo piano del cavallo di legno, cambiando l'esito del conflitto.\nÈ ancora oggetto di studi e di controversie la questione della veridicità storica degli avvenimenti della guerra di Troia. Alcuni studiosi pensano che vi sia un fondo di verità dietro i poemi di Omero, altri pensano che l'antico poeta abbia voluto raggruppare in un unico conflitto, quello fra Greci e Troiani, le vicende di guerre e assedi diversi succedutisi nel periodo della civiltà micenea.\nI due poemi hanno comunque reso possibile la scoperta delle presumibili mura di Troia, collocando cronologicamente la guerra verso la fine dell'età del bronzo, intorno al 1300 - 1200 a.C., in parte confermando la datazione di Eratostene di Cirene.\n\nLe origini della guerra.\nIl piano di Zeus.\nZeus si era accorto che la Terra era troppo popolata. Inizialmente voleva distruggere l'umanità con fulmini e inondazioni, poi su consiglio di Momo, il dio degli scherzi, o di Temi, decise invece di favorire il matrimonio di Teti e Peleo, gettando così il seme della guerra di Troia, che avrebbe portato alla fine del regno degli eroi. C'è anche chi sostiene che Zeus vedesse in molti guerrieri dei potenziali usurpatori del trono di capo degli olimpi. Come racconta la mitologia greca, Zeus era diventato re degli dei detronizzando Crono, il quale a sua volta aveva preso il posto di suo padre Urano. Memore di quanto possa essere crudele la propria progenie, Zeus, che aveva avuto molti figli dalle sue tante relazioni con donne mortali, ne aveva timore: e più in generale temeva l'intera categoria dei semidei.\n\nIl matrimonio fra Peleo e Teti.\nZeus venne a sapere da Temi o da Prometeo che un figlio avrebbe potuto detronizzarlo, proprio come lui aveva fatto col padre. Un'altra profezia aveva inoltre predetto che la ninfa Teti, con cui Zeus tentava di avere una relazione, avrebbe generato un figlio che sarebbe diventato più grande del padre. Per queste ragioni Teti sposò un re mortale molto più vecchio di lei, Peleo. Fece questo o per ordine di Zeus o perché non voleva fare uno sgarbo ad Era che l'aveva allevata da bambina.\nTutti gli dei vennero invitati al matrimonio di Peleo e Teti eccetto Eris, la dea della discordia, che fu fermata alla porta da Ermes per ordine di Zeus stesso (secondo alcune versioni, Zeus si era messo d'accordo con Eris). Sentendosi insultata, la dea andò su tutte le furie e gettò nel bel mezzo della tavolata una mela d'oro con la scritta «Τῇ καλλίστῃ (traslitterato Tê Kallístē)» (alla più bella). Era, Atena e Afrodite pensavano spettasse loro di diritto possedere la mela e cominciarono a litigare fra di loro. Nessuno degli dei tentò di favorire con la propria opinione una delle tre dee per non inimicarsi le altre due. Zeus ordinò quindi a Ermes di condurre le tre dee dal pastore Paride, in realtà un principe troiano, ignaro della sua discendenza reale, che era stato abbandonato appena nato sul Monte Ida poiché un sogno premonitore aveva profetizzato che egli sarebbe stato la causa della rovina di Troia..\nLe dee apparvero al giovane nude e siccome Paride non era in grado di dare un giudizio, le tre divinità promisero al giudice dei doni. Atena gli offrì la saggezza, l'abilità bellica, il valore dei guerrieri più potenti, Era il potere politico e il controllo su tutta l'Asia, Afrodite l'amore della donna più bella del mondo, Elena di Sparta. Paride diede la mela ad Afrodite. Le due dee che avevano perso andarono via desiderose di vendetta.\nIl giovane si recò in seguito in città, a Troia, perché gli araldi di Priamo avevano portato via il suo toro migliore per darlo in premio al vincitore di alcune gare sportive organizzate dal re. Paride partecipò ai giochi atletici e sconfisse i nobili rampolli di Troia, vincendo di conseguenza il proprio toro. I giovani troiani, umiliati, volevano ucciderlo ma Cassandra, figlia veggente del re Priamo, riconobbe in lui il fratello perduto. Priamo decise allora di accettarlo nella famiglia reale, sebbene Cassandra avesse consigliato di non farlo.\nDall'unione fra Peleo e Teti nacque un bambino, Achille. L'oracolo predisse che sarebbe morto o vecchio a causa della maturità in una vita tranquilla e priva di imprese, o giovane sul campo di battaglia guadagnando l'immortalità attraverso la poesia degli aedi. Teti tentò di rendere immortale il figlio, provando dapprima a bruciarlo nel fuoco durante la notte, per eliminare le sue parti mortali, e poi a strofinarlo con ambrosia durante il giorno. Peleo, che aveva già perso sei figli in questa maniera, riuscì a fermarla. Teti lo bagnò allora nelle acque del fiume Stige, facendolo diventare immortale, salvo che nel tallone per il quale lo aveva tenuto, sua unica parte vulnerabile (se un Dio tocca le acque dello Stige, perde la sua immortalità).\n\nIl rapimento di Elena.\nLa più bella donna del mondo era Elena, una delle figlie di Tindaro, re di Lacedemone (la futura Sparta). Sua madre era Leda che venne sedotta o stuprata da Zeus sotto forma di cigno. Leda partorì così quattro gemelli, due maschi e due femmine. Castore e Clitemnestra erano figli di Tindaro, Elena e Polluce di Zeus. Secondo un'altra versione del mito,, Elena era figlia di Nemesi, la vendetta. Quando giunse in età da marito Elena attirò alla corte del padre una moltitudine di pretendenti desiderosi di prenderla in sposa. Tindaro non sapeva chi scegliere per non offendere così gli altri.\nInfine uno dei pretendenti, Odisseo, propose un piano per risolvere il dilemma, in cambio dell'appoggio di Tindaro per farlo sposare con la nipote Penelope, figlia del fratello di lui Icario. Elena avrebbe dovuto scegliere il marito. Secondo un'altra tradizione Odisseo propose di fare un sorteggio o secondo un'altra, più accreditata, era il padre a scegliere il marito per la sposa (come farà poi Agamennone per ingannare Ifigenia e portarla in Aulide). Vennero inoltre costretti tutti i pretendenti a giurare di difendere il matrimonio di Elena, qualunque marito venisse scelto. I giovani giurarono sacrificando i resti di un cavallo. Di certo non mancarono i borbottii di alcuni.Venne scelto come marito Menelao. Quest'ultimo non si era presentato come pretendente alla reggia ma aveva mandato il fratello Agamennone in suo nome. Aveva promesso un'ecatombe di 100 buoi ad Afrodite se avesse avuto in moglie Elena ma, non appena seppe di essere lui il prescelto, dimenticò la promessa fatta, causando l'ira della dea. Agamennone e Menelao vivevano in quel periodo alla corte di Tindaro perché esiliati da Micene, loro terra natia, dallo zio Tieste e dal cugino Egisto, dopo la morte del padre Atreo, ucciso dallo stesso Tieste. Menelao ereditò dunque il trono di Sparta da Tindaro poiché gli unici suoi figli maschi, Castore e Polluce, erano stati assunti fra le divinità. Agamennone sposò in seguito Clitemnestra, sorella di Elena, e scacciò Egisto e Tieste da Micene, riprendendosi così il trono del padre.Durante una missione diplomatica (il recupero della zia Esione rapita da Eracle) Paride si recò a Sparta e si innamorò della bella Elena. Enea, nobile figlio di Afrodite e Anchise, re dei Dardani, accompagnava Paride. Durante il loro soggiorno a Sparta, Menelao dovette recarsi a Creta per i funerali di Catreo, il nonno materno (in quanto padre di sua madre Erope). Paride, sotto influsso di Afrodite, riuscì a sedurre Elena e a partire con lei verso Troia, nonostante i rimproveri di Enea, portando con sé il ricco tesoro di Menelao. Era, ancora adirata con Paride, mandò contro di lui una tempesta, costringendolo a sbarcare in Egitto, ma alla fine Elena giunse a Troia. La nave arrivò poi a Sidone, dove Paride, timoroso di essere catturato da Menelao, passò diverso tempo prima di tornare in patria.\n\nL'adunata in Aulide.\nMenelao, tornato a Sparta e scoperto il ratto della moglie, inviò un'ambasceria a Troia per chiederne la restituzione, ma ricevette un rifiuto: nell'assemblea dei Troiani era prevalsa infatti la linea dura, portata avanti da Paride e Antimaco, consigliere di re Priamo. Gli Atridi decisero pertanto di ricorrere al giuramento fatto dai pretendenti in onore di Elena per radunare un esercito e attaccare i Troiani, affidando tale messaggio al savio Nestore, re di Pilo.\n\nOdisseo e Achille.\nOdisseo, qualche tempo prima, si era sposato con Penelope da cui aveva avuto un figlio, Telemaco. Per evitare la guerra si finse pazzo e cominciò a seminare sale per i campi e la spiaggia. Palamede, il re di Nauplia, mandato ad Itaca per convincerlo, prese Telemaco e lo posizionò nel solco su cui sarebbe dovuto passare Odisseo che, non volendo uccidere il figlio, girò da un'altra parte, rivelando però così di essere ancora sano di mente.Achille invece era stato nascosto dalla madre a Sciro, mascherato con abiti femminili per non farlo riconoscere agli araldi mandati da Agamennone. Egli si era già unito in matrimonio con Deidamia, figlia del re, e da questa unione era nato Neottolemo, detto anche Pirro. Aiace Telamonio, cugino di Achille, il suo vecchio precettore Fenice e soprattutto Odisseo, travestiti da mercanti (secondo altri vi era solo Odisseo, o Odisseo e Diomede), si recarono nella reggia di Sciro per scovare il giovane figlio di Peleo. Vi sono due tradizioni sul riconoscimento dell'eroe. Secondo la prima, Odisseo suonò un corno, segno di un attacco nemico, ed Achille, anziché fuggire come fecero le figlie del re, afferrò una lancia per affrontare i nemici e venne riconosciuto. Nella seconda tradizione, la più famosa, Odisseo portava con sé un cesto con degli ornamenti femminili e una spada bellissima. Achille non osservò i gioielli ma guardò la stupenda arma e per questo venne scoperto e condotto al campo acheo. Secondo Pausania, Achille non si nascose a Sciro perché l'isola venne poi conquistata durante la guerra di Troia dall'eroe stesso.Le forze achee si radunarono dunque nel porto di Aulide, in Beozia. Tutti i pretendenti spedirono i propri eserciti eccetto re Cinira di Cipro, che invece di spedire le cinquanta navi promesse, spedì ad Agamennone delle corazze, di cui soltanto una vera, mentre le altre erano di fango. Idomeneo, re di Creta, invece era disposto a schierare l'esercito cretese solo a patto che avesse potuto condurre con sé un vice comandante, il nipote Merione. L'ultimo comandante ad arrivare fu Achille, che allora aveva soltanto quindici anni. Mentre i re sacrificavano ad Apollo, per garantire il proprio giuramento, un serpente divorò gli otto piccoli di un nido di passeri e in seguito mangiò anche la madre. Secondo Calcante questo evento era un responso divino, la guerra sarebbe durata per dieci anni.\n\nTelefo.\nLe navi salparono ma vi fu un errore di rotta e gli Achei sbarcarono in Misia, dove regnava Telefo, figlio di Eracle, il quale disponeva, oltre che degli uomini di Misia, anche di un contingente dall'Arcadia, essendo infatti proveniente da questa regione.Durante la battaglia i Greci riuscirono a conquistare Teatrante, capitale del regno, e Achille, con la sua lancia, ferì Telefo, dopo che questo aveva ucciso Tersandro, re di Tebe. Salvatosi dallo scontro, Telefo si recò a Delfi per sapere come poter guarire dalla ferita che non intendeva rimarginarsi e gli provocava terribili dolori. L'oracolo rispose che lo stesso feritore l'avrebbe guarito.\nLa flotta achea tornò dunque in Grecia e Achille fece ritorno a Sciro, dove sposò Deidamia. Le forze greche furono dunque radunate una seconda volta. Telefo si recò in Aulide, travestito da mercante, e chiese ad Agamennone di poter essere guarito o, secondo un'altra tradizione, prese in ostaggio il piccolo Oreste, figlio del re di Micene. Odisseo comprese che sarebbe stata la lancia stessa di Achille a guarirlo. Pezzi di lancia furono raschiati e passati sulla ferita, rimarginandola. Telefo in seguito avrebbe mostrato agli Achei come giungere a Troia.\n\nIl secondo raduno.\nOtto anni dopo lo sbarco in Misia gli eserciti greci furono ancora radunati. Ma non appena le navi giunsero in Aulide il vento cessò di soffiare. Calcante profetizzò che Artemide era offesa con Agamennone perché questi aveva ucciso un cervo sacro o perché lo aveva ucciso in un bosco sacro, dicendo di essere un cacciatore migliore di lei. L'unico modo di placare Artemide era sacrificare Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra o di Elena e Teseo, affidata alla sorella dopo il matrimonio con Menelao.Agamennone rifiutò la proposta ma gli altri principi minacciarono di fare comandante Palamede, se Agamennone non avesse avuto il coraggio di uccidere la figlia. Costretto così ad accettare, richiamò la figlia e la moglie in Aulide col pretesto di voler far sposare Ifigenia con Achille. In un impeto di amore paterno, Agamennone mandò una lettera alla moglie, ordinandole di rimanere a Micene, poiché quella era una trappola, ma il messaggio venne intercettato da Odisseo (o da Palamede), che non la spedì a destinazione. Odisseo e Diomede vennero mandati a Micene per condurre lì la giovane e la famiglia di Agamennone. Clitennestra venne però a sapere dell'inganno grazie ad Achille. Questi promise inoltre il suo aiuto, ma Odisseo riuscì a sobillare l'esercito chiedendo il sacrificio.\nIfigenia, in uno slancio patriottico, decise allora di sacrificarsi per il bene della Grecia. La giovane secondo una prima tradizione morì effettivamente immolata, secondo un'altra, quella utilizzata da Euripide, fu scambiata con una cerva da Artemide stessa che la portò in Tauride, designandola come sua sacerdotessa. Molti anni dopo, il fratello Oreste l'avrebbe ritrovata e portata a casa.\nLe forze greche sono descritte in dettaglio nel secondo libro dell'Iliade, il cosiddetto Catalogo delle navi, che comprendeva 1178 navi con 50 rematori circa a testa. Questa accurata descrizione ci permette di avere una visione della situazione geo-politica greca, poco prima della guerra, con la famiglia dei Pelopidi alla guida del grosso dell'armata achea:.\n\nAgamennone re di Micene e basileus in Argolide settentrionale, Arcadia e nel golfo di Corinto;.\nDiomede suo vassallo, amministratore di Tirinto, re di Argo e del resto dell'Argolide;.\nMenelao basileus in Laconia;.\nNestore probabilmente un parente a Pilo e a comando della Messenia.Altri comandanti e regioni presenti furono:.\n\ni comandanti dell'Arcadia e dell'Elide, regioni indipendenti;.\nOdisseo basileus nelle isole occidentali (Itaca, Zacinto e Cefalonia) (12 navi, stando all'Odissea);.\nre Toante dell'Etolia;.\nla Beozia, con 30 centri minori, e Tebe;.\nla Focide, la Locride e l'Eubea;.\nAchille comandante della Ftiotide;.\nla Tessaglia, con 8 entità politiche e 25 città;.\nAtene (50 navi) e Salamina (12 navi) per l'Attica;.\nIdomeneo re di Creta e nipote di Minosse (80 navi);.\nRodi col principe Tlepolemo e 9 navi;.\nSamo e le Sporadi settentrionali.Tucidide spiega che secondo la tradizione erano approssimativamente 1200 navi, con un numero di uomini variabile, vi era chi infatti come i Beoti aveva navi con 120 uomini, chi, come Filottete, soltanto cinquanta.\nLe forze greche andavano quindi da un minimo di 70.000 a un massimo di 130.000 uomini. Un altro catalogo viene dato da Apollodoro che differisce su qualcosa ma è simile ad Omero nella suddivisione numerale. Alcuni pensano che Omero si sia basato su una tradizione orale proveniente dall'età del bronzo, altri pensano che abbia inventato tutto. Nel ventunesimo secolo gli storici hanno drasticamente ridimensionato la consistenza del corpo di spedizione greco, le cui forze vengono stimate in circa 300 navi e 15.000 uomini.\nVengono anche descritti gli schieramenti troiani, che secondo Omero contavano circa 50.000 uomini fra Troiani e alleati. Non sappiamo quale lingua parlassero i Troiani. Omero spiega che i contingenti alleati di Troia parlavano lingue straniere, i comandanti in seguito traducevano gli ordini. Nell'Iliade inoltre Troiani e Achei hanno stessi usi, stessi costumi e stessa religione. Gli avversari parlano inoltre la stessa lingua.\n\nI primi nove anni della guerra.\nFilottete.\nFilottete era amico di Eracle e poiché accese per lui la pira funebre, incarico che tutti avevano rifiutato, ricevette dall'eroe l'arco e le invincibili frecce intinte nel sangue dell'Idra di Lerna. Lui navigò verso Troia con sette navi ma durante una sosta, in cui i suoi uomini si fermarono nell'isola Crise per fare rifornimenti (o da soli o insieme al resto dell'esercito) venne morso da un serpente. La ferita divenne infetta, emanando un cattivo odore, e Odisseo dunque avvisò Agamennone dello spiacevole accaduto costringendo l'Atride, a causa del puzzo emanato dalla ferita, ad abbandonare l'eroe sull'isola di Lemno, rimanendo così esiliato per dieci lunghi anni. Medonte, fratellastro di Aiace Oileo, prese il controllo degli uomini di Filottete.\nSbarcati a Tenedo, isola di fronte al lido di Troia, l'attaccarono ma la città si difese, guidata dal suo regnante Tenete, figlio di Apollo (secondo altri solo un suo protetto, il vero padre era Cicno). Achille depredò Tenedo e tentò di catturare Emitea, sorella di Tenete che, disperata, chiese agli dei di poter essere inghiottita dalla terra: dopo la tragica fine della giovane, le cui preghiere vennero esaudite, Achille mosse contro il sovrano, nonostante Teti avesse ordinato al figlio di non uccidere Tenete per non incorrere nell'ira del dio ma Tenete era già caduto sotto la spada del Pelide. Da quel giorno, Apollo tentò in tutti i modi di uccidere Achille e infatti, sarà proprio Apollo a dirigere la freccia di Paride nel suo tallone.\nDa Tenedo venne poi spedita una delegazione a Priamo, formata da Menelao, Odisseo e Palamede per chiedere nuovamente la restituzione di Elena ma anche questa volta le loro proposte furono rifiutate.\n\nL'arrivo.\nCalcante profetizzò che il primo acheo a toccare la terra troiana, dopo essere sbarcato con la sua nave, sarebbe morto per primo. Achille decise dunque di non essere il primo a scendere e fu così Protesilao, re di Filache, a sbarcare per primo, il Pelide scese solo in seguito, uccidendo, durante lo scontro che ne seguì, Cicno, alleato dei Troiani e figlio di Poseidone.\nI Troiani, spaventati dall'assalto greco fuggirono all'interno della città mentre Protesilao che aveva dimostrato valore e coraggio, uccidendo diversi Troiani trovò, primo fra tutti, la morte per mano di Ettore, Enea, Acate o Euforbo (le tradizioni divergono su questo punto). Gli dei lo seppellirono come un dio sulla penisola Tracia e dopo la sua morte fu il fratello Podarce a guidare le truppe di Filache.\n\nLe campagne di Achille.\nGli Achei assediarono Troia per nove anni. Questa parte della guerra è quella di cui sono conservate il minor numero di fonti, dato che i testi letterari preferiscono parlare principalmente degli avvenimenti dell'ultimo anno. Per giustificare questa penuria di fonti c'è stato chi ha elaborato teorie (non ancora verificate) sull'effettiva durata della guerra. Tra queste, vi è un aspetto, della più ampia teoria di Felice Vinci, su Omero nel Baltico, secondo cui la guerra sarebbe durata un solo anno e di conseguenza l'Iliade narrerebbe la guerra nella sua interezza.\nDopo lo sbarco iniziale l'esercito venne raggruppato di nuovo per intero soltanto nel decimo anno, secondo Tucidide a causa di una mancanza economica che costrinse i Greci a compiere scorrerie nelle città alleate di Troia ed esaurire i profitti agricoli delle regioni della Tracia. Troia non venne mai assediata completamente in questi nove anni poiché riusciva ancora ad avere rapporti con i popoli interni dell'Asia minore, essendo giunti rinforzi fino alla fine dello scontro. Gli Achei controllavano semplicemente lo stretto dei Dardanelli, i Troiani invece comunicavano attraverso il punto più corto ad Abido e Sesto, potendo così contattare i propri alleati in Europa.\nAchille era senza dubbio il più attivo fra gli Achei, secondo Omero conquistò undici città e dodici isole, secondo Apollodoro invece fece scorrerie nelle terre di Enea, in Troade, derubandolo dei suoi armenti conquistando inoltre Lirnesso, Pedaso e diverse città del circondario. Uccise anche Troilo, giovane figlio di Priamo, quando questi aveva diciannove anni confermando un oracolo che aveva predetto che se il ragazzo avesse raggiunto il ventesimo anno di vita, la città non sarebbe crollata. Secondo Apollodoro:.\n\n'Prese anche Lesbo e Focea, poi Colofonie e Smirne, e Clazomane, e Cime; e dopo Egialeo e Teno, le così chiamate cento città; poi in ordine, Adramitio e Sido; poi Endio, e Lineo, e Colono. Prese anche Tebe, in Asia minore, e Lirnesso, e infine Antandro e molte altre città”Secondo Cacride questo elenco è sbagliato perché i Greci si sarebbero spinti in questa maniera troppo a sud. Altre fonti, come Demetrio, parlano di Pedaso, Monenia, Mithemna, e Pisidice.Dalla divisione del bottino di queste città, Achille ottenne Briseide di Lirnesso mentre Agamennone ottenne Criseide, di Tebe. Achille catturò Licaone, figlio di Priamo mentre stava potando gli alberi nel frutteto del padre, ordinando poi a Patroclo di venderlo a Lemno, dove venne comprato da Eezione, re di Cilicia e suocero di Ettore, che lo rimandò a Troia. Fu ucciso da Achille più tardi, dopo la morte di Patroclo. In seguito Achille marciò contro il regno di Cilicia, uccidendo Eezione e tutti i suoi figli maschi, ad eccezione di Pode, il più giovane, che si era trasferito a Troia presso Ettore e Andromaca. Pode morì poco prima di Ettore, ucciso in battaglia da Menelao.\n\nLe campagne di Aiace.\nAiace invase le città della penisola Tracia dove regnava Polimestore, un genero di Priamo e, a causa di ciò, il sovrano assediato si sbarazzò di Polidoro, uno dei figli di Priamo, che lui stesso aveva in custodia. Il guerriero greco attaccò poi le città della Frigia, dominate dal re Teleuto che morì in combattimento e prese come bottino di guerra la figlia di quest'ultimo, Tecmessa. Disperse in seguito le greggi troiane sul monte Ida e nelle campagne.\nDiversi dipinti su anfore e coppe, descrivono invece un avvenimento non riportato su testi letterari. In un determinato momento della guerra, Achille e Aiace stavano giocando a un gioco denominato petteia ma i due erano talmente presi dal gioco da dimenticare di essere nel bel mezzo di una battaglia. I Troiani riuscirono a raggiungerli e solo un intervento di Atena riuscì a salvarli.\n\nLa morte di Palamede.\nOdisseo, spedito in Tracia per recuperare del grano e tornato a mani vuote, sfidò Palamede, che l'aveva preso in giro, a fare di meglio. Questi partì e tornò con un'intera nave piena di grano.\nOdisseo, che non aveva mai perdonato a Palamede il fatto di aver quasi ucciso Telemaco mettendolo nel solco dell'aratro quando si fingeva pazzo, decise di tendere contro di lui un inganno e spiegò dunque agli altri capi che, come Agamennone, odiavano le imprese di Palamede e la sua astuzia troppo spesso lodata, il suo intento. Fu contraffatta dunque una lettera di Priamo come se fosse destinata a Palamede, Odisseo stesso costrinse uno schiavo frigio a scriverla ordinandogli poi di nasconderla nella tenda dell'avversario insieme a una gran quantità d'oro. La lettera e l'oro furono scoperti e Agamennone ordinò che Palamede venisse ucciso a sassate come punizione per il suo tradimento.\nPausania, citando i Cypra, dice che Odisseo e Diomede affogarono Palamede mentre stava pescando: secondo Ditti, invece, Odisseo e Diomede adescarono Palamede in un pozzo, dove dicevano che questi aveva conservato l'oro ricevuto da Priamo, e lo lapidarono fino a ucciderlo. Il padre di Palamede, Nauplio navigò verso la Troade per chiedere giustizia ma venne rifiutato: per vendetta allora viaggiò verso le città greche, dichiarando alle mogli dei re che presto i loro mariti avrebbero condotto in patria delle concubine per sostituirle. Alcune di esse decisero allora di tradire i propri mariti, come fece Clitennestra, unendosi ad Egisto, il figlio di Tieste.Verso la fine del nono anno i soldati dell'esercito, stanchi di combattere e privi di approvvigionamento, decisero di ribellarsi ai propri comandanti e soltanto l'intervento di Achille riuscì a placarli. Secondo Apollodoro, Agamennone rapì in quel periodo le quattro figlie di Anio, sacerdote di Delo, le cosiddette Vignaiole, in grado di far scaturire dal suolo l'olio, il grano e il vino necessari per l'approvvigionamento.\n\nI cinquanta giorni di guerra narrati nell'Iliade.\nNel campo dei Greci si diffuse però un'epidemia: era il castigo decretato da Apollo come punizione ai Greci per aver sottratto Criseide al padre Crise, sacerdote del dio. Su consiglio di Calcante, Agamennone accettò di restituire Criseide al padre ma pretese in cambio Briseide, schiava preferita di Achille, sottraendola all'eroe. Scoppiò dunque un litigio tra Achille ed Agamennone: Achille decise di non combattere più e rimanere fermo nella propria tenda.\nTeti, madre di Achille, salì all'Olimpo per supplicare Zeus di rendere giustizia al figlio: il dio acconsentì, subendo i rimproveri di Era, subito placati da Efesto. Zeus inviò il Sogno ingannatore ad Agamennone. Nelle sembianze di Nestore fece credere al re che fosse arrivato il giorno fatale di Troia. Al risveglio Agamennone convocò i duci achei e li istruì sul suo piano. Voleva far credere all'esercito di voler tornare in patria: i soldati però accettarono esultanti la proposta di tornare e si apprestarono a lasciare la costa quando Odisseo, ispirato da Atena, li convinse a rinnovare la battaglia contro Troia.\nLe due schiere si affrontarono ancora: alla vista di Menelao, Paride fuggì tra i suoi, ma Ettore lo rimproverò per la sua codardia. Paride decise di affrontare a duello Menelao: le sorti del duello sarebbero state decisive per la guerra. Dopo aver sacrificato agli dei, i contendenti si scontrarono: Menelao era sul punto di uccidere il nemico quando Afrodite lo salvò e lo riportò a Troia. Agamennone decretò la vittoria per il fratello.\nGli dei erano radunati attorno a Zeus che avrebbe voluto salvare Troia, fu Era però a convincere gli altri dei a chiedere la continuazione della guerra. Zeus allora inviò Atena tra i Troiani; ella invitò Pandaro a scagliare una freccia contro Menelao. La freccia ferì l'Atride e la battaglia si rianimò. Pandaro ferì Diomede con una freccia, ma questi, aiutato da Atena, riuscì a uccidere il troiano; stava per uccidere anche Enea quando intervenne Afrodite che salvò il figlio e venne a sua volta ferita da Diomede. Intanto i Troiani, guidati da Ares, erano passati al contrattacco. Diomede, sempre con l'aiuto di Atena, si scontrò con Ares e lo ferì. Le sorti della battaglia volgevano di nuovo a favore dei Greci.\nEttore chiese di poter affrontare un campione greco. Dopo alcune discussioni ecco apparire il gigantesco Aiace Telamonio. Il duello si concluse con una tregua, voluta da due ambasciatori, per ordine di Zeus. Il giorno dopo i combattimenti ripresero. I Greci, incalzati da Ettore, vennero spinti sempre più verso il proprio accampamento. Col tramonto del sole Ettore e i suoi uomini posero un accampamento proprio in mezzo al campo di battaglia, spingendo così sempre più i Greci verso il mare. Quella stessa notte, tuttavia, Diomede riuscì a entrare nella tenda in cui dormiva Reso, il giovane re dei Traci alleato dei Troiani, e lo sgozzò con la spada.\nAl mattino ricominciò la battaglia. Ettore e gli altri comandanti si scagliarono contro il muro di cinta che proteggeva le navi. I Greci spaventati cominciavano a fuggire, soltanto i comandanti più eroici, come i due Aiaci o Idomeneo, incitavano ancora le truppe a difendersi. I Troiani, guidati da Ettore, e i lici, guidati da Sarpedonte, riuscirono perfino a far breccia nel muro di cinta greco e ad entrare all'interno dell'accampamento. Con una torcia in mano, Ettore riuscì perfino a incendiare una delle navi greche. Patroclo, fedele compagno di Achille, vedendo la battaglia infuriare all'interno del campo greco, supplicò l'amico di concedergli di prendere le sue armi e condurre i Mirmidoni al fianco degli altri Achei. Achille accettò, ma raccomandò a Patroclo di limitarsi a cacciare i nemici dal campo greco, senza andare oltre.\nNel frattempo i Troiani erano riusciti a dar fuoco alla nave di Protesilao, ma l'arrivo dei Mirmidoni guidati da Patroclo, che essi credevano Achille, li mise in fuga. Patroclo li incalzò fin sotto le mura: gli si oppose Sarpedonte, il comandante dei lici, che era figlio di Zeus. Il re degli dei, nonostante avesse a suo tempo desiderato la morte di tutti i semidei, compreso il suo, di colpo cambiò idea e forse l'avrebbe salvato se non fosse intervenuta Era ricordandogli come tutto fosse ormai già fissato: Sarpedonte inevitabilmente cadde sotto i colpi di Patroclo, Zeus poté solo limitarsi a trasportare il corpo in Licia, terra nativa dell'eroe. Era però giunta anche l'ora di Patroclo: Apollo con un gran colpo lo stordì, il giovane troiano Euforbo lo ferì con la lancia, ma non era abbastanza forte per ucciderlo: fu Ettore che diede il colpo finale. Morendo, Patroclo predisse l'uccisione di Ettore ormai prossima, il quale si impadronì delle armi del morto. Euforbo cercò invece di impossessarsi del cadavere, ma venne ucciso da Menelao.\nVedendo arrivare la salma del fedele amico, Achille si rinchiuse nel proprio furore, decise di raccordarsi con Agamennone e di tornare a combattere, con le nuove armi forgiate da Efesto. Ripieno di ira si scagliò contro i Troiani: alcuni morirono eroicamente, altri invece tentarono di fuggire, chi correndo verso le mura, chi gettandosi nel fiume Scamandro. Achille non ebbe pietà per nessuno e uccise un gran numero di nemici, anche chi spaventato lo supplicava. I Troiani superstiti si precipitarono all'interno delle mura, eccetto Ettore che rimase davanti alle Porte Scee, bloccato dal suo destino; a nulla valevano i disperati richiami dei genitori. Ettore propose ad Achille il giuramento di rendere alla famiglia il corpo di quello dei due che sarebbe stato ucciso, ma il Pelide rifiutò rabbiosamente. Il duello iniziò, le lance volarono senza successo, e nel corpo a corpo Achille trafisse Ettore nel solo punto scoperto, tra il collo e la spalla.\nMorendo, Ettore presagì la prossima morte del nemico; Achille, accecato dall'odio, forò i piedi del cadavere e lo legò sul proprio cocchio, trascinandolo attorno alle mura di Troia e facendone orribile scempio. Priamo chiese infine ad Achille di rendergli il corpo del figlio, pagando un grande riscatto. I funerali di Ettore sono l'ultimo evento narrato nell'Iliade.\n\nDopo l'Iliade.\nLa morte di Achille.\nPoco dopo la morte di Ettore, Pentesilea, regina delle Amazzoni, venne a Troia col suo esercito di donne guerriere. Pentesilea, figlia di Ortrera e di Ares aveva ucciso accidentalmente la sorella Ippolita. Venne purificata per questa azione da Priamo e in cambio lottò per lui e uccise molti Greci, incluso Macaone (secondo alcuni Macaone fu ucciso da Euripilo, figlio di Telefo) e, secondo un'altra versione, anche Achille, che venne poi riesumato per ordine di Teti. Pentesilea venne poi uccisa da Achille che, dopo averla uccisa, si innamorò della sua bellezza. Tersite, un soldato semplice, derise Achille per questo suo amore e scanalò fuori gli occhi di Pentesilea. Achille uccise Tersite e, in seguito a una disputa, navigò verso Lesbo per farsi purificare. Nel viaggio fu accompagnato da Odisseo, e i due sacrificarono ad Apollo, Artemide e Latona.\nMentre Achille faceva ritorno a Troia, Memnone, re d'Etiopia e di Persia, figlio di Titone ed Eos, arrivò col suo esercito ad aiutare Priamo, suo zio. Egli non veniva direttamente dall'Etiopia ma da Susa, dopo aver conquistato tutte le popolazioni fra Troia e la Persia. Condusse così in Troade un esercito formato da etiopi, persiani, assiri e indiani. Indossava una corazza forgiata da Efesto, proprio come Achille. Nella battaglia che ne seguì, Memnone uccise Antiloco che si fece colpire per salvare il padre Nestore. Achille affrontò Memnone a duello mentre Zeus pesava il fato dei due eroi, valutazione che portò alla vittoria di Achille, il quale uccise così il grande nemico.Il Pelide inseguì poi i Troiani fino in città. Gli dei, vedendo come Achille aveva già sterminato gran parte dei loro figli, decisero che questa volta era il suo turno. Venne ucciso infatti da una freccia lanciata da Paride e guidata da Apollo. Subito dopo, mentre esultava dalla vittoria, Paride fu ucciso da una freccia di Filottete, la stessa freccia di Eracle intrisa di sangue di Idra. Secondo un'altra versione, posteriore e meno accreditata, venne ucciso da una coltellata mentre sposava Polissena, figlia di Priamo, nel tempio di Apollo, il luogo dove qualche anno prima aveva ucciso Troilo. Entrambe le versioni mostrano come la morte del grande guerriero fosse opera di un dio o di un inganno, poiché Achille era invincibile sul campo di battaglia. Le sue ossa furono mescolate a quelle di Patroclo e furono tenuti giochi in suo onore. Dopo la morte, come Aiace, visse nell'isola di Leuco dove sposò l'anima di Elena.\n\nIl giudizio delle armi e la morte di Aiace.\nDopo la morte di Achille si tenne una grande battaglia per recuperare il corpo dell'eroe. Aiace Telamonio riuscì a distrarre i Troiani mentre Odisseo trasportò via la salma. I generali decisero che l'armatura di Achille sarebbe spettata al guerriero più valoroso. Si fecero dunque avanti Aiace e Odisseo, che avevano recuperato il corpo di Achille. Agamennone, non essendo disposto a fare una scelta così difficile, chiese ai prigionieri troiani chi fra i due aveva causato più danni per la loro città.\n\nSu consiglio di Nestore vennero mandate delle spie all'interno di Troia per sapere cosa commentavano i Troiani sulla battaglia avvenuta poco prima e sul valore di coloro che erano riusciti a recuperare il corpo del Pelide. Una giovane disse che fu Aiace il migliore, ma un altro, sotto consiglio di Atena, protettrice di Odisseo, diede il voto migliore al suo favorito.Secondo Pindaro la decisione fu presa attraverso una decisione segreta dei principi achei. Comunque sia, in tutte le versioni, le armi vennero date ad Odisseo e Aiace, impazzito per il dolore, decise di uccidere i giudici di gara, ma Atena fece sì che Aiace scannasse nella sua furia due arieti, credendo fossero Agamennone e Menelao. All'alba tornò alla normalità e, accortosi dell'accaduto, si uccise per il disonore, trafiggendosi con la spada che gli aveva donato Ettore, colpendosi al fianco o all'ascella, ritenuta da alcuni come il suo unico punto debole.Secondo un'altra tradizione, molto più antica, Aiace fu catturato dai Troiani, che lo ricoprirono di creta, costringendolo così all'immobilità e condannandolo a morire di fame.\n\nLe profezie di Eleno.\nNel decimo anno di guerra fu profetizzato da Calcante, o da Eleno, che Troia non sarebbe crollata senza l'arco e le frecce di Eracle, conservate da Filottete nell'isola di Lemno. Odisseo e Diomede si recarono quindi a recuperare Filottete, la cui ferita era guarita. Secondo altri, la piaga venne guarita dai medici Macaone e Podalirio. Secondo Sofocle, furono Neottolemo e Odisseo a cercare Filottete, secondo Proclo, soltanto Diomede. Tornato sul campo di battaglia Filottete uccise, grazie alle sue frecce invincibili Paride stesso.\nSecondo Apollodoro, i fratelli di Paride, Eleno e Deifobo, ebbero una contesa su chi dei due avrebbe dovuto sposare Elena, rimasta vedova. Priamo assegnò la donna a Deifobo; Eleno, furioso, abbandonò la città e si stabilì sul monte Ida, ospite di Arisbe, la moglie ripudiata di Priamo. Calcante rivelò che Eleno era in grado di profetizzare le ultime condizioni, attraverso le quali conquistare Troia. Odisseo tese dunque un'imboscata a Eleno e lo catturò. Spinto a forza, Eleno disse agli Achei che avrebbero conquistato la città se avessero trovato le ossa di Pelope, mandato in guerra il figlio di Achille, Neottolemo e trafugato il Palladio dal tempio troiano di Atena.\nI Greci recuperarono le ossa di Pelope, precisamente l'osso della spalla, che venne portato a Troia da Pisa e venne perduto a mare sulla via del ritorno: ritrovato poi da un pescatore venne riconosciuto come osso di Pelope dall'oracolo.\nPiù tardi venne spedito Odisseo a Sciro, presso il re Licomede, per recuperare Neottolemo, che viveva lì presso il nonno materno. Odisseo gli diede le armi di suo padre. Nello stesso tempo, come informa Apollodoro, Euripilo, il figlio di Telefo, venne in sostegno dei Troiani con un esercito formato da Ittiti o Misiaci. Travestito come un mendicante, Odisseo entrò all'interno della città: venne riconosciuto da Elena, che gli offrì il suo aiuto. Così il re d'Itaca e Diomede rubarono il Palladio.\n\nIl cavallo di Troia.\nLa città di Troia venne infine conquistata senza battaglia, con un inganno concepito da Odisseo: un gigantesco cavallo di legno, animale sacro ai Troiani (in quanto l'animale favorito del fondatore, Poseidone). Venne costruito da Epeo, guidato a sua volta da Atena. Il legno venne recuperato dal boschetto sacro di Apollo e vi fu scritto sopra: «I greci dedicano questa offerta di ringraziamento ad Atena per un buon ritorno».\nIl cavallo cavo venne riempito di soldati. Apollodoro dice che entrarono nel cavallo 50 uomini, attribuendo allo scrittore della Piccola Iliade la concezione secondo la quale entrarono nel cavallo ben 3000 uomini, mentre secondo il filologo bizantino Tzetzes ve ne erano 23. Quinto Smirneo ne nomina trenta ma dice che all'interno ve ne fossero ancora. Nella tradizione tarda il numero fu standardizzato a quaranta uomini. A capo di questi vi era Odisseo stesso. Il resto dell'esercito abbandonò il campo e si recò con tutta la flotta nell'isola di Tenedo. Quando i Troiani scoprirono che i Greci se ne erano andati, credendo che la guerra fosse finita, si interrogarono sul cavallo e trovarono Sinone, un itacese che era stato istruito da Odisseo a interpretare la parte del traditore (motivo per cui portava lividi ottenuti dai suoi compagni), dicendo che aveva proposto di abbandonare tutto, ma i Greci lo picchiarono e decisero di abbandonare momentaneamente il fronte in cerca di altri alleati, erigendo il cavallo come auspicio agli dei per un buon viaggio.\nSinone aggiunse anche che il cavallo è così grande poiché i Troiani fatichino o non riescano proprio a trascinarlo dentro le mura e cambiare le sorti della guerra a favore dei Troiani. Convinto, Priamo diede ordine di portare dentro le mura il cavallo. Prima di farlo entrare però i Troiani discussero sul da farsi. Alcuni pensavano di gettarlo giù da una rupe, altri di bruciarlo, altri di dedicarlo ad Atena. Cassandra e il sacerdote Laocoonte furono gli unici a diffidare del dono, ma nessuno prestò ascolto a Cassandra per via della maledizione inflittale da Apollo e Laocoonte, intuendone l'inganno, tentò di stanare i Greci prima infilzando la statua con una lancia poi minacciando di bruciarlo. Priamo lo fermò e chiese che fosse fatto un sacrificio a Poseidone per sapere la verità. Per fortuna dei Greci, Poseidone era dalla loro parte e, mentre il sacerdote e i suoi due figli immolavano un toro sulla riva, furono tutti e tre ghermiti da due giganteschi serpenti. Convito del tutto, Priamo interpretò la morte di Laocoonte come una punizione per aver minacciato di distruggere il dono per gli dei e fece portare il cavallo a Troia.\nProclo, seguendo la Piccola Iliade, dice che i Troiani abbatterono una parte del muro per fare passare il cavallo. I Troiani decisero allora di portare in città il cavallo e passarono la notte fra i festeggiamenti. Sinone, che era stato accettato dai Troiani come loro fratello, diede segnale alla flotta, ferma a Tenedo, di partire. I soldati, usciti dal cavallo, uccisero le sentinelle e aprirono le porte della città ai loro compagni.\n\nIl sacco di Troia.\nGli Achei entrarono così in città e ne uccisero gli abitanti. Ne seguì un grande massacro che continuò anche nella giornata seguente: «Il sangue scorreva in torrenti, faceva marcire il terreno, era quello dei Troiani e dei loro alleati stranieri morti. Tutta la città da su e giù era bagnata del loro sangue» (Quinto Smirneo).\nTutto non andò però come volevano gli Achei: i Troiani, alimentati dall'alcool e dalla disperazione, lottarono ancora più ferocemente. Con la lotta al culmine e la città in fiamme, i nemici si rivestirono delle armi e, con grande sorpresa dei Greci, contrattaccarono in combattimenti caotici in strada. Tutti cercavano di difendere la propria città, lanciando tegole o altri oggetti sulle teste dei nemici che passavano. Euripilo, il figlio di Telefo, fu tra coloro che si batterono fino all'ultimo, uccidendo Macaone, Nireo e Peneleo, ma venendo ucciso a sua volta da Neottolemo. Questi poi uccise Polite e Priamo, che aveva cercato di rifugiarsi presso l'altare di Zeus del proprio palazzo. Menelao uccise Deifobo, marito di Elena dopo la morte di Paride, mentre questi dormiva e avrebbe anche ucciso Elena se non fosse rimasto abbagliato dalla sua bellezza. Gettò così la spada e la riportò sulla sua nave.\nAiace Oileo stuprò Cassandra sull'altare di Atena mentre lei si aggrappava alla statua. A causa dell'empietà di Aiace, gli Achei, esortati da Odisseo, volevano ucciderlo a sassate ma lui riuscì a fuggire nell'altare stesso di Atena e a salvarsi.\nAntenore, che aveva dato ospitalità a Menelao e Odisseo quando loro chiesero il ritorno di Elena, e che li aveva difesi, fu salvato insieme alla sua famiglia. Enea prese il padre Anchise sulle spalle, tenne per mano il figlio Ascanio e fuggì dalla città seguito da alcuni concittadini, protetti da un'aura creata da Afrodite (tuttavia perse la moglie Creusa). Secondo Apollodoro venne salvato a causa della pietà dimostrata nei confronti dei nemici.\nI Greci incendiarono poi la città e si divisero il bottino. Cassandra fu data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo, Ecuba a Odisseo. Proclo dice che Odisseo gettò dalle mura della città il piccolo Astianatte, Apollodoro dice che autore dell'infanticidio fu Neottolemo o per sete di sangue, come dice Quinto Smirneo, o per continuare un ciclo di vendetta che i figli ereditano dai padri (Achille uccise Ettore, Neottolemo uccise Astianatte), tesi che viene accettata da Euripide. Neottolemo sacrificò poi la giovane Polissena sulla tomba di Achille come richiesto dal suo fantasma, o perché voleva il bottino di guerra che gli spettava anche da morto o perché lei lo aveva tradito.\nEtra, la madre di Teseo, era una delle schiave di Elena e venne liberata da Demofonte e Acamante.\n\nI ritorni.\nGli dei erano adirati per la distruzione dei loro templi e i sacrilegi commessi dagli Achei verso i vinti. Decisero quindi che molti di loro non sarebbero dovuti tornare a casa salvi. Un temporale li travolse nelle vicinanze di Tenedo. Nauplio, il padre di Palamede, desideroso di vendetta, mise delle luci false in cima al capo Capareo, causando il naufragio di molte navi.Nestore, che aveva dimostrato la migliore condotta sotto le mura di Troia e non aveva preso parte al saccheggio, fu l'unico eroe ad avere un ritorno veloce e indolore, insieme al figlio Trasimede. Tutti gli uomini del suo esercito giunsero a casa sani e salvi. In seguito Nestore conquistò con i suoi uomini il Metaponto.\nAiace Oileo, che aveva più di ogni altro causato l'ira degli dei, non tornò mai più in patria. La sua nave fu ridotta a pezzi da Atena con un fulmine di Zeus. L'equipaggio riuscì a sbarcare su uno scoglio ma Aiace, colmo di prepotenza, gridò di essersi salvato perché gli dei non avrebbero potuto mai ucciderlo. Dopo aver detto queste parole, Poseidone lo fece cadere dallo scoglio con un colpo di tridente facendolo morire annegato. Venne seppellito da Teti.Teucro, figlio di Telamone e fratello di Aiace il Grande, fu mandato in esilio dal padre per non aver aiutato il fratello a salvarsi dal suicidio. Non gli fu infatti permesso di sbarcare a Salamina e fu costretto a rimanere nella terra vicina di Peirea. Fu comunque assolto dalla responsabilità della morte del fratello ma condannato per non aver riportato in patria il corpo o le armi dell'eroe. Si recò coi propri uomini a Cipro dove fondò una città, chiamandola Salamina, in onore della terra natia. Gli ateniesi crearono in seguito un mito politico secondo il quale il figlio di Teucro affidò il dominio della città ai discendenti di Teseo, dando dunque il primato agli ateniesi.\nNeottolemo invece, su consiglio di Eleno, divenuto suo schiavo, viaggiò sulla terraferma portando con sé i propri uomini e il proprio bottino. Incontrò Odisseo e insieme a lui seppellì Fenice, maestro di Achille, nella terra dei Ciconi. In seguito conquistarono insieme le terre dell'Epiro. Da Andromaca ebbe tre figli: Molosso, che avrebbe poi ereditato il suo regno, Pielo e Pergamo, futuro re d'Arcadia. I re dell'Epiro si dicevano discendenti di Achille come fece poi in seguito Alessandro il Grande, la cui madre era di quei luoghi. Il grande condottiero macedone diceva persino di discendere da Eracle. Eleno fondò in Epiro una città, Neottolemo gli diede in moglie la madre Deidamia. Dopo la morte di Peleo, Neottolemo divenne poi re di Ftia. Ebbe però una contesa con Oreste, figlio di Agamennone, sulla figlia di Menelao, Ermione, e venne ucciso a Delfi dove fu seppellito. Infine, dopo la morte di Neottolemo, il regno dell'Epiro passò ad Eleno che sposò Andromaca e accolse i rifugiati troiani, fra cui il più importante da ricordare è Enea.\nDiomede fu gettato da una tempesta in terra di Licia dove sarebbe stato sacrificato ad Ares dal re Lico (desideroso di vendicare la morte di Sarpedone) se la figlia di quest'ultimo, Calliroe, non l'avesse aiutato a fuggire. Sbarcò poi accidentalmente in Attica. Gli ateniesi, pensando fosse un nemico, lo attaccarono. Molti compagni di Diomede rimasero uccisi ed egli riuscì a ritornare sulla sua nave perdendo però il Palladio, finito nelle mani di Demofonte. Tornò finalmente ad Argo dove trovò la moglie Egialea nel pieno di un adulterio. Disgustato, riparò in Etolia e in seguito nell'Italia Meridionale dove fondò diverse città.Filottete, a causa di una sedizione, fu cacciato dalla propria terra e costretto a recarsi in Italia. Qui fondò diverse città fra cui Crotone. Combatté in Lucania, dove dedicò un santuario ad Apollo Vagabondo, cui donò il proprio arco.Idomeneo, secondo Omero, tornò a Creta sano e salvo. Vi è però un'altra tradizione molto più famosa. Durante il viaggio di ritorno la nave del re cretese incappò in un violento temporale che sembrava non dovesse aver mai fine. Promise a Poseidone di sacrificare il primo essere vivente che avesse visto dopo essere sbarcato se il dio del mare l'avesse salvato insieme al suo equipaggio. Approdò così a Creta ma il primo essere vivente che vide fu suo figlio che, a malincuore, dovette sacrificare. Gli dei, adirati per un atto così spregevole, colpirono l'intera isola con un'epidemia. Idomeneo fu mandato dunque in esilio in Calabria, e poi in Asia minore, dove morì.\n\nIl casato di Atreo.\nDopo il sacco di Troia, Menelao si mise in mare per il ritorno insieme alla sua flotta, ma al momento di doppiare Capo Malea, una tempesta li sbatté sull'isola di Creta, dove la maggior parte delle navi affondò. Menelao ed Elena scamparono alla morte e sbarcarono infine in Egitto, dove rimasero ben cinque anni e dove Menelao accumulò ingenti ricchezze. Infine lasciarono l'Egitto, ma fu un viaggio assai breve, perché una bonaccia di vento li costrinse a fermarsi sull'isola di Faro, presso le foci del Nilo. Rimasero per venti giorni sull'isola e quando già la fame cominciava a farsi sentire, il dio Proteo, che su quell'isola risiedeva, consigliò a Menelao di tornare in Egitto e lì offrire sacrifici agli dei (e lo informò del fato dei suoi compagni). Menelao così fece e in questo modo poté tornare a Sparta. Erano passati otto anni dalla sua partenza da Troia e diciotto da quando la guerra era cominciata. Una volta tornato a Sparta, Menelao regnò per molti anni insieme a Elena, da cui ebbe i figli Ermione e Nicostrato. Alla fine della sua lunga vita egli fu portato nei Campi Elisi senza morire, onore accordatogli da Zeus per essere stato suo genero.\n\nAgamennone ritornò in patria poco dopo la fine della guerra (nonostante l'ombra di Achille avesse tentato di trattenerlo predicendogli le sue future disgrazie), portando con sé la schiava Cassandra e il bottino di guerra. Nel frattempo però la moglie Clitennestra aveva intessuto una relazione con Egisto, figlio di Tieste, sicché i due ordirono un complotto che permise loro di uccidere Agamennone e Cassandra, ottenendo quindi il comando di Argo (o Micene). Dieci anni dopo, Oreste, figlio di Agamennone (che era stato esiliato dagli assassini del padre), tornò in patria e vendicò Agamennone uccidendo Egisto e la propria madre Clitennestra.\n\nIl ritorno di Odisseo.\nI dieci anni che Odisseo passò vagabondando prima di poter tornare nell'isola di Itaca sono l'argomento dell'Odissea, il secondo grande poema attribuito a Omero. Odisseo e i suoi uomini furono spediti in terre lontane e sconosciute per i Greci. Lì Odisseo fu protagonista di diverse imprese, come il celebre incontro col ciclope Polifemo, incontro che gli costerà con l'eterna ira di Poseidone. Ebbe perfino un'udienza nell'aldilà col celebre indovino Tiresia. Sull'isola del Sole, la Trinacria, gli uomini di Odisseo mangiarono i buoi sacri ad Elio. Questo sacrilegio costò la vita ai compagni di Odisseo e la distruzione completa della flotta itachese. Odisseo, l'unico a non essersi cibato dei buoi del sole, fu anche l'unico ad avere salva la vita. A causa di una tempesta naufragò nell'isola di Ogigia dove visse insieme alla ninfa Calipso. Dopo sette anni gli dei decisero di rimandarlo a casa; su una piccola zattera riuscì a raggiungere la terra di Scheria, popolata dai Feaci, che lo aiutarono a tornare a Itaca.\nUna volta giunto a Itaca, Odisseo cercò di riprendere possesso della propria casa, vestito da mendicante. Venne riconosciuto dal fedele cane Argo che morì subito dopo. Lì scoprì che la moglie Penelope gli era rimasta fedele durante i suoi vent'anni di assenza, nonostante il palazzo fosse pieno di pretendenti che, in quel periodo, stavano scialacquando tutti i beni del re. Con l'aiuto di Telemaco, Atena, e il porcaro Eumeo, uccise tutti i pretendenti e le ancelle divenute loro amanti, lasciando soltanto in vita Medonte, l'araldo dei Proci, benvisto da Penelope, sempre gentile, e il cantore Femio che venne risparmiato per intercessione di Telemaco. Penelope però non accolse lo sposo all'istante, prima volle metterlo alla prova e, non appena lo riconobbe, lo perdonò per la sua assenza.\n\nLa Telegonia.\nLa Telegonia riprende la storia dell'Odissea dal momento in cui i pretendenti vengono sepolti fino alla morte di Odisseo. È anche stavolta Proclo a fornirci la trama del poema. Dopo l'eccidio dei Proci, Odisseo sarebbe giunto in Tesprozia, dove incontrò e sposò la bella regina Callidice; da questa unione nacque Polipete. Insieme alla sua nuova sposa Odisseo rivisse i fasti bellici, conducendo i Tesproti in guerra contro i Brigi. In questo contesto le truppe dell'eroe vennero messe in rotta da Ares, che tenne così testa ad Atena, protettrice come sempre di Odisseo, fintanto che Apollo non separò le due divinità contendenti. Soltanto dopo la morte di Callidice Odisseo lasciò la Tesprozia, il cui regno passò nelle mani del figlio Polipete, e rincasa definitivamente ad Itaca, accanto alla sua Penelope (divenuta nel frattempo madre di Poliporte). Dopo il ritorno di Odisseo, Telegono figlio dell'eroe e della dea Circe, si recò a Itaca e la depredò. Odisseo morì nel vano tentativo di difendere la propria isola, ucciso proprio dal figlio senza che essi si riconoscessero. Non appena Telegono scoprì di aver ucciso il padre, prese il suo corpo e lo portò alla madre, in compagnia di Telemaco e Penelope. Circe decise di rendere immortali i due figli di Odisseo e Penelope. Dopodiché Telemaco sposò Circe e Penelope Telegono.\n\nI viaggi di Enea e di Antenore.\nEnea riuscì a fuggire da Troia in fiamme, col padre Anchise, il figlio Ascanio (o Iulo in latino), il fratellastro Elimo, la nutrice Caieta, alcuni servi, lo scudiero Acate, il trombettiere Miseno, il medico Iapige e molti guerrieri troiani e loro alleati, portandosi dietro le statue degli antenati. Sua moglie Creusa morì invece durante il sacco della città.\nEnea e i suoi abbandonarono dunque Troia con una piccola flotta, cercando una nuova terra dove poter vivere.\nTentarono di stabilirsi prima a Creta, da dove Dardano, primo re di Troia, era partito ma trovarono la terribile pestilenza mandata lì contro Idomeneo. Sostarono per breve tempo nella colonia di Eleno e Andromaca. Dopo sette anni giunsero sulle coste della Libia (come si chiamava allora l'Africa), dove la regina Didone, fuggita dalla natia Fenicia per non essere uccisa dal fratello, che le aveva già assassinato il marito Sicheo, stava fondando la città di Cartagine. Qui Enea, ebbe una relazione con la regina Didone. Gli dei decisero però che il viaggio doveva continuare, perché questo era il volere del Fato. Didone per la disperazione si uccise ma prima di morire maledisse la discendenza di Enea, dando così origine all'odio che avrebbe diviso, secoli dopo, i Romani e i Cartaginesi. Enea e i suoi uomini giunsero infine in Italia. Lì la Sibilla Cumana lo fece scendere nell'Ade, mostrando i grandi uomini che sarebbero discesi da lui.\nGiunto infine in Lazio, Enea chiese l'appoggio del re di Laurento, Latino, e la mano della figlia di quest'ultimo, Lavinia. Tutto questo provocò una guerra con le varie tribù locali che si concluse col duello fra Enea e Turno, legittimo pretendente alla mano della fanciulla. Enea uccise il suo nemico e insieme al figlio Ascanio fondò la città di Albalonga. Da Silvio, figlio avuto con Lavinia, discesero Romolo e Remo, mitici fondatori di Roma.\nI dettagli del viaggio di Enea, il suo amore per Didone, lo scontro con Turno sono l'argomento dell'opera di Virgilio, l'Eneide.\nAnche Antenore, il vegliardo troiano, emigrò in Italia, giungendovi però prima di Enea. Egli approdò in Veneto: con lui c'erano i pochi figli superstiti e alcuni combattenti alleati, tra cui il principe meone Mestle e gli Eneti della Paflagonia (che a Troia avevano perso il loro comandante Pilemene), da cui poi i Veneti. Antenore e Mestle fondarono rispettivamente Padova e Mestre; in seguito un amico di Antenore, tale Opsicella, avrebbe contribuito alla formazione di un nuovo insediamento, Monselice.\n\nI più noti partecipanti.\nGreci.\nTroiani e loro alleati.\nBase storica.\nLa storicità della guerra di Troia è ancora oggetto di discussione. Alcuni pensano che le storie di Omero siano in realtà l'unione di diversi conflitti accesisi tra Greci e il mondo anatolico nel periodo miceneo. In questa unione lui inserisce inoltre le figure divine e diverse metafore. Già nell'antichità si dibatteva sulla storicità dell'evento: la maggior parte dei greci pensava che la guerra di Troia fosse un fatto realmente accaduto, altri pensavano che Omero avesse ingigantito a scopi poetici un avvenimento non famoso come quello descritto. Tucidide, famoso per il suo spirito critico, crede che sia un fatto realmente accaduto ma dubita, ad esempio, che 1186 navi possano davvero essere giunte a Troia. Euripide cambiò i connotati di diversi miti, inclusi quelli della guerra di Troia.\nFino agli anni '70 dell'Ottocento gli studiosi concordavano sul fatto che la guerra di Troia non fosse mai accaduta e fosse soltanto frutto di una mente ingegnosa. Heinrich Schliemann cambiò però le carte in tavola, scoprendo, con stupore di tutti, la città di Troia in Asia Minore e quella di Micene in Grecia.\nMolti studiosi oggi sono d'accordo sul fatto che la guerra di Troia possa avere un substrato reale, dubitando però del fatto che gli scritti di Omero narrino fedelmente la vicenda e delle sue proporzioni.\n\nWilusa, gli Ittiti e la confederazione di Assuwa.\nNel XX secolo alcuni studiosi hanno tentato di proporre delle conclusioni basandosi su testi ittiti e dell'Antico Egitto, contemporanei ai fatti della supposta guerra di Troia; il ricavato è una descrizione generale della situazione politica nella regione al tempo, ma senza alcuna informazione su questo specifico conflitto.\nI testi provenienti dagli archivi ittiti, potenza egemone in Anatolia nel II millennio a.C., come la lettera di Tawagalawa, parlano di un regno di Ahhiyawa, verosimilmente uno o più regni micenei, che giace oltre il mare (identificabile con l'Egeo) e controlla Millawata, nome con cui è riconoscibile Mileto, nota per essere stata una colonia achea.\nIn altri testi viene menzionata la cosiddetta confederazione di Assuwa, formata da 22 città dell'area Arzawa (Ovest anatolica), di cui fa parte anche la città di Wilusa, identificata da Schliemann con la Ilio (o Troia) omerica, città da sempre vassallo ittita. Un altro testo, la lettera di Millawata, spiega che questa città si trova nella zona nord della confederazione di Assuwa, oltre il fiume Seha.\nL'identificazione di Wilusa con Troia fu controversa negli anni novanta, ma guadagnò l'approvazione della maggioranza del popolo accademico ed è oggi accettata.\nIl quadro storico quindi propone Troia/Wilusa come una città-Stato realmente esistita, in posizione strategica per i commerci sullo stretto dei Dardanelli e quindi obiettivo molto appetibile, collocata in un'area dove i Micenei ebbero in effetti ripetuti e prolungati interessi politici e commerciali, più che sufficienti a far nascere un conflitto; unica discordanza significativa con i testi classici è il fatto che la città non fosse un potente regno indipendente, ma uno storico vassallo dell'impero più vasto del periodo, quello ittita.\nEsaminando i testi ittiti, si trova almeno uno scontro armato, con protagonisti Ittiti e Ahhiyawa, che coinvolga Wilusa: è quello narrato nella lettera di Manhapa-Tarhunta e poi ripreso a posteriori nella già citata lettera di Tawagalawa, databile al 1285-80 a. C. e quindi anche compatibile con la cronologia classica; lo scontro fu di proporzioni certo non paragonabili ai testi omerici, ma colpisce che un contingente acheo (o, comunque, supportato dagli Achei) attaccasse ed espugnasse Wilusa, riuscendo a governarla per un breve periodo. L'intervento del re Muwatalli II riporterà, però, in breve la città sotto il controllo ittita.\nNel trattato di Alaksandu (1280 a.C.), testo che segue il suddetto conflitto, il nuovo re della città che rinnova il vassallaggio verso gli Ittiti, è chiamato appunto Alaksandu: deve essere notato che il nome che Omero ci dà di Paride, il figlio di Priamo (ma così chiamato anche altri testi), è Alessandro.\nLa successiva lettera di Tawagalawa, indirizzata al re Ahhiyawa da un sovrano ittita, conferma che fosse avvenuto uno scontro armato tra le due potenze: «Ora noi siamo venuti ad un accordo su Wilusa, sulla quale andammo a scontrarci'.\nNel 1230 a.C. circa il re ittita Tudhaliya IV (1237-1209 a.C.) intraprese una campagna militare contro alcuni Stati vassalli di quest'area che gli si erano ribellati in moti indipendentistici sobillati da Ahhiyawa.\nÈ possibile, dunque, che alla base della leggenda della guerra contro Troia vi siano stati ripetuti conflitti di modesta entità che avrebbero visto coinvolti l'impero ittita, i sovrani Ahhiyawa e gli Stati dell'area Arzawa (Assuwa), poi cementatisi nella tradizione orale degli aedi in un unico, vasto conflitto.\nQuesta visione è stata sostenuta perché l'intera guerra include inoltre lo sbarco in Misia (e il ferimento di Telefo), le campagne di Achille nel nord dell'Egeo, le campagne in Tracia e Frigia di Aiace Telamonio. La maggior parte di queste regioni facevano parte della confederazione di Assuwa. Si nota inoltre che c'è una grande somiglianza fra i nomi dei cosiddetti Popoli del Mare che in quel tempo facevano scorrerie in Egitto, come sono elencati da Ramses III e Merenptah, e i nomi degli alleati di Troia.\nAncora vi è dibattito sull'esistenza reale di quei fuochi che passando per tutta la Grecia avvertivano gli Achei rimasti in patria dell'esito della guerra o se questa sia soltanto un'invenzione di Eschilo. Mentre c'è chi attesta che ci fosse davvero questa rete di comunicazione al tempo della Grecia antica e del periodo bizantino, non sappiamo se vi fosse ai tempi della guerra di Troia. Eschilo è l'unica fonte che lo menziona, nel prologo della tragedia Agamennone.\nIl fatto poi che la maggior parte degli eroi achei, tornati dalla guerra, abbiano deciso di non tornare in patria, ma di fondare colonie in altri luoghi viene spiegato da Tucidide col fatto che quelle città, senza un comandante, erano in declino a causa della loro assenza. L'interpretazione più seguita dagli studiosi è che i comandanti achei furono cacciati dalle loro terre per dei tumulti alla fine dell'epoca micenea e preferirono richiamare i discendenti dall'esilio della guerra di Troia.\n\nLe scoperte di Schliemann.\nLa scoperta nel 1870 dell'archeologo e uomo di affari Heinrich Schliemann delle rovine di Troia sulla collinetta di Hissarlik in Turchia hanno rilanciato un vecchio dibattito sulla storicità degli avvenimenti riferiti da Omero. Carl Blegen concludeva, nel 1963, in seguito ai suoi lavori realizzati a partire dalle scoperte di Schliemann e il ritrovamento del cosiddetto 'tesoro di Priamo', che probabilmente vi fu uno scontro tra Greci e Troiani. Tuttavia, fu attestato che il tesoro in questione risaliva al II millennio a.C. e non poteva dunque essere associato all'episodio della guerra di Troia.\nSchliemann trovò nove strati basandosi sui poemi Omerici e scoprì che il settimo corrispondeva a quello risalente alla guerra di Troia, databile intorno al 1220 a.C.\nPer Claude Mossé, professore all'Università di Parigi, non si potrà mai provare con certezza l'esistenza o no del conflitto. Quanto agli storici antichi, Tucidide dice già che l'importanza che Omero aveva dato al conflitto era esagerata: la guerra avrebbe sì avuto luogo, ma l'importanza che i Greci le diedero fu influenzata dal loro forte sentimento di nazionalismo.\nGli scavi che sono stati realizzati sul sito della città di Troia hanno permesso di mettere in evidenza la presenza di diversi strati, tutti di epoche diverse.\n\nPossibili teorie.\nLa città di Troia VI (1800-1300 a.C.) è quella che corrisponde al periodo di massimo splendore della città, era munita di bastioni e la sua zona abitata occupava circa venti chilometri quadrati, avrebbe dunque potuto resistere anche a una guerra di dieci anni. La Troia VI è inoltre datata alla stessa epoca dell'apogeo miceneo (da non dimenticare che Agamennone, comandante supremo della spedizione, era appunto re di Micene). La città è stata distrutta da un terremoto, attestato dall'archeologia. Questa catastrofe naturale potrebbe essere all'origine della leggenda del cavallo di Troia, un'offerta a Poseidone, che era inoltre dio dei terremoti.\nComunque, il corpus di miti e leggende su Troia dei Greci prevedeva una distruzione di Ilio a causa di un terremoto, a cui era seguita la conquista di Ercole, che aveva risparmiato solo un piccolo principe, Priamo.\nInoltre, non dobbiamo prendere alla lettera il periodo di 10 anni (o meglio 9 anni d'assedio e vittoria al decimo), proposto da Omero: nell'età del bronzo in Mesopotamia si usava l'espressione '9 e poi un altro' per indicare una quantità di tempo molto lunga, così come l'espressione italiana 9 volte su 10 non vuole indicare quantità precise.\nQuando il corpus dell'Iliade fu composto, probabilmente, l'espressione era utilizzata in questo senso, ma rimase poi, intesa in senso letterale, nel poema.\nSchliemann scoprì in seguito (1876) la rocca di Micene.\n\nLe armi della guerra di Troia.\nAnche se Micene, grande potenza marina, scagliò contro Troia un esercito di 1200 navi e sebbene Paride avesse costruito una flotta prima di partire verso Sparta, nell'Iliade non vi è alcuna battaglia marina. Perecleo stesso, il costruttore navale di Troia, combatte a piedi.\nGli eroi dell'Iliade erano abbigliati accuratamente e rivestiti di armature splendide e ben disegnate. Loro percorrevano il campo di battaglia sopra carri da guerra, da lassù scagliavano una lancia sulla formazione nemica, scendevano, tiravano l'altra lancia, dopodiché prendevano parte al combattimento corpo a corpo. Aiace Telamonio portava con sé un gigantesco scudo rettangolare che non solo proteggeva lui, ma anche il fratello Teucro:.\n\nLe armi e le armature descritte nell'Iliade vennero ritenute a lungo conformi a quelle del medioevo ellenico, ma differenti da quelle della tarda età del bronzo, in particolare perché non si conoscevano armature di bronzo nell'età del bronzo micenea.\nNel ventunesimo secolo, pur riconoscendo che molte tattiche, armi e pratiche militari descritte nel poema omerico (ed in altre opere relative) si riferiscono all'età del ferro (e anche ad epoche immediatamente successive al medioevo ellenico), si scoprono interessanti corrispondenze tra le tecnologie micenee (e anatoliche) di quel periodo e quelle descritte nei poemi omerici.\nIn particolare la panoplia di Dendra dimostra l'esistenza di armature di bronzo in età micenea (anche se di tipo differente da quelle descritte nel poema) per altro con un elmo, in cuoio e zanne di cinghiale, identico a quello descritto da Omero per Odisseo. A Tebe è poi stata scoperta un'armatura d'età micenea più compatibile con quelle descritte nel poema (snodata e ricca di lacci di cuoio che sostengono varie piastre), a Cnosso è stato rinvenuto un vaso a forma di corazza (compatibile con quelle dell'Iliade e appena più antico), mentre le armature a campana (tipiche dell'età del ferro greca) sono rare nei poemi omerici.\nInoltre nelle tavolette di lineare B si scoprono sempre più numerosi riferimenti ad armature ed elmi a piastre, di tipo modulari, molto simili a quelle descritte nei poemi omerici, dove sono definiti Tretrafaleros, mentre reperti militari simili a quelli descritti nel poema sono rinvenuti (o rappresentati) in livelli della tarda età del bronzo ciprioti ed anatolici.\nInfine lo scudo a torre (simile a quello di Aiace), inizialmente considerato poco corrispondente alla tarda età del bronzo (ma presente tra il 1500 e il 1300 a.C. soprattutto a Tirinto ed in contesti minoici, associato a scudi a 8), è stato trovato raffigurato su diversi frammenti di ceramica d'tà compresa tra il 1300 e il 1100 a.C.\nOmero descrive in alcuni momenti una formazione da battaglia molto simile alla falange, sebbene questa appaia solo nel VII secolo a.C. Ma era davvero in questa maniera che fu combattuta la guerra di Troia? La maggior parte degli studiosi crede di no. Il carro da guerra era il mezzo principale in questa guerra, come nella battaglia di Kadesh, ad essa probabilmente contemporanea. Comunque si evidenzia nei dipinti del palazzo di Pilo che i Greci combattessero sul carro da guerra in coppia, l'auriga e il combattente con una lancia lunga in mano, a differenza dei carri a tre ittiti, con due guerrieri con lance corte, o quelli egiziani, con arco e frecce. Omero è consapevole di questo e nell'Iliade è evidenziato l'uso principale del carro in guerra.\nNestore dice nel quarto libro dell'Iliade:.\n\nPer Omero questo è però un modo di combattere antiquato, usato principalmente da vecchi combattenti o da uomini di un piccolo regno, come Pilo. Nestore descrive una battaglia fra Pilo e l'Elide, il cui mezzo principale era il carro da guerra. In quel periodo era giovane, ma al tempo della guerra di Troia Nestore è molto anziano.\nAchille usa invece il suo carro principalmente per avanzare dietro le file nemiche e colpire da dietro, provocando così un terribile massacro. Karykas crede che la lotta sui carri da guerra sia stata abbandonata dai Greci un po' prima della guerra di Troia e che quindi Omero descriva i fatti come sono realmente accaduti. Fra i seguaci di questa teoria c'è chi crede che Omero spieghi i fatti realisticamente perché egli stesso era presente ai fatti, diversi scrittori, antichi e moderni, hanno svolto anche incarichi bellici, ricordiamo ad esempio Archiloco, poeta della lirica antica. Omero descrive la guerra come lui stesso l'ha vissuta.\nVi è però un certo consenso nel ritenere che Omero, ammesso che sia esistito e non sia la somma di più poeti, visse durante il medioevo ellenico o subito prima della fine di questo. In particolare dovrebbe essere stato molto anziano quando Esiodo era molto giovane. Quindi è verosimile che descriva la guerra a lui contemporanea, ma questa sia quella del medioevo ellenico, con l'aggiunta di alcuni elementi, veritieri, tramandati oralmente, come gli elmi di corni di cinghiale e i carri da guerra.\nVi è poi un'ulteriore possibilità: verso il 1200-1300 a.C. è presumibile, anche se discusso, che i metodi di guerra iniziarono a cambiare; già a Kadesh la fanteria può essersi schierata dietro selve di scudi, formando un'istrice di lance (una sorta di protofalange, ancora piuttosto lasca ed irregolare, proprio come quella descritta da Omero) mentre l'armatura e l'armamento dei fanti si potenziavano. Verso il 1100 a.C. potrebbe quindi essere nata una fanteria pesante, capace di tener testa ai carri da guerra, e quindi questi si siano trovati degradati a taxi da battaglia, conformemente a quanto descritto nell'Iliade.\nQuesto stile di combattimento fu poi conservato fino al IX o VIII secolo a.C. quando iniziò, verso la fine del medioevo ellenico, a svilupparsi la moderna panoplia greca e caria, e quindi fu possibile combattere con 'vere' falangi.\nSi tenga inoltre presente che il carro da guerra era l'unico tipo di cavalleria militare possibile durante l'età del bronzo, poiché la monta dei cavalli (per altro, all'epoca, alti 90–120 cm, anche se conformati già come cavalli e non come pony) era poco praticata, difficoltosa e, senza morso e sella, impediva al cavaliere di essere contemporaneamente armato. Solo verso il 1000 a.C. fu possibile incontrare delle cavallerie militari 'vere' (arcieri a cavallo Sciiti, Medi, Persiani e Cimbri).\n\nLa guerra di Troia nella letteratura e nell'arte.\nIliade e Odissea sono il modello della letteratura epica occidentale, sebbene abbiano una struttura narrativa profondamente diversa. L'Iliade è un esempio di narrazione cronologica degli eventi: tuttavia, rispetto alle favole, il racconto si concentra su un fulcro della vicenda. L'Odissea è uno dei primi esempi letterari di narrazione non cronologica e di uso del flashback: si trattò di innovazioni notevoli rispetto all'epica tradizionale.\nOltre ai testi di Omero, dei tragediografi e del ciclo epico, la guerra di Troia è, in particolare, trattata in: Aiace di Ugo Foscolo, Troilo e Criseide di Geoffrey Chaucer, Troilo e Cressida di William Shakespeare, Ifigenia e Polissena di Samuel Coster, Palamede di Joost van den Vondel e le Troiane di Hector Berlioz.\nIn campo pittorico è notevole la Sala dell'Iliade nella Villa Valmarana 'Ai Nani', con affreschi di Giovanbattista Tiepolo. La guerra di Troia è stata rappresentata nel cinema e in produzioni televisive: basti ricordare le pellicole Elena di Troia di Robert Wise (1956), La guerra di Troia di Giorgio Ferroni (1961), L'ira di Achille di Marino Girolami (1962) e Troy di Wolfgang Petersen (2004). Quest'ultima sebbene non sia fedele al mito omerico ne dimostra il duraturo fascino. Da citare, infine, il fumetto L'età del bronzo di Eric Shanower.
@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Hadestown (musical).\n### Descrizione: Hadestown è un musical con colonna sonora e libretto di Anaïs Mitchell. Basato sul quarto album della Mitchell, il musical racconta in chiave indie punk il mito di Orfeo ed Euridice, in un'ambientazione post-apocalittica vagamente ispirata alla Grande depressione. Il musical debuttò nell'Off Broadway nel 2016 con la regia di Rachel Chavkin e, dopo numerose revisioni e cambiamenti, nuove produzioni sono andate in scena ad Edmonton (2017), Londra (2018) e Broadway (2019). Al suo debutto a Broadway ha vinto il Tony Award al miglior musical.\n\nTrama.\nAtto I.\nIn un periodo post-apocalittico di grande povertà, il dio Ermes, il narratore, introduce i protagonisti: il musicista squattrinato Orfeo, la bella Euridice, Persefone, Ade e le Moire ('Road to Hell'). Euridice e le Moire descrivono come vivono in un mondo in cui non esistono più la primavera e l'autunno, ma solo estati brucianti e inverni tempestosi e gelidi, e per questo si è costretti a spostarsi in continuazione e non si possono creare relazioni, ma nonostante ciò Euridice sogna di fermarsi e vivere una vita stabile. Orfeo invece vive sotto la protezione di Ermes dopo che sua madre, una musa, l'ha abbandonato ('Any Way the Wind Blows').\nEuridice arriva al villaggio di Orfeo e lui si innamora all'istante di lei e le chiede di sposarlo, Euridice però è diffidente, allora lui le rivela il suo piano di scrivere una canzone per riportare la primavera e la stabilità nel mondo ('Come Home With Me I'). Euridice è ancora un po' dubbiosa e gli chiede come faranno ad organizzare il matrimonio quando vivono tutti e due in povertà, Orfeo le risponde che con la sua musica riuscirà a convincere la natura ad aiutarli, allora lei lo spinge a cantare la sua canzone, nonostante non sia ancora finita, e rimane incantata quando Orfeo, cantandola, riesce a far sbocciare un fiore rosso ('Wedding Song'). In seguito Ermes chiede a Orfeo dove avesse sentito quella canzone e lo invita a cantare la storia di Persefone e Ade, facendogli scoprire che era la stessa canzone che gli dei cantavano quando il mondo era in armonia, molti anni prima ('Epic I').\nDopo un po' di tempo, in ritardo per la primavera, arriva Persefone a godersi la bella stagione e invitando gli abitanti a vivere con quello che si riceve dalla vita, mentre Orfeo brinda al mondo che sogna e alle speranze di un futuro migliore ('Livin' It Up On Top'). Dopo i festeggiamenti, Euridice riflette sul suo amore per Orfeo e come non voglia più tornare ad essere sola, e i due si promettono di stare sempre insieme attraverso tutte le difficoltà ('All I've Ever Known').\nNonostante non siano ancora passati sei mesi presto arriva un treno Ade, per riportare Persefone a Hadestown, e tutti cantano come Ade sia un uomo molto ricco che ha tutto, ma Hadestown sia un posto terribile in cui le persone vanno piene di sogni ma non tornano più, nonostante ciò Euridice è incuriosita ('Way Down Hadestown').\nCon il ritorno di Persefone nella fabbrica sotterranea di Ade, l'inverno ritorna sulla terra e per gli sposini la vita diventa sempre più dura ('A Gathering Storm'). Mentre l'inverno va avanti, Orfeo continua a scrivere musica mentre Euridice lo spinge a trovare un lavoro per mantenersi ('Epic II'). Intanto, nell'oltretomba, i lavoratori lavorano come schiavi e Persefone si lamenta con Ade, che la accusa di non apprezzare tutte le cose che lui fa per lei ('Chant I'). Ade lascia il suo regno sotterraneo, Hadestown, per cercare qualcuno che apprezzi il suo lavoro. Si imbatte in Euridice e la tenta con le promesse di lavoro e sicurezza ('Hey Little Songbird'). Sfinita dalla povertà, dalla fame e incoraggiata dalle Moire, la ragazza accetta ('When The Chips Are Dow'). Mentre se ne va parla ad Orfeo, dicendogli che nonostante lo ami non riesca più a sopportare la fame, mentre poi le Moire si rivolgono al pubblico dicendo di non giudicarla per le sue azioni senza aver provato le stesse cose e di come sia difficile avere principii quando si è in povertà ('Gone, I'm Gone').\nIntanto, Orfeo cerca Euridice ed Ermes gli annuncia che la donna ha lasciato la terra per Hadestown. Sconfortato, Orfeo decide di seguirla ed Ermes gli indica una strada alternativa e grazie alla sua musica riesce ad arrivare a destinazione ('Wait For Me'). Intanto a Hadestown, i lavoratori cantano come lavorare sul muro li renda liberi e li protegga dalla povertà ed Euridice viene portata nell'ufficio di Ade per firmare il contratto e iniziare a costruire anche lei il muro ('Why Do We Build The Wall').\n\nAtto II.\nDopo aver firmato un contratto, Euridice realizza di non poter uscire da Hadestown a meno che Ade non scelga di lasciarla andare; resasi conto dell'inganno, lei rimpiange la decisione ma sa di non poter fare nulla per cambiare. Orfeo arriva e supplica Euridice di tornare da lui, ma la donna gli confessa di non poter lasciare Hadestown. Ade irrompe in scena e fa inseguire Orfeo, a cui le Moire consigliano di lasciar perdere, ma Persefone ascolta il dolore di Orfeo e chiede al marito di lasciare andare Euridice. Ade decide di dare ad Orfeo una possibilità e gli ordina di esprimere i suoi sentimenti in musica.\nOrfeo canta la canzone che stava scrivendo per Euridice: la musica ricorda ad Ade del suo amore per Persefone e si commuove, ponendolo quindi in una posizione delicata, perché se lasciasse andare Euridice minerebbe la sua autorità, ma se non lo facesse verrebbe meno alla parola data. Così, decide di lasciare il tutto nelle mani di Orfeo: Ade lascia andare Euridice alla condizione che il cantante non si volti mai per controllare che la ragazza lo stia seguendo. Orfeo fa come gli è stato ordinato ma, a pochi passi dalla fine, si volta e perde Euridice per sempre. Anche se la loro storia finisce tragicamente, Ermes ricorda che il ruolo dell'artista è quello di cantare dei limiti umani, raccontando in eterno la stessa storia nella speranza che questa volta possa finire diversamente.\n\nNumeri musicali.\nNew York Theatre Workshop (2016).\n†Non incluso nell'incisione discografica.\n‡ Non incluso nell'album della Mitchell.\n\nCitadel Theatre, Edmonton (2017).\nLondra e Broadway (2018-2019).\nProduzioni.\nLa prima incarnazione del musical avvenne tra il 2005 e 2006 nel Vermont, lo stato natio della Mitchell, sotto forma di concerto. Dopo la pubblicazione dell'album nel 2010, l'artista continuò a lavorare sul suo progetto; nel 2012, dopo aver visto una produzione di Natasha, Pierre & The Great Comet of 1812, Anaïs Mitchell contattò la regista del musical, Rachel Chavkin, con cui continuò a lavorare sul musical. La Mitchell aggiunse 15 nuove canzoni all'album originale e scrisse anche i dialoghi, per colmare i vuoti della narrazione e rendere i personaggi più tridimensionali e complessi.\nLa prima del musical avvenne al New York Theatre Workshop nell'Off Broadway il 3 maggio 2016 ed Hadestown rimase in scena fino al 31 luglio. Il cast comprendeva Damon Daunno (Orfeo), Nabiyah Be (Euridice), Amber Gray (Persefone), Patrick Page (Ade), Chris Sullivan (Ermes) e Lulu Fall, Jesse Shelton e Shaina Taub (More). Il musical fu candidato all'Outer Critics Circle Award e al Drama Desk Award al miglior musical.\nDall'11 novembre al 3 dicembre 2016 Rachel Chavkin diresse un nuovo allestimento del musical, al Citadel Theatre di Edmonton. Amber Gray e Patrick Page tornarono a interpretare le divinità infernali, mentre T.V. Carpio ricopriva la parte di Euridice, Reeve Carney quello di Orfeo e Kingsley Leggs vestiva i panni di Ermes.La prima europea del musical, sempre con la regia di Chavkin, avvenne al Royal National Theatre il 2 novembre 2018 ed Hadestown rimase in cartellone fino al 26 gennaio 2019. Carney, Page e Gray tornarono ad interpretare i rispettivi ruoli, mentre Eva Noblezada si unì al cast nel ruolo di Euridice ed André De Shields in quello di Ermes. Nella primavera del 2019 il musical debutta a Broadway con il cast del National Theatre. Hadestown fu accolto molto positivamente dalla critica newyorchese ed è stato candidato a quattordici Tony Award, vincendone otto: Miglior musical, Miglior colonna sonora originale (Mitchell), Miglior regia di un musical (Chavkin), Miglior attore non protagonista (De Shields), Miglior scenografia (Rachel Hauck), Miglior disegno luci (Bradley King), Miglior sound design (Nevin Steinberg & Jessica Paz) e Migliori orchestrazioni (Michael Chorney & Todd Sickafoose).
@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Hadestown.\n### Descrizione: Hadestown è il quarto album della cantautrice Anaïs Mitchell pubblicato nel 2010 dalla Righteous Babe Records di Ani DiFranco. Si può considerare una vera e propria folk opera, rivisitazione nella America moderna dell'antico mito di Orfeo ed Euridice.Alla realizzazione del disco, arrangiato da Michael Chorney e con Ben T. Matchstick come art director, hanno partecipato molti ospiti tra cui la stessa Ani DiFranco, Justin Vernon, Greg Brown.\n\nTracce.\nWedding Song featuring Justin Vernon – 3:18.\nEpic (Part I) featuring Justin Vernon – 2:22.\nWay Down Hadestown featuring Justin Vernon, Ani DiFranco e Ben Knox Miller – 3:33.\nSongbird Intro – 0:24.\nHey, Little Songbird featuring Greg Brown – 3:09.\nGone, I'm Gone featuring The Haden Triplets - 1:09.\nWhen the Chips are Down featuring The Haden Triplets - 2:14.\nWait for Me featuring Ben Knox Miller e Justin Vernon - 3:06.\nWhy We Build the Wall featuring Greg Brown - 4:18.\nOur Lady of the Underground featuring Ani DiFranco - 4:40.\nFlowers (Eurydice's Song) - 3:33.\nNothing Changes featuring The Haden Triplets - 0:52.\nIf it's True featuring Justin Vernon - 3:03.\nPapers (Hades Finds Out) - 1:24.\nHow Long? featuring Ani DiFranco e Greg Brown - 3:36.\nEpic (Part II) featuring Justin Vernon - 2:55.\nLover's Desire - 2:05.\nHis Kiss, The Riot featuring Greg Brown - 4:03.\nDoubt Comes In featuring Justin Vernon - 5:32.\nI Raise My Cup to Him featuring Ani DiFranco - 4:32.\n\nIl musical.\nL'album è stato ampliato dalla Mitchell nell'omonimo musical teatrale debuttato ad Edmonton, in Canada, nel 2016 e che negli anni successivi ha debuttato anche a Londra (2018) e Broadway (2019).
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### Titolo: Heinrich Schliemann.\n### Descrizione: Heinrich Schliemann (Neubukow, 6 gennaio 1822 – Napoli, 26 dicembre 1890) è stato un imprenditore e archeologo tedesco.\nDivenne una delle figure più importanti per il mondo dell'archeologia per la rilevanza delle scoperte da lui compiute nel XIX secolo. Raggiunse il massimo culto con la scoperta, dopo anni di ricerche e studi, della mitica città di Troia e del cosiddetto tesoro di Priamo.\n\nBiografia.\nHeinrich Schliemann nacque a Neubukow il 6 gennaio 1822, nel Granducato di Meclemburgo-Schwerin, quinto dei nove figli del pastore protestante Ernst Schliemann (1780-1870) e di Luise, nata Bürger (1793-1831), figlia del sindaco di Sternberg. Fu originariamente battezzato col nome Julius, ma, in seguito alla morte di un fratello, i genitori gli attribuirono il nome del deceduto.\nFu il padre a trasmettere a Heinrich l'amore per le civiltà passate, leggendo i versi dei poemi omerici e descrivendo le gesta degli eroi antichi della leggendaria città di Troia, fino ad allora ritenuta dagli studiosi solo frutto della fantasia. Nel 1829 gli venne regalato un libro di storia per bambini e, secondo quanto affermato nella sua autobiografia, rimase impressionato da un'illustrazione raffigurante Troia in fiamme e, chiedendo lumi al padre sull'imponenza delle mura, il piccolo Heinrich espresse il desiderio di ritrovarle.\nHeinrich frequentò la scuola elementare nel villaggio di Ankershagen, dove il padre era stato trasferito. A nove anni perse la madre e fu affidato alle cure dello zio paterno, il pastore Friedrich Schliemann, che abitava nei pressi di Grevesmühlen. Lo zio affidò la preparazione per il ginnasio al giovane filologo Carl Andress, che apprezzò i rapidi progressi del giovane Heinrich. Schliemann frequentò solo per pochi mesi il ginnasio di Neustrelitz, poiché fu infatti costretto all'abbandono e al trasferimento alla locale Realschule per la scarsità dei mezzi finanziari paterni.\nNel 1836 abbandonò gli studi e iniziò l'apprendistato presso un piccolo commerciante di Fürstenberg. Dimenticò così tutto quello che aveva imparato fino a quando, sempre secondo quanto narrato nella sua autobiografia, venne colpito dalla bellezza di alcuni versi in greco recitati da un ubriaco, il figlio di un pastore locale espulso dal ginnasio per cattiva condotta e divenuto apprendista di un mugnaio. Schliemann racconta quindi di avere speso gli ultimi centesimi che gli rimanevano per comprare da bere all'uomo, purché ripetesse i versi recitati che lo avevano profondamente colpito, tanto da fargli desiderare di imparare il greco antico. Solo in seguito scoprì che erano versi tratti dall'Iliade e dall'Odissea.\nDopo cinque anni e mezzo dovette interrompere l'apprendistato a causa di un incidente sul lavoro che ne compromise la salute. Nel 1841 si trasferì ad Amburgo ma, indebolito nel fisico e poco avvezzo nella pratica della contabilità e della corrispondenza commerciale, non riuscì a trovare un'occupazione stabile. Decise quindi di emigrare in Venezuela e s'imbarcò su una nave che naufragò sulle coste dell'isola olandese di Texel. Ad Amsterdam lavorò come fattorino e, da autodidatta, imparò l'inglese, il francese, l'italiano e il russo.\nNel 1850 salpò per gli Stati Uniti, dove incominciò ad arricchirsi, prestando denaro ai cercatori d'oro. Subì un processo per frode e quindi tornò a San Pietroburgo, dove qualche anno prima aveva intrapreso la carriera di commerciante.\nNel 1852 sposò Caterina Petrovna Lyschinla, figlia di un avvocato benestante della città russa. La guerra di Crimea, che scoppiò l'anno dopo, gli portò una grande ricchezza: Schliemann rifornì di vettovaglie e materiale bellico le truppe dello zar. Contemporaneamente iniziò a studiare nuove lingue, circa una ventina: all'inizio francese, inglese, spagnolo, ma poi anche altre come arabo ed ebraico, e il greco antico per poter leggere direttamente le imprese degli eroi narrate dal mitico cantore. Schliemann ideò un metodo di studio assai efficace; infatti le prime lingue le studiò in un anno, ma le ultime, come l'arabo, in sole sei settimane.\n\nLa spedizione in Anatolia.\nNel 1868, ritiratosi dagli affari, Schliemann si dedicò alla realizzazione dei suoi sogni, i viaggi e le scoperte archeologiche. Frequentò lezioni alla Sorbona di Parigi, fece un primo viaggio in Grecia seguendo la guida dei poemi omerici, e presentò questo resoconto di viaggio come tesi di laurea a Rostock nel 1869. Il 24 settembre 1869, divorziato dalla moglie russa, si sposò ad Atene con la giovane greca Sophia Engastromenou ed ebbe due figli, Andromaca (1871−1962) e Agamennone (1878−1954). Nel 1870 intraprese un viaggio verso la Cina e il Giappone. Successivamente si trasferì in Italia, in Grecia e infine in Turchia.\nPresso la collina di Hissarlik iniziò la ricerca delle mura di Troia con la collaborazione di Frank Calvert, viceconsole britannico proprietario dei terreni, che già aveva ipotizzato di poter trovare le rovine della città presso quel sito. In quell'anno effettuò un primo scavo clandestino, suscitando le ire del governo turco. Nel 1871 ottenne l'autorizzazione a compiere le ricerche in terra turca e organizzò a proprie spese una spedizione archeologica in Anatolia, sulla sponda asiatica dello stretto dei Dardanelli, luogo che la tradizione indicava come possibile sito della città di Troia.\nL'archeologo tedesco fermò la propria attenzione sulla collina di Hissarlik, un'altura in posizione favorevole per una roccaforte, dalla quale si poteva dominare tutta la piana circostante. Seguendo le indicazioni e le descrizioni dei testi omerici, il 4 agosto 1872 Schliemann rinvenne vasellame, oggetti domestici, armi e anche le mura e le fondamenta non di una sola città, quella di Priamo, ma di ben altre otto città diverse, costruite l'una sulle rovine dell'altra. I risultati delle ricerche furono resi noti nel 1874 nell'opera Antichità troiane. All'inizio le scoperte furono accolte con scetticismo.\nGrazie all'analisi degli oggetti rinvenuti e delle tecniche costruttive utilizzate, gli archeologi che hanno portato a termine il lavoro iniziato da Schliemann hanno potuto datare vari strati e tracciare le piante delle ricostruzioni, in cui si notano i cerchi concentrici delle cinte murarie:.\n\nI strato (3000 a.C.): villaggio dell'età del bronzo antico, con ritrovamenti di utensili in pietra e di abitazioni dalla struttura elementare.\nII strato (2500- 2000 a.C.): piccola città con mura caratterizzate da porte enormi, presenza del megaron (palazzo reale) e case in mattoni crudi che recano segni di distruzione da incendio, che Schliemann suppose potessero riferirsi ai resti della reggia di Priamo, rasa al suolo dagli Achei.\nIII - IV - V strato (2000 - 1500 a.C.): tre villaggi distrutti ognuno dopo poco tempo dalla fondazione.\nVI strato (1500 - 1250 a.C.): grande città a pianta ellittica disposta su terrazze ascendenti, fortificata da alte e spesse mura, costituite da enormi blocchi di pietra squadrati e levigati, con torri e porte. La distruzione della città dovrebbe essere avvenuta intorno alla metà del XIII secolo a.C., forse a causa di un terremoto.\nVII strato (1250 - 1200 a.C. ): la città precedente fu immediatamente ricostruita, ma ebbe vita breve. I segni di distruzione da incendio hanno indotto Blegen a identificare questo strato come quello corrispondente alla Troia omerica.\nVIII strato (VII secolo a.C.): colonia greca priva di fortificazioni.\nIX strato (dall'età romana al IV secolo): costruzioni romane edificate sulla sommità spianata della collina e rifacimento.L'insediamento decadde con la caduta dell'Impero romano d'Occidente.\n\nNei primi scavi l'archeologo commise gravi errori, demolendo costruzioni e mura che avrebbero permesso di ottenere ulteriori e importanti informazioni, ma la sua opera è ugualmente molto importante, come afferma lo storico tedesco Edward Meyer:.\n\nIl tesoro di Priamo.\nIl 15 giugno 1873, ultimo giorno di scavo prima della sospensione dei lavori, Schliemann effettuò una nuova e importantissima scoperta. Alla base delle 'mura ciclopiche' del II strato vide qualcosa che attirò la sua attenzione. Allontanati gli operai e aiutato solo dalla moglie Sophia Engastromenou, riportò alla luce un tesoro costituito da migliaia di gioielli d'oro, per la precisione più di 8 700, definito come il tesoro di Priamo, che il Re aveva nascosto prima della distruzione della città.\nQuesto tesoro era stato trovato alla profondità di 10 metri, in un recipiente di rame largo 1 metro e alto 45 cm.\nSchliemann riuscì a esportare segretamente il tesoro in Grecia, per questo venne accusato dalla Turchia di esportazione illegale e costretto a pagare un'ingente multa. L'archeologo tuttavia pagò una somma maggiore pur di divenirne il proprietario, quindi decise di donare il tesoro alla Germania, dove questo rimase fino alla seconda guerra mondiale.\nIl 6 marzo 1945, Adolf Hitler ordinò che fosse nascosto nelle miniere di sale di Helmstedt, in previsione della sconfitta e per evitare che cadesse in mano ai sovietici. L'ordine di Hitler non venne eseguito e il tesoro finì a Mosca.\nNegli anni successivi i russi smentirono che questo si trovasse nelle loro mani e così scoppiarono infinite polemiche. La prima conferma ufficiale della presenza del tesoro in Russia si ebbe nel 1993, da parte del ministro della cultura russo, che dichiarò che il tesoro si trovava a Mosca, al Museo Puskin, dal 1945.Attualmente quattro nazioni si contendono quel tesoro: la Turchia, dove è stato rinvenuto (che tuttavia lo vendette a Schliemann dopo averlo multato), la Grecia, erede della tradizione omerica, la Germania, a cui fu donato dall'archeologo, e la Russia, come bottino di guerra, dove si trova attualmente.\n\nLa spedizione a Micene.\nTra il 1874 e il 1876 Schliemann si recò 'nella vallata d'Argo che nutre cavalli', a Micene, 'ricca d'oro', come viene definita generalmente nei poemi omerici, le cui rovine erano ancora visibili e testimoniavano ai visitatori il ricordo dell'antico splendore. Seguendo le indicazioni del geografo greco Pausania, che intorno all'anno 170 aveva visitato e descritto quei luoghi, Schliemann elaborò l'ipotesi che le tombe dei sovrani della città si trovassero all'interno della cinta muraria.\n\nIl 7 agosto 1879 iniziò gli scavi e trovò uno spazio circolare individuato come l'agorà di Micene, in cui avvenivano le assemblee dei grandi della città e dove forse si era alzato l'araldo per convocare il popolo, come racconta Euripide nell'Elettra.\nSuccessivamente riportò alla luce una serie di tombe a pozzo e a cupola, che la tradizione attribuisce ai membri della dinastia degli Atridi: Agamennone, Cassandra ed Eurimedonte, e i suoi compagni uccisi dalla regina Clitemnestra e dal suo amante Egisto. Gli scheletri mostravano segni di combustione frettolosa e, secondo l'archeologo, chi aveva sepolto i corpi non aveva permesso al fuoco di bruciarli completamente, con la tipica fretta degli assassini.\nNelle tombe Schliemann trovò inoltre gioielli, armi, utensili, pettorali con cui erano solitamente adornati i morti di stirpe regale, maschere d'oro che conservavano ancora i lineamenti reali e non idealizzati dei defunti. Tra questi credette di individuare il volto del leggendario re Agamennone. Malgrado la maggior parte degli studiosi propenda per la sua autenticità, lo studioso statunitense William M. Calder III negli anni settanta ha messo in dubbio l'originalità della cosiddetta maschera di Agamennone, sostenendo che sarebbe un falso commissionato dallo stesso Schliemann, tesi ribadita in seguito da David A. Traill.\n\nUltimi anni.\nUn altro tipo di ricerca, meno noto, a cui Schliemann rivolse i propri interessi, riguardò il continente perduto di Atlantide. Egli infatti, ancora prima di arrivare a scoprire i resti della città di Troia, spinto dalla convinzione della sua esistenza, allora considerata una semplice leggenda, aveva tradotto un geroglifico egizio conservato a San Pietroburgo, nel quale si parlava di un faraone che aveva mandato una spedizione in Occidente a cercare tracce dell'antica terra atlantidea, da cui erano provenuti gli antenati degli Egizi portandone con sé l'ancestrale sapienza.Schliemann fu colto da un malore a Napoli, il 25 dicembre 1890. Privo di documenti fu riconosciuto da un otorino che lo aveva in cura grazie a un biglietto da visita che Schliemann aveva addosso. Morì il giorno successivo, probabilmente per i postumi di un'operazione recente alle orecchie.\nFu sepolto ad Atene nello stesso mausoleo che in seguito accoglierà le spoglie della moglie e della figlia Andromaca.\n\nOpere.\n(parziale).\n\nBericht über die Ausgrabungen in Troja in den Jahren 1871 bis 1873, Artemis & Winkler, 2000, ISBN 3-7608-1225-2.\nI tesori di Troia - Gli scavi di Schliemann a Troia, Micene e Tirinto, Biblioteca Universale Rizzoli, 1995, ISBN 88-17-11653-X.\nIlios: The City and Country of the Trojans, Ayer Co Publishers Inc, ISBN 0-405-08930-9.\nIthaka, der Peloponnes und Troja: archaologische Forschungen, Giesecke & Devrient, 1869.\nMycenæ: A narrative of researches and discoveries at Mycenæ and Tiryns, Arno Press, New York, ISBN 0-405-09851-0.\nTiryns, Arno Press, New York, ISBN 0-405-09853-7.\nTroja, Ayer Co Publishers Inc, ISBN 0-405-09852-9.\nTroy and Its Remains: A Narrative Researches and Discoveries Made on the Site of Ilium and in the Trojan Plain, Dover Publications, 1994, ISBN 0-486-28079-9.\nLa scoperta di Troia, Einaudi, 2006, ISBN 88-06-18339-7.
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### Titolo: Heraion (Samo).\n### Descrizione: L'Heraion di Samo era un grande tempio ionico dedicato ad Era e situato nella parte meridionale dell'isola di Samo (Grecia). Molte delle diverse fasi costruttive dell'Heraion sono state identificate anche grazie alla datazione dei materiali di copertura ritrovati nei pressi dell'edificio. La costruzione che risale al periodo tardo arcaico (VII-VI secolo a.C.) è stata determinante per la definizione dello stile ionico, ma esistono tracce di un edificio più antico, risalente all'VIII secolo (periodo geometrico) o precedente. Le rovine dell'Heraion di Samo sono entrate nella lista del patrimonio mondiale dell'Unesco nel 1992.\n\nContesto storico-artistico.\nI cinquant'anni tra VII e VI secolo a.C. furono, per la civiltà greca che abitava le coste ioniche dell'Asia Minore, anni di floridi commerci e di crescita culturale, di cui è rimasta traccia nell'ammirazione espressa da Erodoto per la popolazione di Samo alla quale si devono grandi realizzazioni urbanistiche e architettoniche, tra le quali lo storico greco annovera l'Heraion.\nRicchezza materiale e scambi culturali sarebbero all'origine del formarsi di uno stile proprio di questa zona geografica: la tendenza al gigantismo dei templi ionici viene considerata come una conseguenza della vicinanza delle grandi costruzioni dei sovrani persiani, mentre la ricerca dei valori ornamentali è probabilmente un retaggio minoico che lascia più spazio a libertà compositive rispetto alla contemporanea rigorosità dei templi dorici.\n\nDescrizione.\nIl primo edificio, o quello che è stato identificato come risalente all'VIII secolo era chiamato hekatompedon, «tempio di 100 piedi», corrispondenti ai 32 m di lunghezza dell'edificio, mentre la larghezza era di 20 piedi, circa 6,50 m. La cella era divisa in due navate da un'unica fila centrale di colonne che reggevano la copertura; sul fondo, leggermente decentrata, si trovava una base di pietra che reggeva la statua di culto in legno. Nella seconda metà dell'VIII secolo a.C. i costruttori di Samo aggiunsero una serie di colonne in legno su basi di pietra intorno alla lunga stanza.Questo primo edificio venne ricostruito una prima volta nel 670 a.C., probabilmente a seguito di una alluvione, e in questa occasione la cella, circondata da un portico di 6x18 colonne, venne liberata dal colonnato mediano per accrescere l'impatto visivo con la statua della dea sul fondo; una serie di pilastri, probabilmente lignei, sosteneva il tetto, e altri erano disposti intorno alla cella a distanza uniforme. Verso il 640 a.C. fu aggiunto un portico di oltre 60 m di lunghezza, diviso in tre navate da due serie parallele di pilastri di legno.\nFra il 570 e il 560 a.C., il tempio venne spostato a occidente e ricostruito su di un'area dodici volte più estesa di quella del precedente edificio. Gli artisti chiamati ad occuparsi di questa nuova costruzione furono Reco (Rhoikos) e Teodoro di Samo (Theodòros o Teodoro II) i quali progettarono un edificio di proporzioni enormi: 104 colonne nel peristilio su due file (fu il primo tempio diptero oggi noto), 8 colonne in fronte, 10 colonne su due file all'interno del pronao, 22 colonne, sempre su due file, all'interno della cella. La grande profondità del pronao rimarrà una regola degli edifici della Ionia, ma altri sono gli elementi in questo edificio che segneranno lo stile ionico nel suo formarsi: le colonne si ergevano non più direttamente dallo stilobate bensì da una base modanata a sezioni orizzontali, inoltre le ante erano decorate con sfingi a rilievo e cornici vegetali stilizzate. Di fronte al tempio si trovava l'altare ricostruito intorno al 550 a.C.\nTrascorsero circa dieci anni e il tempio di Rhoikos e Teodoro dovette essere ricostruito, a causa di un dissesto statico; un nuovo edificio sorse nello stesso luogo, ancora più vasto del precedente, iniziato da Policrate, tiranno di Samo tra il 538 e il 522 a.C. Il “tempio di Policrate”, al quale appartiene l'unica colonna visibile nel sito, misurava 108 x 55 m, prevedeva un alto stilobate, cui si accedeva mediante una gradinata, e tre file di colonne sui lati corti a seguire l'esempio del Tempio di Artemide a Efeso; ma i lavori per questo Heraion non vennero mai portati a termine e dal 391, anno dei Decreti teodosiani, il sito dovette subire, come tanti altri, la spoliazione e il reimpiego dei materiali.\n\nRicerche archeologiche.\nTra i reperti provenienti dal santuario di Hera ricordiamo: il kouros colossale e il 'Gruppo di Gheneleos' entrambi della metà del VI secolo a.C. e conservati al Museo Archeologico di Samo; le due korai di Cheramyes conservate al Louvre (Hera di Cheramyes) e a Berlino (Afrodite di Cheramyes), datate 570-560 a.C.
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### Titolo: Heraion di Argo.\n### Descrizione: Lo Heraion di Argo era un tempio dedicato ad Era che si trovava nell'Argolide.\n\nStoria.\nLa dea, come si può leggere anche nel IV libro dell'Iliade, era la protettrice della città di Argo e il sito, che si trova fra le antiche città di Micene ed Argo, potrebbe rappresentare il primo segno dell'introduzione del culto della dea nella Grecia continentale. Pausania, che visitò questa regione nel II secolo d.C., si riferì al tempio col nome di Prosymna.\n\nIl sito.\nL'edificio, costituito da uno spazio interno a pianta rettangolare e coperto da un tetto a due falde, presenta sul fronte una finestra per l'illuminazione dell'interno ed un porticato sostenuto da due colonne.\nIl temenos occupa tre livelli terrazzati artificialmente. Il Vecchio tempio, distrutto da un incendio nel 423 a.C., ed un altare costruito all'aperto occupano la terrazza superiore. Nel secondo livello si trova il Nuovo tempio, costruito dopo l'incendio da Eupolemo di Argo, in cui si trovava la famosa statua crisoelefantina di Era che la letteratura antica attribuisce a Policleto; su questo livello si trovavano anche altre strutture, fra cui il primo esempio di edificio dotato di un peristilio aperto, a sua volta circondato da una stoà dotata di colonne. La terrazza inferiore presenta le rovine di un'antica stoà.\nUn cimitero di epoca micenea venne portato alla luce dall'archeologo Carl Blegen nei pressi dell'heraion, mentre in epoca romana qui vennero costruiti dei bagni ed una palestra.\nSecondo una leggenda riportata da Ditti Cretese, nell'Heraion di Argo venne deciso che sarebbe stato Agamennone a guidare la guerra contro Troia. Di fatto sul luogo sono stati ritrovati resti archeologici che datano al periodo in cui l'Iliade venne composta (quindi è possibile che l'autore dell'Iliade conoscesse il tempio), mentre non è detto che il tempio esistesse all'epoca storica della guerra di Troia che risale a qualche secolo prima, anche se intorno al sito sono stati ritrovati reperti risalenti ad un'epoca ancora precedente.\nIl sito venne riscoperto per la prima volta nel 1831 da un archeologo inglese, T. Gordon, che iniziò i primi scavi cinque anni più tardi. Nel 1874 vennero condotte brevi ispezioni da parte di Heinrich Schliemann, dopodiché iniziarono gli studi dell'archeologia moderna. Charles Waldstein scoprì un gruppo di pezzi di ferro oboloi, tutti dello stesso peso e lunghezza: si trattava probabilmente degli standard delle unità di peso e misura, da cui derivò il significato dell'obolo, che valeva un sesto della dracma.
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### Titolo: Heraion di Olimpia.\n### Descrizione: L'Heràion di Olimpia è un tempio greco eretto intorno al 600 a.C. Si tratta di uno dei più antichi templi dorici, uno dei primi peripteri e sicuramente il più antico con dei resti ancora leggibili e capaci di far comprendere la conformazione generale dell'edificio, anche in alzato.È stato uno dei primi edifici costruiti presso il santuario di Zeus ad Olimpia. L'edificio è localizzato nella parte nord del recinto dell'area sacra della città e fu dedicato ad Era, una delle divinità più importanti della religione greca, anche se è probabile che in origine fosse dedicato a Zeus o ad entrambi. Fu probabilmente distrutto da un terremoto nel IV secolo a.C. e ricostruito. L'Heraion aveva anche la funzione di conservare le corone d'alloro che avrebbero coronato i vincitori dell'Olimpiade.Nel 1877 vi venne trovato l'Hermes con Dioniso, capolavoro di Prassitele, oggi nel locale Museo archeologico.\n\nDescrizione.\nPur appartenendo ad un periodo arcaico, il grande edificio presentava tutti gli elementi canonici del tempio greco: il naos (cella), il peristilio intorno alla cella, il pronao e l'opistodomo entrambi in antis (con due colonne tra i muri laterali).\nLa cella era tripartita dal doppio colonnato interno, secondo una soluzione innovativa e precoce che diventerà comune, ma aveva colonne molto vicine alle pareti e alternativamente riunite ad esse con muri divisori a formare una serie di 'cappelle' laterali; inoltre c'era corrispondenza tra le colonne interne e quelle esterne del peristilio. In questo modo, lo spazio centrale in cui era collocata la statua di culto era in asse con l'ingresso e quindi ben visibile, la visione del visitatore non era ostacolata dal colonnato centrale come accadeva in templi di età precedente.\nIl tempio con 6 colonne doriche sul fronte (periptero esastilo) e 16 colonne sul fianco si presentava molto lungo, venendo a formare le considerevoli dimensioni di 18,76 m per la facciata e 50,01 m per i lati. Si venne così a creare un insolito rapporto tra lunghezza e larghezza, che venne ridotto al rapporto di 'analoghìa' di 1 a 2, nell'architettura del periodo classico dei secoli successivi.\nLe colonne sono alte 5,20 metri ed il tempio, posto su un unico gradone, doveva apparire piuttosto basso mettendo in risalto l'enorme mole del vicino tempio di Zeus, realizzato successivamente.\nGli intercolumni insolitamente larghi hanno fatto pensare alla presenza di architravi lignei sui quali fossero fissate metope in bronzo. Probabilmente, infatti, l'edificio era originariamente costruito in mattoni crudi per le murature e legno per colonne e parte della trabeazione confermando la tradizionale ipotesi dell'origine lignea di tutto il linguaggio architettonico degli ordini greci, e del dorico in particolare, avanzata fin da Vitruvio e rappresentando comunque un'importante testimonianza della transizione dal tempio in legno a quello in pietra. Pausania, che visitò il tempio nel 176 d.C., nella sua Periegesi della Grecia attesta la presenza nell'opistodomos, di una colonna di legno di quercia, superstite di quelle originarie che erano progressivamente sostituite da altre lapidee, grazie alle donazioni al santuario, determinando una grande varietà di stili, diametri e materiali, tutt'oggi rilevabile dai reperti: le colonne più antiche (VI secolo a.C.) appaiono tozze e dotate di abaco ed echino molto aggettanti, mentre le più recenti sono più esili, avendo un diametro di base minore rispetto a quelle precedentemente descritte, e possiedono capitelli meno aggettanti. Inoltre alcune sono monolitiche ed altre divise in molti rocchi. Il pavimento era realizzato in una sorta di rudimentale cocciopesto.\nLe tegole del rivestimento del tetto, di cui rimangono alcuni frammenti, erano in terracotta e sistemate nella maniera detta 'laconica'. In terracotta erano anche le antefisse e l'acroterio policromo.\nLe colonne superstiti sono state rialzate durante la riscoperta e gli scavi archeologici tedeschi.Nei pressi del tempio è stata ritrovata una testa di Era, forse appartenente al colossale simulacro della dea conservato nella cella e posto accanto ad una similare statua di Zeus, e un frammento di acroterio a disco probabilmente facente parte della decorazione frontonale mentre non è stata ritrovata alcuna delle altre sculture ricordate da autori, come il frontone con l'altorilievo di una sfinge.
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### Titolo: Heroon.\n### Descrizione: L'heroon (dal greco ἡρῷον) è il santuario monumentale eretto per un eroe.\nOrnata da ricche e raffinate suppellettili, questo genere di santuario era riservata per lo più ad ecisti, principi, re che, eroizzati dopo la morte, diventavano motivo di unione per la comunità che erigeva il monumento. Tale santuario è generalmente all'interno del perimetro urbano, in posizione di grande rilievo (per es. nell'agorà) e diveniva luogo di culto e venerazione popolare da parte dei cittadini. Infatti, secondo la mitologia le reliquie del valoroso uomo possedevano poteri straordinari, tramandati dal mondo in cui ora si trovava l'eroe.\nNell'antica Grecia tale santuario ha la forma architettonica di una thòlos dell'età micenea, soprattutto di quelle costruite tra il XVIII ed il XII secolo a.C.\n\nLa tholos ha una pianta circolare, coperta da una pseudo-cupola. Per lo più questo tipo di santuario era ipogeo, cioè costruito sottoterra o scavando attraverso un promontorio del terreno. Priva di pilastri di sostegno, era costituito da grosse pietre squadrate disposte in file circolari concentriche (e chiuse in alto da una lastra). Il corridoio di accesso è chiamato dròmos e dava sulla porta d'ingresso, la quale presenta due aperture centrali: una porta monolitica sormontata da una finestra triangolare.\nNelle colonie può avere forma molto semplice: quello di Poseidonia (fine VI secolo a.C.) è costituito da una semplice camera ipogea in arenaria coperta da lastroni fittili, probabilmente in origine coperta da un tumulo.\n\nAltri progetti.\n\nWikimedia Commons contiene immagini o altri file su Heroon.
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### Titolo: Heros.\n### Descrizione: Heros (ἥρως hḗrōs; in italiano Eroe) è il termine greco antico con cui si indica, nella religione, nella mitologia e nella filosofia greca, un essere che si pone su un piano intermedio tra l'uomo e la divinità.\n\nOrigine del termine.\nL'origine del termine ἥρως è incerta anche se è attestato già in Lineare B come 𐀴𐀪𐀮𐀬𐀁 (ti-ri-se-ro-e) ('tre volte eroe', indica un grande eroe divinizzato; identificato anche con il dio Tritopator).\nPer gli studiosi moderni il termine ἥρως è comunque collegabile al sanscrito vedico vīrá (in devanāgarī devanāgarī वीर, sostantivo maschile nel significato di 'condottiero' o 'eroe') come al latino vir (uomo di valore) ma anche al gotico vair e all'anglosassone wer, dal protoindoeuropeo *wih-rós.\nPer Pierre Chantraine il collegamento è invece con la radice, sempre indoeuropea, di *ser-, da cui il latino servare ('custodire') come ad indicare che allo hḗrōs viene celebrato il culto affinché egli offra protezione. Che il significato sia religioso è evidenziato, ad esempio, dallo stesso Pierre Chantraine.\nUna etimologia certamente di fantasia fu proposta da Platone nel Cratilo:.\n\nCaratteristiche degli eroi.\nCon il termine ἥρως (Héros, 'Eroe') si indica nella religione greca un essere che si pone su un piano intermedio tra l'uomo e la divinità. Ciò è evidente già nel periodo omerico dove tali 'esseri' vengono appellati come ἡμίθεοι (semidèi). Platone conferma questa suddivisione aggiungendo anche la categoria dei Dèmoni – già presenti in Esiodo, ma come stato di post mortem della generazione aurea e in qualità di tutori del genere umano.\nEsiodo ci dice che gli eroi sono la quarta generazione (dopo le stirpi dell'oro, dell'argento e del bronzo) subito prima dell'avvento degli uomini:.\n\nGli eroi per quanto di natura eccezionale, sono simili e vicini agli uomini, nelle loro vene scorre sangue e non icore (ichór) e non possiedono poteri soprannaturali. E seppur nella cultura omerica, gli eroi sono coloro che nei poemi vengono cantati per le loro gesta, successivamente tale termine occorre ad indicare tutti coloro che, morti, dalla loro tomba (ἡρῷον hērōion) sono in grado di condizionare, positivamente o negativamente, la vita dei vivi e che per questo richiedono degli appropriati culti. Tale sviluppo è generato dalla convinzione che nei poemi omerici vengano cantati uomini con caratteristiche eccezionali rispetto ai mortali. Eroi non sono solo i 'semidei' cantati da Omero ed Esiodo, ma anche personaggi, mitici o meno, alla cui tomba si presta un culto, come Giacinto, il giovine amato da Apollo al centro di un complesso rituale iniziatico o, per uscire dall'ambito strettamente 'eroico', la vergine Ifinoe a cui sacrificano le fanciulle prima di maritarsi.\nCome già ricordava Erwin Rohde nel testo classico Psiche, l'associazione degli eroi alla nozione di 'semidio' non inerisce a un loro presunto aspetto spirituale o alla natura di uomini glorificati, quanto piuttosto all'essere uomini figli di uomini e di dèi, dove la presenza di questa parentela occorreva per il loro innalzamento a un rango 'divino'. Esiodo collegava questa parentela al periodo in cui dèi e uomini convivevano, generando insieme la stirpe degli eroi che combatté a Tebe e a Troia. In occasione di quest'ultima guerra, il re degli dèi Zeus decise tuttavia di allontanare gli dèi dagli uomini.\nI primi documenti in nostro possesso che indicano un culto dedicato agli eroi corrispondono ad un frammento inerente a Mimnermo e a un testo di Porfirio che richiama una legge di Draconte:.
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### Titolo: Homados.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Homados era la personificazione dello spirito e del rumore. Viene citato insieme ad altri personificazioni che hanno a che fare con la guerra. Una figura simile a lui è Cidoimo.
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### Titolo: Hysminai.\n### Descrizione: Le Hysminai (greco antico: ὑσμῖναι; singolare: hysmine ὑσμίνη) sono figure della mitologia greca. Discendenti di Eris, sono personificazioni della battaglia. Quinto Smirneo ha scritto di loro nel libro V della caduta di Troia in un passaggio tradotto da Arthur Way:.
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### Titolo: I figli di Medea.\n### Descrizione: I figli di Medea è un 'teledramma' italiano del 1959, diretto da Anton Giulio Majano e interpretato da Enrico Maria Salerno e Alida Valli. È stato trasmesso in diretta televisiva il 9 giugno 1959 sul Programma Nazionale.\nL'originale televisivo divenne un sensazionale evento mediatico dal momento che molti telespettatori, non rendendosi conto che si trattava di una finzione, percepirono l'evento come reale, in modo analogo a quanto accaduto con la trasmissione radiofonica di Orson Welles The War of the Worlds del 1938 negli Stati Uniti (a cui gli autori del programma si erano ispirati), e inondarono di telefonate il centralino di un ospedale di Torino.\n\nTrama.\nLa messa in onda della prima puntata dello sceneggiato I figli di Medea, interpretato dall'attrice Alida Valli, viene interrotto in modo brusco dalla Rai per annunciare il rapimento da parte dell'attore Enrico Maria Salerno del figlio avuto dall'attrice con quest'ultimo.\nIl bambino necessita della somministrazione periodica di un medicinale salvavita, ma l'attore rifiuta di rivelare dove lo tiene nascosto, ottenendo in cambio di poter parlare alla televisione. Viene così chiesto ai telespettatori di telefonare al numero 696 in caso di avvistamento dell'attore in procinto di entrare in qualche abitazione per nascondere il figlio.\nL'attore inizia così un monologo avente come tema principale i mezzi di comunicazione e di informazione e il loro uso distorto, monologo che viene bruscamente interrotto dall'annuncio del ritrovamento del fanciullo e dall'intervento in scena delle forze dell'ordine che arrestano l'attore. Tutto sembra tornato alla normalità, ma un nuovo collegamento in diretta si rende subito necessario poiché Enrico Maria Salerno ha estratto una pistola che teneva nascosta e minaccia ora di togliersi la vita.\nRiprende il monologo dell'attore verso le telecamere, che l'attore termina, addormentandosi sotto l'effetto di un sedativo somministratogli a sua insaputa nell'acqua che aveva chiesto per dissetarsi.\n\nProduzione.\nIl soggetto e la sceneggiatura furono scritti da Vladimiro Cajoli (ispirandosi alla trasmissione radiofonica The War of the Worlds di Orson Welles) e vennero da lui presentati al Concorso Nazionale Originali Televisivi della Rai del 1959. Il soggetto vinse il premio e per questo fu proposto ad Anton Giulio Majano che accettò di dirigerlo.\n\nAccoglienza.\nIl programma televisivo, presentato come un vero sceneggiato ad ambientazione mitologica, interrotto bruscamente dal rapimento del figlio dell'improbabile coppia formata da Alida Valli ed Enrico Maria Salerno da parte dello stesso padre, ebbe l'effetto di venire percepito come reale, in modo simile a quanto avvenne nel caso della trasmissione del programma radiofonico The War of the Worlds.\nMolti telespettatori inondarono il centralino dell'Ospedale delle Molinette di Torino, che rispondeva al numero 696, di telefonate apprensive o di vere e proprie segnalazioni sul presunto avvistamento dell'attore con il fanciullo, nonostante i fatti rappresentati in diretta sul piccolo schermo avvenissero invece a Roma. Comunque, anche la sede della Rai fu tempestata di telefonate. L'intento degli autori, far cadere nell'inganno i telespettatori facendogli credere che si trattasse di un reale rapimento, fu così raggiunto.\nFa parte della finzione anche il ruolo della 'signorina buonasera' Nicoletta Orsomando, che, interpretando sé stessa, annuncia la finzione come fosse un reale sceneggiato televisivo, per poi apparire in schermo, scusandosi per l'interruzione, interrompendo la trama mitologica per spiegare l'accaduto, introducendo il dottor Vinciguerra (Tino Bianchi) e il dottor Vailati (Ferruccio De Ceresa). Il ruolo della Orsomando, allora già popolare, contribuisce a dare credibilità alla messa in scena, rendendo plausibile l'interruzione dello sceneggiato e il collegamento con Enrico Maria Salerno. Infine è sempre la Orsomando a svelare la beffa, che viene definita 'mito interrotto', presentando sia gli attori del 'mito' sia quelli della 'interruzione'.\nIl teledramma si rivela anticipatore della televisione dell'omologazione culturale dei tempi successivi e di tematiche controverse quali la strumentalizzazione dei mezzi di informazione, del 'dolore in diretta', così come dei reality e di programmi con intervento del pubblico da casa, quale soprattutto Chi l'ha visto?.
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### Titolo: I miti greci.\n### Descrizione: I miti greci (Greek Myths) è una mitografia, un compendio di mitologia greca, con commenti e analisi, dello scrittore e poeta inglese Robert Graves. Pubblicato nel 1955 in due volumi, fu ristampato con emendamenti nel 1957, e apparve riveduto nel 1960.\nL'autore, nell'introduzione del libro, identifica i miti e li distingue dall'allegoria, dalla satira, dal melodramma, dalla saga eroica, ecc. Il libro è strutturato in 171 miti, ed ognuno di essi è, a sua volta, diviso in tre sezioni distinte. La prima sezione è la sua narrazione con i vari paragrafi. Nella seconda sezione è presente la lista delle fonti utilizzate dall'autore. Nella terza ed ultima sezione ci sono i commenti esplicativi sul mito appena narrato.\n\nEdizioni.\nI miti greci, traduzione di Elisa Morpurgo, I Marmi, n. 35, Milano, Longanesi, 1963, SBN IT\ICCU\NAP\0536102.\nI miti greci, presentazione di Umberto Albini, Milano, Longanesi, 1977, SBN IT\ICCU\RAV\0139270.\nI miti greci, Il Cammeo, n. 197, 26ª ed., Milano, Longanesi, 2013, ISBN 978-88-304-0923-1.
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### Titolo: Iacco.\n### Descrizione: Iacco è un personaggio della mitologia greca, sovente associato ai misteri eleusini.\n\nSecondo certi miti Iacco era uno degli epiteti del dio Dioniso ed era descritto come figlio di Demetra o Persefone e di Zeus. Nei riti eleusini, Iacco veniva descritto come colui che conduceva le processioni verso Eleusi, danzando e portando una torcia. In questa funzione a volte egli veniva considerato l'araldo che annunciava l'avvento del 'fanciullo divino' della Dea, nato nell'aldilà; altre volte identificato egli stesso con il fanciullo.\nLa più celebre menzione di Iacco si ha nella commedia Le rane di Aristofane dove gli iniziati ai culti misterici lo invocano come danzatore riottoso, accompagnato dalle Cariti, che lancia torce e porta luce all'iniziazione notturna.\nÈ citato anche da Euripide nelle Baccanti.\nSecondo Pausania ad Atene esisteva una statua del dio con in mano una torcia, opera di Prassitele.L'identificazione di Iacco con Dioniso è possibile grazie ad una serie di fonti: in un peana a Dioniso, scoperto a Delfi, il dio viene descritto come nominato Iacco ad Eleusi, dove porta la salvezza. Sofocle nella sua Antigone, nomina invariabilmente il dio dei Misteri Eleusini sia come Bacco che come Iacco. Infine il poeta Nonno di Panopoli nelle Dionisiache descrive le celebrazioni tenute dagli ateniesi per il dio, che viene detto Zagreo, figlio di Persefone, come il primo Dioniso; Bromio, figlio di Semele come secondo Dioniso ed il terzo Dioniso come Iacco.
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### Titolo: Ialmeno.\n### Descrizione: Ialmeno (in greco antico Ἰάλμενος) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Ares e di Astioche, menzionato nell'Iliade e fratello gemello di Ascalafo.\n\nMitologia.\nEgli fu generato da Ares dopo che egli ebbe giaciuto per una notte con la mortale Astioche nel palazzo del padre di lei, Attore.\nche Omero descrive come regnanti di Aspledone e Orcomeno in Minia.\nEra uno dei sovrani della Minia di Orcomeno, in Beozia, al tempo della guerra di Troia ed, insieme al fratello, viene ricordato come uno dei molti pretendenti sui quali Tindaro avrebbe dovuto far ricadere la sua scelta per poter trovare un marito alla figlia Elena, la regina di Sparta, andata poi in sposa a Menelao.\nIn seguito al rapimento di quest'ultima da parte di Paride partecipò alla guerra in quanto legato ad un giuramento comune tra tutti i re.
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### Titolo: Ianira.\n### Descrizione: Ianira era nella mitologia greca una Oceanina, figlia del titano Oceano e della titanide Teti.\nMenzionata da Esiodo in Teogonia, 350.\n\nCollegamenti esterni.\n(EN) Oceanine, su homepage.mac.com. URL consultato il 14 febbraio 2007 (archiviato dall'url originale il 19 gennaio 2007).
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### Titolo: Iapige.\n### Descrizione: Iapige, figlio di Iaso e fratello di Palinuro, è, come quest'ultimo, uno dei personaggi presenti nell'Eneide, dove compare nel XII libro.\n\nLa leggenda.\nSecondo la leggenda, Iapige chiese al dio Apollo di essere iniziato ai segreti della medicina per salvare il padre morente. Il dio, colto da indomabile amore per il giovane, gli chiese di concedersi a lui, ma il troiano rispose che preferiva ricevere le sue arti.È possibile che il trasporto passionale del dio verso Iapige sia una metafora per alludere all'amore per il sapere e il potere magico-salvifico delle erbe, che la dimensione apollinea rappresenta.L'episodio è riferito da Virgilio quando Iapige, medico dei troiani nella guerra contro Turno e gli italici, si accinge a curare Enea che era stato ferito a una gamba:.\n\nVenere poi infiltra un succo magico e medicamentoso nell'acqua che egli sta versando sulla ferita. Enea guarisce miracolosamente e saluta il figlio Ascanio invitandolo a prendere esempio dal suo travaglio: «Disce, puer, virtutem ex me verumque laborem, fortunam ex aliis» (XII, 435-436).\nIl nome dell'eroe evoca quello di antichi abitatori della Puglia, gli Iapigi, di cui una leggenda (parallela a quella di Enea) vuole sia il capostipite.
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### Titolo: Iaso (figlia di Asclepio).\n### Descrizione: Iaso (in greco antico: Ἰασώ?, Iasō) o Ieso (Ἰησώ, Iēsō) è un personaggio della mitologia greca, figlia di Asclepio e di Epione.\nÈ la dea e personificazione della guarigione ed aveva sette fratelli, Igea, Panacea, Egle, Acheso, Telesforo, Macaone e Podalirio.\n\nMitologia.\nIl suo nome deriva dal potere di guarigione o guaritore che possedeva il padre, e di conseguenza tutti i figli erano associati ad alcuni aspetti della salute o della guarigione.\nPossedeva anche un tempio ad Oropo e dello stesso tempio Pausania il Periegeta nel secondo secolo A.C. scrisse:.\n\nL'altare mostra le parti: Una parte è dedicata ad Eracle, Zeus ed Apollo guaritore, mentre l'altra è dedicata agli eroi ed alle loro mogli. Il terzo è dedicato ad Estia, Ermes, Anfiarao ed ai figli di Anfiloco. Ma Alcmeone, a causa del contenzioso con Erifile, non è onorato né nel tempio di Anfiarao, né in quello di Anfiloco. La quarta porzione dell'altare è quella di Afrodite e Panacea, oltre a Iaso, Igea ed Atena guaritrice mentre il quinto è dedicato alle ninfe, a Pan ed ai fiumi Acheloo e Cefiso.
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### Titolo: Icore.\n### Descrizione: Secondo la mitologia greca, l'icore (AFI: /iˈkore/; in greco antico: ἰχώρ?, ichór) è il 'materiale' che costituisce il 'sangue' delle creature immortali.\nQuando una divinità viene ferita, la presenza dell'icore rende il suo sangue velenoso per i mortali.\nQuesta sostanza è di colore bianco o trasparente, simile al siero del latte.\n\nL'icore nella cultura di massa.\nH. P. Lovecraft spesso usò 'ichor' (Icore) nelle sue descrizioni di creature dell'altro mondo, molto importante nei dettagli dei resti di Wilbur Whateley in L'orrore di Dunwich.\nThomas Pynchon in V., nel capitolo quattordicesimo, parla della famiglia l'Heuremaudit, ' il cui sangue si era da tempo trasformato in pallido icore'.\nL'autrice Ursula K. Le Guin, in From Elfland to Poughkeepsie, definisce il termine the infallible touchstone of the seventh-rate.\nNella serie di Rick Riordan Percy Jackson e gli dei dell'Olimpo, tutti gli esseri divini immortali hanno al posto del sangue icore.\nNei romanzi Dave Hooper di John Birmingham, Emergence, Resistance e Ascendance, i fluidi corporei dei dragoni comprendono icore.\nIn Dungeons & Dragons, il sangue dei demoni viene chiamato icore.\nNella serie di Cassandra Clare, The Mortal Instruments, il sangue di angeli e demoni è chiamato icore.\nNel romanzo di Doris Lessing The Diaries of Jane Somers/ If the Old Could, Jane Somers esprime i suoi forti sentimenti per un uomo che ha appena incontrato:.\nNella serie di Anne McCaffrey Il ciclo di Pern, la fauna locale di Pern viene chiamata 'sangueverde' e i draghi stessi hanno icore verde.\nNella serie di Jacqueline Carey, Kushiel's Legacy si dice che i D'Angelines abbiano icore nelle vene.\nNel gioco MOBA League of Legends, due tipi di icore sono disponibili sulla mappa Twisted Treeline come articoli disponibili che forniscono bonus provvisori alla situazione di un giocatore.\nNel videogioco Warframe, l'arma dual ichor è una coppia di corte spade che avvelenano i nemici (esseri mortali).\nNel videogioco Terraria, l'Ichor è un oggetto reperibile dai mostri della Crimson, utilizzato per fabbricare oggetti magici e pozioni. È descritta come 'The blood of gods' ('Il sangue degli dei').\nNel ciclo di libri The Painted Man di Peter V. Brett, il sangue nero delle varie specie di demoni viene chiamato icore.\nJim Butcher nella sua serie The Dresden Files usa il termine 'icore' per descrivere il sangue spesso e nero di 'Ghul'.\nWilliam Gibson lo elenca tra le possibili emanazioni letali del 'verme della morte mongolo' in Guerreros.\nNel ciclo di libri Ilium di Dan Simmons, il sangue degli dèi greci di Olympus Mons viene descritto come icore dorato.
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### Titolo: Ida (argonauta).\n### Descrizione: Ida (in greco antico: Ἴδας?, Ídas) o Idas è un personaggio della mitologia greca. Fu principe di Messene, Argonauta e partecipò alla caccia al cinghiale calidonio.\n\nGenealogia.\nFiglio di Afareo (o di Poseidone) ed Arene, sposò Marpessa da cui ebbe la figlia Cleopatra Alcione.\n\nMitologia.\nAppassionato e vivace, contese Marpessa ad Apollo ed assieme al fratello Linceo fu un Argonauta, partecipò alla caccia al cinghiale calidonio e fu rivale dei Dioscuri nella contesa di una mandria e delle promesse spose Febe ed Ileria (dette Leucippidi poiché figlie di Leucippo).\n\nApollo e Marpessa.\nCon un carro alato avuto da Poseidone, Idas rapì Marpessa 'dalle belle caviglie' sottraendola sia al padre Eveno che ad Apollo, a sua volta interessato alla donna.\nEntrambi lo inseguirono con i propri carri ma solo Apollo lo raggiunse. Così ingaggiò una lotta con Idas per la contesa della donna e che proseguì fino a quando Zeus intervenne comandando alla donna di scegliere chi volesse tra i due.\nLei scelse Idas.\n\nLa rivalità con i Dioscuri.\nLa rivalità con i Dioscuri è raccontata in due versioni diverse:.\nApollodoro scrive che Castore e Polluce (i Dioscuri), dopo aver razziato del bestiame con la complicità di Idas e Linceo, ebbero una lite sulla spartizione del bottino poiché proprio Idas usò nei confronti dei Dioscuri uno stratagemma scorretto.\nIdas tagliò una mucca in quattro parti e mangiò la sua parte per primo e poi disse che gli altri tre avrebbero scelto la loro parte di bestiame solo dopo che avessero terminato di mangiare il loro quarto. Però aiutò il fratello a mangiare la sua parte e così, finendo i loro due quarti per primi, scelsero gli animali migliori e li portarono con loro.\nPer ritorsione i Dioscuri marciarono contro la città di Messene e dapprima si ripresero i bestiame e molto altro ancora ed in seguito tesero un'imboscata ad Idas e Linceo, che però fallì poiché Castore fu scorto da Linceo ed Idas lo uccise. Polluce li inseguì e vendicò il fratello uccidendo Linceo con la sua lancia ma fu da questo colpito alla testa con un sasso e cadde a terra.\nPer vendicarsi, il padre divino di Polluce (Zeus), colpì Idas con un fulmine.\nIgino e Teocrito invece, scrivono che Leucippo (loro zio e padre delle Leucippidi), promise le due figlie ad Idas e Linceo ma si lasciò tentare dai doni offerti dai Dioscuri ed acconsentì al matrimonio con gli ultimi due.\nIdas così, cercando di recuperare le due donne con il fratello, prese le armi ed attaccò i due rivali e nella battaglia vide suo fratello Linceo colpito a morte da Castore e si accinse a seppellirlo.\nCastore però, si oppose sostenendo che il cadavere gli appartenesse ed Idas reagì usando la spada e trafiggendo mortalmente la coscia del rivale, così intervenne Polluce che, dopo averlo sconfitto a sua volta recuperò il corpo del proprio fratello (Castore) e lo seppellì.\n\nArgonauta e altre avventure.\nIdas, con gli Argonauti e durante il viaggio per recuperare il vello d'oro, vendicò la morte di Idmone uccidendo il cinghiale che aggredì ed uccise il veggente.\nCercò di usurpare il trono di Misia a Teutrante ma fu sconfitto da Telefo in un combattimento.\nDopo la sua morte (e quella precedente del fratello), la loro dinastia si estinse ed il regno del padre passò a Nestore, eccetto ciò che già apparteneva ai figli di Asclepio (Macaone e Podalirio).
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### Titolo: Idamante.\n### Descrizione: Idamante nella mitologia greca è re di Creta, successore del padre Idomeneo.\nIdamante, rimasto a Creta durante l'assenza del padre, governa come principe e si innamora di Ilia, principessa troiana, discussa figlia di Priamo o Enea - che potrebbe corrispondere a Etia, visti i collegamenti con la Periegesi della Grecia di Pausania -. Al rientro del padre Idomeneo con la flotta navale, Idamante lo accoglie sulla spiaggia senza sapere che, durante il lungo e pericoloso viaggio, il padre aveva promesso di sacrificare al dio Poseidone la prima persona che avesse visto una volta giunto sul suolo patrio per poter raggiungere salvo la patria. In questo modo Idomeneo avrebbe dovuto sacrificare il figlio. Tuttavia, Idomeneo si libera dal voto a Poseidone rinunciando al trono in favore del figlio.\nIdamante regna così assieme ad Ilia su Creta.
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### Titolo: Idmone.\n### Descrizione: Idmone (in greco antico: Ἴδμων?, Ìdmōn) o Agamestore (in greco antico: Ἀγαμήστωρ?, Agamḕstōr) è un personaggio della mitologia greca. Fu veggente ed Argonauta.\n\nGenealogia.\nFiglio di Apollo e della ninfa Cirene o di genitori mortali come Ampice ed Antianira oppure Asteria (figlia di Corono) ed Abante.\nSposò Laotoe ed ebbe il figlio Testore.\n\nMitologia.\nPrese parte alla spedizione degli Argonauti e giunto nella terra dei Mariandini, fu (con gli Argonauti) accolto da re Lico, ma in un incidente di caccia fu ferito dalle zanne di un cinghiale e morì dissanguato.\nSulla sua tomba fu fatto crescere un ulivo selvatico ed in seguito Apollo, attraverso l'oracolo di Delfi, ordinò ai Beoti e ai Megaresi di costruire la città di Eraclea Pontica attorno all'ulivo coltivato sulla sua tomba.\nLe genti seguirono queste istruzioni, ma adorarono il veggente sotto il nome di Agamestor.\nSecondo Igino, Idmone è un veggente che sa in anticipo che morirà con gli Argonauti ma decide di partire lo stesso.\nNel 559 a.C. gli abitanti di Eraclea Pontica (oggi Karadeniz Ereğli) costruirono un tempio sulla tomba di Idmone.
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### Titolo: Idomeneo (opera).\n### Descrizione: Idomeneo, K 366 (anche noto come Idomeneo,, re di Creta ossia Ilia e Idamante), è un'opera seria (il primo capolavoro serio di Mozart) in lingua italiana di Wolfgang Amadeus Mozart.\nIl libretto, denominato 'Dramma per musica in tre atti' fu scritto dall'abate Giambattista Varesco ed è tratto dall'omonimo libretto di Antoine Danchet per la Tragédie-lyrique Idoménée (Parigi 1712) di André Campra.\n\nGenesi.\nL'opera fu commissionata a Mozart dal principe elettore Carlo Teodoro di Baviera nel 1780, per farla rappresentare in forma privata nella Residenza di Monaco di Baviera (Teatro Cuvilliés), il teatro di corte di Monaco di Baviera, nella stagione di carnevale dell'anno successivo. Autore del libretto fu Giambattista Varesco, cappellano di corte dell'arcivescovo di Salisburgo. La composizione fu laboriosa e comportò numerose modifiche a causa della prolissità del libretto, secondo quanto riferì lo stesso Mozart.\nLe prove si svolsero tra l'8 novembre 1780 e il 22 gennaio 1781. La prima rappresentazione ebbe luogo il 29 gennaio 1781. Mozart era preoccupato per la resa degli interpreti: temeva in particolare che il castrato Dal Prato non arrivasse a finire l'aria e definì Anton Raaff, il tenore che interpretava Idomeneo, 'una statua'.\nFu invece soddisfatto dell'orchestra di Mannheim, che trovò favolosa, soprattutto i fiati, e per la quale aveva composto una partitura di straordinaria ricchezza timbrica, che per un'altra orchestra sarebbe risultata difficilmente eseguibile.\n\nLa fortuna.\nIl debutto, il 29 gennaio 1781 diretto da Christian Cannabich con Anton Raaff e Vincenzo dal Prato fu senza ombre.\nL'opera fu osannata e fu eseguita per tre sere, sebbene la sera della prima fu lanciata una coscia di fagiano da uno dei palchetti addosso a Mozart che dirigeva l'orchestra.\nNonostante l'apprezzamento del pubblico della corte di Monaco, negli anni seguenti Idomeneo non conobbe tuttavia che una sola ripresa, quando il 13 marzo 1786 fu rappresentato privatamente in forma di concerto diretto dal compositore a Vienna, nel palazzo del principe Auersperg.\nPer l'occasione, oltre all'apporto di diversi tagli e alla sostituzione di alcuni numeri della partitura originale con altri composti ex novo, Mozart dovette riscrivere per tenore la parte di Idamante.\nQuesto comportò una ridistribuzione vocale negli ensemble dell'opera.\nAl Wiener Staatsoper la première è stata nel 1879 e fino al 2007 ha avuto 79 recite.\nNel Regno Unito la première è stata nel 1934 al Theatre Royal di Glasgow per la Glasgow Grand Opera Society nella traduzione di Maisie Radford ed Evelyn Radford.\nAl Teatro La Fenice di Venezia la prima è stata nel 1947 diretta da Vittorio Gui in occasione del X Festival Internazionale di Musica Contemporanea. Si tratta della prima esecuzione in Italia.\nAl Festival di Salisburgo va in scena nel 1951 diretta da Georg Solti con i Wiener Philharmoniker, Rudolf Schock e Hilde Güden.\nAl Glyndebourne Festival Opera va in scena nel 1951 in italiano diretta da Fritz Busch con la Royal Philharmonic Orchestra, Sena Jurinac e Birgit Nilsson.\nAl Teatro alla Scala di Milano va in scena nel 1968 diretta da Wolfgang Sawallisch con Leyla Gencer, Margherita Rinaldi e Nicola Zaccaria.\nAl Royal Opera House, Covent Garden la première di Idomeneo, rè di Creta in italiano è stata nel 1978 diretta da Colin Davis con Janet Baker.\nAl Metropolitan Opera House di New York la première è stata nel 1982 diretta da James Levine con Luciano Pavarotti, Ileana Cotrubaș, Frederica von Stade e Hildegard Behrens e fino al 2006 ha avuto 67 recite.\nLa vera riscoperta di quest'opera avvenne al Festival di Glyndebourne nel 1983 diretta da Bernard Haitink con la London Philharmonic Orchestra, Jerry Hadley e Carol Vaness trasmessa anche dalla televisione e nel 1985 viene diretta da Simon Rattle con John Aler portata anche al Barbican Centre di Londra, all'Apollo Theatre di Oxford, al Palace Theatre di Manchester, al Hippodrome di Birmingham ed al Gaumont Theatre di Southampton.\nAl Teatro Regio di Torino va in scena nel 1986 e nel 2010 con Eva Mei.\nAll'Opéra National de Paris la prima è nel 1987 diretta da Christopher Hogwood con la Vaness.\nAl San Francisco Opera va in scena nel 1989 diretta da John Pritchard con Karita Mattila.\nAll'Opera di Santa Fe (Nuovo Messico) va in scena nel 1999 con Hadley.\nAl Teatro Colón di Buenos Aires va in scena nel 1963 diretta da Hans Schmidt-Isserstedt, con Lewis Richard (Idomeneo) e Kmentt Waldemar (Idamante).\nOggi è frequentemente rappresentata, anche in Italia.\nAl Teatro alla Scala di Milano fu scelta come opera d'inaugurazione della stagione 2005-2006, diretta da Daniel Harding con Francesco Meli (7 dicembre 2005).\n\nCaratteri dell'opera.\nScritto quando Mozart aveva venticinque anni, Idomeneo non è la sua prima opera seria in assoluto, ma la prima nella quale si riscontrano elementi di maggiore libertà formale. Con quest'opera egli mitigò in parte le convenzioni formali dell'opera metastasiana.\nBenché l'impianto sia quello tipico dell'opera seria italiana, con la sua tradizionale alternanza di arie e recitativi, molti elementi risultano estranei a quella tradizione e sono relativamente più moderni: vengono inseriti cori, danze e brani orchestrali. I cori assumono talvolta un ruolo attivo, come avviene durante la scena dei naufraghi nel primo atto.\n\nCast della prima assoluta.\nTrama.\nAtto I.\nDopo la caduta di Troia, Idomeneo, re di Creta, torna in patria dal figlio Idamante, ma la sua flotta in prossimità dell'isola è colta dalla tempesta. Vinto dal timore, fa voto a Nettuno di sacrificargli il primo uomo che incontrerà non appena giunto a terra.\nLa figlia di Agamennone, Elettra, dopo l'uccisione della madre Clitennestra, si è rifugiata a Creta dove si è innamorata di Idamante, il quale ama invece Ilia, figlia di Priamo re di Troia, inviata da Idomeneo a Creta come prigioniera di guerra. Lacerata tra l'amore per un nemico e l'onore di principessa troiana (Padre germani, addio), Ilia respinge Idamante che, informato dell'imminente arrivo del padre, libera i prigionieri troiani e dichiara a Ilia il suo amore.\nElettra, a sua volta, accusa Idamante di proteggere il nemico e di oltraggiare tutta la Grecia. Frattanto giunge Arbace, confidente del re, a portare la falsa notizia che Idomeneo è annegato dopo un naufragio. Idamante allora si ritira in preda al suo dolore, mentre Elettra sfoga la sua disperata gelosia, pensando che ormai Idamante, divenuto il nuovo sovrano, sposerà Ilia. Dalla spiaggia si scorge la flotta di Idomeneo sul mare in burrasca e si odono le grida dell'equipaggio.\nIdamante, figlio di Idomeneo, si reca sulla spiaggia, avvisato erroneamente del naufragio del padre. Idamante è il primo uomo che il padre incontra sulla spiaggia. I due non si riconoscono, a causa della lunga assenza di Idomeneo, se non in seguito e Idomeneo inorridisce quando scopre che il giovane incontrato è suo figlio Idamante: preso dal terrore, fugge e gli vieta di seguirlo. Idamante esprime profondo stupore per il comportamento del padre.\n\nIntermezzo.\nL'intermezzo - che costituisce di fatto il finale dell'atto I - è articolato in due episodi: una marcia dei soldati rientranti in patria e un coro inneggiante a Nettuno (Nettuno s'onori). Nell'intermezzo non canta nessuno dei personaggi principali, solamente il coro, che rende omaggio a Idomeneo e a Nettuno.\n\nAtto II.\nIdomeneo confessa ad Arbace l'orribile voto che ha fatto per salvarsi la vita. Arbace gli suggerisce, per sottrarsi al suo terribile voto, di inviare Idamante con Elettra ad Argo; ma Idomeneo sospetta che Idamante e Ilia si amino. Elettra manifesta la sua gioia sentendosi ormai prossima a realizzare il suo desiderio più ardente.\nAl momento della partenza (Placido è il mar) Idomeneo esorta il figlio ad affrettarsi verso Argo, però, Nettuno scatena una nuova tempesta, e dal mare si leva un orribile mostro. Il re grida il suo sdegno a Nettuno (Ingiusto sei!), gridandogli di prendersela solo con lui, non con tutta Creta. Il popolo, spaventato alla vista del mostro, si rifugia dentro Sidone.\n\nAtto III.\nIlia affida ai venti il suo messaggio d'amore per Idamante (Zeffiretti lusinghieri), che le dichiara di essere deciso a cercare la morte combattendo il mostro: Ilia, commossa, gli confida il suo amore. Giungono Idomeneo ed Elettra e, ancora una volta, il re ordina al figlio di lasciare Creta per sottrarsi alla morte (Andrò ramingo e solo).\nArbace annuncia che il popolo vuole che Idomeneo confessi il suo segreto, e lamenta il destino della città (Sventurata Sidone). Il Gran Sacerdote sollecita il re a compiere il voto e chiede il nome della vittima: il re pronuncia il nome del figlio (O voto tremendo). Inizia il rituale del sacrificio, ma giunge Arbace ad annunciare che Idamante ha ucciso il mostro (Stupenda vittoria!). Il principe ora sa tutto e si dichiara pronto a morire, ma, nel momento in cui Idomeneo sta per colpirlo, Ilia si precipita tra le sue braccia e si offre come vittima al posto dell'uomo che ama.\nAll'improvviso si sente la voce dell'Oracolo di Nettuno: Idomeneo deve rinunciare al trono in favore di Idamante che sposerà Ilia e poi regnerà in luogo del padre. Elettra, furente, impreca (D'Oreste, d'Aiace) e poi fugge. Idamante viene incoronato tra cori e danze (Scenda amor, scenda Imeneo).\n\nOrganico orchestrale.\nLa partitura di Mozart prevede l'utilizzo di:.\n\n2 flauti, ottavino, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti,.\n4 corni, 2 trombe, 3 tromboni.\ntimpani.\narchi.Il basso continuo nei recitativi secchi è garantito dal clavicembalo e dal violoncello.\n\nBrani celebri.\nAtto I.\n\nPadre, germani, addio!, aria di Ilia.\nNon ho colpa, aria di Idamante.\nTutte nel cor vi sento, aria di ElettraAtto II.\n\nSe il padre perdei, aria di Ilia.\nFuor del mar, aria di Idomeneo.\nIdol mio, aria di ElettraAtto III.\n\nZeffiretti lusinghieri, aria di Ilia.\nAndrò ramingo e solo, quartetto di Ilia, Elettra, Idamante, Idomeneo.\nD'Oreste, D'Aiace, aria di Elettra.\n\nStruttura musicale.\nVersione di Monaco.\nOuverture.\n\nAtto primo.\nRecitativo [accompagnato] Quando avran fine omai.\nN. 1 Aria Padre, germani, addio! (Ilia).\nN. 2 Aria Non ho colpa (Idamante).\nN. 3 Coro Godiam la pace.\nRecitativo Or sì dal cielo (Idamante, Ilia).\nRecitativo Estinto è Idomeneo.\nN. 4 Aria Tutte nel cor vi sento (Elettra) attacca:.\nN. 5 Coro Pietà! Numi, pietà attacca:.\nPantomima e Recitativo Eccoci salvi alfin (Idomeneo).\nRecitativo Oh, voto insano.\nN. 6 Aria Vedrommi intorno l'ombra dolente (Idomeneo).\nRecitativo Spietatissimi Dei! (Idomeneo, e Idamante).\nN. 7 Aria Il padre adorato (Idamante).\n\nIntermezzo.\nN. 8 Marcia.\nN. 8a Ballo delle donne Cretesi.\nN. 9 Coro Nettuno s'onori.\n\nAtto secondo.\nN. 10a Aria Se il tuo duol (Arbace).\nN. 11 Aria Se il padre perdei (Ilia).\nRecitativo Qual mi conturba i sensi.\nN. 12a Aria Fuor dal mar (Idomeneo).\nRecitativo Chi mai del mio provò piacer più dolce?.\nN. 13 Aria Idol mio, se ritroso (Elettra) attacca:.\nN. 14 Marcia Odo da lunge armonioso suono (Elettra).\nN. 15 Coro Placido è il mar, andiamo (Elettra, Coro).\nN. 16 Terzetto Pria di partir, oh Dio! (Elettra, Idamante, Idomeneo) attacca:.\nN. 17 Coro Qual nuovo terrore attacca:.\nRecitativo Eccoti in me, barbaro Nume! (Idomeneo).\nN. 18 Coro Corriamo, fuggiamo.\n\nAtto terzo.\nRecitativo Solitudini amiche e.\nN. 19 Aria Zeffiretti lusinghieri (Ilia) attacca:.\nRecitativo Ei stesso vien (Ilia).\nRecitativo Odo?.\nN. 20a Duetto S'io non moro a questi accenti (Idamante, Ilia).\nRecitativo Cieli! che vedo?.\nN. 21 Quartetto Andrò ramingo e solo (Ilia, Elettra, Idamante, Idomeneo).\nRecitativo Sventurata Sidon!.\nN. 22 Aria Se colà ne' fati è scritto (Arbace).\nN. 23 Recitativo Volgi intorno lo sguardo (Gran Sacerdote, Idomeneo).\nN. 24 Coro Oh voto tremendo! attacca.\nN. 25 Marcia.\nN. 26 Cavatina con coro Accogli, oh re del mar (Idomeneo, Sacerdoti).\nN. 27 Recitativo Padre, mio caro padre (Idamante, Idomeneo, Ilia, Gran Sacerdote, Elettra).\nN. 28 La voce Idomeneo cessi esser re.\nN. 29 Recitativo Oh ciel pietoso! (Idomeneo, Idamante, Ilia, Arbace, Elettra).\nN. 30 Coro Scenda Amor, scenda Imeneo.\nN. 31 Balletto (KV 367) in re maggiore.\n\nVersione di Vienna.\nOuverture.\n\nAtto primo.\nRecitativo [accompagnato] Quando avran fine omai.\nN. 1 Aria Padre, germani, addio! (Ilia).\nN. 2 Aria Non ho colpa (Idamante).\nN. 3 Coro Godiam la pace.\nRecitativo Or sì dal cielo (Idamante, Ilia).\nRecitativo Estinto è Idomeneo.\nN. 4 Aria Tutte nel cor vi sento (Elettra) attacca:.\nN. 5 Coro Pietà! Numi, pietà attacca:.\nPantomima e Recitativo Eccoci salvi alfin (Idomeneo).\nRecitativo Oh, voto insano.\nN. 6 Aria Vedrommi intorno l'ombra dolente (Idomeneo).\nRecitativo Spietatissimi Dei! (Idomeneo, e Idamante).\nN. 7 Aria Il padre adorato (Idamante).\n\nIntermezzo.\nN. 8 Marcia.\nN. 8a Ballo delle donne Cretesi.\nN. 9 Coro Nettuno s'onori.\n\nAtto secondo.\nN. 10 Aria Non temer, amato bene (Idamante).\nN. 11 Aria Se il padre perdei (Ilia).\nRecitativo Qual mi conturba i sensi.\nN. 12a Aria Fuor dal mar (Idomeneo).\nRecitativo Chi mai del mio provò piacer più dolce?.\nN. 13 Aria Idol mio, se ritroso (Elettra) attacca:.\nN. 14 Marcia Odo da lunge armonioso suono (Elettra).\nN. 15 Coro Placido è il mar, andiamo (Elettra, Coro).\nN. 16 Terzetto Pria di partir, oh Dio! (Elettra, Idamante, Idomeneo) attacca:.\nN. 17 Coro Qual nuovo terrore attacca:.\nRecitativo Eccoti in me, barbaro Nume! (Idomeneo).\nN. 18 Coro Corriamo, fuggiamo.\n\nAtto terzo.\nRecitativo Solitudini amiche e.\nN. 19 Aria Zeffiretti lusinghieri (Ilia) attacca:.\nRecitativo Ei stesso vien (Ilia).\nRecitativo Odo?.\nN. 20b Duetto Spiegarti non poss'io (Idamante, Ilia).\nRecitativo Cieli! che vedo?.\nN. 21 Quartetto Andrò ramingo e solo (Ilia, Elettra, Idamante, Idomeneo).\nRecitativo Sventurata Sidon!.\nN. 22 Aria Se colà ne' fati è scritto (Arbace).\nN. 23 Recitativo Volgi intorno lo sguardo (Gran Sacerdote, Idomeneo).\nN. 24 Coro Oh voto tremendo! attacca.\nN. 25 Marcia.\nN. 26 Cavatina con coro Accogli, oh re del mar (Idomeneo, Sacerdoti).\nN. 27 Recitativo Padre, mio caro padre (Idamante, Idomeneo, Ilia, Gran Sacerdote, Elettra).\nN. 27a Aria No, la morte (Idamante).\nN. 28a La voce Idomeneo cessi esser re.\nN. 29 Recitativo Oh ciel pietoso! (Idomeneo, Idamante, Ilia, Arbace, Elettra).\nN. 29a Aria D'Oreste, d'Aiace (Elettra).\nN. 30 Recitativo Popoli, a voi l'ultima legge.\nN. 30a Aria Torna la pace (Idomeneo).\nN. 31 Coro Scenda Amor, scenda Imeneo.\n\nScandalo 2006.\nMolto scalpore suscitò la decisione della sovrintendente dalla Deutsche Oper di Berlino Kirsten Harms d'annullare la ripresa di un allestimento di Idomeneo per la regia di Hans Neuenfels prevista per il novembre 2006. In questo allestimento venivano mostrate le teste mozzate di Maometto, Gesù, Budda e Nettuno. Ciò aveva suscitato preoccupazioni da parte del senatore per l'ordine pubblico e della polizia di Berlino per possibili 'azioni violente'. Dopo l'intervento del ministro degli interni tedesco Wolfgang Schäuble alla conferenza islamica a Berlino il 27 settembre e altri intermediazioni, il discusso allestimento andò di nuovo in scena il 18 dicembre senza suscitare i temuti disordini.\n\nDiscografia.\nVideoregistrazioni (DVD).\nJames Levine (1982). Deutsche Grammophon. Regia, scene e costumi di Jean-Pierre Ponnelle. Interpreti: Luciano Pavarotti; Frederica von Stade; Ileana Cotrubaș, Hildegard Behrens; John Alexander; Timothy Jenkins; Richard Clark; Loretta Di Franco, Batyah Godfrey-Bendavid; Charles Anthony, James Courtney. Ripresa video di Brian Large. Questa è stata la prima produzione dell'opera da parte del Metropolitan di New York.\nBernard Haitink (1983). NVC Arts. Regia teatrale di Trevor Nunn. Interpreti: Philip Langridge, Jerry Hadley (che esegue la versione per tenore della parte di Idamante), Yvonne Kenny, Carol Vaness, Thomas Hemsley, Anthony Roden, Roderick Kennedy, altri non indicati. The Glyndebourne Chorus, London Philharmonic Orchestra. Registrata al Glyndebourne Festival Opera.\nMarco Guidarini (2004). Dynamic. Regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Interpreti: Kurt Streit; Sonia Ganassi; Angeles Blancas Gulin; Iano Tamar; Jörg Schneider; Dario Magnabosco; Deyan Vatchkov. Orchestra e coro del Teatro San Carlo di Napoli. Ripresa video: Tiziano Mancini.\nSir Roger Norrington (2006). Decca. Parte del Progetto M22 del Festival di Salisburgo. Messo in scena con la regia di Ursel Herrmann e le scene di Karl-Ernt Herrmann. Interpreti: Ramón Vargas, Magdalena Kožená, Ekaterina Siurina, Anja Harteros, Jeffrey Francis; Robin Leggate; Günther Groissböck, altri non indicati. Salzburger Bachchor, Camerata Salzburg.\nKent Nagano (2008). Medici Arts. Regia di Dieter Dorn. Interpreti: John Mark Ainsley, Pavol Breslik (che esegue la versione per tenore della parte di Idamante), Julianne Banse, Annette Dasch, Rainer Trost, Guy de Mey, Steven Humes; altri non indicati. Chor & Orchester der Bayerischen Staatsoper. Registrata dal vivo all'Opera di Stato Bavarese di Monaco.
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### Titolo: Idomeneo.\n### Descrizione: Idomeneo (in greco antico: Ἰδομενεύς?, Idomenèus) è un personaggio della mitologia greca, re di Creta, figlio di Deucalione e nipote di Minosse.\n\nMitologia.\nUn giorno, Idomeneo risolse una disputa sorta tra Teti e Medea su chi fosse la più bella, decidendo in favore di Teti. Medea, irritata, maledisse lui e la sua stirpe e condannò i Cretesi a non dire mai più la verità. Si spiega così il proverbiale stereotipo secondo cui «I Cretesi sono tutti bugiardi».\nBenché già avanti negli anni, Idomeneo aspirò alla mano della bella Elena, che amò con passione e per cui soffrì molto quando fu destinata a Menelao. Lo stesso Idomeneo si diceva fosse bellissimo. Le file greche si raccolsero sulla spiaggia d'Aulide, quando alcuni ambasciatori cretesi accorsero per annunciare che il loro re Idomeneo avrebbe guidato cento navi a Troia se Agamennone avesse acconsentito a condividere con lui il supremo comando della spedizione. Il re accettò di buon grado. Idomeneo arruolò Merione, suo nipote, come luogotenente.\nPartecipò con ottanta navi alla guerra di Troia, come tutti gli altri pretendenti. Nella guerra tra achei e troiani raccontata nell'Iliade si distinse in numerose imprese, uccidendo Asio (il giovane re di Arisbe e fratello di Niso), Otrioneo, Alcatoo, Enomao, Erimante e Festo. Seppe difendere le navi greche contro gli assalti portati da Deifobo ed Enea. Inoltre fu tra gli eroi che, nascosti nel cavallo di legno, penetrarono nella città; era tra i giudici che attribuirono le armi di Achille ad Odisseo.\nSecondo alcune tradizioni, Idomeneo venne ucciso da Ettore nella guerra di Troia, ma quasi tutte le versioni raccontano come egli, dopo aver abbandonato il suolo insanguinato della imponente città, partì per la sua terra con la sua nave, ma trovò il suo trono usurpato da Leuco, al quale Idomeneo aveva lasciato la guardia della casa in sua assenza, con cui sua moglie Meda aveva avuto una relazione.\nPartì nuovamente per l'Italia e si stabilì definitivamente in Calabria (nome antico del Salento), dove sconfisse Dauno, figlio di Malennio, leggendario fondatore di Lecce e re dei Messapi, e ne prese il trono governando le genti salentine. Analogamente a quanto accaduto con la figura di Diomede in Puglia, la tradizione letteraria identificò Idomeneo come la personificazione allegorica di un'ancestrale colonizzazione ellenica (forse micenea) del Salento, molto precedente a quella più famosa operata dalla spartana Taranto in epoca magnogreca. L'umanista Antonio de Ferrariis, riferendosi all'antico idioma messapico, lo definisce 'la lingua di cui si servivano i Salentini prima della venuta di Idomeneo', utilizzando quindi la figura di quest'ultimo come simbolo del Salento greco di cui egli stesso vantava un'appartenenza. Marco Terenzio Varrone, il Reatino (116 a.C.-27 a.C.), così scrive: “Si dice che la nazione Salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’illirico, l’Italia. Idomeneo, cacciato in esilio dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, giunse con un grosso esercito nell’Illirico presso il re Divitio. Ricevuto da lui un altro esercito, e unitosi in mare, per la somiglianza delle loro condizioni e progetti, con un folto gruppo di profughi locresi, strinse con essi patti di amicizia e si portò a Locri. Dove nelle sue vicinanze fondò una città l’attuale Grotteria costruendo un tempio dedicato alla Dea Minerva. Fondò diversi centri tra quali Uria e la famosissima Castrum Minervae. Divise l’esercito in tre parti e in dodici popoli. Furono chiamati Salentini, poiché avevano fatto amicizia in mare'.\nUna variante afferma che fu costretto a lasciare la patria per una sommossa dei suoi sudditi, avendo egli ordinato il sacrificio di suo figlio Idamante per mantenere fede a un voto fatto mentre ritornava dalla guerra di Troia: i Cretesi interruppero la cerimonia provocando così la fuga del re.
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### Titolo: Idra di Lerna.\n### Descrizione: L'Idra di Lerna (in greco antico: Ύδρα?, Hýdra) è un mostro leggendario della mitologia greca e romana che appare principalmente nei miti riguardanti Eracle.\n\nAspetto.\nÈ un mostro velenosissimo in grado di uccidere un uomo con il solo respiro, con il suo sangue o al solo contatto con le sue orme. È inoltre dotato di grande intelligenza e di arguzia diabolica.\nViene descritto come un grande serpente marino anfibio dotato di sei o nove teste che ricrescono se vengono tagliate e delle quali la centrale è immortale.Alcuni autori come Simonide e Diodoro Siculo narrano di un numero di teste pari a cinquanta e oltre, mentre Pausania riferisce di una sola testa e ne ridimensiona la stazza paragonandola a una biscia di mare.\n\nGenealogia.\nFu allevata da Era ma era figlia di Tifone ed Echidna ed aveva come fratelli Cerbero, Ortro e la Chimera.\n\nMitologia.\nL'idra terrorizzava la città di Lerna nell'Argolide e viveva in una palude nei pressi delle sorgenti di Amimone.\n\nLa seconda fatica di Eracle.\nIl compito di ucciderla fu assegnato ad Eracle per la sua seconda fatica: l'eroe stanò l'Idra con delle frecce infuocate per poi affrontarla, ma ogni volta che le veniva tagliata una delle teste ne ricrescevano due dal corpo. Eracle fu così aiutato da Iolao che, dopo ogni taglio di una testa ne cauterizzava il moncherino con il fuoco impedendone la ricrescita. Il mostro fu definitivamente vinto e ucciso da un masso utilizzato da Eracle per schiacciarne la testa immortale.\n\nL'aiuto del Carcino.\nPer volontà di Era durante la battaglia emerse dalla palude il Carcino (un granchio) che, mandato ad affiancare l'Idra, pizzicò con le sue chele i piedi di Eracle che però lo schiacciò sotto il tallone.\n\nDopo la sua morte.\nEracle immerse le frecce nel sangue velenoso del mostro appena ucciso, e ottenne così che ogni futura ferita provocata diventasse incurabile.L'Idra ed il Carcino furono trasformati in costellazioni da Era. Rispettivamente l'Idra e il Cancro.\n\nNel medioevo.\nNella zoologia mitologica medioevale, il termine 'idra' sta ad indicare un generico drago con molte teste. In alcuni bestiari medioevali è citato anche l'hydrus, un serpente nemico per antonomasia del coccodrillo, dal quale si fa inghiottire per poi lacerarne l'intestino (analogamente a come era detto fare l'icneumone).Erasmo da Rotterdam nei suoi Adagia paragona la guerra all'idra di Lerna:.\n\nNell'età moderna.\nI contro-rivoluzionari paragonavano l'idra di Lerna alla rivoluzione francese, che bisognava annientare se si voleva evitare che contaminasse tutta l'Europa.
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### Titolo: Idriadi.\n### Descrizione: Le Idriadi sono le ninfe delle acque, creature della mitologia greca. Esse si dividono in:.\n\nAvernali, del lago Averno e dei fiumi infernali.\nNefeli.\nAliadi.\nPsamidi.\nOceanine o Malìe, delle acque correnti, sorelle dei fiumi.\nNereidi, del mare, figlie dell'oceanina Doride.\nNaiadi o Efidriadi o Idriadi, delle sorgenti.\nEleadi.\nPotamidi, dei fiumi.\nLimnìadi o Lìmnadi, dei laghi e degli stagni.\nCreneidi e Pegee, delle fonti.Per quanto riguarda le illusorie e ammalianti profondità acquoree, le ninfe più antiche sono le tremila Oceanine «dalle caviglie sottili, che assai numerose la terra e gli abissi del mare per ogni dove ugualmente curano, fulgida prole di dee».\nFiglie di Oceano e Teti, due titani che simboleggiano le acque universali e la fonte prima della vita, diedero origine a tutti i fiumi che bagnano e rinverdiscono la terra, fra cui l'Acheloo, il maggiore dio fluviale della Grecia, capace di cambiare la propria forma (come in una sfida contro Herakles per la mano di Deianira quando si trasformò in toro, drago e bue). Stige «fra loro è la maggiore di tutte», abitatrice del principale rio infernale le cui acque possono rendere immortali (Achille venne immerso nella sua corrente, tenuto per un tallone che per questo rimase vulnerabile); su di lei giurano gli dèi, e colui che si macchia di spergiuro per un anno «giace senza respiro; né mai può farsi vicino all'ambrosia e al nettare cibo, […] e un funesto torpore lo avvolge» poi «per nove anni viene privato degli dèi sempre viventi, né mai frequenta il consiglio né i banchetti».\nAltre figlie di Oceano sono Kalypso amante di Odysseus, Metis dea della saggezza che attuò diverse metamorfosi prima di concedersi a Zeus, Tyche signora della fortuna e Perseide dalla quale discenderanno regine e maghe quali Circe, Pasifae e Medea. Un'altra di queste ninfe, Doris, unendosi a Nereo “il vecchio del mare” (divinità simboleggiante il mare calmo, figlio di Ponto e Gaia e per ciò anteriore alla nascita degli Olimpii) darà vita al bel Nerito ed alle cinquanta Nereidi. Di queste, le più celebri sono: Tetide, madre di Achille, Galatea, amata dal ciclope Polifemo, ed Anfitrite, che diventerà la sposa del successivo dio del mare, Posidone, il dio dalla chioma turchina che porta il tridente. Da questa unione nasceranno Rhodos e Tritone, padre dei Tritoni che percorrono il mare suonando la buccina per suscitare o calmare le tempeste.\nEuripide nell'Andromaca suggerisce che alle ninfe marine «Zeus ha dato un'esistenza e una dimora lontana dagli uomini, stabilendosi ai confini della terra. È là che abitano, il cuore libero da affanni, nelle isole dei Beati, in riva ai gorghi profondi dell'Oceano, eroi fortunati per i quali questo suolo fecondo porta tre volte all'anno un fiorente e dolce raccolto.».\nCome non avvicinare questa descrizione alla miriade di isole incantate presenti in svariate tradizioni, dove gli eroi possono dimorare dopo la morte?.\nLe abitatrici delle acque terrestri, prendono il nome di Naiadi (dal greco “scorrere” o “fonte”) e vengono dette alternativamente figlie di Oceano, di Zeus o del dio fluviale più prossimo alla loro dimora. Queste creature si dividono in varie specie a seconda del luogo che abitano: le Potamidi animano le acque cristalline dei fiumi, le Pegee o Crenee le limpide sorgenti scaturite dalle insondabili profondità terrestri e le Limniadi le polle stagnanti che sembrano custodire arcani segreti.\nAltre fanciulle che abitano una piccola isola fra i flutti sono le Sirene (“le desiderate” o “che legano”), coloro che furono Ninfe di terra e che, per poter cercare anche sulle acque la loro compagna di giochi, Persephone, rapita dal dio del sotterraneo mondo dei morti, si trasformarono in esseri alati abitatori dei mari. Esse avevano una splendida voce che aveva il potere di attirare i marinai che la udivano; solo Orpheus ed Odysseus riuscirono a passare indenni presso il loro scoglio.\nUn episodio riguardante le ninfe delle acque è quello di Hylas, lo splendido giovane, amante e scudiero di Herakles che si era imbarcato con gli argonauti. Durante una sosta su un'isola fu mandato a fare provvista d'acqua e «presto scorse una fonte, in un basso terreno; intorno cresceva molto fogliame, scuro chelidonio e verde capelvenere, apio fiorente e graminia serpeggiante. In mezzo all'acqua le Ninfe intrecciavano un coro, le ninfe insonni, le dee temibili per i campagnoli, Eunica, e Malide, e Nicea sguardo di primavera.». Subito si innamorarono del bel fanciullo, e quando questi si fu chinato sullo specchio d'acqua lo afferrarono e lo portarono nelle profondità, dove con dolci parole lo rincuoravano. Herakles, preoccupato, si mise alla ricerca del compagno e tre volte urlò il suo nome, ma la voce del giovane sembrava provenire da grande distanza, e mai più lo rivide.
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### Titolo: Idro (mitologia).\n### Descrizione: Nella mitologia greca, e in particolare nell'orfismo, Idro (Ὕδρος Hýdros) era il dio primordiale dell'acqua, nello stesso modo in cui Tesi era la dea primordiale della creazione. Secondo la teogonia orfica non aveva genitori, ma era emerso all'inizio dell'universo.\nIn alcune teogonie Idro è essenzialmente identico a Oceano, il fiume che circonda la Terra, proprio come Tesi rispetto a Teti.\n\nCollegamenti esterni.\n(EN) Idro, su theoi.com.
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### Titolo: Ifi (figlia di Ligdo).\n### Descrizione: Ifi (in greco antico: Ιφις?) o Ifide è un personaggio della mitologia greca, figlia di Teletusa e di Ligdo.\nLa storia di Ifi è uno dei pochi miti greci incentrati sui temi del lesbismo e della transessualità.\n\nMitologia.\nSecondo Ovidio, che ne racconta il mito nelle Metamorfosi, Ligdo dichiarò alla moglie Teletusa, incinta, che se avesse partorito una bambina, i due sarebbero stati costretti ad ucciderla poiché non disponevano dei mezzi per allevarla.\nUna notte Iside apparve a Teletusa ormai disperata, dicendole di non preoccuparsi del sesso nascituro e di allevarlo.\nQuando Teletusa partorì, nascose al marito il sesso della bambina e la allevò fingendo che fosse un maschio.\nIfi fu cresciuta con un'altra bambina, Iante, che le fu promessa in moglie dal padre; tra le due ragazze sbocciò un amore reciproco.\nMan mano che si avvicinava il giorno delle nozze, Ifi era sempre più preoccupata di non poter possedere la sua amata, così pregò Iside-Giunone affinché le fosse permesso di coronare il suo amore. Il giorno prima del matrimonio Teletusa portò la figlia al tempio di Iside ed implorò l'aiuto della dea.\nLa dea trasformò Ifi in un uomo cosicché rimanesse se stessa dentro al nuovo corpo di un uomo e potesse sposare Iante.
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### Titolo: Ificlo (figlio di Filaco).\n### Descrizione: Ificlo (in greco antico Ἰφικλής Iphiklḕs) è un personaggio della mitologia greca, nativo della Tessalonica e figlio di Filaco e Climene.\n\nMitologia.\nPadre di Protesilao e Podarce avuti da Diomedea o da Astioche.\nFu curato dall'infertilità da Melampo a cui diede come ricompensa un branco di buoi.\nIficlo aveva un fratello di nome Climeno che con lui risulta tra i partecipanti alla spedizione degli Argonauti nel periodo in cui navigarono verso la Colchide e nella ricerca del Vello d'oro.
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### Titolo: Ificlo (figlio di Testio).\n### Descrizione: Ificlo (in greco antico Ίφικλής) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Testio e di Euritemi e fratello di Ipermnestra, Plessippo, Evippo, Euripilo Altea e Leda.\n\nMitologia.\nFu uno degli Argonauti e partecipò alla caccia al cinghiale Calidonio dove fu anche il primo a colpirlo con la lancia.
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### Titolo: Ifigenia (mitologia).\n### Descrizione: Ifigenia (in greco antico: Ἰφιγένεια?, Iphighéneia), o Ifianassa è un personaggio della mitologia greca, figlia primogenita di Agamennone e di Clitemnestra.\nLa figura di Ifigenia è protagonista delle tragedie Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride di Euripide. Inoltre, un episodio della sua storia, riguardante precisamente il suo sacrificio in Aulide, fu descritto anche da Lucrezio, autore latino del I secolo a.C.\n\nIl mito.\nIfigenia era la prima figlia di Agamennone, come sottolinea anche Euripide: «Per prima ti ho chiamato mio padre e tu figlia».\nI suoi fratelli erano Oreste, Elettra e Crisotemi. Antonino Liberale racconta che in realtà fosse figlia di Teseo ed Elena. Ancora giovinetta, Elena fu rapita dall'eroe che la violò. Elena fu poi salvata dai Dioscuri e giurò loro di aver mantenuto la sua verginità, ma in realtà, ad Argo, sulla strada del ritorno, diede alla luce una bambina, Ifigenia, e consacrò ad Artemide un santuario in segno di gratitudine per il parto alleviato dalla sofferenza. Poi affidò la neonata a Clitemnestra che la adottò come sua figlia.\nUn giorno, Agamennone uccise una cerva con una freccia saettata da una lunga distanza, e, imbaldanzito, emise un sacrilego vanto: «Neanche Artemide ci sarebbe riuscita!», oppure, promise di sacrificare alla dea la creatura più bella sbocciata nel suo regno in quell'anno, lo stesso in cui poi venne alla luce Ifigenia, ma si rifiutò poi di immolarla, o ancora, uccise una capra sacra alla dea. Artemide fu offesa dal sacrilegio e scatenò presto forti venti che respinsero per alcuni giorni le navi greche sulle coste di Aulide, impedendo loro di salpare per Troia.\nL'indovino Calcante fu consultato e vaticinò che la flotta non sarebbe salpata se Agamennone non avesse sacrificato alla dea irata la più bella tra le sue figlie. Secondo altri il responso fu emesso dall'oracolo di Delfi. In un primo momento, Agamennone si oppose al sacrificio della propria figlia e sostenne che Clitemnestra non avrebbe mai dato il suo consenso all'uccisione di Ifigenia. Le truppe greche insorsero, minacciando di giurare fedeltà a Palamede e di abbandonare il re, se si fosse ostinato nel suo cieco rifiuto. Ulisse si finse colto da un'ira rabbiosa e fu sul punto di salpare per Itaca, quando Menelao si intromise e cercò di placare gli animi. Sino a quando non avesse concesso il sacrificio, Agamennone fu sospeso dalle sue prerogative e l'esercito elesse al suo posto Palamede.\nMenelao esortò allora il fratello a lasciare che Ulisse e Taltibio andassero a Micene e conducessero Ifigenia in Aulide, con il pretesto che, se Achille non l'avesse presa in moglie, si sarebbe rifiutato di salpare per Troia. Clitennestra, madre di Ifigenia, condusse con gran pompa la figlia dal padre, felice di divenire suocera di Achille. Rimase quindi sconcertata quando scoprì il vero motivo del viaggio: non le nozze ma un sacrificio umano per far partire la flotta verso Troia. Per questo inganno sorse in lei un astio feroce verso Agamennone, che porterà al tradimento e all'assassinio del marito una volta ritornato dalla guerra.\nIfigenia, dopo un iniziale sgomento, accettò nobilmente il suo destino e si presentò per essere decapitata sull'altare. Ma all'ultimo momento Artemide sostituì Ifigenia con una cerva. La fanciulla sparì dalla vista degli Achei e fu portata dalla dea in Tauride, nel Chersoneso, dove divenne sua sacerdotessa. Molti anni dopo, il fratello Oreste giunse lì casualmente insieme all'amico Pilade, ma venne catturato dagli abitanti del posto e, come tutti gli stranieri, preparato per il sacrificio ad Artemide. Ifigenia, riconosciuto il fratello, ingannò Toante, re dei Tauri, dicendogli che i nuovi arrivati dovevano essere lavati nel mare poiché accusati di matricidio e chiese anche alla popolazione di non assistere al rito. Ciò servì ai tre per fuggire da lì con la statua di Artemide e far ritorno in Grecia.\nSecondo alcuni autori, la divinità che aveva preteso il sacrificio della giovane donna era Poseidone.\n\nIl sacrificio della Vergine.\nCol termine proteleia si indicava la data in cui le figlie femmine (ossia vergini) venivano accompagnate dai genitori sull'acropoli per celebrare un sacrificio alla dea Artemide (o ad altre divinità femminili), generalmente in vista del loro matrimonio. Con lo stesso termine Euripide traduce solo il rito sacrificale. Il sacrificio consisteva spesso in un oggetto personale, un giocattolo oppure una ciocca di capelli, a rappresentare il vecchio modo di vita (la fanciullezza) lasciato in quel momento alle spalle.\nIl parallelismo con il mito di Ifigenia è evidente: Ifigenia è allo stesso tempo figlia obbediente, disposta a sacrificarsi secondo il volere del padre, e sacerdotessa di un culto che segue durante le tappe della crescita tutte le donne (bambine, spose, madri). In Ifigenia si riflette quindi il mito della fanciulla che rimane vergine, malgrado il tentativo di ucciderla (il sacrificio va inteso come morte della fanciulla a favore della donna adulta, matura e quindi pronta ad essere data in sposa ad un uomo). Anche la figura paterna che si confonde con quella del sacrificatore è importante: la ragazza che va in sposa smette di essere sotto la tutela del padre per passare sotto quella del marito. Il padre, partecipando al sacrificio, accetta questa condizione.\n\n«In molti paesi dell'Attica, a Braurone come a Munichia, per rappresentare il superamento della condizione dell'infanzia ci si serve del motivo del “sacrificio della figlia” che riprende il modello universale della morte iniziatica. Ifigenia, con una tomba a Braurone e una a Megara, e un mito che ne fa la figlia da sacrificare in Aulide, funge da prototipo per le ragazze che compiono il rito di passaggio».Nella Bibbia c'è un evento simile narrato nel Libro dei Giudici, in cui i protagonisti sono il giudice Iefte e sua figlia.\n\nGenealogia.\nIfigenia nell'arte.\nIl mito di Ifigenia è presente in numerose opere artistiche.\n\nLetteratura.\nIfigenia - Tragedia di Jean Racine.\nIfigenia - Tragedia di Ramón de la Cruz.\nIfigenia in Aulide - Tragedia di Euripide.\nIfigenia in Aulide - Tragedia di Gerhart Hauptmann.\nIfigenia in Aulide - Tragedia di Jean de Rotrou.\nIfigenia in Delfi - Tragedia di Gerhart Hauptmann.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Giuseppe Biamonti.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Gian Rinaldo Carli.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Cesare della Valle.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Euripide.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Johann Wolfgang Goethe.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Pier Jacopo Martello.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Jean Moréas.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Ippolito Pindemonte.\nIfigenia in Tauride - Tragedia di Guimond de la Touche.\nIl sacrificio di Ifigenia - Tragedia di José de Cañizares.\nIfigenia - romanzo del 1924 della scrittrice venezuelana Teresa de la Parra.\nIl ritorno di Ifigenia - Poema di Ghiannis Ritsos.\n\nMusica.\nIfigenia - Melodrammi di Domenico Scarlatti: Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauri.\nIfigenia in Aulide - Melodramma di Apostolo Zeno (libretto).\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Antonio Caldara.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Luigi Cherubini, rappresentata a Torino nel 1788.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Christoph Willibald Gluck.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Heinrich Graun (dello stesso autore e con medesimo soggetto anche Iphigenia in Aulis).\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Niccolò Jommelli.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Vicente Martín y Soler.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Nicola Porpora.\nIfigenia in Aulide - Opera lirica di Tommaso Traetta.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Michele Carafa.\nIfigenia in Tauride - Opera musicale di Hugh Clarke e Charles Wood.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Henri Desmarets e André Campra.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Christoph Willibald Gluck.\nIfigenia in Tauride - Opera musicale di Ludwig Theodor Gouvy.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Niccolò Jommelli.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Benedetto Pasqualigo (libretto).\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Niccolò Piccinni.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Giuseppe Orlandini.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Domenico Scarlatti.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Angelo Tarchi.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Tommaso Traetta.\nIfigenia in Tauride - Opera lirica di Leonardo Vinci.\nIphigenia in Hades - Canzone del gruppo heavy metal Virgin Steele ( contenuta nel disco The House of Atreus Act I).\n\nPittura.\nSacrificio di Ifigenia di Timante.\nSacrificio d'Ifigenia di Giambattista Tiepolo (nella Sala di Ifigenia a Villa Valmarana).\nSacrificio di Ifigenia di Giambattista Crosato.\nSacrificio di Ifigenia di Federico Bencovich.\nSacrificio di Ifigenia di Giambattista Pazzetta.\nSacrificio di Ifigenia di Corrado Giaquinto.\nIl sacrificio d'Ifigenia di Francesco Fontebasso.\nIl sacrificio d'Ifigenia di Pietro Testa.\nSacrificio di Ifigenia di Pompeo Batoni.\n\nCinema.\nIfigenia, film del regista greco Michael Cacoyannis.\nIfigenia, film del cineasta venezuelano Iván Feo.\nIl sacrificio del cervo sacro, film del regista greco Yorgos Lanthimos.
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### Titolo: Ifigenia in Aulide (Gluck).\n### Descrizione: Ifigenia in Aulide (Iphigénie en Aulide) è un'opera francese in tre atti di Christoph Willibald Gluck, su libretto di Le Bailly du Roullet, tratto dalla tragedia Iphigénie (1674) di Jean Racine, a sua volta basata sull'Ifigenia in Aulide di Euripide. Riferibile al genere della tragédie lyrique, essa vide la luce del palcoscenico all'Opéra di Parigi il 19 aprile 1774 e costituisce la prima delle sei opere che il musicista tedesco compose, o profondamente rielaborò, per le scene della capitale francese.\n\nLa preparazione.\nQuando agli inizi degli anni '70, la fortuna di Gluck a Vienna appariva declinante, la sua nuova amicizia con l'aspirante librettista e attaché all'ambasciata di Francia, noto come Le Bailly du Roullet, e soprattutto il fatto che la sua affezionata ex-allieva di canto, Maria Antonietta d'Asburgo-Lorena, fosse diventata, nel 1770, delfina di Francia, fecero accarezzare al compositore, ormai sulla soglia dei sessant'anni, l'idea di cercare nuovi successi a Parigi: ciò che del resto poteva anche essere considerato come il logico sbocco del suo percorso artistico che tanto, del mondo musicale francese, direttamente o indirettamente, si era alimentato.\nNel raggio di pochi mesi, Gluck stava non solo lavorando, senza alcun preventivo contratto, ad una nuova opera su libretto di du Roullet, l'Iphigénie en Aulide, con soggetto radicato nella tradizione teatrale francese ed ispirato a una tragedia di Racine, ma stava anche aprendo una corrispondenza con il «Mercure de France» allo scopo di prepararsi il campo sulla rovente piazza parigina. Pressappoco in questo stesso periodo, Gluck dové inoltre riprendere i contatti con un suo vecchio collaboratore, il librettista Pierre-Louis Moline, ai fini della traduzione e dell'ampliamento del libretto dell'Orfeo ed Euridice di Ranieri de' Calzabigi, nell'ipotesi della produzione di una versione francese dell'opera.\nSu questi presupposti, Le Bailly du Roullet, sponsorizzato ad alto livello (e in modo determinante) dalla delfina, esercitò pressioni molto forti sulla direzione dell'Académie Royale de Musique, finché non ottenne una ricca commessa in favore di Gluck.\nQuesti partì quindi nel 1773 alla volta di Parigi, con la partitura dell'Iphigénie sottobraccio e, così come aveva esplicitamente previsto, si scontrò immediatamente con tutto l'ingessato ambiente dell'Opéra, restio ad accettare i suoi metodi bruschi di lavoro e refrattario nei confronti del suo nuovo stile artistico e musicale. Le prove dell'Iphigénie en Aulide durarono la bellezza di sei mesi e soltanto le sue ripetute minacce di abbandonare la partita e soprattutto l'appoggio della corte, gli consentirono alla fine di averla vinta. «A Sophie Arnould, che per il ruolo di Ifigenia pretendeva delle grandi arie anziché i perpetui recitativi, replicò: 'Per cantare delle grandi arie, bisogna prima saper cantare'. (...) Litigò con il ballerino Gaëtan Vestris che voleva che l'opera si concludesse con un balletto, com'era d'uso. 'Una ciaccona! Una ciaccona!' gridò Gluck. 'Vogliamo ricreare i greci; e i greci avevano forse le ciaccone?' Vestris, stupito di apprendere che non le avevano, ribatté con umorismo: 'Peggio per loro'»..\nQuanto al coro, i suoi componenti, ricorderà novant'anni dopo Berlioz, «non recitavano. Piantati a destra e a sinistra del palcoscenico come delle canne d'organo, ripetevano la lezione con flemma disperante. [Gluck] fu quello che cercò di rianimarli, indicando loro ogni gesto e movimento da fare e consumandosi a tal punto nei suoi sforzi che sarebbe certamente crollato sotto la fatica se solo non fosse stato dotato dalla natura di una tempra tanto resistente».\nSui rapporti, inizialmente molto difficili, con la prima haute-contre dell'Opéra, Joseph Legros sono stati tramandati aneddoti, anche molto coloriti, relativi soprattutto alle prove dell'Orphée, che ebbero luogo immediatamente dopo l'esecuzione dell'Iphigénie. Con questo cantante, cui spettavano istituzionalmente le parti da “attor giovine”, Gluck si trovò di fronte ad una sorta di pingue usignolo meccanico, dalle straripanti possibilità vocali, ma assolutamente privo di capacità interpretative e sceniche. Il lavoro di addestramento fu duro e lunghissimo e coinvolse tutto il periodo tra l'inizio delle prove dell'Iphigénie e la rappresentazione dell'Orphée. Legros, che era una persona seria e di notevole statura umana, riuscì a trarre lezione dagli insegnamenti gluckiani e uscì dall'incontro con il musicista tedesco come un interprete rinato capace di mettere d'accordo gli opposti partiti, sempre presenti sulla piazza di Parigi, finché, una decina di anni dopo, nel 1783, la sua ormai opprimente obesità non lo costrinse a lasciare il palcoscenico.\n\nVicende storiche.\nL'Iphigénie andò finalmente in scena il 19 aprile 1774 con successo inizialmente assai moderato e fece in tempo ad avere solo tre riprese, il 22, 24 and 29 aprile, perché poi i teatri francesi furono chiusi per un mese e mezzo, a partire dal primo maggio, in concomitanza con la malattia e la morte del re Luigi XV. Successivamente il cartellone prevedeva le rappresentazioni, prima dell'Orphée (dal 4 agosto), e poi dell'Azolan di Étienne-Joseph Floquet (dal 22 novembre), e quindi l'Iphigénie poté tornare in palcoscenico solo il 10 gennaio 1775: «fu però ripresa annualmente nei periodi 1776/1780, 1782/1793, 1796/1824, annoverando a Parigi, in quest'arco di cinquant'anni, più di quattrocento messe in scena», e risultando quindi alla fine l'opera gluckiana più eseguita sui palcoscenici della capitale francese. Per la ripresa del 1775, «Gluck rimaneggiò l'Iphigénie en Aulide ... introducendo in chiusura dell'opera il personaggio di Diana (soprano) come deus ex machina, e modificando ed ampliando i divertissements... Così, in senso lato, si può dire che esistano due versioni dell'opera, ma le differenze non sono in alcun modo altrettanto grandi ed importanti come quelle tra l'Orfeo ed Euridice e l'Orphée et Euridice, oppure tra la versione italiana e quella francese dell'Alceste».\n\nLa versione di Wagner.\nNonostante il grande successo riscosso nei suoi primi cinquant'anni di vita, a partire dagli anni '30 dell'Ottocento l'Iphigénie en Aulide passò in second'ordine rispetto all'Orfeo ed Euridice, e anche all'Iphigénie en Tauride, dal punto di vista della frequenza di rappresentazione sui palcoscenici. Precedette comunque, ancora, cronologicamente, le due consorelle gluckiane nell'interesse che esse destarono nei compositori ottocenteschi, e che si concretò nella nascita di versioni aggiornate delle tre opere.\nAd occuparsi dell'Iphigénie en Aulide nel 1847, fu Richard Wagner, il quale realizzò una revisione dell'opera di Gluck (Iphigenia in Aulis) al Semperoper di Dresda, per l'interpretazione di Wilhelmine Schröder-Devrient nei panni di Clitennestra e di Johanna Wagner in quelli della protagonista. Oltre a tradurla in tedesco, Wagner «riorchestrò l'opera, introdusse numerosi tagli ed aggiunse recitativi ed altra musica di sua produzione; cambiò pure il terzo atto e gli diede un nuovo finale (con Diana ... che comanda a Ifigenia di trasferirsi in Tauride come propria locale grande sacerdotessa), così realizzando un collegamento tra Iphigénie en Aulide e Iphigénie en Tauride che andava di sicuro al di là delle intenzioni di Gluck». La versione wagneriana ebbe una notevole fortuna nei teatri tedeschi, rappresentata normalmente in luogo della versione originale francese fino ad anni recenti. Il finale di Wagner, ritradotto in francese, è stato eseguito anche in occasione della ripresa dell'opera sotto la direzione di Riccardo Muti ad inaugurazione della stagione 2002-2003 del Teatro alla Scala, il 7 dicembre 2002.\n\nLa fortuna moderna.\nA partire dalla ripresa al Maggio Musicale Fiorentino del 1950 con Boris Christoff come Agamennone, l'Iphigénie en Aulide è rientrata, sia pure un po' faticosamente, nel repertorio, interessando comunque protagoniste di vaglia, come Giulietta Simionato, Christa Ludwig e Elisabeth Söderström, noti direttori, come Karl Böhm, Sir Charles Mackerras, Sir John Eliot Gardiner o il già ricordato Muti, e grandi piazze teatrali, soprattutto europee: oltre alle già citate, il Festival di Salisburgo, la Staatsoper di Vienna, il Festival di Drottningholm, Berlino, Londra, Roma. La prima americana dell'opera si era avuta all'Academy of Music di Filadelfia il 22 febbraio 1935.\n\nCaratteristiche artistiche.\n«Nella produzione di Gluck l'Iphigénie en Aulide segna una svolta decisiva. I ritratti marmorei realizzati nei capolavori degli anni viennesi (Orfeo ed Euridice, Alceste) sono ora incrinati da debolezze e lacerazioni, che danno ai personaggi una tormentata umanità». Il libretto di Du Roullet semplifica la trama della tragedia di Racine eliminando il complesso dibattito intorno all'opportunità del sacrificio di Ifigenia e concentrando invece l'attenzione sulle passioni che tale situazione genera, così da rendere la tragedia più umana.\nAl centro del dramma non è più un conflitto di natura etica generale, bensì quello dei sentimenti delle persone, tra le ambizioni politiche e l'amore di padre, tra la devozione filiale e l'attaccamento alla vita e al promesso sposo, tra il vincolo matrimoniale ed il prepotente amore materno. «Fra i personaggi dell'opera, Agamennone e Clitennestra hanno una rilevanza non inferiore a quella di Ifigenia, e tutti e tre sono tra le più memorabili creazioni di Gluck: Agamennone con i suoi due grandi monologhi nei primi due atti, che sono senza precedenti nella storia dell'opera; Clitennestra con le sue arie appassionate e la visionaria scena del terzo atto; e Ifigenia stessa, la cui evoluzione dall'amore giovanile del primo atto all'esaltazione eroica … del terzo, è così efficacemente resa nella musica a lei dedicata».”.».\nAccanto ai personaggi principali (tra cui vanno annoverati anche la figura, assai più convenzionale, dell'eroe amante Achille, dalla “ stentorea marzialità tenorile”, e il sacerdote oppositore Calcante) «spicca come vero e proprio attore collettivo il coro dei soldati greci, ansiosi di conoscere la vittima e poi di celebrare il sacrificio; la monolitica aggressività degli unisoni, usata da Gluck nel coro infernale dell'Orfeo, cede qui il passo a un contrappunto tumultuante, in cui più d'un commentatore ha colto un'eco delle Passioni bachiane».«La musica [dell'Iphigénie] aprì un nuovo orizzonte anche per la combinazione che essa realizzò tra lirismo e melodia italiani, e declamazione francese: una formula che Gluck avrebbe usato in vari modi in tutte le sue opere parigine e di cui andava a buon diritto fiero. “Ho inventato un linguaggio musicale adatto a tutte le nazioni”, scrisse sul Mercure de France nel febbraio del 1773, “e spero di abolire le ridicole distinzioni tra gli stili musicali nazionali”.».\n\nPersonaggi ed interpreti.\nSoggetto.\nLa scena si finge in Aulide, un porto della Beozia di fronte all'isola di Eubea, dove si trovano riuniti i re e gli eserciti di tutta la Grecia, in attesa di potersi imbarcare alla volta di Troia.\n\nAntefatto.\nL'azione si colloca nella fase iniziale della guerra che condurrà, secondo il mito narrato da Omero, alla distruzione della città dell'Asia Minore. Una continua bonaccia impedisce la partenza delle navi e il sacerdote Calcante ha rivelato al condottiero dei Greci, Agamennone, che essa è provocata dall'ira della dea Diana nei suoi confronti per un affronto da lui arrecatole, e che solo il sacrificio di sua figlia, Ifigenia, potrà valere a pacificare la divinità. Agamennone ha in qualche modo segretamente accondisceso ed ha convocato la figlia in Aulide con il pretesto di darla in sposa ad Achille.\n\nAtto I.\nL'opera ha inizio con l'angoscia e i dubbi del re: nonostante il suo giuramento, egli pensa ancora di sottrarsi al sacrificio della figlia, inventando che Achille non la ama più e quindi evitando che Ifigenia giunga in Aulide. Mentre però è intento a perorare la sua causa con Calcante, canti di gioia annunciano l'arrivo al campo della ragazza accompagnata dalla madre Clitennestra: lo stratagemma del re è fallito perché il suo braccio destro Arcade non è riuscito a raggiungere in tempo le due donne. L'accoglienza tripudiante nei loro confronti è l'occasione del primo divertissement alla francese, con danze e cori, che Gluck però ridimensionò in durata nella seconda edizione del 1775, trasportando in particolare, al finale dell'opera, la splendida passacaglia che ne faceva originariamente parte. I festeggiamenti vengono interrotti dall'indignata Clitennestra che, venuta a sapere della (falsa) infedeltà di Achille, sollecita la figlia ad apprestarsi a ripartire. Rimasta sola, questa dà sfogo al suo dolore finché Achille stesso non compare in scena, rivelando di non aver nemmeno saputo del prossimo arrivo di Ifigenia, e negando risolutamente qualsiasi infedeltà da parte sua. L'atto si chiude quindi in una tenera scena di riconciliazione, nella quale i due promessi sposi si appellano al dio del matrimonio perché li unisca quello stesso giorno.\n\nAtto II.\nIfigenia ed il suo seguito meditano sulla situazione difficile in cui la ragazza si è venuta a trovare, presa tra l'orgoglio del padre e l'ira dell'amato, quando Clitennestra annuncia che Agamennone si è finalmente convinto, e che i preparativi per la cerimonia di nozze sono in corso. Li raggiungono Achille con l'amico Patroclo e con il suo seguito, e la gioia di tutti dà occasione al secondo divertissement dell'opera, molto più ampio nell'edizione del 1775, durante il quale viene celebrato il valore dello sposo, mentre la sposa dona la libertà alle schiave di Lesbo che Achille ha portato con sé. L'atmosfera cambia però radicalmente con l'arrivo di Arcade, il quale, non riuscendo a trattenere i propri sentimenti, rivela che Agamennone sta attendendo la figlia all'altare non per celebrarne le nozze, ma per sacrificarla. Le parole del soldato, pronunciate senza accompagnamento di musica, in modo che le si possa udire distintamente, provocano espressioni di orrore da parte degli astanti e del coro.\n\nClitennestra, furibonda e disperata, implora Achille di salvare sua figlia, e questi infine si impegna con la giovane a proteggerla senza però nel contempo far alcun male a suo padre. Dopo un furibondo duetto tra i due eroi, in cui Achille comunica al futuro suocero che dovrà passare sul suo cadavere prima di poter attentare alla vita della figlia, Agammennone ha una nuova resipiscenza e dà disposizioni ad Arcade perché riconduca le due donne a Micene. L'atto si chiude con la toccante espressione dell'amore del re per la figlia, prima, e poi con la sua baldanzosa sfida alla dea perché si prenda la vita di lui piuttosto che quella dell'innocente Ifigenia.\n\nAtto III.\nL'atto si apre con il coro dei Greci che sollecitano Agamennone al sacrificio della figlia, per timore di non riuscire più a raggiungere Troia. Ifigenia, che ha rifiutato di seguire Arcade, si è ormai rassegnata al suo fato e saluta teneramente prima lo sposo, il quale però esprime il suo rifiuto alla rassegnazione in un'eroica aria di bravura con corni e trombe, poi la madre trepidante. Rimasta sola, Clitennestra è protagonista di una sorta di scena della pazzia in cui ha la visione allucinata dell'imminente sacrificio, e che sfocia nell'implorazione appassionata al padre Giove perché annienti con il fulmine il campo dei Greci. La scena si chiude con le sue parole di angoscia che si levano al di sopra dei canti del coro che accompagna Ifigenia al sacrificio.Sulla spiaggia, nei pressi dell'altare, Ifigenia è inginocchiata mentre i Greci cantano inni agli dei e Calcante ha già alzato il coltello sacrificale, quando Achille irrompe in scena con i suoi guerrieri tessali deciso ad impedire la cerimonia.\nL'opera si chiude con il più rilevante allontanamento di Gluck e du Roullet dal mito: la voce di Calcante si leva infatti al di sopra del tumulto generale e, del tutto inopinatamente, annuncia che Diana ha rinunciato alla morte di Ifigenia e ha consentito al matrimonio. Nella versione del 1775 Gluck ovviò all'incongruenza del comportamento di Calcante facendo entrare direttamente in scena il personaggio di Diana e facendo annunciare a lei stessa il proprio consenso sia per le nozze che per la partenza dei Greci verso Troia. Dopo un quartetto di gioia tra i due sposi e i genitori di lei, la versione del 1774 si concludeva con un lungo divertissement, comprendente l'aria di una donna greca, una ciaccona interrotta dalle esortazioni belliche di Calcante, e un sinistro coro di guerra dei Greci. La versione del 1775 si conclude invece semplicemente con un divertissement ancora più ampio nel quale fu trasportata la splendida passacaglia che nella versione del 1774 faceva parte del divertissement dell'atto primo.\n\nDiscografia.\nOrdine dei personaggi: Agamemnon, Clytemnestre, Iphigénie, Achille, Calchas, Diane, Arcas, Patrocle, due donne greche, una schiava lesbia.\nDietrich Fischer-Dieskau, Johanna Blatter, Martha Musial, Helmut Krebs, Josef Greindl; Maria Reith; Leopold Clam; mancano i personaggi femminili minori; Coro camera e Orchestra Sinfonica “Rundfunk Im Amerikanischen Sektor” (RIAS), dir. Artur Rother (CD Gala 100.712). Registrazione radiofonica in tedesco, 1º dicembre 1951, Berlino.\nGabriel Bacquier, Christiane Gayraud, Jane Rhodes, Michel Sénéchal, Raymond Steffner, Paola Berti, Teodoro Rovetta, Raymond Steffner; Paola Berti, Jolanda Torriani, Maria Manni Jottini (terza donna greca); Maria Manni Jottini, Antonio Pietrini (un greco); Coro e Orchestra Sinfonica della RAI di Torino, dir. Pierre Dervaux (CD Omega Opera Archive, 4094). Registrazione radiofonica (mono), 21 aprile 1961, Torino.\nWalter Berry, Inge Borkh, Christa Ludwig, James King, Otto Edelmann, Elisabeth Steiner, Alois Pernerstorfer, mancano gli altri interpreti; Coro da camera del Festival di Salisburgo, Coro della Wiener Staatsoper e Wiener Philharmoniker, dir. Karl Böhm (CD Orfeo, C428 962I). Registrazione dal vivo in tedesco, 3 agosto 1962, Festspiele di Salisburgo.\nDietrich Fischer-Dieskau, Trudeliese Schmidt, Anna Moffo, Ludovic Spiess, Thomas Stewart, Arleen Augér, Bernd Weikl, Nikolaus Hillebrand; mancano le interpreti femminili minori; Coro e Orchestra della Radio Bavarese, dir. Kurt Eichhorn (CD: Eurodisc, 352 988; Bmg Rca, 74 321-32 236-2). Registrazione in studio della versione di Richard Wagner, in tedesco (1972), Monaco di Baviera.\nJosé van Dam, Anne Sofie von Otter, Lynne Dawson, John Aler, Gilles Cachemaille, Guillemette Laurens, René Schirrer, Bernard Deletré, Ann Monoyios, Isabelle Eschenbrenner, Ann Monoyios; Monteverdi Choir, Orchestra dell'Opéra di Lione, dir. John Eliot Gardiner (CD Erato 2292-45 003-2/4509-99 609-2). Registrazione in studio dell'originale francese (versione 1775), 1987.\nNicolas Testé, Anne Sofie von Otter, Véronique Gens, Frédéric Antoun, Christian Helmer, Salomé Haller, Laurent Alvaro, Martijn Cornet; le parti femminili minori sono tagliate; Coro della Nederlandse Opera, Les Musiciens du Louvre, dir. Marc Minkowski, regia di Pierre Audi (DVD Opus Arte BD7115 D). Registrazione dal vivo (settembre 2011), al Muziektheater di Amsterdam, dell'edizione francese del 1775, senza danze e con tagli.
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### Titolo: Ifigenia in Aulide (Jommelli).\n### Descrizione: Ifigenia in Aulide è un'opera seria in 3 atti composta da Niccolò Jommelli su libretto di Matteo Verazi.\nFu rappresentata per la prima volta al Teatro Apollo di Roma il 9 febbraio 1751.\nUna versione rimaneggiata dell'opera, che includeva alcune arie composte da Tommaso Traetta, fu messa in scena a Napoli nel 1753. In quella rappresentazione debuttò in un ruolo minore Giuseppe Aprile, un cantante castrato che si specializzò poi nel repertorio di Jommelli e fu molto apprezzato da Wolfgang Amadeus Mozart.
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### Titolo: Ifigenia in Aulide.\n### Descrizione: Ifigenìa in Àulide (in greco antico: Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι?, Iphighéneia he en Aulídi) è una tragedia di Euripide, scritta tra il 407 ed il 406 a.C., nel periodo che l'autore passò alla corte di Archelao, re di Macedonia, dove morì. L'opera reca alcuni segni di incompiutezza e non fu mai messa in scena dall'autore.\nLa prima rappresentazione avvenne nel 405 a.C., ad opera del figlio (o nipote) dell'autore, chiamato anch'egli Euripide. La tragedia venne messa in scena nell'ambito di una trilogia che comprendeva anche Le Baccanti e Alcmeone a Corinto (oggi perduta), con le quali l'autore ottenne una vittoria postuma alle Grandi Dionisie di quell'anno.\n\nTrama.\nLa scena è ambientata nell'accampamento greco, in Aulide, sulla costa della Beozia, dove le navi dirette verso Troia sono bloccate a causa di una bonaccia. Nel prologo si racconta che l'indovino Calcante ha affermato che solo sacrificando alla dea Artemide una figlia di Agamennone, Ifigenia, i venti torneranno a spirare: egli, infatti, aveva offeso la dea e doveva rimediare per poter riprendere il viaggio. Ifigenia però non è con loro, è rimasta a casa, così Agamennone, persuaso da Odisseo, le scrive una lettera in cui le prospetta un matrimonio con Achille, chiedendole quindi di raggiungerli in Aulide. In seguito però, pentito di questo inganno, cerca di avvertire la figlia di non mettersi in viaggio, scrivendole un altro messaggio.\nLa seconda lettera viene intercettata da Menelao, che la toglie di mano al vecchio che la portava con sé, e rimprovera severamente Agamennone per il suo tentativo di tradimento. Arrivano quindi in Aulide Ifigenia e la madre Clitennestra, con il piccolo Oreste, per le nozze. A quel punto viene a galla la verità, sicché le due donne si ribellano furiosamente: Clitennestra biasimando aspramente il marito, Ifigenia chiedendo pietà con parole toccanti. Anche Achille, nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia vendetta.\nIfigenia però, nel vedere l'importanza che la spedizione ricopre per tutti i greci, cambia atteggiamento e offre la propria vita, calmando la madre e respingendo l'aiuto di Achille. Al momento del sacrificio, però, la ragazza scompare ed al suo posto la dea Artemide invia una cerva, tra lo stupore e la felicità dei presenti, che in tal modo capiscono che la ragazza è stata salvata dagli dei ed ora dimora presso di loro. Il vento torna a spirare e la flotta può finalmente salpare verso Troia.\n\nCommento.\nLa prima parte: una commedia degli equivoci.\nL'opera si può fondamentalmente suddividere in due parti. La prima è basata su una sorta di commedia degli equivoci (già sperimentata da Euripide nell'Elena), in cui ognuno dei personaggi ha una diversa visione delle cose: Agamennone e Menelao sanno che deve essere fatto un sacrificio, Clitennestra ed Ifigenia credono invece che si tratti di un matrimonio, mentre Achille è all'oscuro di entrambe le cose. Questo crea una serie di malintesi (Ifigenia non sa spiegarsi come mai il padre nel vederla non appaia felice ma pianga, così come Clitennestra fatica a capire come mai Achille sia così disorientato quando lei gli parla di matrimonio), che però troveranno una loro drammatica chiarificazione poco oltre la metà dell'opera.\n\nLa seconda parte: le lusinghe del potere.\nLa seconda parte dell'opera è dedicata all'analisi della psicologia dei personaggi, i quali hanno tutti una caratteristica fondamentale: pur essendo alcuni tra i più grandi eroi della mitologia greca, essi appaiono impotenti ed incapaci di intervenire in maniera fattiva nella vicenda. Agamennone si dispera per l'imminente sacrificio della figlia, ma non sembra in grado di fare nulla per impedirlo, e lo stesso vale per Achille, più preoccupato di salvaguardare il proprio buon nome che la vita della ragazza. Il punto fondamentale è che tutti questi eroi cercano innanzitutto di mantenere il proprio potere: Agamennone non vuole rinunciare a comandare la spedizione verso Troia, né Menelao ed Achille vogliono rinunciare a parteciparvi. Di fronte alle lusinghe del potere ogni scrupolo etico scompare ed i personaggi si comportano da veri pusillanimi, accettando che una ragazza innocente dia la propria vita per i loro interessi. In questo senso, Ifigenia, che accetta di morire quando vede quanto importante è per tutti la spedizione, compie un atto di grande generosità, qualificandosi come l'unico personaggio dall'animo nobile di tutta la tragedia. L'Ifigenia in Aulide è dunque un'opera che smaschera i meccanismi del potere, mostrando fino a quali bassezze è possibile arrivare pur di ottenerlo ed esercitarlo.\n\nIl personaggio di Ifigenia.\nIl personaggio di Ifigenia nell'opera è caratterizzato da un repentino cambiamento nel comportamento, passando nel breve volgere di pochi versi da ragazzina terrorizzata per il sacrificio, a persona che sceglie consapevolmente di morire. Tale mutamento, a partire da Aristotele, è stato spesso giudicato troppo improvviso e di conseguenza non realistico, ma vale a mettere in luce con ancora maggiore evidenza la nobiltà ed il coraggio della ragazza, a fronte della vile impotenza degli eroi che comandano la spedizione verso Troia.\n\nL'incompiutezza dell'opera.\nNonostante la Ifigenia in Aulide non contenga lacune particolarmente ampie, e sia quindi da considerarsi un'opera drammaturgicamente completa, essa reca alcuni segni di incompiutezza. Si ritiene che la morte dell'autore abbia impedito la revisione (o addirittura il completamento) dell'opera, favorendo quindi nel tempo modifiche ed interpolazioni varie al testo euripideo. Due, in particolare, sono i punti più problematici:.\n\nIl prologo (vv. 1-163), composto di tre sezioni, di cui quella centrale (vv. 49-114) sicuramente non scritta da Euripide.\nIl finale (vv. 1578-1629), anch'esso non euripideo, trasmessoci in “condizioni disperate” (Albin Lesky). Le anomalie metriche e lessicali fanno supporre che esso sia di origine bizantina, mentre sappiamo ben poco del finale originale. In un'opera dello scrittore Claudio Eliano vengono citati tre versi in cui Artemide ex machina promette a Clitennestra di sostituire Ifigenia con una cerva. Si ritiene dunque che Euripide avesse previsto l'apparizione della dea anziché il finale che conosciamo.
@Scribis @Italiano. Parlami di un argomento di mitologia greca.
### Titolo: Ifigenia in Tauride (Desmarets e Campra).\n### Descrizione: Ifigenia in Tauride (Iphigénie en Tauride) è un melodramma in un prologo e 5 atti di Henri Desmarets e André Campra. Il libretto di Joseph-François Duché de Vancy e Antoine Danchet fu tratto dall'Ifigenia in Tauride di Euripide.\n\nPersonaggi e interpreti.\nLa prima ebbe luogo a Parigi il 6 maggio 1704.
@Scribis @Italiano. Raccontami qualcosa riguardante la mitologia greca.
### Titolo: Ifigenia in Tauride (Gluck).\n### Descrizione: Iphigénie en Tauride ('Ifigenia in Tauride') è una tragédie lyrique in quattro atti di Christoph Willibald Gluck su libretto di Nicolas-François Guillard. Rappresentata con successo per la prima volta all'Opéra di Parigi il 18 maggio 1779, costituisce la sesta e penultima delle opere che il compositore tedesco scrisse ex novo o rielaborò profondamente per i palcoscenici francesi.\n\nGenesi.\nNel pieno della polemica tra lui e Niccolò Piccinni, montata a Parigi nel corso della seconda metà degli anni Settanta, e dopo aver assistito al successo dell'opera d'esordio del suo avversario italiano, il Roland, nel febbraio del 1778 Gluck decise di rientrare a Vienna, in 'terreno amico', ma recando con sé due nuovi libretti da musicare: Echo et Narcisse e Iphigénie en Tauride.\nQuattro anni prima aveva portato sulle scene operistiche parigine l'Iphigénie en Aulide, su libretto dell'amico Le Bailly du Roullet, il quale probabilmente ebbe una parte anche nell'ideazione della seconda Iphigénie; il nuovo libretto fu però opera di Nicolas-François Guillard, un giovane poeta che nell'occasione indossò per la prima volta quelle vesti di librettista tragico dalle quali avrebbe tratto fama e successo nei due decenni successivi. Il soggiorno di Gluck a Vienna non fu comunque di lunga durata: i contatti epistolari con Guillard e le cure di Du Roullet non dovettero sembrargli sufficienti e nel mese di novembre egli si rimise in viaggio. «Appena giunto nella capitale della Francia, della cultura e della chiacchiera europea, [...] seppe che l'infido nuovo direttore dell'Opéra, De Vismes, aveva commissionato un'altra Iphigénie en Tauride a Piccinni: si infuriò, com'era sua abitudine, ma, se qualche anno prima aveva rinunciato a un Roland perché i suoi nemici avevano ottenuto un altro Roland per Piccinni, stavolta s'impuntò e riuscì a che la prima del rivale venisse differita.».\n\nIl libretto.\nLa fonte ultima del libretto era la tragedia di Euripide Ifigenia in Tauride: grazie alla sua semplicità e alle tematiche eroiche trattate, questo lavoro ebbe un fascino particolare per gli esponenti del neoclassicismo settecentesco e costituì, nella seconda metà del secolo, l'ispirazione per diverse nuove versioni drammatiche del mito, la più famosa delle quali resta l'Iphigenie auf Tauris di Goethe (1787). Tuttavia, per quanto concerne le origini del lavoro di Gluck, la più importante di queste versioni settecentesche del mito fu il dramma in prosa, Iphigénie en Tauride, di Claude Guimond de La Touche, andato in scena a Parigi il 4 giugno 1757, che fu esplicitamente assunto da Guillard come base per il suo libretto. Il lavoro di de La Touche ebbe un successo tale che esso fu riproposto a Vienna nel 1761, contribuendo così probabilmente ad ispirare un'opera del compositore Tommaso Traetta, su libretto di Marco Coltellini, Ifigenia in Tauride, che fu presentata a Vienna per la prima volta nel 1763 (e che si rifaceva peraltro, più direttamente, al modello euripideo originale). Le idee che Coltellini e Traetta nutrivano sulla riforma del melodramma erano analoghe a quelle di Gluck e Gluck stesso diresse la loro opera nel 1767. Non è improbabile che il compositore tedesco possa aver desiderato di comporre anch'egli, negli anni sessanta, un'opera riformata sullo stesso tema, ma il recente precedente di Traetta glielo rendeva, per il momento, impossibile. In luogo di tale eventuale progetto, Gluck compose invece, nel 1765, un balletto Sémiramis, di tematiche abbastanza simili, la cui musica fu poi in parte riutilizzata nell'Iphigénie en Tauride francese.Fu solo dopo essersi trasferito a Parigi ed avervi esordito con un'altra opera sul mito di Ifigenia, l'Iphigénie en Aulide (1774), che Gluck ebbe finalmente l'occasione di mettere in musica l'episodio della Tauride. Il lavoro di de La Touche che egli e Du Roullet scelsero come base per il nuovo libretto, era stato lodato per la semplicità delle sue linee drammatiche, ma Gluck e i suoi librettisti le resero ancor più scarne ed efficaci. Le principali innovazioni furono quelle di iniziare l'opera con una tempesta (cosa piuttosto difficile a realizzarsi in un dramma in prosa) e di rinviare al finale l'agnizione tra fratello e sorella.\n\nLa vicenda storica dell'opera.\nIphigénie en Tauride andò dunque in scena a Parigi, nella seconda sala del Palais-Royal, il 18 maggio 1779, avendo come protagonisti il soprano Rosalie Levasseur, il primo Amour dell'Orphée et Euridice, che Gluck aveva voluto innalzare al rango di prima donna, la haute-contre Joseph Legros, che, in possesso fin dall'esordio di riconosciute doti vocali, aveva acquisito, grazie ai 'miracolosi' insegnamenti del maestro tedesco, anche eccellenti capacità interpretative, e la basse-taille (basso-cantante) Henri Larrivée, che addirittura 'venerava Gluck', e che si specializzò poi, in certo senso, nel ruolo di Oreste, interpretato anche nell'Iphigénie di Piccinni, nell'Andromaque di Grétry e nell'Électre di Lemoyne. L'opera riscosse un grande successo, sino a rivelarsi, alla fine, «la composizione di Gluck più popolare nella capitale francese. Essa fu [infatti] messa in cartellone per trentacinque volte nel 1779, e godé quindi di più di quattrocento rappresentazioni nel 1781-1793, 1797-1808, 1812-1818, 1821-1823, 1826-1828 e nel 1829. Fu [poi] montata allo Châtelet (1868), alla Renaissance (1899) e all'Opéra-Comique (1900). È stata [quindi] riportata sul palcoscenico della moderna Opéra di Parigi il 27 giugno 1931 con l'aiuto della Wagner Society di Amsterdam e sotto la bacchetta di Pierre Monteux».\nTornato a Vienna per quello che sarebbe divenuto il suo rientro definitivo in patria, nel 1781 Gluck produsse una versione tedesca della sua opera (Iphigenia in Tauris, 'singspiel tragico') in occasione della visita nella capitale asburgica del granduca Paolo di Russia. La traduzione del libretto fu affidata al giovane letterato austriaco Johann Baptist von Alxinger, che lavorò in stretta collaborazione con il compositore. Allo scopo di adeguarla, quando necessario, al nuovo testo, Gluck modificò convenientemente la musica, ma soprattutto traspose dal registro di baritono a quello di tenore la parte di Oreste in modo da adattarla alle caratteristiche vocali del primo uomo della compagnia viennese, Valentin Adamberger. L'altra modifica più rilevante fu 'la sostituzione dell'ultimo recitativo di Ifigenia e del coro delle sacerdotesse alla fine del secondo atto con una sinfonia strumentale'. L'Iphigenia tedesca, l'ultimo lavoro di Gluck per il palcoscenico e l'unico nella sua madrelingua, fu rappresentata il 23 ottobre 1781 al Nationalhoftheater, come l'imperatore Giuseppe II aveva voluto ridenominare il Burgtheater di Vienna dopo il licenziamento dei complessi e dei cantanti italiani nel 1776, e la loro sostituzione con artisti di lingua tedesca. Quando i magri risultati raggiunti indussero l'imperatore a far marcia indietro, ingaggiando di nuovo una compagnia italiana ed assumendo Lorenzo Da Ponte come proprio poeta drammatico, a questi fu affidato l'incarico di preparare una traduzione in italiano dell'opera di Gluck, la quale vide la luce, nel ristabilito Burgtheater, il 14 dicembre 1783. Secondo i ricordi del tenore Michael Kelly anche la messa in scena di questa versione, da lui riferita come Iphigenia in Tauride, fu curata personalmente da Gluck. L'edizione tedesca fu ripresa nella prima rappresentazione berlinese del 24 febbraio 1795, nel Königliches Nationaltheater im Gendarmenmarkt (predecessore dell'attuale Konzerthaus), quella italiana nella prima londinese, al King's Theatre, il 7 aprile dell'anno successivo. Entrambe le versioni hanno continuato ad essere rappresentate, rispettivamente nei paesi germanici ed in Italia, per larga parte del XX secolo (quella tedesca, che gode di maggior credito per l'imprimatur diretto del compositore, anche più a lungo).Né le due versioni citate furono le uniche. Nel 1889/1890 Richard Strauss, ispirandosi esplicitamente all'esempio del rifacimento wagneriano dell'Iphigénie en Aulide, volle prodursi in una completa revisione dell'opera. Scrivendo al suo editore Adolph Fürstner, egli comunicò di aver provveduto ad una traduzione completamente nuova (che ai suoi occhi doveva essere più rispettosa del metro originale rispetto a quella di Von Alxinger), di aver in particolare modificato sostanzialmente lo svolgimento drammatico del primo atto e del finale, e di aver introdotto delle sostanziali modifiche nella strumentazione con finalità modernizzatrici. La rielaborazione straussiana, che prevedeva anche la riduzione degli atti da quattro a tre, riuscì a toccare il palcoscenico, nello Hoftheater di Weimar, solamente il 9 giugno 1900, con il titolo goethiano di Iphigenie auf Tauris, e godè successivamente di una certa fortuna: è in questa versione, ad esempio, che l'opera di Gluck vide la sua prima esecuzione al Metropolitan di New York nel 1916; di un'edizione a Lisbona del 1961, con Montserrat Caballé come protagonista, fu anche realizzata un'incisione discografica; nel 2009 è andata nuovamente in scena al Festival della Valle d'Itria a Martina Franca.Dell'edizione italiana di Da Ponte, è rimasto 'memorabile l'allestimento del Teatro alla Scala del 1957, con la direzione di Nino Sanzogno, la regia di Luchino Visconti e Maria Callas nella parte della protagonista', allestimento in occasione del quale fu anche realizzata la registrazione fonografica dal vivo dello spettacolo del 1º giugno.\n\nCaratteristiche artistiche e musicali.\nGli auto-imprestiti gluckiani.\nIphigénie en Tauride costituisce il coronamento della carriera musicale di Gluck, 'il frutto della combinazione dell'esperienza di una vita come operista, e di un libretto che può essere considerato come il migliore da lui mai messo in musica'. Gli imprestiti di cui Gluck si rese responsabile nella composizione di una tale opera sono numerosi, e molti studiosi tendono a pensare che essi siano stati volti, più o meno deliberatamente, a costituire una vera e propria summa degli ideali artistici perseguiti dall'autore attraverso tutta la sua carriera di musicista. Riutilizzare musica composta in precedenza era pratica comune tra i compositori del XVIII secolo: Gluck sapeva che le sue precedenti opere italiane, i suoi balletti, le opéras-comiques che egli aveva scritte per Vienna, avevano scarsissime probabilità di essere eseguiti ancora, o comunque a lungo, mentre in Francia era tradizione mantenere in repertorio le opere di maggior successo o valore. Riutilizzare era dunque per lui una maniera di preservare alcune delle sue idee musicali più rilevanti. La maggior parte delle musiche riutilizzate appartiene a Gluck stesso, trascelta all'interno dei suoi melodrammi precedenti o dal suo balletto Sémiramis. In almeno un caso, tuttavia, si tratta bensì di un auto-imprestito, ma da un Gluck che stava a sua volta pescando, consciamente o inconsciamente, nel grande orto della musica di Johann Sebastian Bach. Questa è comunque la lista completa degli imprestiti che si rinvengono nell'Iphigénie en Tauride:.\nIntroduzione, tratta dall'ouverture de L'isle de Merlin, rappresentante una tempesta seguita dalla calma; nell'Iphigénie, l'ordine è però invertito, cosicché l'opera si apre con un momento di calma che si tramuta subitaneamente in tempesta.\nAria Dieux qui me poursuivez, tratta dal Telemaco (Aria: Non dirmi ch'io).\nMusica per le Furie nel secondo atto, tratta dal balletto Sémiramis.\nAria O malheureuse Iphigénie del secondo atto, tratta da La clemenza di Tito (Aria: Se mai senti spirarti sul volto).\nCoro sempre del secondo atto, Contemplez ces tristes apprêts, tratto dalla sezione centrale della medesima aria.\nAria Je t'implore et je tremble, già apparsa con l'incipit Perché, se tanti siete, nell'Antigono del 1756, ma ispirata alla giga della Partita n. 1 in si bemolle maggiore (BWV 825) di Bach.\nUna parte della musica della culminante scena finale del quarto atto è tratta, di nuovo, dalla Sémiramis.\nCoro finale Les dieux, longtemps en courroux, tratto da Paride ed Elena (coro: Vieni al mar).\n\nAspetti innovativi.\nA parte il subitaneo ballet pantomime de terreur che una parte delle Furie, nella quarta scena dell'atto secondo, danza d'intorno al corpo semiaddormentato di Oreste, mentre le altre lanciano invettive furenti contro il matricida, l'Iphigénie contiene una sola breve scena autonoma di danza, o divertissement, come in Francia si era usi chiamare i momenti di balletto che facevano parte integrante di tutte le tipologie di spettacolo lirico che venivano date all'Académie Royale de Musique. Si tratta del coro e danza degli Sciti collocati poco prima della fine del primo atto. Il poco spazio lasciato alla danza era così inusuale che dopo le prime cinque rappresentazioni, le autorità dell'Opéra vollero che fosse aggiunto un ulteriore divertissement finale, scritto appositamente da Gossec, e che fu del resto presto lasciato cadere.\nIn entrambi gli interventi di danza, è il coro a primeggiare, ed il coro viene utilizzato nell'opera con una frequenza che non ha confronti nel Settecento, 'e pochi anche nell'Ottocento', secondo Piero Mioli, il quale così ne descrive il ruolo:.\n\n«[Il coro] è misto nel caso delle Eumenidi e del finale, ma in genere è scelto: maschile quando dà volto agli Sciti efferati, femminile quando si presta alle trepidanti Sacerdotesse; e se con costoro riesce a diventare un'affettuosa e continua proiezione collettiva dell'anima di Ifigenia, trattandosi di fanciulle greche lontane dalla patria come lei, con coloro diventa la caotica rappresentazione della violenza, della barbarie, dell'irrazionalità, mediante un Allegro scattante, 'alla breve', tanto semplice di verticalità armonica quanto caratteristico di colori grazie a una scrittura per triangolo, piatti e tamburo. 'Il nous fallait du sang', gridano i forsennati, e al critico del 'Journal de Paris' sembrò che il suono del volgare coraccio trasportasse gli spettatori 'tra i cannibali danzanti intorno al palo'. Così nel primo atto, ma il secondo chiude con una trenodia lenta e desolata che sulle parole 'Contemplez ces tristes apprèts' si compone di un Lento strumentale, del coro, di un arioso del soprano sullo stesso tema e della ripresa del coro: è una delle scene più commosse, più liriche, più nobili del teatro di Gluck, che si accoppia forse al finale secondo di Alceste (là dove la donna s'avvia alla morte e nello sgomento delle ancelle saluta l'amato talamo) [...]».\n\nL'opera include «il più famoso pezzo di orchestrazione psicologica prodotto da Gluck», nell'ostinato e affannoso accompagnamento che sostiene il canto di Oreste nell'aria Le calme rentre dans mon cœur, smentendone il messaggio di ritrovata serenità. Un passaggio che colpì profondamente Hector Berlioz, il quale, nei suoi articoli sulla «Gazette Musicale» del 1834, così si espresse in proposito:.\n\n«Pilade è stato strappato alle braccia dell'amico. Oreste, oppresso dal dolore e dall'ira, dopo alcune convulse imprecazioni, cade in profonda prostrazione.\nImpossibile esprimere l'ammirazione che desta questo magnifico controsenso. Oreste s'addormenta; l'orchestra si agita sordamente; il personaggio parla di calma, e i violini singhiozzano piccoli lamenti sincopati, ai quali i bassi rispondono con colpi sordi, ritmati di due in due battute all'inizio del pezzo, e di tre in tre verso la conclusione, mentre attraverso queste pulsazioni febbrili il timbro mordente, ma triste, delle viole brontola una sorta d'accompagnamento che difficilmente si potrebbe definire con parole, l'autore avendolo steso in un ritmo misto di note sincopate e di note staccate quale mai s'era udito prima, né mai è stato ripetuto poi. 'Oreste mente, diceva Gluck: ha ucciso la madre'.».\nEra forse la prima volta nella storia dell'opera, ha rilevato Donald Grout, che veniva impiegato «lo stratagemma di usare l'orchestra per rivelare l'intima verità di una situazione, in discordanza, o perfino in contraddizione, rispetto alle parole del testo, una pratica che Wagner avrebbe in seguito elevato a sistema.».\n\nConclusione.\nA parte il poco fortunato dramma pastorale Echo et Narcisse, composto praticamente in contemporanea e presentato quattro mesi dopo, l'Iphigénie en Tauride costituisce l'ultimo lavoro di Gluck per il palcoscenico, e rappresenta anche una sorta di punto d'arrivo della parabola artistica e culturale del maestro tedesco. In proposito Geremy Hayes ha avuto modo di osservare:.\n\n«Ciascuna delle opere tarde di Gluck è unica; ancora nei suoi sessant'anni d'età egli era un instancabile sperimentatore. Iphigénie en Tauride ha un insolito numero di pezzi di insieme, e, sebbene vi siano più arie che non, per esempio, nell'Armide, egli realizza il bilanciamento tra questi brani convenzionali di carattere più italianeggiante, da una parte, e la declamazione e le arie brevi alla francese, dall'altra, addivenendo così ad una comparabile fluidità della struttura musicale che è sempre mantenuta al servizio dello sviluppo dell'azione drammatica. Di tutte le sue opere, Iphigénie en Tauride è quella nella quale egli meglio riuscì a tradurre in realtà le sue teorie di riforma operistica, in una memorabile combinazione di musica e dramma in cui ogni dettaglio è subordinato all'insieme.».\n\nParole di grande stima per l'opera e il compositore ebbe anche Hector Berlioz, che, dopo aver descritto la scena dell'assopimento di Oreste con le parole già sopra riportate, così completava il suo ragionamento:.\n\n«Il coro delle Furie durante il sonno del parricida è concezione stupefacente di infernale grandiosità; la parte delle voci è quasi costantemente disegnata su scale ascendenti e discendenti dei tromboni, d'effetto prodigioso. Questo atto si conclude in un modo che oggidì verrebbe giudicato ben maldestro, con un andante moderato in continuo decrescendo. Ifìgenia ritorna su se stessa; ripete nella memoria tutte le sventure passate; piange con le altre donne ed esce di scena a lenti passi, mentre l'orchestra si spegne mormorando le ultime frasi del suo nobile lamento [...] Tutto il resto si mantiene alla stessa altezza. Il duetto fra i due amici, il recitativo obbligato d'Oreste furibondo, l'aria di Pilade supplicante «Ah mon ami, j'implore ta pitié», il suo slancio eroico «Divinité des grandes âmes», la grande aria d'Ifigenia, così drammaticamente accompagnata dai bassi sotto un tremolo continuo di secondi violini e viole, tutto ciò è meraviglioso per passione della melodia, per forza di pensiero, tutto ciò afferra e trascina; non si sa se l'effetto resulti dalla poesia o dall'azione, dalla pantomima o dalla musica, tanto quest'ultima è intimamente unita alla pantomima, alla poesia, all'azione. E quando, accanto ai grandi momenti che abbiamo citato, troviamo l'espressione della calma religiosa condotta al punto in cui si offre alla nostra ammirazione nel coro delle sacerdotesse «Chaste fille de Latone», quando si odono quegli inni sublimi, segnati d'una melancolia antica che riconduce l'ascoltatore fra i templi dell'antica Grecia, non ci si sta a domandare se Gluck sia poeta, drammaturgo o musicista, ma si esclama: Gluck è un grand'uomo.».\n\nCerto Berlioz si considerava in un certo senso figlio di Gluck, e quindi lo si potrebbe ritenere un estimatore preconcetto. Lo stesso non si dovrebbe poter dire invece per il buffooniste Friedrich Melchior von Grimm, contemporaneo di Gluck, il quale parteggiava, sotto sotto, per Piccinni. Parlando, nella sua Correspondance littéraire, dell'Iphigénie, egli scrisse che «a dar retta ai Gluckisti, tutti i tesori dell'armonia e della melodia, tutti i segreti della musica drammatica sono stati consumati in quest'opera», mentre, secondo i Piccinnisti, non si trattava altro che di musica francese rinforzata all'ennesima potenza: 'quel poco di canto che vi si trova, è monotono e dozzinale, e il ritmo risulta generalmente difettoso'. Pur dichiarando di non voler prender partito nella «illustre querelle», alla fine Grimm sbottava in questa maniera: «io non so se vi sia canto, ma forse c'è qualcosa di molto meglio».\n\nOrganico orchestrale.\nL'organico orchestrale che si rileva dal facsimile della prima edizione della partitura, è il seguente:.\n\nottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in do, 2 fagotti.\n2 corni naturali in re/sol/do/fa, 2 trombe naturali in re/do, 3 tromboni (alto, tenore e basso).\ntimpani intonati su la/re e sol/do, triangolo, tamburo, tamburello, piatti.\nviolini primi e secondi, viole, infine violoncelli e contrabbassi su un unico rigo.\n\nPersonaggi e interpreti.\nSoggetto.\nI numeri romani tra parentesi indicano le scene in cui si suddividono i vari atti.\n\nAntefatto.\nGli eventi narrati nell'opera si inquadrano nelle vicende mitiche relative alla guerra di Troia. Per propiziare la spedizione degli Achei a Troia, il condottiero Agamennone, re di Micene e di Argo, aveva accettato di sacrificare la propria figlia Ifigenia, così destando l'odio e il rancore della moglie Clitennestra, alla dea Artemide (nel libretto però sempre chiamata con il suo nome latino di Diana), che era offesa contro di lui. Al momento del sacrificio, però, Diana aveva voluto salvare miracolosamente la giovine, sostituendola con una cerva e trasportandola in incognito in un proprio tempio nella Tauride, dove ella era diventata grande sacerdotessa.Al suo ritorno da Troia, Agamennone era stato assassinato dalla moglie e dall'amante di lei Egisto, mentre, a sua volta, il figlio Oreste, allevato lontano dalla patria, nella Focide, insieme al cugino Pilade, ed istigato dall'inflessibile sorella Elettra, aveva vendicato il delitto uccidendo i due parricidi: egli aveva levato in tal modo la spada contro la propria madre, provocando così l'ira delle Furie contro di lui.All'epoca in cui è ambientata l'opera, Oreste, allo scopo di cercar di espiare la sua colpa, e sempre accompagnato dal cugino/amante Pilade, è stato inviato da Apollo nella Tauride con l'incarico di recuperare una sacra immagine di Diana. Nella Tauride è in uso il costume barbaro di sacrificare alla dea tutti i malcapitati stranieri che si trovino a mettere piede nel paese.\n\nAtto primo.\nScena: Ingresso del tempio di Diana in Tauride.\n(I) L'opera è priva di una ouverture formale e si apre con un pezzo orchestrale che evoca dapprima la calma, per poi rapidamente sfociare nella rappresentazione di una grande tempesta. Ifigenia e le altre sacerdotesse (che si assumono anch'esse provenienti dalla Grecia) pregano gli dèi di proteggerle dalla tempesta (Grands dieux! soyez nous secourables), ma, anche dopo che essa si è calmata, Ifigenia rimane sotto l'orribile impressione di un sogno che le è occorso nella notte e nel quale ha visto Clitemnestra uccidere il marito, e poi il fratello Oreste uccidere la madre, ed infine lei stessa trafiggere il fratello. (II) Mentre le compagne commentano sgomente il sogno (O songe affreux), Ifigenia, in preda all'angoscia, invoca Diana perché la faccia riunire con Oreste o si riprenda altrimenti il dono della vita che le aveva fatto al momento del sacrificio (Ô toi qui prolongeas mes jours). Le sacerdotesse si uniscono commosse al suo pianto (Quand verrons-nous tarir nos pleurs?).\n(III) Entra quindi in scena Toante, re della Tauride, oppresso anch'egli da pensieri oscuri (De noirs pressentiments): gli oracoli gli hanno predetto morte e rovina ove anche un solo straniero dovesse scampare nel suo regno al sacrificio rituale. (IV) Un coro di Sciti si presenta allora sul palcoscenico recando la notizia di due giovani greci scampati ad un naufragio durante la tempesta (Les Dieux apaisent leur corroux). Raggiante, Toante invia Ifigenia e le sue compagne a preparare il sacrificio e (IV) invita i suoi ad elevare un canto di guerra. Gli Sciti si dànno allora ad una barbara invocazione di morte (Il nous fallait du sang), e subito dopo celebrano la loro feroce esultanza nel quadro del divertissement danzante. (V) L'atto si chiude con i due naufraghi, Oreste e Pilade, trascinati in scena dai nativi, che riprendono i loro canti selvaggi.\n\nAtto secondo.\nScena: Stanza interna del tempio destinata alle vittime sacrificali.\n(I) Oreste e Pilade languono in catene, ed il primo, fortemente angosciato, maledice se stesso perché sta per causare la morte del suo migliore amico (Dieux qui me poursuivez), ma Pilade gli rivolge un accorato canto di amicizia e di amore in cui benedice il giorno che li farà morire insieme se un unico sepolcro riunirà le loro ceneri (Unis dès la plus tendre enfance).(II) Dopo che un ministro del tempio ha recato via Pilade tra le manifestazioni di disperazione dell'amico, (III) Oreste è colpito da un'improvvisa apparente tranquillità e si assopisce (Le calme rentre dans mon cœur). (IV) Il suo sonno, però, è orrendamente tormentato dalle Furie (ballet-pantomime de terreur e coro: Vengeons et la nature et les Dieux en corroux).\n(V) Ifigenia entra in scena e, sebbene i due non si riconoscano, Oreste è colpito dall'impressionante somiglianza della donna probabilmente con l'uccisa Clitemnestra. La giovane interroga allora lo straniero sulle vicende di Agamennone e della Grecia ed egli le racconta dell'avvenuta uccisione del re da parte della moglie, e di questa da parte del figlio, ma, quando è interrogato con apprensione anche circa la sorte di quest'ultimo, risponde che Oreste ha finalmente incontrato la morte tanto lungamente cercata, e che ormai Elettra è rimasta sola a Micene. Appreso così della rovina dell'intera sua famiglia, Ifigenia congeda lo straniero e (VI), insieme al coro delle compagne, piange la sorte propria e della patria (Ô malheureuse Iphigénie) e celebra una cerimonia funebre in onore del fratello creduto morto (Contemplez ces tristes apprêts).\n\nAtto terzo.\nScena: Appartamento di Ifigenia nel tempio.\n(I) Ifigenia, sola con le compagne, si propone di informare Elettra della propria sorte e dà mostra di turbamento nei confronti dello straniero che tanto gli ricorda il fratello (D'une image, hélas, trop chérie). (II) Fatti condurre i due prigionieri, (III) li informa quindi di aver la possibilità di salvare uno di loro, ma solo uno, dal sacrificio richiesto da Toante (trio: Je pourrais du tyran tromper la barbarie); però chiede, come contropartita, che colui che sarà salvato recapiti per suo conto un messaggio ad Argo, dove lei ha avuto la vita e dove si trovano ancora degli amici. Entrambi i giovani giurano sugli dèi, e Ifigenia, sia pur con l'anima spezzata, sceglie Oreste per la salvezza, ed esce.\n(IV) Pilade si mostra entusiasta della scelta della sacerdotessa, almeno quanto Oreste ne è orripilato: questi domanda all'amico che amore sia il suo se, una volta che egli avrebbe finalmente trovato la morte tanto agognata, intende allearsi con gli dèi implacabili per raddoppiare il suo tormento (duetto: Et tu prétends encore que tu m'aimes). Lo implora quindi perché prenda il suo posto, ma Pilade si oppone con tutto se stesso (Ah! mon ami, j'implore ta pitié!). (V) Quando Ifigenia ritorna con il messaggio da consegnare in Grecia, Oreste insiste perché ella modifichi la sua decisione e, di fronte al suo rifiuto, minaccia di darsi la morte davanti a lei. Sia pure con estrema riluttanza, la donna deve quindi cedere e, partito Oreste, (VI) consegna a Pilade il messaggio, rivelandogli che è indirizzato ad Elettra, ma rifiutando di spiegargli quali rapporti la leghino con la principessa micenea. (VII) Rimasto solo, Pilade invoca l'Amicizia perché venga ad armare il suo braccio: egli è risoluto a salvare la vita dell'amico od a correre incontro alla morte insieme a lui (Divinité des grandes âmes!).\n\nAtto quarto.\nScena: Interno del tempio di Diana.\n(I) Ifigenia sente di non esser capace di levare il coltello sacrificale sullo straniero ed invoca Diana perché le infonda nel cuore la necessaria crudeltà (Je t'implore et je tremble, ô déesse implacable). (II) Le sacerdotesse introducono Oreste, che è stato preparato per il sacrifizio (coro: Ô Diane, sois nous propice), ed egli rincuora la sorella, ancora sconosciuta, dicendole che la morte costituisce il suo unico desiderio, ma è nel frattempo intenerito dal dolore profondo che lei gli dimostra. Le sacerdotesse innalzano quindi un grande inno a Diana (Chaste fille de Latone) e pressano poi Ifigenia perché proceda al rito sacrificale. Quando ella sta levando il pugnale, Oreste si sovviene del sacrificio della sorella, tanti anni prima, ed invoca il suo nome: 'Così peristi in Aulide, Ifigenia, sorella mia!' (Ainsi tu péris en Aulide, Iphigénie, ô ma sœur). L'agnizione tra i due si compie in tal modo, drammaticamente, (III) proprio mentre Toante e gli Sciti, annunziati da una donna greca, si apprestano ad irrompere sul palcoscenico, avendo appreso del salvataggio di uno degli stranieri. (IV) Toante è infuriato contro il tradimento della sacerdotessa (De tes forfaits la trame est découverte): ordina quindi ai suoi di prendere in consegna Oreste e, siccome Ifigenia chiede alle compagne di difenderlo, si appresta ad ucciderlo lui medesimo, insieme alla stessa Ifigenia. Un gran rumore dietro la scena annuncia però l'arrivo di Pilade con i rinforzi greci, e (V) il giovane eroe si avventa sul re prevenendolo e trafiggendolo nel momento stesso in cui sta per colpire a sua volta le due vittime. Il conseguente scontro tra Greci e Sciti (De ce peuple odieux/Fuyons ce lieu funeste) (VI) viene risolto dall'intervento ex machina di Diana, la quale ordina ai secondi di restituire alla Grecia la sua statua, tanto da loro disonorata con gli orribili sacrifici umani, annuncia a Oreste che i suoi rimorsi hanno cancellato le sue colpe, e l'invita a tornare a Micene per esserne il re, conducendo seco anche la sorella (recitativo: Arrêtez! Écoutez mes décrets éternels). (VII) Mentre la dea risale al cielo, l'opera si conclude con il raggiante invito di Oreste a Pilade perché riconosca nella sacerdotessa la propria sorella perduta, al cui coraggio egli deve la vita (Dans cet objet touchant), e con il grande coro finale di prammatica (Les dieux, longtemps en courroux), privo però di divertissement danzante.\n\nDiscografia.
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### Titolo: Ifigenia in Tauride (Jommelli).\n### Descrizione: Ifigenia in Tauride è un'opera di Niccolò Jommelli su libretto di Mattia Verazi.\nFu rappresentata per la prima volta al Teatro San Carlo di Napoli il 30 maggio 1771.\n\nTrama.\nNella terra dei Tauri, la ragazza Ifigenia è stata nominata sacerdotessa del tempio di Artemide dopo una travagliata gioventù. Infatti dieci anni prima la giovane viveva tranquillamente in Aulide con il padre Agamennone e la madre Clitennestra fino a quando, per colpa del genitore, fu costretta ad essere sacrificata per volere della dea Artemide affinché l'esercito greco potesse partire con tutti i favori per combattere la guerra di Troia.Seppur contro voglia, Ifigenia fu costretta ad essere messa in ginocchio davanti all'altare davanti al gran sacerdote che doveva sgozzarla. Tuttavia Artemide, avendo completamente ripugnanza per il cattivo re Agamennone, decise di salvare la figlia mandando una cerva alata sulla piazza e facendo trasportare la ragazza in Tauride. Agamennone e l'esercito sarebbero partiti comunque per la guerra di Troia, vincendola, ma alla fine al momento del ritorno in Grecia gravi sventure avrebbero perseguitato i sopravvissuti. Infatti Agamennone morirà per mano della moglie Clitennestra (stufa dei tradimenti e delle angherie crudeli del marito) e il figlio Oreste, che ha sempre voluto un gran bene al padre piuttosto che alla madre, ucciderà questa in una congiura, venendo poi perseguitato dai mostri Erinni. Qui inizia la storia. Oreste, sempre perseguitato da questi mostri che gli ottenebrano la mente, ha saputo dall'oracolo di Delfi che rubando una reliquia dal tempio di Artemide in Tauride, potrà riacquistare la libertà e la ragione senza più il tormento delle Erinni. Scoperto che al tempio c'è la sorella Ifigenia, i due si abbracciano commossi e progettando il furto. Con loro c'è anche il giovane Pilade, migliore amico di Oreste che lo ha aiutato nella congiura contro Clitennestra, ma che non è stato punito in quanto non membro della stirpe di Atreo. Il furto si sta quasi per compiere, quando i tre ladri vengono scoperti dai Tauri, che avevano stretto un patto ben chiaro con la straniera Ifigenia non appena arrivò nella loro terra: presiedere il santuario di Artemide come sacerdotessa e non permettere che nessuno lo saccheggi. I tre ragazzi vengono imprigionati e costretti ad essere sacrificati sull'altare della piazza, ma Oreste, con un abile sotterfugio, dice al sacerdote che una nave nemica è in arrivo. Il popolo di Tauride si reca a vedere così i tre hanno la libertà di rubare la reliquia al tempio e di fuggire con un mezzo di fortuna a casa.\n\nRuoli.
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### Titolo: Ifigenia in Tauride (Traetta).\n### Descrizione: Ifigenia in Tauride è un'opera lirica musicata da Tommaso Traetta su libretto di Marco Coltellini e su proposta del conte Giacomo Durazzo, Direttore generale dei teatri imperiali a Vienna e promotore degli esperimenti di riforma dell'opera seria che caratterizzarono gli anni sessanta del Settecento e che culminarono nella cosiddetta riforma gluckiana.\nLa prima rappresentazione dell'opera avvenne a Vienna, nel teatro di corte di Schönbrunn, il 4 ottobre 1763 e a dirigerla fu lo stesso autore.\nSecondo la critica quest'opera è uno dei maggiori esempi di quella riforma del teatro lirico che Traetta, su istanza del conte Durazzo, caldeggiava, una riforma che fondava la propria essenza sulla fusione degli elementi tipici dell'opera francese con quelli dell'opera italiana. Tale 'riforma' si avvarrà anche del contributo essenziale di Gluck e De Calzabigi.\nTuttavia, nella Ifigenia in Tauride è ancora prevalentemente l'uso dei cori e dei balletti - con la loro partecipazione diretta al dramma - a far risaltare il gusto francese riguardo al teatro d'opera in voga nel Settecento.\n\nPersonaggi e interpreti.
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### Titolo: Ifito (figlio di Eurito).\n### Descrizione: Ifito (in greco antico: Ἴφιτος?, Ìphitos) è un personaggio della mitologia greca. Figlio di Eurito ed Antiope.\n\nMitologia.\nEracle e Iole.\nEracle, in cerca di una sposa dopo aver ripudiato Megara, venne a sapere che il «signore di Ecalia» Eurito aveva promesso la mano della figlia Iole a chi avesse battuto lui ed i figli in una gara di tiro con l'arco, un'arte insegnatagli da Apollo in persona.\nEracle vinse facilmente la gara, ma Eurito rifiutò di concedere la figlia.\nInfatti, lui ed i suoi figli temevano che l'eventuale prole di Iole potesse subire la stessa sorte dei figli che l'eroe aveva avuto da Megara, uccisi da Eracle, mentre Ifito, il maggiore, riteneva invece giusto rispettare i patti.\nAnche secondo Diodoro Siculo, il quale non parla di alcuna gara, Eurito rifiutava di dare Iole in moglie perché memore del caso di Megara e chiese del tempo per riflettere.\nAlcuni aggiungono che Eurito, ricordando l'infelice fine di Megara, accusò pretestuosamente Eracle di aver vinto con l'inganno ma questi non raccolse la provocazione e se ne andò giurando vendetta.\n\nIl furto misterioso.\nQuando Eurito scoprì che dalle sue stalle mancava del bestiame, sospettò subito di Eracle, quando invece l'autore del furto fu Autolico.\nIfito, convinto della sua innocenza, andò così a cercare Eracle e trovandolo mentre tornava da Fere gli propose di cercare insieme a lui gli animali rubati. Eracle accettò ed ospitò Ifito ma poi, colto da un raptus di follia, lo fece precipitare dalle mura di Tirinto.\nSecondo altre versioni, dopo il furto di dodici giumente e dodici mule, Eurito ed i figli Dideone, Clizio e Tosseo concordarono nell'incolpare Eracle ed il solo Ifito, che non credeva alla colpevolezza di Eracle, fu inviato alla ricerca degli animali.\nIn realtà le giumente non erano state rubate da Ercole, bensì da Autolico, il principe dei ladri, che poi le aveva rivendute ad Eracle, ignaro del furto.\n\nLa morte.\nQuando Ifito giunse a Tirinto, trovò Eracle e gli chiese consiglio. Così l'eroe gli offrì il suo aiuto dandogli anche l'ospitalità e dopo un banchetto condusse Ifito sulle mura di Tirinto dicendogli 'Guardati pure intorno e dimmi se vedi le tue giumente pascolare qui sotto, da qualche parte' ed Ifito scrutò inutilmente ed ammise di non scorgerle.\nPer tutta risposta Eracle si infuriò, accusandolo di aver pensato che fosse un ladro e lo scaraventò giù dalle mura.\nIppocoonte, usurpatore del trono di Sparta rifiutò di purificare Eracle dopo la morte di Ifito ed a causa di ciò, Eracle gli divenne ostile e lo uccise reintegrando Tindaro come re di Sparta.\nIn seguito Hermes decise di punire Eracle vendendolo come schiavo ed offrendo il compenso ai figli di Ifito, ma il loro nonno rifiutò tale dono.\n\nVarianti del mito.\nSecondo altri invece, Ifito vide le giumente rubate presso la casa di Eracle e lo accusò del furto così Eracle, infuriato, lo gettò dal tetto della sua casa.\nNelle Trachinie, la versione di Sofocle dice che in preda alla rabbia e dopo vari affronti subiti da Eurito (il quale prevedeva anche una vittoria dei suoi figli se avessero gareggiato con il figlio di Zeus e Alcmena nella prova dell'arco), Eracle seguì Ifito mentre saliva sulla collina di Tirinto e lo buttò giù all'improvviso, a tradimento.\nApollonio Rodio cita Ifito e il fratello Clizio, «sovrani d'Ecalia» figli di Eurito, tra i componenti dell'equipaggio della nave Argo, di cui fa parte anche l'Ifito focese (il figlio di Naubolo), il quale aveva ospitato Giasone nella sua casa di Pito quando l'eroe vi era giunto «per interrogare l'oracolo sulla spedizione».\nDel primo Ifito Apollonio dice più avanti che viene ferito, durante il combattimento contro i Bebrici, da Areto, poi ucciso da Clizio.
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### Titolo: Ifito (figlio di Naubolo).\n### Descrizione: Ifito (in greco antico: Ἴφιτος?) è un personaggio della mitologia greca. Suo padre fu Naubolo il re di Focide.\n\nMitologia.\nOriginario della Focide, Ifito fu uno dei partecipanti alla spedizione degli Argonauti e giunto in Colchide, quando i sacerdoti di Ares diedero l'allarme e i Colchi li attaccarono rimase ferito assieme ad Argo, Atalanta, Meleagro e Giasone e per fuggire si appese alla nave che stava salpando.\nMedea curò tutti con i suoi filtri magici ma non fece in tempo a completare l'opera che Ifito morì per le ferite ricevute.\nSposò Ippolita e divenne padre di Schedio e di Epistrofo, due condottieri che combatterono durante la guerra di Troia.
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### Titolo: Igea.\n### Descrizione: Igea (o Igiea, in greco antico: Ὑγίεια?, hygìeia, con il significato di 'salute', 'rimedio', 'medicina') è una figura della mitologia greca e successivamente romana.\n\nIl culto di Igea.\nFiglia di Asclepio e di Epione (o Lampezia), è la dea della salute e dell'igiene, termine che prende il nome dalla dea.\nNella religione greca e romana, il culto di Igea è associato strettamente a quello del padre Asclepio, tutelando in questo modo l'intero stato di salute dell'individuo. Igea viene invocata per prevenire malattie e danni fisici, Asclepio per la cura delle malattie e il ristabilimento della salute persa.\nNella mitologia romana, Igea viene indicata come Salus o Valetudo, sinonimi, in latino, di '(buona) salute'.\n\nIgea nell'arte classica.\nIgea era raffigurata sotto l'aspetto di una giovane donna prosperosa, nell'atto di dissetare in una coppa un serpente, in un'altra raffigurazione era seduta su un seggio, con la mano sinistra appoggiata ad un'asta, mentre con la mano destra porge una patera ad un serpente che, lambendola, si innalza da un'ara posta davanti alla dea.
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### Titolo: Il flauto di Pan.\n### Descrizione: Il flauto di Pan è un dipinto a olio su tela (205x174 cm) realizzato nel 1923 dal pittore spagnolo Pablo Picasso. È conservato nel Musée National Picasso di Parigi.\nIl soggetto di questo quadro sono due ragazzi rappresentati vicino ad alcune costruzioni squadrate di colore beige, col mare sullo sfondo. Uno dei due sta suonando il flauto di Pan da cui il quadro deriva il suo titolo.\n\nCollegamenti esterni.\nL'opera (JPG), su 4.bp.blogspot.com.
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### Titolo: Il grande dio Pan.\n### Descrizione: Il grande dio Pan o Il gran dio Pan (The Great God Pan) è un racconto lungo dell'orrore scritto dall'autore gallese Arthur Machen, pubblicato tra il 1890 e il 1894.\n\nStoria editoriale.\nIl racconto fu dapprima pubblicato nel 1890 sulla rivista The Whirlwind e successivamente Machen realizzò una versione estesa del racconto nel 1894.\nAll'epoca il racconto fu criticato per lo stile decadente e i contenuti di natura sessuale, ma successivamente venne riconosciuto un classico del genere horror.\n\nTrama.\nNel Galles, uno scienziato, il dottor Raymond, sperimenta sulla mente di una giovane donna, Mary, per permetterle di vedere il dio Pan: purtroppo l'esperimento porta Mary al terrore più assoluto e, subito dopo, alla pazzia.\nMolti anni più tardi, a Londra, un uomo chiamato Villiers incontra un suo vecchio amico che dice di essere stato rovinato da sua moglie Helen Vaughan. Herbert è diventato un vagabondo da quando lui e Villiers si sono incontrati l'ultima volta. Alla domanda su come sia caduto così in basso, Herbert risponde che è stato 'corrotto corpo e anima' da sua moglie: dopo alcune indagini con Clarke e un altro personaggio, Austin, viene rivelato che Helen e Herbert erano stati coinvolti nella morte di un uomo benestante. Herbert è in seguito trovato morto.\nClarke incomincia a investigare sul passato di Helen e scopre che fin da bambina passava molto del suo tempo nei boschi vicino a casa sua, portando altri bambini in lunghe passeggiate nel crepuscolo e disturbando i genitori della città. Un giorno, un ragazzino che si era imbattuto in lei che 'giocava sull'erba con uno strano uomo nudo' era diventato isterico e più tardi, dopo aver visto una statua romana di un satiro, permanentemente folle. Inoltre, Helen stringe un'amicizia insolitamente forte con una ragazza vicina, Rachel, che conduce più volte nei boschi. In un'occasione Rachel torna a casa sconvolta, seminuda e sconclusionata: poco dopo aver spiegato a sua madre cosa le è successo (mai rivelato nella storia), Rachel ritorna nel bosco e scompare per sempre.\nHelen scompare, intanto, per qualche tempo, presumibilmente partecipando a orge inquietanti da qualche parte nelle Americhe. Alla fine ritorna a Londra sotto lo pseudonimo della signora Beaumont, seguita da una serie di suicidi. Villiers e Clarke, ognuno dei quali apprende la vera identità della signora Beaumont, si uniscono e affrontano Helen in casa sua, la persuadono ad impiccarsi, e Helen ha una morte molto anormale, trasformandosi tra l'umano e la bestia prima di morire definitivamente:.\n\nAlla fine si scopre che Helen è la figlia di Mary e del grande dio Pan, che era stato lasciato entrare quando il dottor Raymond aveva aperto la mente di Mary a lui.\n\nAnalisi critica.\nIl romanzo era solo uno dei molti che all'epoca si avvalevano del dio Pan come un simbolo per il potere della natura e del paganesimo.\nL'opera viene elogiata da Howard Phillips Lovecraft nel suo testo critico Supernatural Horror in Literature (1926). L'Encylopedia of Science Fiction (1993) considera invece il romanzo di Machen una prova modesta. In ogni caso, l'opera ha influenzato i racconti L'orrore di Dunwich di Lovecraft e Ghost Story di Peter Straub.
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### Titolo: Il misantropo (Menandro).\n### Descrizione: Il misantropo, anche nota col titolo originale di Dyskolos (in greco antico: Δύσκολος?, Dýskolos) o come Il burbero o Il bisbetico o Il Selvatico, è una commedia di Menandro, l'unica che ci sia pervenuta pressoché completa (a parte piccole lacune) di tutta la cosiddetta Commedia Nuova dell'antica Grecia. Fu presentata per la prima volta nelle festività delle Lenee nel 317 a.C. e valse a Menandro il primo premio. Il titolo dell'opera allude al brutto carattere del protagonista Cnemone.\nNel 1957 fu ritrovato un manoscritto su papiro (papiro Bodmer P4) dell'intero testo del Dyskolos, pubblicato due anni dopo. Il papiro è stato acquistato dal bibliofilo svizzero, Martin Bodmer, e studiato dal professor Victor Martin dell'Accademia di Ginevra. In Italia, alla scoperta del papiro, il filologo classico e papirologo Carlo Diano si accinse immediatamente a darne una ricostruzione filologica che, insieme alla traduzione, avrebbe dovuto essere pubblicata a metà del 1959, ma, per alcuni problemi logistici, fu data alle stampe solo a gennaio del 1960 (Menandro, il Dyskolos, ovvero il Selvatico, testo e traduzione a cura di Carlo Diano, Padova 1960), preceduta nell'ottobre del 1959 dal saggio Note in margine al Dyskolos di Menandro, un saggio sulla ricostruzione filologica del testo, dedicato al grecista tedesco e amico Wolfgang Schmid.\nL'argumentum della commedia fu stilato dal filologo Aristofane di Bisanzio, mentre la didascalia ci permette di sapere, oltre della vittoria alle Lenee, che l'attore protagonista era Aristodemo di Scafe (o Scarfe).\n\nTrama.\nLa commedia è messa in moto dal dio Pan, che fa innamorare Sostrato (un ricco ed elegante giovane di città) di una ragazza di campagna, figlia di un vecchio misantropo, Cnemone. Il ragazzo si innamora di lei mentre è a caccia.\nCnemone è un vecchio bisbetico contadino che vive in casa con la sua unica figlia e una serva. La moglie, stanca di lui, si è trasferita a casa del figlio di primo letto, il serio e laborioso Gorgia, che abita nella casa accanto. Cnemone vive coltivando il suo podere ed evitando il più possibile ogni forma di contatto con gli estranei. Sostrato vuole chiedere in sposa la fanciulla, Gorgia sospetta di ciò, ma l'altro si conquista la sua amicizia, dichiarando la sua intenzione di sposare la ragazza offrendosi di lavorare con il futuro suocero nei campi per conoscerlo meglio.\nNel frattempo giunge la madre di Sostrato che ha preparato un sacrificio in onore di Pan nella grotta accanto alla casa di Cnemone. Il vecchio, vedendo la folla, decide di restare in casa a sorvegliare la situazione. Sostrato torna deluso dalla campagna e si unisce ai commensali.\nAd un certo punto si viene a conoscenza del fatto che Cnemone, nel tentativo di recuperare un'anfora sfuggita alla sua serva, è caduto in un pozzo. Sostrato e Gorgia corrono a salvarlo e Cnemone, dopo il pericolo che ha corso, decide di donare a Gorgia tutti i suoi averi, affidandogli anche la figlia. Gorgia decide, quindi, di concedere la sorellastra all’amico Sostrato, mentre Sostrato convince il padre Callippide a far sposare la sorella con Gorgia.\nLa commedia si conclude con il doppio banchetto nuziale, a cui Geta (un servo) e Sicone (il cuoco) trascinano a forza il riluttante Cnemone, prendendolo in giro.\n\nCommento.\nEsempio della Commedia Nuova, il Dyskolos, a differenza di ciò che avveniva nella commedia antica, imposta l'intreccio non più su fatti sociali o politici, ma ambienta l'azione in una dimensione per così dire 'borghese' (seppure il protagonista sia un contadino), concentrandosi in particolare su un fatto d'amore (che, perlomeno apparentemente, sembra diventare il soggetto dell'opera, mentre in effetti non è tanto su questo aspetto che l'autore insiste). A riprova del nuovo clima del teatro greco di età ellenistica, sparisce la parabasi che, soprattutto con Aristofane, era diventata un momento, all'interno dello spettacolo teatrale, nel quale il commediografo esprimeva le proprie idee sia in campo politico sia anche in campo letterario: persa la dimensione politica del teatro aristofaneo, essa, in effetti, non aveva più ragione di esistere.
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### Titolo: Il ratto di Ganimede.\n### Descrizione: Il ratto di Ganimede. La presenza omosessuale nell'arte e nella società (Le Rapt de Ganymède) è un'opera letteraria d'impostazione saggistica dell'autore francese Dominique Fernández. Apparso per la prima volta nel 1989, è suddiviso in tre parti; tema principale del testo è l'omosessualità intesa dal punto di vista artistico all'interno della società nelle sue varie fasi storiche. In Italia è pubblicato da Bompiani editore.\n\nTrama.\nNatura o cultura?.\nL'ampia introduzione intitolata 'Natura o cultura?' presenta la questione, considerata un falso dilemma, su come definire l'omoerotismo artistico - espresso in narrativa, poesia, belle arti, musica e cinematografia - nel corso della storia, cioè come un fenomeno eminentemente culturale o intrinseco alla natura personale dell'artista che lo viene ad esprimere.\n\nApproccio storico.\nViene riassunta la storia recente del movimento di liberazione omosessuale, fino alle contemporanee richieste riguardanti i Diritti LGBT nel mondo:.\n\nStudio sul trattato dello storico francese Charles Ancillon del 1707 sulla categoria dell'eunuco.\nSotto l'occhio della polizia e dei medici, basato sugli scritti di 'François Carlier' che parlano della condizione degli omosessuali durante la criminalizzazione prima penale e poi medica subita durante tutto il XIX secolo e buona parte del XX secolo.\nL'altro Richard, sul rapporto intercorso tra Ludwig II di Baviera e Richard Wagner.\nI pionieri del moderno movimento omosessuale, Karl Heinrich Ulrichs, Magnus Hirschfeld e Edward Carpenter.\nCento anni di miseria, sulla pervasività delle pubblicazioni ed opinioni generali a forte contenuto di omofobia tra il 1886 e il 1989.\nSul modello Greco e quello Medioevale, ispirato dalle opere storiche di Kenneth Dover e John Boswell.\n\nArte, musica, letteratura e cinema.\nCertificazioni del fenomeno omosessuale nelle opere letterarie e artistiche in genere:.\n\nSan Sebastiano, santo patrono ed eroe degli omosessuali.\nIconografia, dalla rivoluzione francese alla Germania nazista. L'Arco di Trionfo a Parigi e il dipinto La morte di Joseph Bara di Jacques Louis David. L'autore sostiene che tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX secolo si è verificato in Europa un trionfo del lato più femminile dell'uomo sia nella composizione artistica che nella creatività generale. Fatto questo ripresentatosi nell'idealizzazione del maschio nudo e puro di marca fascista e nazista, a partire dal movimento studentesco berlinese Wandervogel del 1895 fino alla folta schiera di omosessuali presenti tra le file delle SA di Ernst Röhm.\nLa componente omosessuale fortemente presente nella musica di Franz Schubert.\nLa musica omoerotica da Wolfgang Amadeus Mozart a Benjamin Britten.\nAscesa e caduta della letteratura gay.\nIl ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.\nDa Maurice (romanzo) a Maurice (film).\nLa poesia omosessuale di Konstantinos Kavafis.\nLa figura del libertino Don Giovanni nell'opera di Henry de Montherlant.\nChi ha ucciso Yukio Mishima?.\nZeno e Alexandre, due eroi al di sopra della legge, saggio sul romanzo storico intitolato L'opera al nero di Marguerite Yourcenar.\nLa gloria del paria, uno dei romanzi dell'autore (con suggestioni sulla figura di Pier Paolo Pasolini). Si narra la storia di Bernard, uno scrittore omosessuale di mezza, e del suo giovane amante Marc, sullo sfondo dell'epidemia di Aids.\nDa Auschwitz all'Aids.\nIl cinema omosessuale da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn a James Ivory a Pedro Almodóvar.\n\nEdizioni.\n(FR) Dominique Fernandez, Le Rapt de Ganymède, Parigi, Éditions Grasset, 1989, ISBN 2-246-41841-0.\nDominique Fernández, Il ratto di Ganimede, traduzione di Fabrizio Ascari, 3ª ed., Milano, Bompiani, 2002 [1992], ISBN 88-452-5208-6.\n\nVoci correlate.\nLetteratura gay.
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### Titolo: Il silenzio delle ragazze.\n### Descrizione: Il silenzio delle ragazze (The Silence of the Girls) è un romanzo della scrittrice britannica Pat Barker, pubblicato per la prima volta nel 2018 e in Italia nel 2019. Il romanzo racconta le vicende narrate nell'Iliade dal punto di vista di Briseide, evidenziando come i miti delle grandi gesta degli eroi della mitologia raccontano solo una storia parziale che esclude le donne, catturate, schiavizzate e stuprate nell'accampamento greco. Molto apprezzato dalla critica anglosassone, il romanzo è stato finalista per il Women's Prize for Fiction nel 2019.\n\nTrama.\nL'esercito dei Danai, guidato da Achille, assedia e distrugge Lirnesso, uccide il suo re Minete e tutti gli altri uomini e riduce in schiavitù tutte le donne. Tra di loro c'è Briseide, moglie del re, che per il suo rango viene considerata un premio pregevole destinato ad Achille per le sue gesta. Portata nell'accampamento acheo fuori dalla mura di Troia, Briseide viene formalmente consegnata ad Achille, che la stupra ogni notte. Briseide trova un conforto inaspettato in Patroclo, amico intimo e forse amante di Achille, ma soprattutto nella rete di donne troiane imprigionate e che ora vivono come schiave di letto dei nemici.\nL'equilibrio che si crea nel campo viene disturbato dall'arrivo del sacerdote Crise, che ha portato un ricco riscatto per riportare a casa la figlia Criseide, che è diventata la favorita di Agamennone. Il re rifiuta sdegnosamente le offerte di Crise e lo scaccia aspramente; mentre il sacerdote si allontana, Briseide sente che l'uomo prega affinché Apollo mandi la peste nel campo dei Danai ed unisce le proprie preghiere a quelle del sacerdote. Apollo ascolta le preghiere dei supplici e manda la peste nel campo acheo per vendicare l'oltraggio a Crise e la pestilenza semina rapidamente morte tra le schiere degli assedianti. Le continue pressioni degli altri re achei costringono Agamennone a liberare Criseide, ma per ripicca il re di Micene pretende Briseide, per vendicarsi del fatto che Achille lo abbia pubblicamente incolpato per la pestilenza. Achille, pur lasciando che Briseide venga portata via, è oltraggiato dalla mancanza di rispetto di Agamennone e si ritira dalla battaglia insieme a Patroclo e i suoi Mirmidoni.\nDopo alcune prime vittorie contro i troiani, i Danai si trovano ora ad indietreggiare sempre più verso il mare, incalzati dalla furia degli assediati che approfittano della mancanza di Achille per umiliare e massacrare gli assalitori sul campo di battaglia. Intanto Briseide viene mandata in una tenda con le altre schiave, dopo essere state violentata da Agamennone, ma quando le perdite si fanno troppo ingenti viene inviata nell'ospedale del campo per assistere i feriti. Dopo molte pressioni da Odisseo e Nestore, Agamennone acconsente a fare un primo passo verso la pace con Achille, la cui presenza è essenziale per il successo della battaglia. Ma Achille respinge le generose offerte di Agamennone, riportate da Odisseo, poiché pretende che l'Atride si venga a scusare di persona per aver oltraggiato il suo onore. Le azioni del Pelide causano irrequietezza anche nell'accampamento mirmidone e, soprattutto, in Patroclo, che odia vedere i loro commilitoni massacrati a causa dell'orgoglio ferito dell'amico. Achille stesso soffre per la situazione e si rende conto di essersi messo all'angolo da solo: la morte dei Danai lo addolora, ma se scendesse in campo ora rimangiandosi il suo giuramento il suo onore ne risentirebbe ulteriormente. Nestore ed Odisseo capiscono la difficile situazione di Achille e suggeriscono a Patroclo di andare in battaglia indossando l'armatura dell'amico, così che gli Achei possano sentirsi rincuorati (e i Troiani terrorizzati) senza che Achille infranga il suo giuramento. Titubante, Achille accetta la proposta di Patroclo e lo lascia andare a combattere solo dopo avergli fato promettere di non tentate di combattere contro Ettore. Il piano ha successo, ma nella foga della battaglia Patroclo dimentica la sua promessa e viene ucciso da Ettore.\nIl dolore di Achille è incontenibile e l'eroe rifiuta di far cremare Patroclo finché Ettore è in vita. Dopo che la madre Teti gli ha portato una nuova armatura - la sua era stata sottratta dai Troiani che l'avevano strappata dal corpo di Patroclo - Achille scende in campo, stermina i Troiani, uccide Ettore e ne brutalizza il cadavere. La morte di Ettore non sembra saziare il suo dolore e, anche se permette i riti funebri di Patroclo e gli viene restituita Briseide, la sofferenza di Achille resta senza sollievo, anche perché gli dei gli negano la gioia di infierire sul corpo del principe troiano: per quanto egli oltraggi il cadavere e lo riduca a una poltiglia sanguinolenta, gli dèi rendono sempre di nuovo integro il corpo di Ettore. Una notte, Priamo si intrufola nel campo greco, si prostra davanti ad Achille e supplica che il corpo del figlio Ettore gli venga riconsegnato: la scena commuove l'eroe, che mostra ospitalità al vecchio re troiano e acconsente alla sua richiesta. Priamo trascorre la notte nel campo nemico e Briseide decide di fuggire con lui a Troia quando il re riporterà il corpo del figlio in città per i riti funebri.\nLa schiava si nasconde nel cocchio del re ma, arrivata ai cancelli dell'accampamento greco, scende dal carro e torna nella tenda di Achille: Troia è destinata a soccombere, non c'è speranza per lei all'interno delle mura. Briseide rimane incinta di Achille, che la fa sposare con Alcimo per assicurarle un futuro prima di essere ucciso da Paride in guerra. Troia cade e le donne troiane vengono ridotte in schiavitù e portate nel campo greco. Tra di loro ci sono anche Ecuba, Andromaca, Cassandra e Polissena che, in un ultimo orrendo atto di violenza, viene sacrificata sulla tomba di Achille. Mentre i Danai si preparano per tornare in patria, Briseide rimuove la benda dal cadavere di Polissena e dopo aver detto addio alla tomba di Achille e alla sua ingombrante eredità si sente pronta a raccontare in prima persone la sua storia.\n\nPersonaggi.\nI protagonisti del romanzo sono gli stessi dell'Iliade e, nella parte finale, de Le troiane di Euripide.\n\nCritica.\nIl romanzo è stato accolto molto positivamente dalla critica britannica e statunitense, che lodarono la scelta della Barker di smascherare l'ipocrisia dietro alla grandi gesta degli eroi, mostrando un lato intimo di schiavitù e violenza fisica e sessuale al di là delle imprese in battaglia. Alcuni critici hanno notato dei parallelismi con il romanzo Circe di Madeline Miller che, come Il silenzio delle ragazze, porta al centro dell'azione un personaggio minore del canone omerico. Alcuni critici, in particolari quelli di The Atlantic e The Guardian, hanno criticato alla Barker un eccessivo uso di colloquialismi e slang moderno nel romanzo, che a detta loro striderebbero con l'ambientazione e lo stile dello stesso.\n\nEdizioni italiane.\nPat Barker, Il silenzio delle ragazze, Einaudi, 2019, ISBN 8806241028.
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### Titolo: Il testamento di Orfeo.\n### Descrizione: Il testamento di Orfeo (Le Testament d'Orphée) è un film del 1960 diretto da Jean Cocteau.\nÈ un film biografico francese a sfondo drammatico e autocelebrativo con lo stesso Jean Cocteau che interpreta se stesso e con Claudine Auger, Charles Aznavour, Yul Brynner, Lucia Bosè e Pablo Picasso in un cameo. Il testamento di Orfeo è il seguito di Orfeo (Orphée) del 1949 ed è considerata la parte finale della trilogia orfica, dopo Il sangue di un poeta (Le sang d'un poète, 1930) e Orfeo (1950).\n\nTrama.\nProduzione.\nIl film, diretto e sceneggiato da Jean Cocteau, fu prodotto da Jean Thuillier per la Cinédis e la Les Editions Cinégraphiques e girato in Francia dal settembre del 1959. Il titolo completo fu Le testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!.\n\nDistribuzione.\nIl film fu distribuito in Francia dal 18 febbraio 1960 al cinema dalla Cinédis con il titolo Le testament d'Orphée. Il titolo lungo per le versioni doppiate in lingua inglese fu The Testament of Orpheus or Don't Ask Me Why.\nAlcune delle uscite internazionali sono state:.\n\nin Svezia il 3 ottobre 1960.\nin Germania Ovest il 26 ottobre 1961 (Das Testament des Orpheus).\nnegli Stati Uniti il 9 aprile 1962 (Testament of Orpheus).\nin Australia il 26 maggio 1962 (Adelaide Film Festival).\nin Finlandia il 28 febbraio 1969 (Orfeuksen testamentti).\nin Grecia il 14 settembre 2003 (Athens Film Festival, col titolo I diathiki tou Orfea).\nad Hong Kong l'11 dicembre 2005 (al French Cinepanorama Film Festival).\nin Spagna (El testamento de Orfeo).\nin Venezuela (El testamento de Orfeo).\nin Ungheria (Orfeusz végrendelete).\n\nCritica.\nSecondo MYmovies (il Farinotti) è 'un film criptico come una poesia ermetica, probabilmente Cocteau nasconde nelle situazioni se stesso e le sue ossessioni. Interessante ma forse un po' presuntuoso'.
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### Titolo: Ila (mitologia greca).\n### Descrizione: Ila (in greco antico: ῞Υλας?, Hylas) è un personaggio della mitologia greca, la cui storia si intreccia con quella di Eracle e degli Argonauti.\n\nIl mito.\nEracle, il semidio nato da Zeus e Alcmena, si invaghì della bellezza di Ila e lo rapì dopo aver ucciso suo padre Teiodamante, re dei Driopi, mentre lottava anche contro questi ultimi. Ila lo accompagnò quindi nelle sue gesta, in qualità di scudiero. Secondo il mito, Ila era anch'egli un semidio, essendo nato dall'unione di Teiodamante con una ninfa, chiamata Menodice, figlia di Orione. In altre fonti, molto vaghe in merito, il principe sarebbe figlio di Ceice, o di un altro argonauta di nome Eufemo, cognato di Eracle.Insieme si imbarcarono con Giasone per accompagnarlo alla ricerca del vello d'oro. Durante una sosta in Misia, Ila scese dalla nave con Eracle e si allontanò in cerca di una fonte d'acqua dolce.Quando le Naiadi della fonte, che stavano danzando attorno alla sorgente, videro arrivare Ila, se ne innamorarono immediatamente. Nel momento in cui Ila si chinò per prendere l'acqua, una delle ninfe lo prese e lo tirò verso l'acqua per baciarlo, trascinandolo poi nel fiume con loro.Eracle udì le grida di Ila e si mise a cercarlo disperatamente, temendo che fosse stato assalito da qualche ladro. Non solo egli non riuscì a trovarlo: gli Argonauti ripartirono senza di loro. Di Ila nessuno vide più traccia.Durante le infruttuose ricerche Eracle si fece aiutare dagli abitanti della zona, e questo momento fu ricordato a lungo dai Misi, con una cerimonia annuale in cui i sacerdoti gridavano il nome di Ila per tre volte.\n\nIla nella letteratura moderna e nell'arte.\nIl mito del rapimento di Ila fu molto amato dagli artisti in varie epoche, particolarmente dai Romantici, che più volte ritrassero il giovane irretito dalle Naiadi. L'opera più nota è probabilmente Ila e le ninfe, olio su tela di John William Waterhouse, che raffigurò il giovane anche in un altro dipinto, ma insieme a una ninfa sola. La figura di Ila ha ispirato inoltre numerosi poeti e scrittori, alcuni tra i quali: Edmund Spenser, Christopher Marlowe, Oscar Wilde e Florence Earle Coates (che scrisse l'omonimo componimento, presente nei suoi Poemi).Nel cinema storico è comparso in Gli Argonauti, dov'è stato interpretato da John Cairney.\n\nGalleria d'immagini.
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### Titolo: Iliona.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Ilìona era il nome di una delle figlie di Ecuba e Priamo, il cui mito fu trattato nella omonima tragedia di Pacuvio.\n\nIl mito.\nPolimestore, re della Tracia ebbe in moglie Iliona, alla quale venne affidato uno dei suoi fratelli, Polidoro. Nel frattempo era scoppiata la guerra di Troia. Iliona aveva avuto dal marito un figlio, Deipilo che negli anni era diventato un ragazzino. La donna, temendo l'agire di suo marito decise di scambiare suo figlio con suo fratello. Polimestore dopo aver stretto patti con Agamennone decise di uccidere Polidoro ma alla fine uccise il loro figlio Deipilo. Iliona alla fine uccise il proprio marito, anche se un'altra versione vede Polidoro come assassino. Secondo altri autori il re riuscì a uccidere Polidoro, ma questi venne vendicato da Iliona e da Ecuba.\nIn seguito Iliona vedendo le continue disgrazie che ricadevano sui suoi parenti che tanto amava decise di uccidersi.
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### Titolo: Ilizia.\n### Descrizione: Ilizia (in greco antico: Εἰλείθυια?, Eilèithyia) è una figura della mitologia greca, probabilmente una divinità pre-olimpica. In taluni casi, in particolare nell'Iliade, è indicata dai narratori in forma plurale, 'le Ilizie'.\nDivinità della fertilità, del parto e dell'ostetricia, è citata da numerose iscrizioni di nascite. Il suo culto è associato a Creta e alla città di Amniso, e il suo nome appare in alcune tavolette di Cnosso, redatte in Lineare B, che sono state analizzate attentamente e che mostrano una continuità di culto dal neolitico all'epoca classica. Una particolarità è che essa risulta essere l'unica dea minoica a non avere per nome un aggettivo sostantivato.\nFiglia di Zeus e di Era, e dunque sorella di Ebe, Eris, Ares ed Efesto, come è descritta da Esiodo, Apollodoro e Diodoro Siculo, viene altre volte identificata con Artemide, con Era o Demetra, tramite un procedimento di ipostasi. A Roma si confuse spesso anche con Giunone Lucina, mentre Pausania la descrive come brava filatrice e più anziana di Crono, identificandola nelle Moire. Secondo un inno del poeta Oleno di Delo, è un'iperborea, ed è la madre di Eros.\nÈ descritta come presente alla nascita di numerosi dei, tra i quali Eracle, Apollo e Artemide. Secondo il III Inno Omerico ad Apollo, Hera catturò Ilizia, mentre stava tornando dal nord dagli Iperborei, per ostacolare le doglie di Leto per Artemide ed Apollo, essendone Zeus il padre. Le altre dee presenti a Delo per assistere alla nascita, mandarono allora Iris a prenderla. Non appena Ilizia mise piede sull'isola, iniziarono le doglie.\n\nFunzione divina.\nInizialmente le Ilizie (nel plurale utilizzato da Omero) erano coloro che provocavano i dolori del parto. Solo successivamente, a Creta, l'Ilizia fu venerata come dea della fertilità, prima di affermarsi a Delo. Col passare del tempo il culto si diffuse in molte città Greche, in Etruria e in Egitto, e la sua funzione diventò quella di aiutare le partorienti.\n\nSantuari, iconografia e simbologia.\nLa rappresentazione della dea non è costante, sebbene possano notarsi dei tratti peculiari comuni. Ad esempio, essa appare frequentemente nella ceramica durante la nascita di Atena e Dioniso.\nNella nascita di Atena appaiono più precisamente due Ilizie, con le mani protese al cielo, nel gesto dell'epifania.\nAd Ilizia furono consacrate delle caverne (probabilmente simboleggianti l'utero), che si ritiene fossero il suo luogo di nascita così come quello del suo culto, come menziona chiaramente l'Odissea; una delle più importanti è quella di Amniso, il rifugio di Cnosso, dove sono state trovate stalagmiti che probabilmente la rappresentano. La caverna di Creta ha suggestive stalattiti dalla forma di una doppia dea che causa le doglie e le ritarda; inoltre sono state anche trovate delle offerte votive. Qui fu probabilmente adorata durante il periodo Minoico-Miceneo.\nNel periodo classico, si trovano santuari di Ilizia nelle città cretesi di Lato e Eleutherna ed una grotta sacra ad Inatos.\nPausania, nel II secolo, fece un resoconto di un tempio arcaico ad Olimpia, con una cella dedicata al serpente salvatore della città (Sisipolis) e ad Ilizia. In esso è raffigurata Ilizia come una sacerdotessa-vergine che sfama un serpente con dolci torte di orzo ed acqua. Il tempio, infatti, commemora l'apparizione improvvisa di una vecchia con un bambino fra le braccia, proprio quando gli Eli stavano per essere minacciati da Arcadia; il bimbo, posto a terra fra i contendenti, si mutò in serpente, spazzando via gli Arcadi in volo, per poi sparire dietro la collina.\nAd Atene, stando a quanto scrisse Pausania, erano presenti molte raffigurazioni di Ilizia, una delle quali era stata portata da Creta; egli menzionò inoltre santuari di Ilizia a Tenea, ad Argo ed uno estremamente importante ad Aigion.\nMolto interessante la terracotta dell'Heraion alla foce del Sele (conservata al Museo Archeologico Nazionale di Paestum) in cui la dea viene rappresentata nuda e in ginocchio dietro un mantello sostenuto da due genietti alati.\nIlizia, insieme ad Artemide e Persefone è spesso raffigurata con in mano delle torce per portare i bimbi verso la luce, fuori dall'oscurità; nella mitologia Romana infatti la sua controparte è rappresentata da Lucina (della luce).\nNei santuari greci sono presenti piccole figure votive di terracotta (kourotrophos) che raffigurano una bambinaia immortale che si prende cura di bimbi divini. Si pensa che questa figura possa essere collegata a Ilizia.
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### Titolo: Illo (figlio di Eracle).\n### Descrizione: Illo (in greco antico: Ὕλλος?, Hýllos) è un personaggio della mitologia greca. Fu un eraclide che tentò la conquista del Peloponneso.\n\nGenealogia.\nFiglio di Eracle e di Deianira o della naiade Melite o di Onfale, sposò Iole che lo rese padre di Cleodeo e delle figlie Evaechme, Aristaechme ed Hyllis.\nLa figlia Hyllis fu la madre di Zeusippo avuto da Apollo.\n\nMitologia.\nNel suo mito, che presenta comunque molte varianti, sono raffigurate le migrazioni delle tribù dei Dori, un popolo di cui divenne re dopo aver sottomesso i fratelli Dimante e Panfilo.\n\nLa guerra del Peloponneso.\nDopo la morte del padre Eracle, sposò Iole e fuggì con i suoi fratelli dal regno di Euristeo per spostarsi a Trachinia nel regno di Ceice e quando Euristeo pretese la loro resa e minacciò la guerra contro Ceice, abbandonarono quel regno per rifugiarsi ad Atene.\nEuristeo mosse guerra ad Atene ed in una battaglia presso Tricorinto Illo lo uccise e gli tagliò la testa che diede ad Alcmena (sua nonna e madre di Eracle).\nIllo si rivolse poi all'oracolo di Delfi ed ottenne la risposta di dover attendere il terzo raccolto prima di poter tornare a Micene, ma lo fraintese poiché non significava 'tre anni' bensì 'tre generazioni', ma credendo nell'interpretazione errata mosse contro Micene.\nQuando i due eserciti furono radunati presso l'Istmo di Corinto, Illo sfidò in un duello singolo qualsiasi nemico lo volesse affrontare e con l'accordo che se fosse stato lui il vincitore, gli Eraclidi avrebbero avuto i regni di Euristeo (Micene e Tirinto) e se invece fosse stato sconfitto, i discendenti di Eracle non sarebbero più ritornati nel Peloponneso per un periodo di cinquanta o cento anni, così fu sfidato da Echemo che lo vinse ed uccise.\nFu sepolto a Megara.\n\nAltre tradizioni.\nNella tradizione che lo indica come figlio di Eracle e della naiade Melite, Illo nacque sull'isola dei Feaci e, divenuto adulto, si trasferì sul continente e viaggiò nell'estremo nord della Grecia, dove divenne re ed eponimo della tribù degli Illiri ed in seguito fu ucciso dai Mentori durante una lite sul bestiame.\nSecondo altre tradizioni sua madre fu la regina della Lidia Onfale ed Eracle, che per un certo periodo visse nel suo palazzo come schiavo, lo concepì con lei.
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### Titolo: Imene (mitologia).\n### Descrizione: Imene (o Imeneo, in greco Ὑμέναιος Hymènaios) è un personaggio della mitologia greca.\n\nMitologia.\nEra figlio di Apollo e di una musa o forse, secondo altre tradizioni, di Dioniso e della dea Afrodite, oppure di Piero e Clio: sarà uno dei giovinetti amati dallo stesso Apollo.\nNella tradizione greca, Imene camminava alla testa di ogni corteo nuziale, e proteggeva il rito del matrimonio.\nSi narra che fosse un giovane di una fulgida bellezza.\nDurante un'aggressione di pirati, le ragazze di Atene furono rapite, e assieme a loro vi era un solo maschio, Imene, che era stato scambiato per una femmina. Riuscì nell'impresa di liberare le donne e di sgominare i malviventi.\nSecondo il mito, Imene perse la voce durante le nozze di Dioniso.
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### Titolo: Imero.\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Imero (in greco antico: Ἵμερος?), era la personificazione dell'amore impetuoso e del desiderio amoroso incontrollato. Era figlio di Afrodite e Ares, e quindi fratello di Eros, Anteros, Deimos, Fobos e Armonia.\nEra annoverato tra gli Eroti, divinità dell'amore che costituivano il seguito della dea Afrodite.
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### Titolo: Imetto.\n### Descrizione: L'Imetto (in greco: Υμηττός) è un massiccio montuoso della Grecia, nell'Attica, a sudest di Atene.\n\nToponimo.\nÈ conosciuta anche col nome di 'Τρελλός' o di 'Τρελοβούνι' (la montagna pazza), toponimo che probabilmente deriva della traduzione dalla deformazione veneziana 'Il Matto'.\n\nDescrizione.\nIl massiccio è esteso in lunghezza per 16 km: il punto più alto, il monte Evzonas, è a quota 1026 m. È pertanto la terza cima dell'Attica, in ordine decrescente di altezza, dopo il Parnete (Πάρνηθα, anticamente Πάρνης), e il Monte Pentelico (Πεντέλη; anticamente Πεντελικός).\nL'Imetto era famoso nell'antichità per le cave di marmo e, soprattutto, per la bontà del suo miele di timo, tanto che espressioni quali 'le api dell'Imetto' o il 'miele dell'Imetto' son diventate proverbiali.\nSul massiccio, in località Kaisarianī ('Καισαριανή'), si trova anche una delle foreste più estese di Atene.\n\nMitologia.\nLuciano di Samosata scrive nel dialogo di Timone d'Atene che questi, alle pendici di Imetto, lanciava le sue invettive contro gli dèi . Nel dialogo Icaromenippo, l'«uomo sopra le nubi» si getta in volo dalla cima del massiccio, grazie a delle ali asportate da un'aquila e un avvoltoio. Gaio Valerio Flacco parla del 'dolce Imetto' nelle Argonautiche, riferendosi al luogo di origine di alcuni eroi che prendono parte alla spedizione di Giasone nella regione della Colchide per ricercare il vello d'oro.\nAnticamente l'Imetto era sacro ad Apollo e a Zeus (Zeus Imezio). Le api dell'Imetto avevano nutrito il piccolo Zeus e il dio, per ricompensa, avrebbe concesso loro il dono di fare il miele migliore. Si diceva anche che dall'Imetto venissero le api che, quando Platone era bambino, si posarono sulle sue labbra, e distillarono sopra il loro miele, come segno prodigioso dell'oratoria squisita che sarebbe uscita dalla sua bocca.\nLa leggenda inoltre voleva che all'Imetto ci fossero delle formiche guerriere che custodivano una polvere d'oro.
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### Titolo: Immortali nella mitologia greca.\n### Descrizione: Numerosi personaggi mortali, nella mitologia greca, vennero resi immortali per volontà degli dèi, in seguito alla loro buona condotta e per la loro fedeltà alle divinità.\n\n== Elenco degli immortali ==.
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### Titolo: Incendio di Borgo.\n### Descrizione: L'Incendio di Borgo è un affresco (circa 670x500 cm) di Raffaello e aiuti, databile al 1514 e situato nella Stanza dell'Incendio di Borgo, una delle Stanze Vaticane.\n\nStoria.\nRaffaello iniziò a lavorare alla terza delle Stanze non molto dopo l'elezione di papa Leone X. Il pontefice, forse ispirandosi alla scena dell'Incontro tra Leone Magno e Attila nella Stanza di Eliodoro, in cui aveva fatto inserire il proprio ritratto al posto di quello di Giulio II, scelse come tema della decorazione la celebrazione dei pontefici col suo stesso nome, Leone III e IV, nelle cui storie, tratte dal Liber Pontificalis (Libro dei Papi), si potevano cogliere allusioni al pontefice attuale, alle sue iniziative e al suo ruolo.\nLa prima scena ad essere completata fu l'Incendio di Borgo, che diede poi il nome all'intera stanza. In essa gli interventi autografi del maestro sono ancora consistenti, mentre negli episodi successivi i nuovi impegni presi col pontefice (alla Basilica vaticana e agli arazzi per la cappella Sistina in primis) resero necessario un intervento sempre più cospicuo degli aiuti, tra cui spiccavano Giulio Romano, Giovan Francesco Penni e Giovanni da Udine.\nIn particolare le valutazioni sull'autografia dell'Incendio di Borgo si basano ancora sulle valutazioni di Cavalcaselle e riguardano la zona sinistra e parte di quella destra riferibili al Romano, il gruppo delle donne al centro al Penni o a Giovanni da Udine, e a Raffaello la testa della fanciulla che si gira in avanti tenendo due vasi, alcune figure dello sfondo compreso il papa e alcuni dettagli sparsi. Durante la Repubblica Romana instaurata dai giacobini e successivamente nel periodo napoleonico, i francesi elaborarono alcuni piani per staccare gli affreschi e renderli portabili. Infatti, venne espresso il desiderio di rimuovere gli affreschi di Raffaello dalle pareti delle Stanze Vaticane e inviarli in Francia, tra gli oggetti spediti al Musee Napoleon delle spoliazioni napoleoniche, ma il progetto non fu mai realizzato a causa delle difficoltà tecniche e dei tentativi falliti e disastrosi dei francesi presso la Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma.\n\nDescrizione e stile.\nNell'847 divampò nel quartiere antistante l'antica basilica di San Pietro (il 'Borgo') un terribile incendio. Leone IV, impartendo la benedizione solenne dalla Loggia delle Benedizioni, fece spegnere miracolosamente il fuoco, il che permise la salvezza della popolazione e della basilica.\nLa storia è calata in un ambiente classico, popolato da figure eroiche che risentono dell'influenza di Michelangelo, con venature letterarie, che alludono all'incendio di Troia di virgiliana memoria, e politiche, che alludono al ruolo pacificatore del papa tra il divampare dei focolai di guerra tra le potenze cristiane. La rievocazione dell'Eneide inoltre era un pretesto per celebrare la storia di Roma nella sua dimensione più eroica.\nDue gruppi di architetture fanno da quinte laterali, estremamente dinamiche, mentre al centro uno squarcio in lontananza rivela la figura del pontefice, di immota serenità dovuta alla consapevolezza della sua infallibilità.\nLa parte sinistra, con un tempio in rovina che ricorda il colonnato corinzio del tempio dei Dioscuri, mostra attraverso un arco un edificio in fiamme col tetto ormai scoperchiato. Un giovane ignudo si cala dalla parete con la tensione muscolare dello sforzo ben evidente, mentre una donna porge a un uomo un bambino in fasce; più avanti, una scena che evoca l'episodio di Enea che avanza trascinando sulle spalle il padre Anchise e il figlio Ascanio a lato . Dietro di essi, l'anziana nutrice del condottiero troiano, Caieta, ricorda vagamente la Sibilla Libica di Michelangelo nella volta della Cappella Sistina.\nA destra, un gruppo di donne, si affanna per portare contenitori colmi d'acqua per domare le fiamme in un tempio ionico, che ricorda quello di Saturno.\nAl centro una serie di donne con bambini si rivolge verso il pontefice, che si affaccia da un'architettura bramantesca a bugnato. Più a sinistra si intravede la facciata dell'antica basilica vaticana, ornata da mosaici. Il vuoto centrale e l'insieme dei gesti riesce a far convergere l'occhio dello spettatore sulla figura del pontefice, per quanto piccola rispetto al primo piano. Tale schema venne ampiamente ripreso dai classicisti seicenteschi.\nCitazioni dotte e ricercate, prese dalla classicità e dalla modernità, ben rappresentano l'ambiente evocato dai letterati della corte di Leone X.\nDall'armoniosa bellezza della Stanza della Segnatura si è passati ormai a uno stile più ardito e disomogeneo, con una composizione più intensamente scenografica, senza un'articolata organizzazione strutturale degli edifici, che paiono appunto quinte teatrali o apparati effimeri predisposti durante le feste (lo stesso Raffaello si occupò direttamente di scenografia). Forte è la componente sperimentale ed è stata paragonata da alcuni, nel suo attingere ai repertori urbinate, umbro, fiorentino e veneziano, al procedimento che in quegli stessi anni coinvolgeva i letterati sulla scelta della lingua. Raffaello andava infatti rielaborando i linguaggi dei suoi predecessori per dare origine a quel classicismo che tanto influenzò le generazioni successive.
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### Titolo: Inno a Dioniso.\n### Descrizione: L'Inno a Dioniso è una composizione minore di Omero inclusa nella raccolta degli inni omerici. L'inno narra della nascita e alcune opere che il dio Dioniso compì. L'inno è composto di 59 versi.\n\nContenuto.\nDioniso era il dio del vino, dell'ebbrezza e della felicità, ma anche della violenza e dell'eccesso. Infatti da giovane, scoprendo l'uso della vite e quindi del vino, il dio si dette a far feste ogni notte e giorno, seguito sempre da un gruppo di donne dette baccanti.Un giorno un gruppo di pirati tirreni, passando per la sua isola, rapirono Dioniso, credendolo di buona famiglia, con scopo di richiedere un riscatto. Ma sulla nave accadde che proprio quando gli uomini non se l'aspettavano, un grande fiume di vino sgorgò sul ponte, dei grappoli d'uva ed edera spuntarono arrampicandosi per tutto l'albero maestro ed infine Dioniso prese le sembianze di un leone feroce. I pirati terrorizzati, si buttarono in mare, venendo così trasformati in delfini.Questo servì a far guadagnare grande fama e stima al dio che d'ora in poi verrà seguito non solo da donne, ma anche da uomini.\n\nLocalità geografiche menzionate nell'Inno.\nAlfeo.\nDracano.\nIcaro.\nNasso (isola).\nNisa.\nOlimpo.\nTebe.\n\nVoci correlate.\nOmero.\nInni omerici.\nDioniso.
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### Titolo: Inno ad Apollo.\n### Descrizione: L'Inno ad Apollo è il terzo inno cletico (da “kaleo”=”chiamo”,”invoco”) in esametri appartenente alla raccolta denominata Inni omerici.\n\nGenesi.\nL'Inno presenta due sezioni nettamente distinte, sia per scelte stilistiche che per aspetti contenutistici e già nel 1782 David Ruhnken aveva sostenuto che l'inno è composto da due parti separate, riunite successivamente nella tradizione manoscrittaː la prima (Apollo Delio) narra la nascita del dio a Delo e la celebrazione delle feste delie e termina al v. 176 o al v. 178; la seconda è incentrata sulla fondazione dell'oracolo a Delfi, impresa resa possibile dall'uccisione della dragonessa. In tale ipotesi la composizione della prima parte risalirebbe al VII secolo, la seconda al VIː.\nTale vistosa discordanza costituisce il fulcro della discussione filologica e letteraria sull'Inno, la quale tenta di ritrovare spunti unitari all'interno del componimento. Esami oggettivi di ordine metrico e formulare confermano in buona parte l'esistenza di una chiara alterità tra due parti tematicamente inconciliabili, tanto che la tesi analitica ha in genere il sopravvento.L'Inno sarebbe dunque il risultato di un accorpamento tra due composizioni aediche appartenenti ad epoche e culture differenti, i cui versi sarebbero stati rielaborati e fusi per circostanze occasionali ed esterne.\nLa sostanziale ambivalenza che percorre L'Inno e si palesa nella suddivisione del campo di influenza del dio tra i santuari di Delfi e Delo corrisponde ad una divisione di ordine storico e religioso del mondo greco. Delfi, dichiaratamente aristocratica, svolse un ruolo predominante nei secoli VII e VI promuovendo l'espansione coloniale ellenica verso il Medio Oriente e il bacino del Mediterraneo.\nIl prestigio dell'oracolo, sede ricorrente di pellegrinaggi nonché centro cultuale molto influente, declinò all'epoca delle prime spedizioni persiane. Delo, sede antichissima di culto, ebbe al contrario un'importanza soprattutto locale fino alla metà del VI secolo, quando conobbe una rapida crescita connessa allo sviluppo urbanistico e si impose con la funzione di rappresentante della comunità Ionica. Nel tentativo di arginare l'aggressiva politica estera promossa da Atene al termine delle guerre persiane in opposizione al blocco di alleanze spartano, Delo divenne sede della symmachia ionica, promuovendo un'ideologia anti-aristocratica. Le opposte impostazioni politiche, le diverse prerogative rituali nonché il processo stesso di istituzione fanno dunque di Delfi e Delo i due poli inconciliabili del culto apollineo. La tesi analitica sembra tenere conto di tutto ciò, in quanto ritiene che la sezione delia sia sta composta in epoca arcaica con lo scopo di essere recitata in occasione di una festività rituale a Delo, mentre quella delfica, di epoca assai più recente, costituirebbe un proemio destinato ad introdurre gli agoni rapsodici durante le cerimonie pitiche. L'autore dell'Inno unì, dunque, in una stessa composizione poetica i due inni apollinei di entità maggiore a lui noti, arricchendo l'aretalogia(la rassegna delle gesta eroiche) del dio mediante la fusione di tradizioni distanti sia temporalmente che culturalmente. La struttura complessiva del canto rivela una sapiente cura espositiva e una riorganizzazione del materiale preesistente, ben lontane da un semplice accostamento tra due gruppi di versi scollegati, senza alcun richiamo interno.\n\nAutore e data di composizione.\nVarie ipotesi sono state formulare nel tentativo di identificare il compositore dell'Inno. La consapevolezza con la quale al codificato inno delio vengono intessute tradizioni continentali, l'insistenza su particolari paesaggistici propri dell'Egeo piuttosto che della Grecia e delle coste Peloponnesiache, fanno pensare a Cineto di Chio, aedo di larga fama attivo negli ultimi decenni del VI secolo. La possibile attribuzione del componimento ad una figura storicamente attendibile sottrae in parte l'Inno dalla sua oscurità, senza però penetrarne appieno la complessità. È innegabile, infatti, la presenza di ulteriori influenze “omeriche”, in particolare nella sezione pitica, dove ricorre il meccanismo del “riuso”, ossia l'adattamento di formule ed epiteti ad una nuova situazione poetica. Altre corrispondenze si ritrovano in alcuni aspetti dello sviluppo narrativo. Le peregrinazioni marine di Leto evocano un'atmosfera odissiaca, come anche l'uccisione della dragonessa, crudelmente trafitta dalle frecce, un ricordo della sanguinosa sfida tra i proci ed Ulisse ad Itaca. “Omerica” è, inoltre, la figura stessa del dio. L'esordio dell'inno che descrive l'apparizione repentina di Apollo arciere, suscitatore di phobos, immerso nella sua accecante lucentezza è simile ad una delle prime scene dell'Iliade, dove il dio scende infuriato dalle cime dell'Olimpo e prende a scagliare dardi contro il campo degli Achei, manifestando una rabbia improvvisa ed implacabile. Apollo ci appare, dunque, definito maggiormente dall'arco piuttosto che dalla lira e dalle doti profetiche. Egli è la divinità che sorprende e sconvolge, irrompendo nel campo di azione dell'uomo.\nEnigmatici sono, infine, i versi con i quali il poeta, presentandosi come “il cieco di Chio”, pare porsi in relazione con Omero. Una tradizione riconosceva nella figura dell'immortale aedo epico l'autore dell'Inno ad Apollo. Egli l'avrebbe recitato sfidando in un certame poetico Esiodo ed impressionando a tal punto gli abitanti di Delo da convincerli a trascrivere il componimento su di una tavoletta, recante la sua sfraghis (sigillo di riconoscimento). È più probabile tuttavia che il cantore, alludendo ad Omero, voglia identificarsi nel poeta chiota e non riferirsi indirettamente a sé stesso. L'Inno ad Apollo è “omerico” in quanto è conforme ai canoni e al gusto della tradizione epica, dunque è possibile istituire una sovrapposizione tra l'aedo che ne è l'ideatore e l'autorità di riferimento, Omero.\n\nContenuto.\nLa prima parte dell'inno è costituita da una scena celeste, raffigurante Apollo che arriva armato d'arco sull'Olimpo. Ad essa segue un saluto a Leto generatrice e quindi, introdotta da una Priamel, la narrazione mitica vera e propria, ossia la nascita di Apollo a Delo. In essa il catalogo delle terre attraversate da Leto è seguito da un dialogo fra la dea e l'isola, poi dal racconto del parto divino. La conclusione di questa sequenza del canto, proiettata nel presente, comprende la descrizione della festa di Delo e la presentazione della figura del cantore, il “cieco di Chio”.\nLa sezione pitica, dopo un breve raccordo, si apre pure con una scena celeste che esalta questa volta le doti artistiche di Apollo in quanto suonatore di cetra ed ispirato poeta. Essa riprende la presentazione iniziale del dio e insieme l'atmosfera festiva del congedo che conclude la sezione delia. Una seconda Priamel introduce, in accordo con lo schema contenutistico comune al componimento, il brano mitico. Esso è incentrato sui prodigi compiuti dal dio a Crisa nella Troade, sulla metamorfosi di quest'ultimo in delfino, sul salvataggio della nave cretese e sulla costituzione dell'oracolo a Delfi in seguito all'uccisione del mostro ctonio Pito, l'atto che segna la ricostituzione di una sorta di nuovo ordine cosmico. L'affinità strutturale con la sezione precedente si riscontra nella cura con la quale vengono riportate le località geografiche, scenario delle imprese del dio e nel dialogo tra quest'ultimo e la ninfa traditrice Telfusa, poi trasformata in fonte. L'ultima scena, seguita poi dal distico formulare di commiato, si sofferma sul reclutamento dei primi sacerdoti delfici e sulla modalità del rito pitico.
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### Titolo: Inno ad Ermete.\n### Descrizione: L'Inno ad Ermete è una composizione minore di Omero risalente al VI secolo a.C. inclusa nella raccolta degli inni omerici. L'inno narra le avventure di Ermete durante i primi tre giorni della sua vita. L'inno è composto di 580 versi e condivide con l'Iliade e l'Odissea sia il dialetto che la metrica poetica, ovvero l'esametro dattilico.\n\nContenuto.\nErmete è il dio dei commerci, dei viaggi, dei confini, dei ladri, dell'eloquenza e delle discipline atletiche. Figlio di Zeus e Maia, nacque prematuramente sul monte Cillene. A differenza dei normali neonati, non rimase nella sua culla, ma si dimostrò precoce e la soglia varcò dell’ombrosa spelonca.\n\nL'invenzione della lira.\nUna volta fuoriuscito dalla grotta, si imbatté in una tartaruga da cui ricavò gran sollazzo e che considerò come un segno d'augurio. In seguito, sgusciò dell’alpestre tartuca il midollo vitale e con le canne d’un giunco, la pelle d’un bove e la minugia di pecora costruì una lira, che utilizzò immediatamente per improvvisare un inno a se stesso, in cui cantò la storia d'amore dei suoi genitori.\n\nIl furto di bestiame.\nSuccessivamente, lasciò la lira nella grotta e corse verso Pieria, luogo dove pascolava il bestiame del fratello maggiore, Apollo. Ermete rubò cinquanta vacche, che spinse all'indietro attraverso la Beozia, fino ad una grotta a Pylos dove le nascose, per poi far ritorno a Cillene. Lì, la madre Maia lo redarguì per essere tornato a tarda notte, ma Ermete reagì affermando di non essere un bambino e che si prenderà cura di se stesso e di sua madre.\nIl giorno seguente, Apollo si rese conto che le sue mucche erano scomparse e iniziò a cercare il suo bestiame. Incontrò un Vecchio, che aveva avvistato Ermete il giorno prima, e gli chiese informazioni. Si precipitò immediatamente a Pilo, ma non riuscì a scoprire la posizione esatta del suo bestiame a causa delle tracce confuse. Allora Apollo raggiunse la grotta di Maia e minacciò con violenza Ermete di rivelargli la posizione del suo bestiame, ma negò qualsiasi coinvolgimento, affermando che un neonato non è in grado di rubare il bestiame. L'alterco tra gli dèi continuò finché i due fratelli portarono la questione al padre, Zeus.\n\nL'incontro al cospetto di Zeus.\nCiascuno fornì il proprio resoconto degli eventi, ma anche in questa occasione Ermete negò abilmente il suo coinvolgimento, sfruttando la sua acuta intelligenza per evitare lo spergiuro. Riconoscendo i trucchi, Zeus scoppiò a ridere e gli ordinò di rivelare il nascondiglio del bestiame. I fratelli sfrecciarono verso Pilo, ed Ermete condusse il bestiame fuori dalla caverna restituendolo a Febo, che infuriato tentò di legare Ermete, il quale, una volta svincolatosi, gli cantò una teogonia utilizzando la lira. Apollo rimase incantato dalle capacità musicali e canore del fratello minore e volle saperne di più sulla sua arte.\nErmete gli spiegò come utilizzare lo strumento e in seguito lo cedette in cambio degli animali rubati, e così la lira divenne il simbolo del saettante Apollo, così rappresentato ai musei vaticani.I due fratelli divini partirono quindi per l'Olimpo, dove ad Ermete vennero tributati gli onori spettanti e divenne il messaggero degli dei.\n\nAnalisi.\nIl racconto è incentrato sui primi giorni di vita di Ermete e lo si può suddividere in tre sezioni: la fabbricazione della lira, il furto di bestiame e il confronto verbale con Apollo al cospetto di Zeus.\n\nLa precocità del neonato.\nIl poeta nell'Inno intende far emergere l'unicità del neonato, che proprio per la sua precocità si contraddistingue come un essere sovrannaturale, dotato di abilità uniche. Queste capacità emergono nell'inventiva che dimostra costruendo la lira partendo da una semplice tartaruga, che divenne poi il suo simbolo, e nella meticolosità e risolutezza con cui effettua il furto della vacche, cosa che lo qualificò per la sua prerogativa di protettore dei ladri. Nell'opera le sue doti hanno una rilevanza di primo piano perché consentono ad Ermete di raggiungere lo status di divinità, permettendogli di ascendere all'Olimpo e di vedersi assegnate le sue timai e tutti i privilegi tipici di un dio.Con risolutezza e lungimiranza Ermete espone alla madre le ambizioni e gli obbiettivi che intende perseguire attraverso le sue azioni, quindi si deduce che il motivo che lo spinge a rubare le vacche del fratello è un astuto piano perpetrato per procurare a se stesso e alla madre gli onori di cui godono le altre divinità olimpiche, ovvero i sacrifici, le preghiere, e le timai che Apollo già possiede.\n\nRapporto con la fanciullezza.\nIl giovane dio prende le distanze dalla madre, dalla culla e dalla caverna materna per rimarcare il suo distacco dall'infanzia e dalla fanciullezza, condizione in cui Ermete mai si è riconosciuto, eppure con eloquenza invoca a sua difesa la sua tenera età quando si trova in circostanze spiacevoli e sfavorevoli.Nell'inno si rimarca più volte questo aspetto attraverso continue menzioni sull'infanzia del dio. Tuttavia, la cosa è diversa in altre opere che narrano la medesima vicenda, in cui non si fa menzione alla sua età.\n\nLocalità geografiche menzionate nell'Inno.\nMonte Cillene, luogo di nascita di Ermes;.\nCillene.\nPylos.\nPieria.\nBeozia.\nOlimpo.
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### Titolo: Ino.\n### Descrizione: Ino (in greco antico: Ἰνώ?, Inṑ) è una figura della mitologia greca. Fu una donna mortale trasformata in dea.\n\nGenealogia.\nFiglia di Cadmo ed Armonia, fu la seconda moglie di Atamante e divenne madre di Learco e Melicerte.\n\nMitologia.\nIl marito Atamante aveva avuto dalla prima moglie (Nefele) altri due figli, Frisso ed Elle che Ino detestava e così cercò di liberarsene con l'inganno persuadendo le donne del paese a mettere nel forno i semi di grano conservati per la semina successiva e così quando vennero seminati non fiorirono ed il paese finì in preda alla carestia. Atamante inviò i suoi messaggeri all'oracolo di Delfi, per chiedere al dio cosa avrebbe dovuto fare. Ino pagò i messaggeri affinché al loro ritorno dicessero al re che l'oracolo aveva predetto il sacrificio di Frisso sull'altare di Zeus se voleva che la terra ridesse i suoi frutti. Il popolo si rivoltò e chiese di obbedire all'oracolo. Atamante dovette acconsentire e i due ragazzi furono condotti sull'altare sacrificale per adempiere l'ordine del finto oracolo, ma Frisso ed Elle chiesero aiuto alla madre Nefele, che inviò loro un ariete dal vello d'oro, in groppa al quale essi fuggirono.\nDopo la morte della sorella Semele, madre di Dioniso, Ino persuase Atamante ad allevare il piccolo dio, nato dall'unione di Semele con Zeus. Era, sposa di Zeus, per vendicarsi del tradimento, fece impazzire Atamante che, incontrati la moglie e i figli, li scambiò per cervi e li assalì, uccidendo Learco scagliandolo contro uno scoglio ed uccise Melicerte gettandolo in un calderone bollente. Ino accorse ed estrasse il figlio dal calderone fuggendo, inseguita da Atamante ed in seguito si gettò in mare portando con sé il suo cadavere (secondo la leggenda, dalla roccia molare di Megara).\nAfrodite però, provò pietà per Melicerte (suo pronipote), così pregò Poseidone di salvarli e lui tolse a loro le spoglie mortali e, cambiando nome ed aspetto, li fece rivivere come divinità marine. Così la madre Ino divenne Leucotea e Melicerte divenne Palemone.\n\nIno nella cultura di massa.\nIn epoca moderna, Ino, insieme con Circe, è tra i personaggi del dialogo Le streghe, dall'opera Dialoghi con Leucò.
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### Titolo: Interpretatio graeca.\n### Descrizione: L'interpretatio graeca è il termine latino indicante la comune tendenza degli scrittori dell'antica Grecia ad equiparare le divinità straniere a quelle del loro pantheon. Erodoto, ad esempio, riferendosi agli antichi dei egiziani Amon, Osiride e Ptah, li chiama 'Zeus', 'Dionisio' ed 'Efesto'.\n\nVersione romana.\nL'equivalente pratica romana era chiamata interpretatio romana. Il primo uso di questa frase venne fatto da Tacito nel libro Germania, nel quale racconta del bosco sacro di Naarvali, dicendo 'Praesidet sacerdos muliebri ornatu, sed deos interpretatione Romana Castorem Pollucemque memorant' ('un sacerdote presiede in vestiti di donna, ma nell'interpretazione dei romani, loro venerano gli dei Castore e Polluce'). Altrove dice che i capi degli dèi degli antichi Germani erano Ercole e Mercurio, riferendosi rispettivamente a Thor e Odino.\n\nCorrispondenze.\nCorrispondenze tra alcune divinità di alcune mitologie del mondo antico secondo le interpretazioni greca e romana:.\n\nDifficoltà e cautele.\nGeorges Dumézil osserva che anche se alcuni studiosi antichi espressero dubbi sulla correttezza di queste equivalenze, in generale, nell'antichità, questi scrupoli vennero rapidamente rimossi. Tra le divinità romane, l'adozione della mitologia della divinità greca potrebbe aver portato in parte a nascondere o alterare la natura originaria degli dèi latini. A volte, «a partire da una corrispondenza parziale, l'identificazione ha dispiegato le sue conseguenze a costo di correzioni e innovazioni a catena».\nCosì, ad esempio, Giunone che, in origine, non sempre era vista come la moglie di Giove. La coppia formata da Giove e Giunone fu creata solo successivamente secondo l'immagine della coppia sovrana del pantheon greco; che fece di Giunone, sotto l'influsso di Era, una dea del matrimonio. Così anche per Vulcano, antico Fuoco divino di Roma che, originariamente legato alla guerra, deve la sua funzione di fabbro solo alla sua identificazione con Efesto. L'interpretatio romana ne fece il dio dei fabbri, dei metalli e di tutti i materiali che bruciano.
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### Titolo: Ioke (mitologia).\n### Descrizione: Nella mitologia greca, Ioke (in greco:Ἰωκή) è la personificazione femminile dell'assalto, della mischia, e dell'inseguimento durante una battaglia. Nell'Iliade è uno dei demoni, o spiriti, di Egida e di Zeus. Gli altri sono Fobos, Eris e Alke.
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### Titolo: Iolao.\n### Descrizione: Iolao (in greco antico: Ἰόλαος?, Iólāos) è un personaggio della mitologia greca. Fu nipote e amico di Eracle.\n\nGenealogia.\nFiglio di Ificle e Automedusa.A sedici anni ebbe in sposa Megara (trentatreenne ex moglie di Eracle) che gli diede la figlia Leipefilene.\n\nMitologia.\nIolao è spesso definito come l'auriga e accompagnatore di Eracle, e qualche volta gli autori (Plutarco, Euripide) si riferiscono a lui come all'amato pederastico (eromenos) di Eracle e di altri personaggi mitologici, come Ione o Asclepio. La propensione di Iolao a concedersi ad amori maschili nel mito, lo rese inadatto a uno sviluppo letterario. In un frammento dello Pseudo-Senofonte egli viene definito 'ladro dei talami intonsi'.\n\nQuando Eracle si trovò in difficoltà nell'uccisione dell'Idra di Lerna, che rigenerava delle sue nove teste man mano che venivano tagliate, Iolao gli permise di portare a termine l'impresa cauterizzando col fuoco ogni collo non appena Eracle ne mozzava la testa.\nEracle diede in sposa a Iolao la sua ex moglie Megara quando la semplice vista di lei iniziò a causargli il ricordo doloroso del suo omicidio dei loro tre bambini.\nDopo che Deianira uccise inconsapevolmente Eracle, credendo che Eracle stesse avendo una relazione con Iole, fu Iolao ad accendere la pira funeraria del semidio (secondo una versione meno diffusa, a farlo fu invece Filottete).\nSecondo Diodoro Siculo, Iolao venne inviato da Eracle in Sardegna assieme a nove dei figli che quest'ultimo ebbe dalle cinquanta figlie di Tespio (le Tespiadi), per colonizzare l'isola dando origine al popolo degli Iolaensi.Iolao e i Tespiesi furono sepolti in Sardegna.\nAristotele affermò che in Sardegna fosse praticato il rito dell'incubazione, ossia la liberazione rituale delle persone che fossero affette da incubi e ossessioni. Questi riti prevedevano che le persone afflitte da incubi dovessero dormire accanto alle tombe degli eroi.Simplicio aggiunge, nei Commentari agli otto libri di Aristotele, che: «I luoghi che dove erano deposti e conservati i cadaveri dei nove eroi che Ercole ebbe dalle Tespiesi e che vennero in Sardegna con la colonia di Iolao, diventarono degli oracoli famosi».Gaio Giulio Solino afferma che: «Gli Iolesi, da lui così chiamati (da Iolao), aggiunsero un tempio al suo sepolcro, poiché aveva liberato la Sardegna da tanti mali».\n\nTelevisione.\nIolao è uno dei personaggi principali della serie televisiva Hercules: The Legendary Journeys, ed è stato interpretato da Michael Hurst. Il personaggio è approssimativamente basato sulla figura dell'eroe, durante la serie non fa mai nessun riferimento alla sua parentela con Hercules tranne nell'episodio pilota dove afferma che Hercules sarebbe suo zio, probabilmente la parentela è stata poi cancellata dalla serie. Nella serie si ironizza spesso sulla tendenza, nelle raffigurazioni classiche, di rappresentare i due eroi insieme anche quando di Iolao non è stato fatto nome nel mito, tramite una gag ricorrente in cui la voce delle gesta di Hercules si è tanto diffusa che le persone riconoscono subito il leggendario semidio, ma di Iolao viene ignorato anche il nome nonostante egli fosse stato presente ad aiutare il compagno nelle sue rinomate imprese.\nNella serie Young Hercules, Iolao è stato interpretato da Dean O'Gorman.
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### Titolo: Iolco.\n### Descrizione: Iolco (nota anche come Jolco, Iolkos o Iolcus, in greco: Ἰωλκός Iōlkòs) era un'antica città della Tessaglia, nella Grecia centro-orientale (vicino alla moderna città di Volos).\n\nGeografia.\nLa città attuale è stata comune autonomo fino al gennaio 2011, quando è stato soppresso a seguito della riforma amministrativa detta piano Callicrate ed è ora compreso nel comune di Volos.\nCon un'area di soli 1,981 km² era il tredicesimo più piccolo comune della Grecia e il più piccolo se non vengono considerati i sobborghi di Atene e Tessalonica. Il comune era diviso in tre distretti comunali, con una popolazione totale di 2.071 abitanti. Il distretto di Ágios Onoúfrios (506 abitanti) ha un'area di 0.200 km², ed è il più piccolo distretto comunale di tutta la Grecia. La sede comunale è il villaggio di Áno Vólos (529 abitanti). La piccola città di Anakasia (933 abitanti) è il centro del comune di Iolco. Anakasia possiede una scuola, un liceo, banche, un ufficio postale e una piazza.\n\nStoria.\nSecondo la mitologia greca, Iolco fu fondata da Creteo figlio di Eolo e di Enareta. Da sua moglie Tiro ebbe tre figli: Esone, Fere e Amitaone. Tiro ebbe anche una relazione con il dio Poseidone dal quale nacquero due figli, Pelia e Neleo. Esone era il legittimo erede al trono, ma fu usurpato dal fratellastro Pelia. Fu proprio Pelia che spedì il figlio di Esone, Giasone, e i suoi Argonauti, alla ricerca del vello d'oro.\nIl luogo delle antiche rovine di Iolco si crede sia situato vicino al villaggio di Dimini, dove recentemente è stato portato alla luce un palazzo dell'epoca micenea. Nei pressi di Iolco si trova la città di Magnesia, teatro nel 352 a.C. di una famosa battaglia combattuta tra Filippo II di Macedonia e i Focesi di Onomarco.
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### Titolo: Ione (mitologia).\n### Descrizione: Ione (in greco antico: Ἴων?, Ìōn) è un personaggio della mitologia greca, figlio di Xuto e di Creusa, è fratello di Acheo ed è padre di Bura (avuta dalla moglie Elice, figlia di Selino).Euripide, nella tragedia Ione, scrive che Ione è figlio di Creusa e di Apollo, che poi, sotto forma di oracolo, disse a Xuto che la prima persona che avesse incontrato uscendo dal santuario di Delfi sarebbe stato suo figlio.\n\nMitologia.\nIone è considerato l'eponimo della stirpe degli Ioni, come lo storico Teopompo (IV sec. a. C.) asseriva che il Mare Ionio aveva preso il nome da un re illirico.\nSelino, il re di Egialo (in Acaia), per evitare una guerra offrì a Ione la mano di sua figlia Elice. Quando Selino morì, Ione ne divenne il successore fondando la città di Elice, nome che prese da sua moglie.\nDurante la guerra tra Eleusini e Ateniesi, Ione intervenne a favore di Atene (che vinse), ma rimase ucciso e fu sepolto in Attica.Sua figlia Boura è considerata l'eponima della città di Boura che sorgeva nei pressi dell'attuale Patrasso.\nI suoi discendenti furono in seguito cacciati dagli Achei (i discendenti del fratello Acheo).
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### Titolo: Ipacreo.\n### Descrizione: Ipacreo è un epiteto di origine greca/ateniese che significa 'sotto l'Acropoli'. Riguarda la leggenda della bella donna dalle braccia bianche Creusa, figlia del mitologico re di Atene Eretteo, la quale venne violentata dal dio Apollo proprio sotto l'Acropoli di Atene. In seguito alla vicenda di Creusa nacque il capostipite della dinastia degli Ioni, cioè Ione.
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### Titolo: Iperbio.\n### Descrizione: Nella versione del mito raccontato da Eschilo ne I sette contro Tebe, Iperbio (in greco: Ὑπέρβιος) è un guerriero tebano difensore della porta Atena Onca, una delle sette porte di Tebe. Uccise Ippomedonte, uno dei compagni del padre di Diomede. È raffigurato come un uomo alto e robusto.