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| 91946-1950
| Onorevoli senatori, rispondendo ai tre interpellanti mi riferirò meno agli argomenti polemici che agli argomenti stessi oggettivamente considerati. Debbo ringraziare l’onorevole Orlando che, senza attenersi strettamente all’impostazione della sua interpellanza, ha considerato impossibile allargare la discussione a tutta la politica estera e ha piuttosto preso in considerazione il problema centrale, singolo e particolare del Territorio libero di Trieste. Anche io mi limiterò a questo settore e prospetterò sovrattutto su di esso la mia argomentazione. È troppo chiaro – e l’onorevole Orlando me lo insegna – che gli indirizzi fondamentali della politica estera di un paese sono determinati dalle sue condizioni morali e politiche, dalla sua tradizione, dalla sua civiltà, dalla sua economia e dalla sua posizione geografica. Quando abbiamo deciso, dopo lunghe conversazioni e liberi dibattiti parlamentari e dell’opinione pubblica, l’adesione al Patto atlantico, l’abbiamo fatto con questa visione panoramica. Ancora oggi le ragioni che ci mossero valgono con tutta la loro forza. Noi sediamo a questo tavolo di cooperazione internazionale e di sicurezza, ed abbiamo tutta la volontà e l’interesse di restarci. È vero: alcuni nostri postulati importanti non sono stati ancora soddisfatti ad altri non vennero accolti. Ma forse che nelle antiche alleanze ci fu sempre la possibilità di risolvere d’accordo con gli alleati i problemi che ci angustiavano? Forse che si può ritenere che lasciando questo tavolo dei popoli democratici e liberi, interrompendo la discussione, la nostra situazione sarebbe migliore o non correremmo il rischio di dovervi ritornare con prospettive diminuite? Noi crediamo che la discussione debba continuare, che la battaglia per la nostra causa si debba ripetere tutti i giorni perché si tratta di un’opera ricostruttiva, lenta e faticosa, in un mondo sconvolto che cerca nuovamente la pace. L’onorevole Orlando ad un certo punto ha detto che la politica è azione che affronta il male perché diventi male minore. Potrei aggiungere anche la nota sentenza che la politica è soprattutto l’arte del possibile. Ora, non v’è questione la cui storia non passa dimostrare che abbiamo fatto ogni sforzo per affrontare il male e diminuirlo, e d’altro canto, non v’è questione che dimostri così nettamente i limiti delle nostre possibilità passate e presenti, che quella del Territorio libero di Trieste o della città di Trieste. Se vi è una questione che indica veramente questi limiti e ha contribuito in modo eminente a sospingerci per la via su cui noi camminiamo è proprio quella di Trieste, cosicché la sua storia è veramente un elemento determinante della nostra politica generale. Poiché si dimentica facilmente, non sarà fuori luogo ricordare le singole fasi rapidissimamente come stazioni di via crucis. La prima, la conquista rivoluzionaria del territorio di Trieste e della Venezia Giulia, conquista fatta nel medesimo tempo come meta di una rivoluzione sociale, la quale però assorbiva anche i postulati nazionali degli slavi abitanti in questa zona; conquista che si diceva conquista antifascista soprattutto nel senso di anti-italiana perché il fascismo aveva rappresentato la politica italiana. Si è detto, prima ancora che ci trovassimo di fronte a simili accuse, a Londra, che la guerra era costata agli jugoslavi un milione e 700 mila morti e Kardelj, tentando di documentare, affermava che di essi 100 mila erano a carico dell’esercito di occupazione – diceva lui – cioè di quello italiano. Ci si presentava come rivendicazione della libertà e dell’antifascismo contro il fascismo. E quando nel settembre 1945 ci trovammo seduti allo stesso tavolo (ma non nella stessa posizione perché noi eravamo imputati e gli jugoslavi erano con i vincitori) ci si rinfacciava sempre di essere rappresentanti di un regime fascista e di voler mantenere le conquiste che il fascismo aveva fatto contro le libertà dei popoli. Sui tavoli vedevamo degli album orripilanti delle presunte crudeltà, degli orrori commessi dagli italiani nella Venezia Giulia. Era inutile rispondere che il governo che io rappresentavo era un governo di antifascisti, che noi stessi eravamo rimasti vittime del fascismo, che come italiani avevamo combattuto per la liberazione e l’indipendenza della Balcania nella prima guerra e che poi, più tardi, partigiani e forze regolari avevano combattuto per gli alleati e quindi anche per gli slavi; era inutile rispondere che si trattava di cercare una linea di giustizia, una soluzione etnica che rispettasse i diritti dei popoli; era inutile rispondere con questi argomenti di fronte alla tesi rivoluzionaria di conquista che diceva: «questo territorio è nostro per diritto di conquista ed abbiamo già proclamato le repubbliche popolari facenti parte della federazione: Trieste vi appartiene sia pure in forma autonoma, ma come membro autonomo della federazione jugoslava; noi non possiamo accettare di discutere». Questo fu l’atteggiamento nella prima fase. È difficile ricostruire l’atmosfera di pressione che si sviluppò attorno ai delegati italiani in quel momento, quando il principio che i governi ed i popoli dovevano pagare il fio per gli errori passati sembrava accettato da tutti gli alleati e da tutti coloro che prendevano parte alla discussione. Noi vi abbiamo opposto quel che ricorda attualmente l’onorevole Orlando, cioè la linea etnica, gli argomenti etnografici, in particolare la linea Wilson, ed abbiamo chiesto lo sviluppo, la sicurezza di Trieste come porto internazionale. In quel tempo abbiamo cercato contatti su tutti i fronti. È giusto che si ricordi questo, perché lo sviluppo posteriore della nostra politica non faccia dimenticare che in quel momento, rappresentante di un governo di coalizione in cui tutti i partiti avevano i propri delegati, e di fronte agli alleati che facevano causa comune tutti e quattro compresa la Russia, in quel momento il mio sforzo e lo sforzo dei miei collaboratori era diretto tanto verso la parte anglo-americana e francese quanto verso la Russia. Dal mio taccuino e dalle note al Ministero degli Esteri appare che i colloqui furono altrettanto frequenti con Molotov quanto con gli altri rappresentanti della conferenza. Tanto per ricordare un particolare che può riuscire utile a coloro che parlano di plebisciti, debbo rammentare che in uno di questi colloqui mi felicitai con Molotov che, in un’intervista sul Times, aveva riconosciuto in linea generale che le terre italiane dovevano andare all’Italia. Io gli dissi: «la ringrazio di questa dichiarazione che potrà salvare le nostre città». Mi riferivo naturalmente alle città dell’Istria fino a Pola. Egli mi rispose: «accetto il ringraziamento, ma per la verità io ho parlato di territori e non di città». Questo principio era sempre stato messo a base del plebiscito, perché si riteneva, da parte dei nostri avversari, che col numero della campagna si soverchierebbe la minoranza urbana. La terza stazione fu la decisione del 19 settembre 1945. Nel settembre del 1945 il Consiglio dei ministri degli Affari Esteri rimise lo studio della questione ai supplenti con l’incarico: a) di indicare la linea che rappresenta nell’insieme la demarcazione etnica e che lascia sotto la dominazione straniera un minimo di persone appartenenti all’una o all’altra delle nazionalità; b) di proporre un regime internazionale del porto di Trieste rispondente a condizioni di uguaglianza per il traffico internazionale dell’Italia, della Jugoslavia e dei paesi dell’Europa centrale. Questa decisione di massima del Consiglio dei ministri degli Esteri rappresentava veramente una accettazione del punto di vista italiano che noi avevamo sostenuto. Disgraziatamente la conferenza dei supplenti aggiunse a questi due criteri fondamentali l’altro, quello economico, che doveva prestarsi poi ad interpolazioni e manipolazioni, direi, e a cambiamenti sostanziali entro la medesima forma delle questioni poste. Il rapporto della commissione degli esperti giunse al Consiglio dei ministri degli Affari Esteri alla sessione di Parigi nel maggio 1946. In quel momento ci trovammo dinanzi alle conclusioni generiche della commissione, ed io non potevo non esprimere la nostra soddisfazione perché, in linea generale, era stata ammessa la discriminante etnografica e si era concentrata l’attenzione sopra il problema del porto, dell’emporio internazionale di Trieste, come era nostro postulato, e che rappresentava, del resto, il nucleo centrale sintetico del problema dal punto di vista economico. Ma, all’ultimo momento, quasi come documentazione delle conclusioni della commissione d’inchiesta si presentarono delle cartine in cui erano segnate le varie linee di demarcazione del territorio, varie perché non era stato possibile l’accordo sopra una qualsiasi di queste linee. Quindi la Commissione d’inchiesta non arrivò a nessun risultato sintetico; si limitò solo a portare quattro linee, quante erano le potenze che dovevano proporre la soluzione. Conoscete tutti quali fossero le quattro linee; la più vicina alla linea Wilson, sempre però con un divario notevole, era quella americana; la più lontana era quella russa, la quale accettava in pieno e sosteneva la linea slava, cioè veniva al di qua anche del confine del 1866; seguiva la linea inglese che ancora lasciava Pola in territorio italiano, e poi la linea francese che a metà dell’Istria tagliava verso il mare. Tuttavia queste soluzioni, che non erano la soluzione, sembravano lasciare una certa possibilità di discussione e di compromesso. In quel maggio del 1946 abbiamo fatto un grande sforzo in conversazioni singole con i rappresentanti dei diversi Stati. Byrnes mi diceva il 6 maggio: «Molotov ritiene che la questione di Trieste si possa paragonare a quella di Leopoli». Leopoli polacca in mezzo ad un mare ruteno. E concludeva Molotov: «non bisogna poi farsi troppe preoccupazioni; una volta superate le difficoltà, una volta deciso non ci si penserà più». Bevin mi diceva: «i russi hanno proposto di scambiare Trieste con delle colonie, ma io mi sono rifiutato». Molotov, al quale io rivolsi un appello urgente per una soluzione amichevole in favore di Trieste, sembrò farsi mediatore di una conversazione che poi fu appena accennata, con Kardelj, che era il rappresentante jugoslavo. Comunque, quando ritornai a Roma, il 10 maggio 1946, riferendo al Consiglio dei ministri ed esponendo queste circostanze, aggiunsi che dalle nostre informazioni risultava che l’impressione fondamentale era che almeno per il momento la Russia giocava tutto per attribuire Trieste alla Jugoslavia e che in tal senso si era impegnata a fondo; gli anglo-americani invece proponevano Trieste all’Italia. «Il presidente – riferisco il verbale del Consiglio dei ministri – ha fatto chiaramente comprendere che nessun governo democratico accetterebbe la perdita di Trieste e ha rifiutato l’offerta russa di compensi coloniali». Accenno a questa relazione, che potrei leggere anche per esteso, per dimostrare come nel 1946 noi tentavamo uno sforzo in equidistanza fra le diverse parti ed in ogni caso tenevamo aperte tutte le vie e cercavamo di premere su tutti coloro che potevano decidere in nostro favore, tanto che alla fine questo verbale mette in rilievo un ringraziamento dell’allora ministro senza portafoglio Nenni «per il presidente che aveva riferito sopra le sue fatiche». Che cosa sia avvenuto a Parigi in quel periodo in cui i Quattro discussero e deliberarono in segreto, periodo che si chiuse colle deliberazioni del 2 luglio 1946 per la creazione del Territorio libero, nessuno sa dirlo con sicurezza. Si arrivò comunque a un compromesso fra la «linea francese» e le insistenti opposizioni della Russia e della Jugoslavia. L’onorevole Orlando ha ragione di dire che in realtà non ci fu un trattato, in quanto così si può chiamare una convenzione libera intervenuta tra l’una e l’altra parte; pur tuttavia noi avemmo occasione di esporre le nostre obiezioni. Quando rileggo il mio discorso di allora alla conferenza, non so come si possa farmi rimprovero di essere stato debole, di non aver avuto della fierezza, di non avere opposto tutte le obiezioni che si potevano opporre. Riguardo a Trieste ho definito il Territorio libero così: «voi rinserrate nella fragile gabbia di uno statuto i due contendenti, con razioni scarse – avevo prima dimostrato la debolezza di questa soluzione dal lato economico – e copiosi diritti politici e voi pretendete che non vengano alle mani e che non chiamino in aiuto, da una parte gli slavi schierati intorno a Trieste, ad otto chilometri di distanza, e dall’altra gli italiani che tendono il braccio attraverso un varco di due chilometri?». Tutta un’altra pagina poi del mio discorso porta i dati obiettivi per dimostrare la impossibilità che questo Territorio libero potesse vivere veramente come un territorio autonomo, governato dai suoi abitanti e resistere alle pressioni esterne. Fra Parigi e la ratifica del trattato intervennero due soli avvenimenti riguardanti Trieste, cioè l’intervista Togliatti-Tito e le trattative o meglio gli assaggi che di conseguenza si fecero poi a New York. L’intervista Togliatti implicava il riconoscimento dell’italianità di Trieste, ma prevedeva in compenso la cessione di Gorizia alla Jugoslavia. Anche di fronte a tali proposte il governo non fu semplicemente negativo, ma, prendendo atto con piacere del riconosciuto carattere di Trieste, si limitò a dire di non poter accettare lo scambio con Gorizia. Inoltre, per non lasciar sfuggire qualsiasi possibilità di favorevoli sviluppi, gli ambasciatori Quaroni e Tarchiani, che parteciparono a New York alla conferenza per la formulazione dello statuto del Territorio libero, vennero incaricati di sondare il terreno presso i due delegati slavi Simic e Bebler . Costoro precisarono che si trattava di cedere alla Jugoslavia Gorizia e Monfalcone. La cosa quindi non ebbe seguito. Inutile ricordarvi le discussioni parlamentari per la ratifica del trattato di pace. È lecito però ricordare che, pur subendo il trattato, abbiamo rinnovato le nostre proteste, cosicché moralmente abbiamo rivendicato la libertà di continuare a combattere per l’adempimento dei nostri postulati e, soprattutto, per salvare Trieste. L’attività dei governi che seguirono difatti si svolse soprattutto per ottenere delle assicurazioni in argomento. Ad un certo punto (verso il gennaio 1948), incominciò quella trattativa che rimase per lungo tempo segreta la quale mirava ad ottenere almeno un impegno morale da parte degli Alleati, un riconoscimento da parte di coloro che ci erano più vicini e che meno avevano osteggiato il possesso italiano di Trieste. Ed ecco che il 20 marzo si ebbe la dichiarazione tripartita. Vorrei ricordarvi il discorso che l’attuale presidente del Consiglio francese tenne a Torino; vorrei ricordarvi le parole precise: «questa soluzione – leggo la conclusione del discorso e si intende che ci si riferisce al problema di Trieste – non può essere, a mio parere, che il ritorno puro e semplice del Territorio libero all’Italia. Consultazioni hanno avuto luogo in questi tempi, a questo riguardo, tra i governi francese, britannico ed americano. Tutti e tre si sono trovati d’accordo su questa soluzione ed hanno deciso di interessare il governo sovietico per proporgli di esaminare insieme la questione. Mi auguro che la risposta pronta e favorevole dell’Unione Sovietica ci permetterà di raggiungere lo scopo senza ritardi» . Lo stesso giorno veniva pubblicato il comunicato da Londra nella forma di un riassunto della nota presentata dai Tre alla Russia: «le rappresentanze diplomatiche italiana e jugoslava a Washington sono state informate della proposta, indirizzata a Mosca, per la restituzione all’Italia del cosiddetto Territorio libero di Trieste. La proposta – dice la nota a Mosca – va considerata nel quadro di una larga revisione del trattato di pace con l’Italia che sta dimostrandosi sempre più inattuabile». A Londra, a Washington e a Parigi veniva intanto consegnata all’ambasciatore sovietico la nota identica che invita la Russia ad aderire alla restituzione di Trieste all’Italia. La nota è fondata su questi due motivi principali: l’impossibilità di procedere alla nomina di un governatore per lo Stato libero di Trieste e le abbondanti prove da cui risulta che il carattere della zona jugoslava è stato completamente snaturato e la zona stessa incorporata nella Jugoslavia secondo metodi che non hanno tenuto alcun conto del proposito alleato di dare allo Stato libero uno status democratico e indipendente. Onorevoli senatori, se in quel momento la Russia avesse aderito al contenuto della proposta o avesse accettato di entrare in discussione, veramente sarebbe nata una speranza per noi di una soluzione definitiva e tranquillante. Il ministro di Jugoslavia a Roma signor Ivecovich il 30 marzo 1948 tenne una conferenza stampa ai giornalisti italiani e stranieri e, richiesto da un giornalista su quello che sarebbe stato l’atteggiamento jugoslavo nel caso in cui la Russia avesse aderito all’iniziativa della Francia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il signor Ivecovich, dopo aver escluso tale possibilità, ammise tuttavia che in tale eventualità la Jugoslavia avrebbe ricorso all’ONU. Esaminiamo un momento la risposta della Russia. La Russia in realtà non ha detto no alla sostanza della proposta: non è entrata nel merito, ma ha riparato dietro questioni di forma, dicendo: come mai voi proponete che ce la spicciamo tra noi Quattro, quando in realtà si tratta di una deliberazione, base del trattato, presa dai 21 prima e poi con l’approvazione delle altre nazioni? Questa forma attenuata non toglie malauguratamente nulla al fatto che la Russia si è poi dichiarata – e si sapeva che era di questo parere – contraria anche alla sostanza, alla essenza della proposta. C’era ancora un capitolo da dire a proposito del Territorio libero di Trieste: le elezioni di Trieste. Le elezioni di Trieste, come ricordate, vennero celebrate col significato di un plebiscito politico, e in quella occasione, avendo ottenuto il permesso degli Alleati, io, come rappresentante del governo italiano e parlando come tale, dichiarai che non si trattava semplicemente di un plebiscito che riguardava Trieste, ma che si trattava di riaffermare la propria solidarietà di destino con tutto il territorio. Ricordo bene che questa dichiarazione, che venne accolta con grandi applausi, la potei fare perché contemporaneamente una simile dichiarazione era stata pronunciata anche dai militari alleati. Il discorso milanese di Sforza fu un discorso moderato, un discorso conciliativo, e tale doveva essere, non soltanto secondo i propositi del governo, ma anche come mossa tattica alla vigilia di una manifestazione che si tentava di invocare per decisioni che sarebbero state o irrevocabili o pericolosissime. Il passo delle tre Potenze parve all’opinione pubblica non abbastanza energico, tuttavia, senza dubbio, contribuì a impedire che dalle elezioni si tirassero conseguenze che i più esagerati dell’altra parte credevano di poter ritrarre. Comunque, nonostante i commenti di certi giornali, ci tengo a dichiarare per la verità, non per atteggiamento polemico o diversivo, che mi sono convinto dalla documentazione che ho esaminato, e dalle risposte che abbiamo avuto, che nessuno dei tre governi, ed in modo particolare l’americano – cito questo perché le notizie dei giornali venivano dall’America – pensano ad attenuare o a revocare la dichiarazione che avevano fatto. Con ciò ho riassunto le singole fasi. Quando mi volgo indietro e mi domando: così facendo abbiamo sviluppato lo sforzo massimo che la nostra nazione in quel momento e in quelle fasi poteva sviluppare? Abbiamo forse preso un indirizzo – come mi si è rimproverato, mi pare dall’onorevole Labriola – pregiudiziale contro una delle parti, in modo che essa avesse diritto o, almeno, pretesto di negarci giustizia? Io dico di no. Tali affermazioni si possono fare soltanto se non si ricorda la storia e la cronistoria. Tutto quello che è avvenuto, fissando le diverse posizioni delle potenze in confronto dei nostri postulati circa Trieste, è avvenuto prima del nostro atteggiamento politico-elettorale del 1948: è avvenuto prima che si potesse dire che l’Italia era stata messa nella necessità di decidere fra l’occidente e l’oriente; è avvenuto in un momento in cui noi stessi, con tutte le forze, abbiamo cercato di mantenere quell’equilibrio che era necessario per permettere a qualunque parte di aderire oggettivamente al nostro postulato. Non polemizzo con l’onorevole Orlando circa le sue proposte, e su quello che si debba fare: un gesto! Egli evidentemente pensa ad un gesto efficace, ad un gesto che porti a delle conclusioni, ad un gesto attuale. Egli stesso ha escluso parecchie procedure; ha escluso l’appello all’ONU, ha escluso la denuncia del trattato. Ha ammesso però il reclamare da parte degli Alleati, ma poi ha detto tanto male dei singoli Alleati che decisamente la conclusione non poteva essere quella di rafforzare la posizione del reclamante. Egli ha detto: «fate un gesto». Ad un certo punto, con l’abilità oratoria che gli è propria, senza apparente connessione formale, ma con evidente connessione di pensiero ci ha detto: «de Gaulle andò a Mosca». Nessuna difficoltà ad andare anche a Mosca. La Malfa, ministro oggi nel governo, ci andò per il trattato commerciale e ci andò con direttive del nostro governo; ma vorrei sapere quale sia la possibilità di trattare e concludere per la questione di Trieste con uno Stato il quale si è sempre dimostrato avverso a concedere Trieste all’Italia. Si dirà: ma gli Alleati che cosa vi hanno dato? Gli Alleati almeno ci hanno offerto, prima, una dichiarazione di principio, un proposito… (Commenti da sinistra). Certo, nella storia, oggi o domani, vale anche la dichiarazione e la faremo valere. (Commenti). Di più, aggiungo che l’atteggiamento pratico degli Alleati fu tale che ci assicurò l’unione intima ed essenziale con Trieste sia pure nei limiti del trattato. E Trieste oggi è italiana ed è italiana perché si è avuta l’affermazione energica da parte di tre Potenze che essa era destinata all’Italia. (Applausi dal centro). La Russia si presenta anche oggi come custode dell’inviolabilità del trattato. Ebbene, onorevole Orlando, non c’è niente da fare; se quel trattato, che voi stesso avete definito iniquo, è inviolabile, evidentemente è difficile trovare una base di discussione. Ma dico di più: è difficile trovare una base di discussione con chi lo viola ripetutamente a nostro danno, il non concederci l’unica cosa favorevole che il trattato prevedeva per noi, cioè l’entrata nostra, dell’Italia, nell’ONU, è una violazione continua del trattato. (Vivi applausi dal centro – Commenti e rumori da sinistra). Mi permetterò di riassumere, a modo di conclusione, le mie affermazioni in un testo scritto. Le tre potenze hanno riconosciuto che la soluzione del problema giuliano con la costituzione del Territorio libero non è attuabile, non è realizzabile ed hanno proposto di rivedere il trattato per stabilire il ritorno del detto territorio alla sovranità italiana. Il governo italiano ha preso atto con soddisfazione di tale riconoscimento e per conto suo accetta la revisione del trattato non solo come un atto di riparazione e di giustizia internazionale, ma come una garanzia di pace e un ponte di collaborazione con la Jugoslavia. È manifesto che tale atteggiamento delle tre potenze occidentali ha contributo ad avvicinare sempre più gli italiani a quella politica di ferma difesa della pace e della democrazia, che ha poi trovato la sua più concreta espressione nel Patto atlantico, patto che non avrebbe senso se il principio di libertà e di democrazia che esso si impegna a difendere contro eventuali attacchi esterni, non ispirasse anche ogni valutazione di rapporti dentro le nazioni stesse. Le potenze alleate hanno dovuto affermare tale principio nel testo delle loro solenni dichiarazioni e l’Italia non ha avuto mai ragione di dubitare della loro lealtà che è stata anche recentemente confermata. Esse sanno del resto che la loro politica pacifica e costruttiva nei confronti della Jugoslavia trova nel nostro desiderio di buoni rapporti col nostro vicino d’oriente la più efficace cooperazione. La stessa risposta russa del 15 aprile 1948 più che respingere la sostanza della dichiarazione tripartita, dichiarava inaccettabile la procedura proposta per la revisione del trattato, richiamandosi alla circostanza formale che il trattato era divenuto tale non solamente per accordo intervenuto tra i quattro, ma per la deliberazione dei 21 e la ratifica degli altri Stati dell’ONU. Nell’ultima nota poi del 20 aprile 1950 la Russia si presenta ancora come custode della inviolabilità del trattato, e qui tralascio di rilevare che l’Unione Sovietica stessa ha violato ripetutamente il trattato impedendoci di entrare nell’ONU. Comunque, anche durante la preparazione del trattato e durante la conferenza della pace, il metodo più ovvio di risolvere definitivamente la questione apparve sempre l’accordo diretto tra i due Stati più interessati, accordo, infatti, che l’Italia ha spesse volte cercato. Nel frattempo però bisogna che nella zona B la situazione venga ristabilita. Il Ministero degli Esteri ha raccolto una larga documentazione degli arbitri e delle violenze subite dagli istriani in occasione delle elezioni, documentazione che viene trasmessa allo stesso governo di Belgrado ed alla cancelleria. Chiediamo giustizia e riparazione. Duecentoquarantasette persone sono affluite a Trieste dopo il 16 aprile e molte altre famiglie hanno chiesto di uscire dalla zona B. Occorre che il ritorno sia garantito; che si ridoni il senso di una sicurezza almeno relativa, che nessuno per il suo voto o la sua astensione patisca danno o oltraggio. Agli istriani che furono vittime di violenze il governo invia un saluto di ammirazione e di solidarietà. Il loro coraggio, il loro dolore impegnano tutto il nostro sforzo per reclamare sicurezza e libertà. (Vivi applausi dal centro). Non saremmo degni della nostra storia, né meritevoli della indipendenza nazionale conquistata dai nostri padri, né del regime costituzionale che ci siamo creati, se il loro grido di dolore non riecheggiasse nella nostra coscienza di italiani e di uomini liberi. (Vivi applausi). Ma non basta superare il doloroso episodio (vogliamo considerarlo così). Conviene che con il concorso di buona volontà e fino alla definitiva soluzione, la situazione della zona B sia quella che, per il suo carattere di occupazione fiduciaria ed in relazione allo stesso trattato, il diritto delle genti le assegna. Se per tale riguardo tutti gli Stati firmatari del trattato, sia individualmente che all’ONU, hanno diritto di insistere sulle norme che definiscono i poteri di tale amministrazione, le tre massime Potenze occidentali con la loro dichiarazione in favore del ritorno alla sovranità italiana del Territorio libero e con l’esplicita motivazione con la quale esse l’hanno proposto, sono impegnate più che mai ad interporre i loro amichevoli e pressanti uffici. È vero che dalla dichiarazione tripartita non deriva alcun obbligo di attuazione immediata, in quanto essa era espressamente condizionata al consenso della Russia, sicché non era realizzabile per la sola volontà delle tre Potenze. Ne deriva però la logica e necessaria conseguenza di impedire che il regime transitorio della potenza occupante annulli di fatto ogni possibilità prossima o futura di quella soluzione italiana che ci è solennemente riconosciuta giusta. (Applausi dal centro). Non si creda che noi facciamo questione di metri o di campanili: vi sono questioni che non si misurano con strumenti meccanici, come vi sono energie vitali e forze costruttive che non si possono calcolare con operazioni aritmetiche. Noi siamo associati al Patto atlantico, tendiamo all’unità europea e formiamo una cooperazione economica, potente contributo alla nostra rinascita. A questa solidarietà dei popoli liberi, a questa speranza di pace mondiale garantita dall’Europa unita, intendiamo dedicare fermamente e lealmente tutte le nostre energie ricostruttive ed universaliste. È difficile immaginare però che tali energie possano mobilitarsi ed impegnarsi tutte nella loro pienezza se la nazione si sentirà pungere ogni momento da una spina nel fianco. È dunque anche nell’interesse comune che chiediamo anche agli Alleati un efficace interessamento, non chiediamo nulla che turbi il lavoro costruttivo per la pace, né che attenti all’onore e all’interesse della Jugoslavia, né ingiurie, né serenate, onorevole Orlando, ma dignitosa ricerca di un modus vivendi e di una sistemazione pacifica. E se ci manca il ruggito del leone che, per vent’anni, sfidò il mondo intero fino a tirarselo tutto addosso… (vivi applausi dal centro), e provocare il più grande disastro che l’Italia ricordi, non mancarono né mancano ai governi democratici del dopoguerra l’energia della tenacia ricostruttiva e l’indomita fede nell’avvenite della nazione. Si ridesti pure lo spirito patriottico: noi non lo temiamo, anzi lo invochiamo, purché non sia semplicemente retorica sentimentale e purché tragga ammaestramento… (Vivissimi applausi dal centro e dalla destra). Molti di noi hanno temprato il loro animo a resistere per tanti anni alle seduzioni retoriche nazionaliste del fascismo; non ruggirono né belarono, ma quando venne il momento del rischio il nostro illustre presidente Bonomi, interprete del nucleo anti-fascista, propose senz’altro la guerra popolare contro la Germania. (Vivi, prolungati applausi all’indirizzo del presidente Bonomi, dal centro e dalla destra). La proposta sventuratamente non fu accettata, ma toccava poi più tardi al governo Bonomi di organizzare e sviluppare il Corpo di liberazione che, accanto ai partigiani, rappresentò il nostro contributo alla lotta per la libertà. La prudenza, la pazienza non escludono la fermezza e, quando occorra, la combattività. La democrazia non è imbelle, non è insensibile ai valori nazionali ma interprete delle ansie popolari, associa la cura della dignità nazionale che va difesa, alla preoccupazione della pace che va cercata ed assicurata con ogni sforzo nella disciplina del paese e nel quadro della solidarietà internazionale. (Vivissimi e prolungati applausi dal centro e dalla destra – Molte congratulazioni – I settori del centro e della destra sorgono in piedi ed applaudono lungamente al grido di: «viva Trieste»). |
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| 91946-1950
| Il rappresentante italiano deve essere anche politicamente concorde con la condotta del governo. […] La Presidenza tramite l’ufficio zone di confine segue direttamente la situazione. È probabile che se si apriranno le frontiere un numero cospicuo di italiani potrà convergere su Trieste. Ma noi dobbiamo andare cauti nell’accogliere questi elementi per non dare pretesti a Tito. Le elezioni sono state il motivo di inasprimento della situazione. Si voleva fare la contropartita delle elezioni di Trieste che sono state considerate come plebiscito di italianità. Attualmente il fatto grave è costituito dal blocco delle comunicazioni. Noi dobbiamo chiedere libertà in tutto il Territorio libero. Limitiamo a questo le nostre richieste senza aver fretta di risolvere il problema fondamentale. Per il resto si tratta di arbitrarie applicazioni delle leggi jugoslave ma certamente è un terreno giuridicamente complesso. Chiede se potremmo ricorrere all’ONU. Ma ciò costituirebbe una contraddizione con la nostra dichiarazione di accettare il governatore. È convinto che se non interveniva la dichiarazione tripartita non sarebbe stata salva nemmeno Trieste. Questo non lo possiamo dimenticare. Propone infine una bozza di comunicato stampa che è approvato nei seguenti termini: il ministro degli Esteri ha largamente riferito al Consiglio circa la impostazione generale delle idee alla Conferenza di Londra e circa la creazione di un Consiglio permanente di rappresentanti diretti dei ministri degli Esteri, essendo impossibile per questi di riunirsi tanto di frequente come sarebbe necessario. L’on. Sforza ha poi riferito sulle decisioni di carattere militare che si possono tutte definire con la seguente formula: garantire ovunque la pace e tener presente che ogni Stato alleato deve essere difeso nella sua integrità territoriale. Il ministro degli Esteri ha poi informato che si sta preparando uno stretto legame tra il Patto atlantico e le organizzazioni economiche esistenti, ed ha illustrato i vantaggi che da ciò potrà trarne l’economia italiana. L’on. Sforza ha comunicato anche ciò che si è discusso a Londra per due problemi che la Conferenza non ha incluso nei suoi lavori: emigrazione e Territorio libero di Trieste. Per l’emigrazione, soprattutto italiana e tedesca, si è ammesso il principio che si tratta di un problema mondiale e non già di problemi di stretto interesse italiano o tedesco, e si è espressa la volontà di agire di conseguenza. Circa il problema di Trieste e Territorio adiacente – problema che nessuno toccò prima dell’arrivo dell’on. Sforza a Londra – il ministro degli Esteri ha riferito sui suoi colloqui coi colleghi americano, britannico e francese; durante gli scambi di idee, il ministro chiarì la gravità della situazione nella zona B. Unanime fu l’augurio che la situazione finisca per permettere l’apertura di negoziati diretti fra Italia e Jugoslavia. Dopo la discussione cui hanno preso parte vari ministri, il Consiglio ha approvato l’azione svolta a Londra dal ministro degli Esteri e lo ha invitato a continuare fermamente perché sia garantita la sicurezza dei beni e delle persone e la libertà delle comunicazioni in tutto il Territorio libero, creando così la indispensabile premessa per una soluzione concordata e pacifica di tutto il problema economico e politico nell’Adriatico. |
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| 91946-1950
| L’onorevole Sforza ha risposto anche, in parte, alla interpellanza per tutto quel che riguarda, mi pare, spirito e mentalità armistiziale. Vorrei aggiungere qualcosa con riferimento alla situazione interna, per la parte pedagogica, direi. In realtà, io che ho preso parte, insieme con altri colleghi, alla conferenza della pace, sostengo, con documenti alla mano, che noi ci siamo difesi sempre con estrema dignità, e che, se ci fu necessario talvolta ammettere errori del regime passato, lo abbiamo sempre fatto con la salvaguardia più assoluta della dignità e della fierezza del popolo italiano. D’altro canto non si può – mi pare – superare lo «spirito armistiziale» seppellendo semplicemente il passato per non parlarne. Seppellire il passato nel senso della pacificazione, di non cercare tutti gli elementi di contrasto e di non farli rivivere per rendere possibile una collaborazione nazionale, una ricostituzione dell’unità morale del paese, questo è giusto, è doveroso per un governo; ma non parlare del passato o velare gli errori passati, questo è anche un metodo antipedagogico, un metodo pericolosissimo per la gioventù che viene su e che non conosce questo passato. E non è che debba ricordare semplicemente la parte negativa. Io riconosco che si debba anche esaltare tutto ciò che fu buona fede, che fu eroismo, che fu entusiasmo giovanile, ma dico che bisogna d’altra parte mettere in rilievo gli errori e le conseguenze di questi errori, la fatalità di una certa marcia che ci ha condotto alla distruzione dello Stato, che ci ha condotto al conflitto delle nazioni, fatalità che non è stata semplicemente degli italiani, ma europea, mondiale, nazista, fascista, che ha preso, ha dominato i popoli in un certo momento conducendoli ad aberrazioni. Per questo abbiamo il dovere, come governo, ma più ancora come società, come intellettuali, come uomini responsabili di cultura, di ricordare la storia e niente altro che la storia. Noi dobbiamo desiderare vivissimamente che i giudizi passionali, che per forza di cose sono intervenuti nell’immediato dopoguerra, oggi lentamente lascino il posto a un’ampia considerazione storico-obiettiva, il più possibile serena, lontana da passioni e dalla necessità di prendere partito. Questo è il nostro vivissimo desiderio, ma è anche – credo – il nostro interesse, l’interesse di tutte le parti rappresentate dai diversi settori, l’interesse di portare i giovani a meditare sopra gli errori che abbiamo commesso. Diciamo al plurale, «che abbiamo commesso», perché vogliamo comprenderli tutti, appunto perché si impari. Perché se riuscissimo o volessimo semplicemente seppellire il passato per non fare il processo al passato, per non trarne le conseguenze, ciò possiamo fare per quanto riguarda le responsabilità individuali (questo periodo sarà presto chiuso), ma non dinanzi ai compiti che ci impone la storia. Sarebbe grave delitto del governo se non avesse il coraggio di dire, di ripetere che gli errori che si son commessi sono dovuti non semplicemente agli uomini del passato, ma anche a teorie, a dottrine che si sono inoculate nelle vene del popolo italiano, in modo da renderlo così facile alla seduzione e alla suggestione. (Applausi a sinistra, al centro e a destra). Questo dovere lo abbiamo, e io dico onestamente: per parte mia non v’è considerazione elettorale che possa distaccarmi da questo senso morale della storia. Guai agli uomini e guai ai partiti che indulgessero (ne abbiamo avuta l’esperienza nel passato), a facili perdoni o a facili dimenticanze, e non sapessero imprimere nella coscienza popolare il senso della responsabilità. Su questo si fonda il progresso. Io ciò dico non in saio di penitente parlando a nome dell’Italia, ma per tutte le nazioni. Quello che è intollerabile è l’essere giudicati da nazioni le quali si trovano nelle stesse nostre condizioni, o peggio, e che, in ogni caso, non hanno avuto dalla storia questa legittimazione di giudicarci così severamente. Nella relatività di questa posizione gli animi non solo dei giovani, ma anche dei vecchi si risvegliano e protestano. Ma quando si tratta di considerazioni interne, fra noi, quando si tratta di pensare ai nostri figli, allora dobbiamo far sì che gli errori non si ripetano, dobbiamo far sì che non si dica che «la guerra non è perduta perché la guerra continua». No! No! La guerra non continua, la guerra è cessata e deve essere cessata. Un grande sforzo deve essere fatto, non per dimenticare gli ammaestramenti e gli ammonimenti che riguardano la preparazione e la necessità di difesa, ma soprattutto nello smorzare nei giovani qualunque istinto a credere che la guerra possa salvare qualche cosa, che essa sia una fatalità. (Applausi al centro e a destra). Siamo convinti (l’esperienza insegna) che se la guerra provoca un rivolgimento momentaneo, magari anche di decenni, in realtà essa non risolve i problemi tra le singole nazioni. Ecco il fondo morale della nostra posizione di fronte alla Jugoslavia! Non ci si accusi di debolezza, di viltà, di mancanza di fierezza; io non ho mai sentito tanto la fierezza di questa posizione pacifica come giorni fa a Udine , in mezzo a una grande raccolta di gente, gran parte della quale era formata da partigiani, da coloro che avevano sofferto, dato i loro figli alla patria, da uomini che avevano combattuto in trincea, durante la guerra, anche contro gli jugoslavi. Non ho mai sentito come questa tesi di pacificazione, questa buona volontà di ritrovarsi fra i popoli fosse così conciliabile con tutto quel che questi uomini avevano sofferto e con lo spirito di fierezza di un popolo. Proprio in questa occasione mi dicevano: qui vi sono partigiani, al di là vi sono partigiani: lasciamo che ciascun popolo si governi come meglio crede, ma procuriamoci almeno la possibilità di una convivenza civile; ricordiamoci che siamo uomini; la via della pacificazione sarà difficile, ma bisogna raggiungerla; questa è l’unica strada, non ve ne è un’altra. La guerra potrebbe forse portare a rapide conquiste, non alla soluzione di questi problemi. Ora, una soluzione attraverso l’eroismo e lo spirito di sacrificio può attrarre i giovani, è vero: è un fatto psicologico naturale del quale possiamo avere piena considerazione; ma il nostro dovere di uomini, di gente invecchiata in mezzo alle guerre, è quello di inculcare l’amore della pace: non indifesa, non stagnante, ma della pace attiva, ricostruttiva. Questo mi pare sia il compito di una maggioranza, il compito di tutti i partiti. Mi auguro che anche il futuro partito dei malcontenti e il futuro partito dei delusi non debbano fondersi sopra richiami del passato, ma sulla visione ricostruttiva dell’Europa. E in questa conclusione siamo pienamente d’accordo con l’onorevole Giannini anche se le precedenti sue considerazioni possono essere discutibili. D’altro canto bisogna pensare che questa mentalità, direi, antiarmistiziale conduce fatalmente al pensiero della guerra. Abituiamoci invece a non pensare soltanto alla nostra nazione, alla nostra gioventù, alla nostra preparazione, ma a riflettere che siamo una parte dell’Europa, che siamo una parte del mondo e che gli stessi argomenti della fierezza, della dignità, della guerra si coltivano altrove, e disgraziatamente si coltivano micidialmente contro di noi. Mi veniva in mente questo, leggendo una relazione abbastanza recente, relazione nella quale appare cosa si pensi di Sforza all’estero. Sforza in questo momento non è una persona: rappresenta una politica, rappresenta l’antagonista nella polemica italo-jugoslava. Qui da noi il nome di Sforza una volta è passato sotto il titolo di rinunciatario, di uomo debole, di uomo che vuole la pace a qualunque costo. Ecco che cosa scrive la stampa jugoslava del nostro ministro degli Esteri, riferendo e riassumendo tutta la sua attività e, direi, tutta la sua attività letteraria, nonché riesaminando i fatti di Rapallo e tutta l’azione allora svolta. Leggendo questo articolo dell’organo del fronte popolare croato, trovate conclusioni come queste: «È vero, Sforza ha combattuto Mussolini, però, in fondo, tutti e due vogliono la stessa cosa: italianizzare, cioè, gli slavi. Mussolini lo faceva con la violenza, con la guerra: Sforza, in fondo, che cosa consiglia? Il metodo pacifico, machiavellico per giungere allo stesso scopo: quindi, uomo molto più pericoloso di chi è stato uomo della violenza». Ed il giornale continua dicendo: «non crediate che ci lasceremo illudere, che torneremo all’uomo di Rapallo. Non crediamo che questo uomo pensi anche agli interessi jugoslavi e cioè che la sua azione sia ispirata soprattutto ad un pensiero di conciliazione. Tenendo presente l’affermazione di Sforza secondo la quale la zona B è italianissima, ci si potrebbe attendere che egli chieda a noi di regalargli amichevolmente quella zona e forse anche qualche altra parte dell’Istria, perché si sa che il suo appetito aumenta sempre in quanto, come dicono gli italiani, l’appetito viene mangiando». Quando poi si arriva alla definizione del pensiero jugoslavo, allora si ricade proprio apertamente nel ragionamento bellico. Leggendo questo giornale mi pare che la situazione non sia affatto cambiata da quella che esponeva Kardelj di fronte a noi nelle trattative a Londra e a Parigi. Le stesse conclusioni: abbiamo fatto la guerra, abbiamo vinto noi, l’Italia è vinta, quindi non ha diritto di parlare! «Non è la Jugoslavia, ma l’Italia che è stata sconfitta in questa guerra della quale pure essa porta una gran parte di responsabilità. È stata l’Italia quella che ha fatto tanto male agli jugoslavi con il trattato di Rapallo, con i saccheggi, con il comportamento inumano durante la seconda guerra mondiale, con l’occupazione di enormi territori, con incendi e uccisioni che la storia non dimentica. Infine, a Roma non dovrebbero dimenticare che l’armata jugoslava ha liberato la Venezia Giulia. Inoltre, la Jugoslavia ha accettato il trattato di pace che l’ha mutilata soltanto per contribuire in qualche modo all’organizzazione della pace post-bellica e suoi territori sono rimasti oltre i confini con l’Italia e non territori italiani entro i confini della Jugoslavia». E la conclusione (anche le parole sono uguali): «alla fine si dovrà giungere a un accordo tra la Jugoslavia e l’Italia; e vi si giungerà, quando anche Roma si sforzerà di creare le condizioni favorevoli, quando comprenderà finalmente la realtà e quando rinunzierà ai metodi di generosi diktat di amicizia dell’antiquato Sforza». Ora, bisognerà che ci consigliamo a vicenda, reciprocamente, in questa bilateralità e universalità delle nostre considerazioni, non possiamo citare solamente i sentimenti nostri; vi sono reazioni internazionali. Quando parliamo di politica estera, quando parliamo di spirito pacifico o bellico, converrà che lo consideriamo in tutta Europa: perché non vi sarà una guerra italo-jugoslava: se scoppiasse, essa sarebbe universale. A noi preme, soprattutto, che quello spirito pacifico, che deve rinascere nella nostra gioventù, sia spirito ricostruttivo della pace generale, e perciò spirito europeo, soprattutto di ricostruzione europea. A noi interessa moltissimo che lo stesso pericolo, che abbiamo noi, che nella gioventù si riformi lo spirito guerriero, non si manifesti sempre più crudo, perché così avviene in Germania, in Francia, in Inghilterra, altrove. A noi interessa che lo stesso spirito, non costituisca la ragione, la scintilla del conflitto mondiale. Ecco perché queste conversazioni che facciamo tra noi, e queste considerazioni non riguardano semplicemente una pedagogia nazionale, ma riguardano un problema generale. Bisogna che leviamo lo sguardo e che dall’esperienza passata capiamo e vediamo questa universalità dei problemi e questa connessione fatale fra l’uno e l’altro, e diciamo alla nostra gioventù: considerate i problemi non soltanto dal punto di vista delle nostre esigenze morali e delle nostre legittime rivendicazioni di orgoglio nazionale, ma in tutto il loro complesso. Vogliamo veramente tornare al periodo della fatalità della guerra, che portò alla soluzione che conosciamo? Crediamo in questo? Se non vi credete – e non potete credervi, perché la storia, che dovete studiare ed esaminare, ce lo insegna – allora non vi è che l’altra soluzione: la volontà pacifica; volontà che deve essere, senza dubbio, in connessione perfetta con un senso di fierezza e di dignità nazionale, ma che deve prepararci a ogni sacrificio: tutto deve essere dato da noi come esempio, prima di essere invocato dagli altri. Così si creano i presupposti per la pace, altrimenti, il pericolo è imminente. E allora io dico ai miei amici ed a tutti gli altri: questo ideale, che è così grande, è così essenziale per la vita d’Italia e per tutta l’Europa e l’umanità – soprattutto per l’Italia è cosa essenziale, per questo popolo il quale non ha sufficienti elementi di vita entro i propri confini e deve contare sopra la collaborazione del mondo – è così essenziale, che merita bene di avere il coraggio di affrontare spiriti e masse elettorali, non ancora educate ed elevate. È qui che, senza dubbio, la classe dirigente, la classe politica ha un dovere assoluto: assumere un atteggiamento morale, che deve guardare, più che agli effetti immediati, al destino della nazione e alla fatalità degli eventi. (Applausi a sinistra, al centro e a destra). La mia parola è poco suggestiva, ma ho una convinzione profonda, venuta dall’esperienza e dalla vita: dobbiamo considerare il dopoguerra come una malattia e dobbiamo superarlo questo dopoguerra; superarlo per i riflessi del passato, per le inimicizie, per le ostilità e per le ingiustizie che esso ha lasciato: ma superarlo, soprattutto, nel nostro spirito, nel senso di guarire, guarire noi e guarire la nostra gioventù. Altrimenti, si tratta di una malattia che ci corrode; occorre superarla, nel senso che vogliamo costruire la pace e, volendolo, dobbiamo condurre ad essa e verso di essa soprattutto lo spirito. Ha ragione l’onorevole Giannini! Il governo fa poco per questa opera di stampa, di pubblicazione, di educazione. È verissimo! Nessuno più di me sente che facciamo poco, ed è per me un’angoscia perché sento la responsabilità verso le generazioni di domani. Ma ditemi voi, con il meccanismo che abbiamo creato (perché era quello che ci si presentava secondo le tradizioni o le forme che avevamo disponibili), ditemi voi, con quei problemi che ci sono capitati addosso, e non soltanto quelli relativi alla ricostruzione interna ma quelli connessi ai problemi dell’economia internazionale, che cosa si poteva fare? I ministri stanno oggi qui, domani a Parigi, a Londra; essi non possono fermarsi, e questi contatti sono utili, necessari. Ho citato il nostro meccanismo parlamentare e democratico, perché tutti i problemi amministrativi sono legati a una legittima e giusta responsabilità, e tutte le attività del giorno prima sono legate a questo metodo. Il fatto stesso che voi siate assorbiti da questa attività legislativa lo dimostra e spiega che non vi è gran dovizia di uomini, e che alla gioventù manca quella scuola, quell’educazione, quella esperienza storica che, se vi fosse modo, si dovrebbe portare ad essa. Sono problemi ai quali accenno – e sono molto lontani da quella che può essere l’urgenza dell’ora – non per giustificare, ma per dire che il governo dovrebbe fare di più e dovrebbe istituire un ufficio, un ministero di propaganda nonché avere pubblicazioni proprie. Ma la democrazia si fonda su questo: che ogni singolo partito, ogni singolo movimento possa liberamente svolgere la propria attività, ed i partiti ed i movimenti stessi assumersi questa responsabilità, cosicché, se devo accettare un rimprovero, devo rispondere con questa espressione: che il governo farà tutto il possibile per illuminare la situazione e per giovarsi dell’esperienza passata, ma fa appello soprattutto alla solidarietà di coloro che sentono la missione di scrittori, di storici, di giornalisti per questo compito. Non si può negare che molte pubblicazioni che sono venute fuori in questi ultimi tempi hanno rivendicato le passioni della gioventù, la passione della suggestione nazionale; hanno creato, cercato di ricreare dei miti i quali non avevano ragion d’essere. Come io sono contrario alle parole di odio, alle parole di risentimento, e a un criterio troppo assoluto nel giudicare le responsabilità passate, così si deve essere contrari ai tentativi di ricostituzione dei miti, che sono così dannosi, così fatali all’educazione della nostra gioventù. E qui il mio appello va proprio agli uomini della stampa, alla loro responsabilità: che rinuncino alle 10 mila copie in più o in meno, pensando che chi legge deve avere davanti soprattutto la storia e la realtà: speriamo che l’appello rivolto a questi uomini che sanno la storia faccia sì ch’essi assumano questa missione così necessaria per l’Italia. Badate, le parole che io dico vengono dal cuore, non sono preparate, non rappresentano un programma di governo… Abbiamo questo senso di responsabilità verso l’esperienza del passato, perché dobbiamo averlo verso l’avvenire d’Italia. (Applausi al centro e a destra). In genere avviene questo: i discorsi che vengono qui, e sono materassati di cifre, di fatti, trovano molta distrazione e molta indifferenza, passano stampati e non formano oggetto di considerazione e di studio. Così si ripetono – qualcuno potrebbe fare questo calcolo – inutilmente quasi ogni mese le stesse cose e le stesse obiezioni. Sulla nostra situazione economica, sui nostri metodi di affrontare i problemi economici si è discusso tanto, e tutti cercano la formula (la cerca anche l’onorevole Giannini). In genere, le formule più semplici sono quelle tendenti a trovare l’alternativa di ridurre tutto a due poli. Ora questo mi pare non esatto, oltre che non accettabile. Io non credo che esista un polo che si chiami liberalismo, e quindi liberalismo assoluto, e che all’altro polo esista il comunismo, il sistema statalista-comunista, come lo ha definito l’onorevole Giannini. Vi sono enormi differenze fra un intervento statale anche eccessivo e il comunismo come tale, come vi è una enorme differenza fra un controllo anche spinto e la socializzazione. In ogni caso non è prudente riferirsi all’alternativa liberismo o totalitarismo. In tutta l’Europa occidentale, nei paesi cioè che hanno sistema parlamentare, esiste oggi qualcosa di intermedio, intermedio a diversa gradazione, se volete, a diversa misura di intervento, a diversa misura di libertà economica. Ora qui molte volte abbiamo insistito su questo nostro programma. E badate che non è un programma che derivi dalla dottrina: la dottrina può venire a confermarlo, ma è un programma questo che nasce dalla vita. In Europa noi abbiamo due esempi caratteristici: da una parte l’esperimento laburista, dall’altro l’esperimento, in genere, italiano (dico italiano, ma non è solo italiano). L’esperimento laburista vi dice che vi è un estremo sforzo di controllo e di disciplina nazionale per condurre a questi risultati pianificati, a quei risultati programmatici che rappresentano una tendenza ben nota e consapevole. Questo sistema economico è tenuto in piedi contemporaneamente, mescolato e quasi garantito dal sistema parlamentare tradizionale inglese fondato sopra la libertà della democrazia. Il quesito che è ancora aperto è, nella sua evoluzione, nel vedere se questo sistema, spinto innanzi alle sue ultime conseguenze, trovi veramente una misura di conciliazione fra questi due circoli concentrici, di cui il centro dell’uno è la libertà e il centro dell’altro è la giustizia sociale. È da sperarsi che l’esperimento conduca a questa conciliazione dei due centri e alla loro unificazione, ma l’esperimento è ancora in corso. Il metodo che seguiamo noi è un metodo che è corrispondente senza dubbio alla vita politica italiana, alle esigenze e al temperamento italiano. Non bisogna dimenticare che il regolamentare i consumi, il limitare i consumi, eccetera, porta a ritornare al blocco e alla regolamentazione delle leggi di guerra. Vi domando se vi sarebbe stato mai un governo di sinistra o di destra o comunista, eccetera, che avesse potuto introdurre – dopo che tutta la guerra di liberazione era stata fatta in nome della libertà economica, eccetera – un sistema consimile anche da noi. Abbiamo penato, quando si trattava dei grammi di pane, ma più in là non siamo potuti andare, e appena appena è stato possibile: abbiamo fatto un tentativo di ritornare verso la maggiore libertà possibile, e l’abbiamo fatto. E anche nella nostra vita economica seguiamo questo criterio: riconoscere che specialmente nel periodo ricostruttivo l’iniziativa privata ha una importanza prevalente, e cercare quindi di svilupparla, di integrarla dove è necessario, di rettificarla dove non agisce secondo l’interesse pubblico, dove vi è la tendenza egoistica di talune classi dirigenti, industriali, produttive, eccetera; dare una legislazione che intervenga correggendo la rendita e la proprietà. Ecco il nostro concetto di riforma, che è ancora da svilupparsi per quanto riguarda la terza fase. Cioè si hanno ancora da affrontare sul serio i problemi della distribuzione, specialmente della proprietà, della ricchezza, eccetera: una prima prova è la riforma agraria, la quale trova nel suo complesso tecnico molte aderenze ed opposizioni; e non è da meravigliarsi, perché si tratta veramente di un tecnicismo molto complicato e che ha, come tutte le situazioni economiche in genere, un aspetto poliedrico, dei vantaggi evidenti, mentre talvolta si possono temere anche dei danni. A questo riguardo l’onorevole Pella ha fatto una relazione (che è stata stampata), una lunghissima relazione, esplicata in tutte le sue procedure, che vi dà la soluzione, secondo noi, della realtà positiva la quale ci conduce verso una giustizia sociale autentica, sia pure più lentamente di quanto potrebbe fare una evoluzione economica in cui questi cambiamenti avvengono secondo un piano ordinato e impresso da autorità politiche. Quella che mi pare di non dover accettare è la eccessiva euforia dell’onorevole Giannini, quando dice che bisogna imprimere al motore economico un ritmo più allegro: è troppo presto per stare allegri in questa materia! Non si possono aumentare gli investimenti senza una misura molto riguardosa a quello che può essere il valore della moneta: e così per quanto concerne il fatto di sollecitare l’aumento dei consumi a qualunque costo. Non si possono trovare senz’altro delle soluzioni immediate in un paese come l’Italia, dove lo sviluppo industriale non porta al New Deal come in America, ma il ritmo è diverso. Anzitutto il governo deve affrontare il problema degli investimenti; ha preparato un piano decennale che sarà il banco di prova della nostra attività e anche della nostra capacità statale e organizzativa. Quindi, investimenti, sì: ma occorre ricordare anche i prezzi; altrimenti la moneta perde la sua forza di acquisto. E soprattutto occorre ricordare che non bisogna distruggere totalmente il ceto medio: è un problema che ancora esiste in Italia e non so se esisterà sempre. Questo è passatismo? Io so che si tratta di un problema presente e che non bisogna perderlo di vista; noi, nella nostra politica, non lo perdiamo assolutamente di mira. Concludendo, se in questo discorso vi sono state idee che si possono considerare come elementi di discussione, come elementi di suggestione, io non mi sentirei di dire che si debba cambiare totalmente politica, o che si debba accettare il metodo del motore allegro. Io ho un’enorme paura che questo motore ci possa condurre, all’impazzata, in un precipizio. E questa responsabilità, probabilmente, la sentirebbe anche l’onorevole Giannini, se fosse a questo posto: ha diritto di sentirla solo in parte o di non sentirla affatto stando a discorrere da un altro banco. Ecco che io concludo per quel tantino che potevo concludere: io credo che né l’onorevole Giannini né la Camera sarebbero disposti ad accettare in pieno una discussione programmatica su tutti questi problemi che furono oggetto di altre considerazioni. Però avviene questo (non so se ciò avviene in tutti i Parlamenti): che nel nostro Parlamento, quando si discutono i bilanci – il che vuol dire sistematicamente tutta la politica amministrativa ed economica di un settore – l’interesse dimostrato dalla Camera è molto esiguo. Giannini. A volte non è presente nemmeno il ministro! De GasPeri. Talvolta può accadere anche questo. Ma, se ciò accade, io credo che bisognerà rivedere il nostro metodo di lavoro. Sono due mesi che ci troviamo in queste condizioni. E la discussione dei bilanci dovrebbe essere la sede dove l’opposizione ingaggia la sua battaglia col governo e la maggioranza l’affronta per sostenerlo: dovrebbe essere il momento in cui l’attività parlamentare può veramente essere collaborazione anche fra opposizione e maggioranza. In quella sede sono gli argomenti positivi che si potrebbero addurre. Quando vi è, per esempio, la discussione sul bilancio del tesoro, è lì che dovrebbe avvenire la grande battaglia circa l’indirizzo del tesoro. Allora io credo che si incomincerebbe a sedurre anche il pubblico. Non dico questo per farlo partecipare alle nostre sedute ma perché ciò sarebbe utile, forse, per l’educazione del nostro popolo, perché esso stesso faccia quello sforzo, che viene richiesto ai deputati, di approfondire, di guardare a fondo nei problemi di carattere economico e nella responsabilità economica. Auguriamoci che tutto questo ci insegni a manovrare una attività parlamentare ben diversa da quella che oggi, per una certa fatalità, dobbiamo subire. Qui io mi guardo bene dal fare il minimo rimprovero ai colleghi o dal voler difendere o sottrarre me, o noi stessi, o la Presidenza della Camera a questa corresponsabilità con coloro che lavorano e si affaticano nelle Commissioni. Però, diciamolo, è un interesse di tutti, delle istituzioni parlamentari e democratiche e, soprattutto, del popolo italiano, che impariamo ad essere studiosi del problema economico nella sua completezza, e soprattutto studiosi di quel che può condurre a responsabilità e a direttive. Non interrogazioni passeggere, non risposte saltuarie, sul genere di quella che ho potuto dare io oggi su questo tema particolare, ma discussione e voto sui problemi a seconda del settore di responsabilità. (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra). |
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| Onorevoli colleghi, questo dibattito ha avuto anche parecchi riferimenti alla politica interna – non parlo, naturalmente, della politica interna della Corea del nord – ma mi pare, veramente, che tutto ciò che è stato detto abbia, per lo meno, reso problematiche le accuse che sono venute dall’estrema sinistra. Comunque, io qui avrei tanto materiale da controbattere al materiale presentato dall’onorevole Togliatti, per dimostrare come anche nella Corea del nord vi siano state rappresaglie, fatti orribili, e soprattutto l’imprigionamento e la morte di missionari e, oltre che di missionari, di gente coreana. Rinuncio a questa gara, direi, di orrori da una parte e dall’altra, perché la questione non è questa. Come ha detto il ministro degli Esteri, e come ha detto stamani in un discorso assai importante – che non ha avuto disgraziatamente un numeroso uditorio – l’onorevole Cappi, per noi il problema è quello della pace, della procedura da seguirsi prima della guerra; e quindi il problema coreano ha un carattere soprattutto internazionale. I riferimenti alla politica interna riguardano però l’Italia, riguardano il nostro paese, ed io ho il dovere di parlare chiaro su questo argomento, e direi distaccato da quella che può essere la situazione contingente. Ed ecco come ho visto il problema in discorsi già tenuti fuori, e come devo vedere dinanzi alla responsabilità del Parlamento il problema della quinta colonna. Quinta colonna è il problema dei pericoli sul fronte interno; d’accordo con l’onorevole Cappi, metto in prima linea il disfattismo individuale del grasso borghese che mette in salvo le sue riserve e medita la fuga, (approvazioni al centro e a destra), e metto in prima linea anche il pavido e pusillanime uomo mediocre che tenta di salvarsi, garantendosi un alibi con le transazioni, con il doppio giuoco e con la tessera di contro assicurazione. (Applausi al centro e a destra). Ma qui siamo nel campo del costume individuale e personale: più che la legge, più che il governo, qui può la reazione morale dei bravi cittadini che, con senso di libertà e di fierezza nazionale, risveglino le coscienze, denunciando all’opinione pubblica le debolezze e creino un’atmosfera di solidarietà refrattaria alla viltà e al tradimento! (Vivi applausi al centro e a destra). Lo Stato dovrà vigilare ed intervenire contro gli abusi e le infrazioni alle leggi; ma la sanzione morale più efficace sarà, in democrazia, la reazione dell’opinione pubblica. Vi è, però, una seconda quinta colonna, una colonna sistematica e organizzata che, in tempi di emergenza, tende ad esasperare la situazione interna introducendovi elementi di disgregazione. Badate bene, non intendo riferirmi ad elementi di critica al governo o a provvedimenti legislativi o esecutivi, non a lotte sindacali per legittimi interessi operai, molto meno ad agitazioni programmatiche o specifiche di ciascun partito, perché questa è la libertà, questo è il metodo democratico; bensì a quella preparazione insidiosa, psicologica e a quella formazione di una volontà collettiva superstatale che, per il caso del conflitto, nega il diritto e il dovere dello Stato democratico di esigere dai cittadini l’adempimento degli obblighi civili e militari, protestando che lo Stato non soddisfa le giuste esigenze sociali dei lavoratori. Un governo democratico deve contrastare tale preparazione psicologica, anzitutto con una saggia politica di riforme, con uno sforzo incessante verso la giustizia sociale. (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Lo stiamo facendo, e non pretendo da voi, (indica l’estrema sinistra), che ne riconosciate la misura; ma dovete riconoscere che lo sforzo c’è e che è in moto. (Interruzioni all’estrema sinistra). Ripeto: un governo democratico deve contrastare tale preparazione psicologica con una saggia politica di riforme, con uno sforzo incessante verso la giustizia sociale. E le forze del padronato e quelle delle classi dirigenti devono sentire l’obbligo di appoggiare tale sforzo, anche se costa sacrifici individuali, perché esso non può essere compiuto senza una più equa distribuzione della proprietà e del reddito. (Applausi al centro e a destra). Ma sarebbe grave illusione quella di credere che con provvedimenti di carattere sociale si ottenga la preservazione da attacchi al sistema politico: Stato e partiti devono anche insistere sulla obbligatorietà per tutti di accettare il principio democratico. toGliatti. La Costituzione! De GasPeri. La Costituzione! Onorevole Togliatti, da questo banco ho sempre chiesto niente altro che la Costituzione; però voi non potete condizionare all’uno o all’altro degli articoli della Costituzione la fedeltà fondamentale alla legge, base della Costituzione stessa. (Applausi al centro e a destra). La base, egregi colleghi, è questa: chi decide… Una voce all’estrema sinistra. È la polizia! De GasPeri. …chi decide non è la polizia, ma è la legge, l’autorità legittima, è il Parlamento. (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra). Questa è la base, e non dimenticate che proprio in quell’argomento che oggi ci ha interessato vi è di mezzo, come vi era nel passato, ai tempi della Duma, un Parlamento eletto che viene travolto dai carri armati. (Applausi al centro e a destra). La Repubblica – e vorrei che queste parole venissero incise fortemente nella mente degli avversari, e anche degli amici –la Repubblica italiana sarebbe perduta se, per obbedire alle sue leggi, fosse lecito aspettare che essa divenga o rossa, o bianca, o verde. Il tricolore vale per tutti! (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – I deputati di questi settori e i membri del governo si levano in piedi. Si grida: «viva l’Italia» – Rinnovati applausi). La democrazia italiana si fonda sulla libertà e sulla solidarietà. Essa ha il dovere di difendere l’una e l’altra, e i cittadini hanno l’obbligo di obbedire a questa legge fondamentale. Bisogna che l’opinione pubblica reagisca alle affermazioni contrarie e si serri attorno, non dico al governo, ma a chiunque difenda questo principio. Cosa vuol dire la lettera della gioventù comunista ne La Bandiera, giornale di Genova dell’8 luglio, lettera che si propone alla firma della gioventù comunista, ed è diretta al compagno Stalin? In essa si dice ad un certo momento, dopo ampie lodi al compagno Stalin per la prudenza con la quale impedisce un allargamento del conflitto: «ma, mentre vi inviamo questo ringraziamento, nello stesso tempo riaffermiamo che mai la gioventù italiana impugnerà le armi contro il popolo del paese del socialismo» . (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – I deputati di questo settore si levano in piedi – Vivissimi rumori a sinistra, al centro e a destra). Questa «lettera aperta» dell’8 luglio riguarda la presente situazione; e continua: «noi non combatteremo mai contro l’URSS ed i paesi a democrazia popolare». Ora, io vi lodo, giovani, se voi vi impegnate a non attaccare la Russia, a non attaccare qualsiasi Stato, soprattutto gli Stati socialisti; ma non posso accettare che voi diciate che in ogni caso, anche se si tratta di difendere l’Italia, voi non combatterete. (Vivi applausi al centro e a destra). Suppongo, onorevoli colleghi, che il generalissimo Stalin, capo dell’armata rossa, accetterà volentieri che gli si attribuisca il tranquillante pensiero di localizzare il conflitto (e, fin qui, se fosse bene accetta, potremmo aggiungere la nostra adesione); ma troverà strano che in Italia esista una gioventù che possa proporsi di non combattere quando il suo paese fosse attaccato da un altro Stato, vive proteste all’estrema sinistra); lo troverà strano, perché una tale gioventù, in Russia, con simili propositi, finirebbe in Siberia. (Applausi al centro e a destra). E che cosa vuoi dire, onorevole Pajetta, quando ella nell’ultimo numero del Quaderno dell’attivista del 1° luglio, scrive questo periodo? Ce lo spieghi, perché io non voglio interpretarlo: «se i comitati della pace hanno avuto fino ad oggi essenzialmente compiti di organizzazione e di propaganda, gli avvenimenti ci indicano come essi hanno, e via via avranno, sempre maggiori funzioni che potremmo chiamare esecutive» . (Commenti). GiaCChero . Forse allude alle esecuzioni che farebbero. (Rumori all’estrema sinistra). De GasPeri. Guardiamoci in faccia, onorevoli colleghi, perché niente deve essere nascosto e niente deve esser sottratto all’attenzione del popolo italiano. So che il rimedio principale contro la propaganda è la contropropaganda, il rimedio contro l’agitazione la controagitazione, che bisogna chiamare a raccolta forze morali soprattutto, e questa deve essere soprattutto la lotta nostra di governo, e di categoria non comunista. (Commenti all’estrema sinistra). L’efficacia della forza morale dovrebbe esserci ben presente: vedendo il popolo inglese sorgere unanime dopo il caso della Corea, vedendo il parlamento inglese, rappresentante del popolo inglese, pur così diviso per tutto quel che riguarda la politica interna e la politica sociale, sentire nel momento decisivo che per salvar la pace bisogna essere tutti uniti nella difesa della vecchia Inghilterra, dovete intendere che, se la sicurezza sociale è un grande cemento, la sicurezza esterna della patria è ancora un più forte cemento. (Interruzioni all’estrema sinistra). leone-MarChesano. In Inghilterra c’è la Monarchia! De GasPeri. È vero, onorevole collega: in Inghilterra c’è la Monarchia; ma sarebbe davvero disperare del buon senso del popolo italiano se proprio la forma repubblicana fosse quella che non desse consolidamento all’idea della patria e della sicurezza sociale. Io credo che, come è avvenuto in Inghilterra, così dobbiamo augurarci tutti che parimenti si senta anche in Italia. (Commenti – Interruzione dell’onorevole Leone-Marchesano). Onorevole Marchesano, parliamo del destino dei popoli, che è cosa ben più alta delle forme dei governi: dei popoli che sovranamente decidono della pace e della guerra. I governi passano, ma il problema della sicurezza dell’Italia prevale su tutti e su tutto. Io vorrei solamente fare questo appello alla forza reattiva e costruttiva: se la gioventù in genere sente questo comandamento di fierezza, perché non dovrebbero sentirlo anche i giovani che si batterono come partigiani? Essi hanno pure combattuto per l’Italia contro i tedeschi, hanno pure combattuto per un’Italia libera? (Applausi al centro e a destra – Proteste all’estrema sinistra). De GasPeri. Onorevoli colleghi, io mi rifiuto di credere che voi diate ragione a coloro che insinuano che avete combattuto per un’Italia dove trionfasse il vostro partito; no, voi avete pensato alla patria e alla libertà, lo riconosco. (Commenti). Io mi rifiuto, fino a prova contraria, di credere che l’appello pubblicato ne La Bandiera di Genova possa davvero esprimere 1’opinione della gioventù comunista o di gruppi notevoli della gioventù comunista. Io spero che questi giovani sentano che, quando noi difendiamo l’Italia, difendiamo un regime di libertà, una tradizione di gloria, un regime di democrazia, noi difendiamo un regime di libero sviluppo che potrà domani portare al socialismo e oltre, ma non con la guerra, bensì con la pace e con lo sviluppo civile. (Vivi applausi al centro e a destra). Forse questo fatto coreano, che avrà tante tristi conseguenze per coloro che sono direttamente colpiti, potrà essere per noi solo un segnale di allarme che, voglio augurarmi presto, verrà superato dall’unanime desiderio di pace, ma sarà valso a richiamare tutti alla realtà di una solidarietà nazionale che non può essere compromessa. Ho però l’obbligo, come capo del governo, di aggiungere che, se mai per dannata ipotesi questa solidarietà nazionale venisse davvero compromessa da qualche sciagurato, non lo sarebbe impunemente, perché la legge fondamentale su cui si regge lo Stato deve essere energicamente difesa, altrimenti crollerebbero e la pace e la sicurezza, e Caino tornerebbe ad infierire! (Vivissimi applausi al centro e a destra). Onorevoli colleghi, questi momenti sono gravi, e tutti dobbiamo fare un esame di coscienza… Una voce all’estrema sinistra. Lo abbiamo fatto. De GasPeri. Non lo si fa mai abbastanza. Dobbiamo, dicevo, fare un esame di coscienza e riflettere su quello che è l’oggi e su quello che sarà il domani, affinché sia possibile che il segnale di allarme non abbia conseguenze, proprio per l’unità del popolo italiano. Comunque, se vi fosse congiura contro questa unità, vi dichiaro che il governo, a qualunque costo, a qualunque spesa o sacrificio, avrà la forza di impedire che l’unità del popolo italiano si rompa. (Applausi al centro e a destra). Ed ora rispondo agli interventi degli onorevoli Russo Perez ed Almirante . Rettifico, anzitutto, alcune cifre. Il ministro guardasigilli mi ha informato che, su un totale di detenuti per collaborazionismo, imputati e condannati, di 11.378 alla data del 28 febbraio 1946, furono oggetto di amnistia e di indulto, dal 1946 al 1948, 10.174 persone, delle quali 8.186 scarcerate immediatamente. I detenuti per collaborazionismo sono oggi 982, e i latitanti sono 563. Questa è la realtà e la proporzione delle cifre. Un centinaio erano stati condannati a morte, ma le loro pene sono state ridotte, in seguito all’abolizione della pena di morte e all’indulto, a 19 anni. Le pene degli altri non superano in media, in forza della condanna, i nove anni di reclusione. Una voce all’estrema sinistra. Ci faccia il conto dei partigiani. De GasPeri. Parte sono stati condannati per strage e saccheggi, o per omicidi. I casi sono molto diversi cosicché una disposizione generale creerebbe nuove ingiustizie. Occorre distinguere caso per caso, il che è consentito solo in sede di grazia o di libertà condizionata, E ciò che il ministro guardasigilli si propone di promuovere dopo avere riferito al Consiglio dei ministri su alcuni criteri direttivi da seguire. Bisogna riconoscere però che l’atteggiamento di alcuni gruppi di ex fascisti o di neo fascisti rallenta ogni disposizione a ulteriore indulgenza. La Repubblica democratica può essere indulgente, ma non ammette che si torni ad esaltare il metodo della violenza e che si pratichi e si riaccenda l’odio che condusse fatalmente alla guerra civile e alla perdita della libertà. (Applausi al centro e a destra). Recentemente i senatori Cadorna e Parri hanno espresso il voto in Senato, in un loro ordine del giorno, che si provveda all’assistenza delle vittime della guerra, anche dall’altra parte . Il governo democratico nazionale ha comprensione per tale voto e sta esaminando la possibilità ed i termini di tali provvedimenti che corrispondono ad un sentimento più umanitario, nello sforzo di cancellare ed attenuare, nella misura del possibile e del giusto, le conseguenze della guerra fratricida. Onorevoli colleghi, voi non ascoltate il presidente del Consiglio: in questo momento mi pare di essere interprete della voce della madre comune che ci richiama la voce dei nostri morti, l’appello di quanti operarono per l’Italia e ci tramandarono un patrimonio di fedeltà, di civiltà e di gloria. Noi siamo una generazione disgraziata: due guerre e la seconda resa più straziante da una lacerazione interna; lo sforzo immane di due ricostruzioni e l’ansia angosciosa di mesi e di anni per ridare al nostro popolo fecondo la possibilità di vivere in un regime di relativa giustizia sociale e riconquistarsi, talvolta contro il malvolere e la faziosità, il diritto di muoversi nel mondo e di vivere fraternamente, con onore e dignità. Noi vorremmo lasciare ai giovani che ci seguono il frutto acerbo di questa molteplice esperienza. È vero: non c’è patria senza giustizia verso il popolo che lavora; è vero, non c’è democrazia senza libertà. Ma patria e libertà sono perdute se non sono vivificate e presidiate dal senso unitario della disciplina nazionale e dal sentimento profondo della nostra civiltà che, nel lavoro di secoli, ha creato l’Italia e plasmato gli italiani, sì che per noi, epigoni di una storia gloriosa ed eredi di una grande missione, operare da italiani è un onore, e il non farlo è una diserzione. (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – I deputati del centro e della destra si levano in piedi – Nuovi reiterati applausi). |
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| Vorrei associarmi alle parole di ringraziamento e di soddisfazione per i lavori del Senato, ricordando che, sei mesi fa, il governo che presiedo aveva preso come base fondamentale del proprio programma i provvedimenti per il Mezzogiorno, non in modo esclusivo, ma come obiettivo principale, e precisamente due provvedimenti di importanza notevole, l’uno che riguarda il piano decennale, l’altro la riforma strutturale della proprietà e la riforma agraria. È spiacevole che il Senato non abbia potuto compiere in questo periodo anche questo secondo sforzo, ma debbo riconoscere che veramente era al di là delle forze che ciascuno di noi può richiedere a se stesso. Debbo riconoscere che negli ultimi tempi le due Camere hanno fatto veramente una concentrazione di lavoro, ma, d’altra parte, non si è lavorato troppo in fretta. Questa legge è stata presentata quattro mesi e mezzo fa: se la nostra Costituzione è organizzata in modo che in un periodo di quattro mesi e mezzo non si può approvare una legge di così grande urgenza vuol dire che l’errore non sta nella nostra volontà. L’organismo dovrà adattarsi a quello che si è fatto, più o meno, questa volta, chissà che non sia l’uovo di Colombo, e cioè che le Camere trovino il modo di concentrarsi l’una su un disegno di legge, in modo che l’altra lo esamini con minore tempo e viceversa. Se si può trovare nella pratica questo compromesso, forse non dovremo fare cambiamenti e da questa pratica potrà uscire una maggiore rapidità. Vorrei assicurare i colleghi del Mezzogiorno, che hanno espresso dubbi all’ultimo momento, che non ci è mai passato per la testa che il disegno di legge testé approvato sia la panacea di tutti i mali, come si proponeva Camillo Benso di Cavour , di cui ci ha parlato il senatore Porzio. Esso riguarda soltanto alcuni settori. Quando l’altro giorno mi sono trovato davanti al problema di Matera, mi sono accorto subito che tutto il Mezzogiorno è connesso e che il costruire case ove mancano non risolve affatto il problema, ma è certo che una connessione diretta con il processo di trasformazione della terra e con la possibilità del lavoro è talmente forte che senza risolvere l’uno non si risolve l’altro. Noi, prendendo delle decisioni, abbiamo detto che non ci accontentiamo del progresso che facciamo nell’edilizia, che sarà forse continuato, ma vediamo il problema congiuntamente con tutti gli altri e lo vogliamo affermare subito. Ci vorranno dei mesi e del tempo: però quello che manca e mi pare sia sempre mancato nei provvedimenti pel Mezzogiorno è soprattutto la tenacia della volontà, la continuità e la costanza. Con tutti i difetti tecnici che può avere la Cassa – termine questo che non piace neanche a me – con tutte le critiche che si possono fare all’organismo, è certo che rappresenta un impegno di continuità di fronte al quale non c’è governo nuovo che venga e che possa dire me ne infischio. Esiste qualche cosa; abbiamo detto dieci anni e potranno essere di più. È qualcosa di nuovo e spero che almeno sia così, perché dipende in buona parte dalla collaborazione degli amici del Mezzogiorno. Spero che gli amici del Mezzogiorno se ne renderanno conto man mano che vi sarà l’attuazione. E con ciò non voglio dire che non esistano esigenze portuali o per l’industria. In questi ultimi tempi il Parlamento ha votato 65 miliardi per l’intervento anche industriale nel Mezzogiorno. Non è quindi che sfugga la coscienza di questo problema. Vorrei aggiungere una parola di ringraziamento particolare a quei miei colleghi, e in primo luogo tra tutti l’onorevole Campilli, che hanno redatto il progetto e nel dettaglio l’hanno elaborato. Io ho presentato un programma nel momento della formazione del governo e che cosa ho proposto? In primo luogo un programma riguardante specialmente quelle zone e in secondo luogo il coordinamento, l’impegno politico tra i diversi ministri, tra i diversi capi di ministero, di subordinare le loro richieste a una collaborazione, a un coordinamento fatto dai ministri particolari. Ora, badate bene, questo coordinamento è la base fondamentale anche della collaborazione. Amici miei, voi ne parlerete ancora, sicuro, alla Camera e al Senato, ma soprattutto vorrei che ne parlaste fuori, alla gente, che deste un po’ di entusiasmo, che con i vostri suggerimenti spingeste il carro se per qualche avventura non fosse ben condotto o trovasse delle difficoltà locali. Io mi sono fatto l’idea, e non questa volta soltanto, che per il Mezzogiorno i programmi sono immensi e tutti i discorsi non giovano a niente, che volumi scritti e meditazioni non contano niente. Quello che conta è il fatto che bisogna cominciare ad operare; commetteremo forse degli errori, sono io il primo a dirlo, ma l’essenziale è cominciare a fare. (Vivissimi applausi dal centro). |
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| Onorevoli senatori, credo che non vi attenderete da me che entri nella polemica generale spaziante in tutti i settori della politica internazionale. Nonostante quello che ha detto, in termini molto chiari, l’onorevole Tonello, non si tratta affatto di una cucina governativa, né di frittelle fatte in casa: il governo si trova di fronte ad una dichiarazione, ad una mozione presentata dai rappresentanti – soprattutto europei – di diversi partiti di maggioranza e anche non di maggioranza, ed ha il dovere, per conto suo, di precisare la propria linea di condotta, il proprio atteggiamento generico. Non ha certe l’obbligo e la funzione di difendere il testo o le singole formulazioni di una mozione, che deve essere soprattutto una mozione del Senato italiano. Mi pare, quindi, che non si abbia il diritto di pretendere da me che entri in tutte le argomentazioni formulate durante il dibattito. Riconosco che molte cose dette contengono argomenti di seria discussione come tutto quello che riguarda il riarmo. Ma voi a questo proposito avrete fra poco il progetto governativo sul primo contributo e quindi non vi mancherà l’occasione in sede propria, per discutere e deliberare. Così in merito alla situazione economica non mancheranno altre occasioni al governo di rispondere alle osservazioni emerse durante il dibattito, alcune delle quali molto sagge e fondate come quelle esposte dal senatore Parri . Non voglio entrare nemmeno nella questione direi finalistica, di tendenza, che esprime la mozione. Anche qui mi pare di non dover spaziare nella discussione generica che si è fatta circa la possibilità dell’unione europea e le citazioni che si sono portate pro e contro la possibilità di una unità morale di questo complesso continentale o meno. Una cosa vorrei osservare: vi pare veramente educativo, pedagogico, di mettere in ridicolo questa idea, di minimizzarne l’importanza, di considerarla come una costruzione del tutto ipotetica, senza nessuna base? Vi pare davvero che il Senato italiano debba avere una tale concezione pessimistica, che si debba dimostrare così retrivo, direi, dinanzi a quello che appare evidentemente un allargamento, una dilatazione del nostro concetto politico e della nostra collaborazione internazionale? A me pare di no. Ricordo nel passato una conferenza interparlamentare all’Aja, nel 1911, in cui io, ancora giovane deputato, mi lamentavo che dai gruppi cattolico-conservatori, come erano chiamati allora, non si inviasse nessuno a collaborare a questo sforzo di pace. È da rilevare che esso allora era quasi limitato e concentrato nell’unione interparlamentare. I cattolici allora erano ancora in gran parte in un mondo circoscritto ai problemi nazionali dei singoli paesi, oppure, quando si trattava di politica generale, politica europea, non avevano una linea propria o si perdevano dietro concezioni di carattere, chiamiamolo così, retrospettivo, starei per dire reazionario, di divisioni medioevali. Allora dalla parte, diciamo progressista, si reagiva a questa assenza, a questo atteggiamento inerte, con una ironia e un sarcasmo che trovavo un po’ meritato. Ma oggi che finalmente possiamo notare che anche da questa parte una corrente si inserisce accanto alla corrente socialista e umanitaria per avere fede in una nuova fratellanza, in una nuova ricostruzione del mondo, trovo proprio fuor di luogo quest’ironia e questo sarcasmo, sia pure condito con le solite cognizioni letterarie, che dimostra il nostro amico Lussu ; li trovo così fuor di luogo, da osservare: è proprio il mondo capovolto, è un sarcasmo reazionario, un’ironia, uno scetticismo reazionario che vengono proprio dalla sinistra, la quale dovrebbe dimostrare invece di essere larga di speranze per l’avvenire. (Commenti). lussu. La prima idea federalista era: Europa neutrale; quindi è contro la vostra idea. |
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| Fornisce informazioni sulla anticipazione di grano alla Jugoslavia in conto del grano concesso dall’America. Vi sono questioni sul modo di pagamento. Accenna ai fatti per la zona B del Territorio libero di Trieste nel senso di estendere ad essa il controllo dell’America. Insisterà. […] Propone che vengano discussi gli articoli della legge presentata da Scelba. [Segue l’intervento del ministro dell’Interno, che avvalora la tesi di De Gasperi sulla inefficacia delle norme in vigore: «l’organizzazione militare o l’apologia del fascismo o l’uso della violenza previste dall’articolo 1 della legge del 1947 sono reati già colpiti dal Codice penale, indipendentemente dalla ricostituzione del fascismo. La nuova legge ha il fine di eliminare le difficoltà rilevate dall’applicazione della legge del 1947»]. Non ritiene opportuno trattare l’argomento in relazione alla Disposizione XII della Costituzione e alla legge del 1947. Sarebbe cosa migliore fare riferimento all’articolo 49 della Costituzione stessa. La legge del 1947 fu elaborata dal governo tripartito con la partecipazione dei comunisti. Le definizioni della nuova legge sono elastiche, e sorgono dubbi sulla sua applicabilità. Quindi deve essere esaminata con attenzione. Bisogna ridurre le pene detentive, mentre sono giustificate le interdizioni dal diritto di voto e dai pubblici uffici. [Il ministro dell’Interno passa a dare lettura dell’art. 1 del disegno di legge]. I dieci anni di reclusione previsti dal paragrafo 1° dell’art. 1 sembrano eccessivi. […] Perseguire con pene il finanziamento serve a giustificare chi non vuole dare denaro se interpellato. Mette ai voti l’inclusione dei finanziatori di movimenti fascisti tra coloro che vanno colpiti. (7 sono favorevoli, 1 è contrario, gli altri si astengono). Mette ai voti l’inclusione dei dirigenti dei movimenti anzidetti. (Tutti sono favorevoli). [Seguono altri interventi e la richiesta di Guido Gonella di mantenere il secondo comma sul massimo della pena detentiva fino a due anni, senza specificazione della durata minima]. Chiede se vi sia accordo in tali sensi. (Sì). Dichiara che sul primo comma è d’accordo, ma che ha dubbi sul secondo comma, che commina la reclusione fino a due anni per coloro che partecipano ad associazioni o movimenti di carattere fascista . |
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| Propone l’istituzione, presso la Presidenza del Consiglio, di un ufficio per il controllo statistico degli investimenti onde meglio assicurare il coordinamento dell’azione dei vari ministeri nel campo dei lavori pubblici. (Il Consiglio è d’accordo). Comunica che Piccioni ha la febbre maltese, ma che tuttavia ha inviato le proposte di modifiche del Codice. […] Informa Piccioni che il Consiglio è propenso ad una limitazione della riforma del Codice Penale ai soli articoli prima esaminati. Comunque si può discuterne. Ha dubbi sulla opportunità di inserire queste disposizioni nello stralcio della riforma del Codice Penale. Vorrebbe porre in discussione il problema del Pci e non crede che sia opportuno. […] Gli articoli prima approvati segnano certi limiti entro i quali lo Stato afferma la sua autorità. È meglio procedere per gradi. […] Non farebbe allusione ai monarchici o ad altre associazioni similari. Ritiene sufficiente far generico riferimento alle attività dirette a sovvertire gli ordinamenti dello Stato. […] Dà informazioni sull’atteggiamento assunto nei riguardi del Partito comunista. Fa presente che nel 1940 fu sciolto il partito, nel 1941 il partito anzidetto fu compreso nell’elenco delle associazioni interdette perché avevano collegamento con altri partiti in campo internazionale. Nel 1944 furono adottate misure per proteggere l’ordine costituzionale da illeciti movimenti e nel contempo venne consentita la ricostituzione dei partiti. Nel 1950 intervenne una discussione circa i funzionari sospetti di infedeltà verso lo Stato. |
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| Rispondendo all’onorevole Giavi , vorrei ricordare la mia dichiarazione del 28 luglio, quando la sua mozione venne presentata. Citavo infatti allora la dichiarazione recentissima del Consiglio dei ministri, la quale affermava che la pace è l’estrema aspirazione del popolo italiano e che il governo intende operare incessantemente per essa, in piena solidarietà internazionale e allo scopo di garantire la sicurezza di tutte le nazioni. Nello stesso senso il governo segue attentamente anche oggi la situazione, pronto a cogliere ogni occasione adatta per favorire la cessazione o la limitazione del conflitto e a cooperare a tal fine con le nazioni amiche più direttamente interessate alla situazione dell’oriente, per quanto formalmente la nostra esclusione dall’ONU circoscriva il campo di azione della nostra diplomazia. Non ho quindi obiezioni da opporre allo spirito e alle finalità espresse nella mozione, specie perché, come è detto nel suo testo, essa mira alla preservazione della pace nel mondo sulla base essenziale del ripristino della legge internazionale. Rimane così riconfermata la nostra solidarietà con ogni sforzo diretto a scoraggiare e ad eliminare l’aggressione come metodo per risolvere i problemi dei popoli. Non c’è bisogno di aggiungere che i nostri sentimenti di fraterna amicizia verso il popolo degli Stati Uniti e il suo governo, i quali hanno contribuito così efficacemente alla rinascita della nuova Italia, diventano più vivi e attuali nel momento della prova, prova che il popolo degli Stati Uniti certo supererà con quello slancio ideale che fin dalla prima guerra europea lo fece paladino generoso di pace e di libertà. Il governo, infine, consapevole che a consolidare la pace contribuisce in sommo grado la sicurezza, accelererà le misure inderogabili per dare alle nostre forze armate, e più particolarmente all’esercito, la consistenza e l’attrezzatura difensiva indispensabili per garantire, nel quadro del Patto atlantico, lo sviluppo pacifico e indipendente della vita nazionale. Premessa dunque la mia adesione di massima alla discussione della mozione Giavi e delle interpellanze ad essa collegate sullo stesso argomento, desidererei rilevare l’esigenza che, nel quadro dei lavori della Camera, si tenga conto di alcune necessità e soprattutto di una, che mi pare estremamente urgente e desiderata da tutti: che si crei la base per una prossima campagna elettorale per le elezioni amministrative. Questa base è il sistema elettorale, per cui esistono parecchie proposte che dovrebbero venire discusse, secondo informazioni che ho circa le trattative in corso, nella settimana ventura. Desidero quindi chiedere alla Camera che la discussione sopra l’argomento di cui abbiamo fatto parola venga avviata subito dopo il dibattito sui sistemi di elezioni amministrative. [Segue la replica del presidente del Consiglio all’intervento dell’on. Gian Carlo Pajetta]. Ho cercato di chiarire le ragioni per cui accettavo di discutere la mozione e, facendo ciò, naturalmente sono arrivato a dichiarazioni di carattere generico che anticipano un po’ la discussione, ma che hanno in ogni caso un senso tranquillante, in quanto tra la mozione e il nostro punto di vista sostanzialmente non vi era differenza. Quindi non vi è alcun dubbio sulla nostra intenzione di non fare opposizione a discutere e a votare la mozione. Ho chiesto soltanto una piccolissima dilazione. (Commenti all’estrema sinistra). Mi sia consentito dire che è piccolissima, e l’ho chiesta per questa ragione: evidentemente la discussione in corso dovrà essere continuata fino alla fine della corrente settimana, prima della prossima breve interruzione dei lavori della Camera (che sarà di quattro o cinque giorni), e in questa settimana pertanto non vi è la possibilità di affrontare altre discussioni. Quindi si dovrà aspettare la prossima settimana. Io speravo che per martedì la Commissione dell’interno fosse senz’altro in grado di presentare il progetto di riforma elettorale e che entro la seduta di mercoledì si potesse arrivare ad una conclusione su questo punto. In fondo non chiedevo che un differimento di quattro o cinque giorni, oltre il breve periodo di interruzione. Faccio poi osservare che non vi è da temere un peccato di omissione da parte del governo, quando si fanno delle dichiarazioni così esplicite. Comunque – ripeto – ogni occasione che potrà venirci offerta per intervenire in favore della pace verrà accolta con grande entusiasmo da parte del governo. Quanto, poi, alla lamentela fatta dall’onorevole Pajetta, che l’Italia sia esclusa, che l’Italia sia fuori circolazione in questa grave questione, l’onorevole Pajetta non ha che da ricordare una cosa: questo dipende non dalla debolezza del governo o dall’incoscienza del governo o del popolo italiano ma dal fatto che l’Italia è stata esclusa dall’ONU. (Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). |
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| Occorre dire francamente il nostro pensiero . Il problema del tempo è essenziale. Se la Russia attacca entro breve tempo non c’è possibilità di ricorrere ad aiuti stranieri. È pacifica la volontà del governo di riarmare il più possibile. Anche se dubitassimo della nostra realtà di combattenti dovremmo affermarla poiché la lealtà coincide con i nostri interessi. Dobbiamo essere accanto all’America. I colloqui con Tarchiani ci hanno dato assicurazioni che l’America non dubita di noi. Il popolo italiano è contrario alla guerra per le delusioni e per i pericoli del passato. È necessaria l’austerità: conseguente blocco dei salari e dei prezzi. Occorre attuare un’economia prebellica. Commenta le dichiarazioni di Sforza. Osserva che la Cina aveva diffidato dall’oltrepassare l’80° parallelo, ma non era stata presa sul serio. La mancanza di informazioni da parte dei competenti servizi americani è spaventosa. Per quanto riguarda l’Europa osserva che l’America è particolarmente interessata alla sorte dell’Europa. Il richiama alla nota russa fatto da Sforza è molto significativo. Se la Russia ritiene che, in conseguenza del riarmo della Germania, verrà a trovarsi in condizione di inferiorità, si muoverà. E quindi qualche sforzo per agire con prudenza non sarebbe inutile. Circa la Conferenza a quattro rileva che se prima non si raggiungerà un accordo per la Germania e per l’Austria, tale conferenza si risolverà in una seconda Monaco. Sarebbe opportuno che Sforza e gli altri ministri degli Esteri cercassero di conoscere qual è il pensiero dei tedeschi, senza disporre di loro come se fossero cose. Insiste sulla necessità che i tedeschi vengano compresi ed incoraggiati. [La discussione riprende nella seduta pomeridiana sul tema del riarmo della Germania]. Oggi Adenauer ha risposto negativamente ai disegni inglesi. Ritiene possibile un’azione dell’Italia di carattere moderatrice per risolvere il problema dell’esercito tedesco. Rileva con soddisfazione che in seno al Consiglio non esiste una sostanziale diversità di idee. Soltanto la tattica viene messa in discussione. […] Non possiamo negare alla popolazione il diritto di essere titubante. Pensiamo ai 150 deputati laburisti che hanno espresso avviso contrario all’uso della bomba atomica. […] Riferisce sulle spese militari, sui lavori del Consiglio supremo di difesa e sul Comitato misto italo-americano. Fa presente che per avere 12 divisioni quasi al completo entro il 30 giugno 1951 occorre stanziare subito 150 miliardi, salvo successivi stanziamenti. Sono previste commesse per complessivi 300 milioni di dollari che per ora sarebbero a nostro rischio. Per il momento vengono assunti impegni per 150 miliardi. Occorre evitare sia l’inflazione, sia un assoluto diniego di partecipazione dell’Italia al programma di difesa. |
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| È chiaro che l’emendamento dell’onorevole Nenni, aggiungendo un elemento discriminante di sfiducia generale sulla politica del governo , e soprattutto nei riguardi della politica estera, non è accettabile. Che cosa ha unito diversi gruppi, forse in molte altre cose di diverso pensiero, su questa mozione? Non soltanto la generica aspirazione alla pace – ed anche per questo il governo doveva aderirvi, perché crede di essere interprete di questa aspirazione del popolo italiano alla pace – ma il fatto, soprattutto, che nella conclusione si parla di «preservazione della pace nel mondo sulla base essenziale del ripristino della legge internazionale». Questo è ciò che ci unisce, anche all’infuori dei vincoli governativi di coalizione, anche con partiti che non appartengono alla coalizione. Questo è quello che ci unisce, e questa è la vera ragione per cui voi comunisti non aderite alla mozione, perché si tratta del ripristino della legge internazionale, che voi non avete accettato. (Vivi applausi a sinistra, al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra). Mi pare evidente, anche se non lo avete detto esplicitamente, che voi non volete oggi accettare una mozione la quale si conclude con l’invito al ripristino della legge internazionale – mozione presentata in luglio, e da me allora già accettata appunto per questo suo fine supremo, nonostante l’aggressione fosse in quel momento in declino – solo perché l’aggressione cinese fa dei progressi, e volete che proseguano fino alla fine. (Applausi al centro e a destra Commenti all’estrema sinistra). Se non erro nella interpretazione – può essere, naturalmente, che non mi facciate procuratore del vostro pensiero al riguardo – la discussione avviene su quel punto, e quel punto è capitale. Credo che non sfuggirà nemmeno al paese che questa è la ragione fondamentale per cui voi non accettate la mozione anche se parla di pace; voi infatti volete la pace, ma evitate l’adozione del mezzo precipuo per raggiungerla, e cioè il ripristino della legge internazionale, alla cui base sta la volontà di tregua, oggi specialmente che le truppe della Corea del nord hanno conquistato la maggior parte del territorio. È inutile che si voglia fare una speculazione sopra dichiarazioni ironiche del mio caro amico Giordani : ha ragione Giordani quando nega la formula antica si vis pacem, para bellum. Ha ragione, perché non si deve preparare la guerra per difendere la pace, con l’intenzione di fare la guerra; io traduco modernamente questo motto antico e credo di renderlo accettabile anche all’onorevole Giordani, il quale, del resto, ha accennato alle condizioni del riarmo: si vis pacem, para securitatem et defende libertatem. (Applausi a sinistra, al centro e a destra). Vorrei, ad ogni modo, affermare che alla aspirazione vivissima alla pace, della quale vogliamo farci interpreti fedeli e leali, giorno per giorno, in tutta la nostra attività di politica interna e di politica estera, aggiungiamo, però, il proposito fermo, risoluto di creare quelle misure di sicurezza, che sono necessarie nel nostro paese perché la pace sia una realtà. Su questo proposito nessun dubbio; esso è limitato soltanto dall’impegno della riforma sociale, riguardo alle necessità del popolo, soprattutto minuto, il quale non può più ridurre i propri consumi, e naturalmente dalle nostre possibilità finanziarie, che sono segnate dalla solidità della moneta. Perciò abbiamo chiesto e stiamo trattando per ottenere il contributo dei più ricchi, perché sia possibile creare questa base di sicurezza, per noi e per i nostri alleati. Vorrei non lasciar dubbi né a voi, né a chi ci ascolta o ci osserva da lontano. Con ciò ho espresso veramente il mio pensiero, il pensiero trafilato, come diceva un collega, attraverso una coscienza meditabonda, non di facile entusiasmo; pensiero al quale siamo arrivati dopo aver cercato tutte le possibili altre vie. Dunque, necessità assoluta di fare questo sforzo e questo sacrificio contando sullo spirito di sacrificio, di serietà, di responsabilità, di virilità del popolo italiano. (Applausi al centro e a destra). L’onorevole Natoli ha detto: «non un soldo, non un soldato»; non ha detto la frase, ma ha ripetuto il concetto che questa espressione una volta voleva significare. Di fronte a questo abbiamo dovuto rispondere: è necessario ogni sforzo compatibile con la riforma sociale e con la solidità della moneta, per assolvere a questa responsabilità gravissima, che sentiamo come la prima, la più incombente per compiere il nostro dovere di governo democratico, di governo cui sono affidate le sorti del popolo italiano. L’onorevole Mazzali ha detto: governo della guerra e dell’anticostituzione. Tutto questo chiasso, onorevoli colleghi, si fa perché lo sforzo massimo che noi oggi possiamo compiere è quello di mettere a punto 12 divisioni, cioè quella ridotta capacità difensiva consentita dal trattato, impostoci proprio per limitare le nostre possibilità di forza. Si tratta di un minimo. È difficile intendere come, in tale situazione, si può parlare dello Stato italiano come d’uno Stato che pensi ad una guerra offensiva, che parta in guerra e provochi la guerra. Nonostante le 12 divisioni, quando saranno in piedi, resta il nostro bisogno assoluto di cercare tutte le vie perché la guerra non venga; sarebbe durissima prova per noi e per gli altri paesi; tanto più per noi, che non possiamo armare come armano i grandi Stati: non abbiamo né risorse industriali, né le risorse di materie prime e, soprattutto, non abbiamo le risorse in uomini e le risorse di mezzi organizzati, che hanno le grandi potenze, compresa la Russia che ci sta a guardate. invernizzi Gaetano. In America ci sono i Forrestal … De GasPeri. In quanto alla anticostituzionalità, parola che sembra venire connessa a questa concezione di pre-guerra, di vigilia di guerra, rispondo che noi restiamo fedeli alle libertà costituzionali ed al regime democratico. So che voi vi lagnate; ma il fatto che voi così rumorosamente tutti i giorni potete lagnarvi è prova che avete torto quando negate che vi sia libertà. (Applausi al centro e a destra). Nella Costituzione vi sono dei diritti, ma – e lo si dimentica troppe volte – sono consacrati anche dei doveri di disciplina e di lealtà nei confronti dello Stato e dell’ordinamento della Repubblica italiana. (Commenti all’estrema sinistra). Questi doveri abbiamo diritto di inculcarli ed abbiamo diritto, con la legge ed in forza della legge, di punire coloro che questi doveri non adempiono. (Interruzioni all’estrema sinistra). Abbiamo mantenuto fede al nostro programma di regime democratico, nonostante tutti gli attacchi che ci vengono, con una lealtà che è più profonda delle nostre stesse esigenze momentanee e temporanee. Abbiamo anche il senso della necessità della solidarietà nazionale. Sappiamo che dobbiamo lentamente, gradatamente – come è possibile, secondo la nostra legge – smobilitare tutto quello che fu dopoguerra e sanzioni del dopoguerra, e non mi si dica che non facciamo nulla in questo senso, quando ho annunciato proprio in quest’aula l’ultima volta che parlai di questo problema, che avremmo disposto per un largo riesame della situazione dei carcerati politici. Su 390 domande di liberazione condizionale, 128 sono state accettate; 100 nelle prossime settimane saranno accettate e poi rapidamente cercheremo di vagliare le altre. Debbo però aggiungere che tutto questo sarà possibile e si potrà gradatamente arrivare alla soluzione intera del problema solo a una condizione, e cioè che nel paese si manifesti un senso di disciplina e del dovere, un senso di unità, un contegno di responsabilità. Spero che i partiti lo vogliano dimostrare, nonostante le polemiche attuali. Spero anche che il popolo italiano dimostri serietà e comprensione della situazione che attraversiamo. (Commenti all’estrema sinistra). Mentre in tutte le altre nazioni si sono introdotte delle disposizioni limitatrici, fino ad oggi ancora ciò in Italia non è avvenuto. Però io faccio appello, alla vigilia di Natale, al senso di responsabilità e di serietà di tutte le classi soprattutto di quelle agiate. (Commenti all’estrema sinistra). Debbo però notare che nel 1949 si sono spesi in spese voluttuarie nel nostro paese 70 miliardi e 800 milioni, cioè ventiquattro volte più del 1948 e ottantotto volte più del 1938. (Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo). Vi è dunque la possibilità di ridurre e di comprimere, senza toccare le esigenze del povero ed il minimo indispensabile che il povero ha, ma non sempre, assicurato. CloCChiatti. Facciamo delle leggi! De GasPeri. Facciamo anche delle leggi: tranquillizzatevi su questo punto. Basta che dimostriate di volerci sinceramente dare una mano per fare buone leggi; ma questa mano non l’abbiamo mai trovata. In ogni legge che abbiamo fatto, di qualunque indirizzo essa fosse, di destra o di sinistra, avete sempre cercato dei pretesti per votare contro. Questa è stata la vostra tendenza e la vostra parola d’ordine. (Interruzione del deputato Invernizzi Gaetano). Mi sia permesso di aggiungere qualche parola, che mi viene dal cuore, cioè l’augurio che si consolidi il pensiero della pace e della sicurezza, oltre il desiderio vivissimo di una tregua, specialmente laddove ancora si combatte e si muore, tregua su cui insiste tanto la commissione dell’ONU e che ancora non si è potuta ottenere. Io mi meraviglio che fra tante urgenti istanze che oggi si pongono, specialmente da parte dell’estrema sinistra, non sia venuto anche questo appello, affinché la proposta di una tregua venga accettata! (Vivissimi applausi a sinistra, al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra). Io credo di interpretare il pensiero vostro e il pensiero del popolo italiano, dicendo che quest’augurio che noi facciamo è rivolto alle madri, perché non debbano ancora trepidare per i loro figlioli durante queste feste… (Interruzioni all’estrema sinistra). A tutte le madri! A tutte le madri! Ma nessuno ci rimprovererà se il nostro augurio va specialmente a coloro che si battono per il principio ideale delle Nazioni Unite, come assertori di pace, (interruzioni all’estrema sinistra), contro metodi di aggressione e per la cooperazione internazionale! E, amici miei, poiché l’onorevole Gian Carlo Pajetta ha oggi ricordato i volontari italiani di tutti i tempi, dal rinascimento in qua, che sono andati a combattere in tutte le nazioni, permettetemi di ricordare che fra quei combattenti vi sono anche cittadini americani di origine italiana, gente che in questo momento, oltre che assolvere al proprio dovere, valorosamente, di fronte al proprio Stato, continua anche la tradizione italiana di combattere per la libertà su tutte le frontiere! (Vivissimi, prolungati applausi a sinistra, al centro e a destra – Si grida: «viva l’Italia! Viva la pace!» – I deputati della sinistra, del centro e della destra e i membri del governo si levano in piedi plaudendo – Commenti all’estrema sinistra – Un deputato dell’estrema sinistra grida: «viva il popolo coreano, viva la pace!» – I deputati di questo settore si levano in piedi, plaudendo). |
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| Qualche giornale, dando rilievo e benevola interpretazione a una dichiarazione di Augusto De Marsanich, segretario del Msi , ha scritto che i missini, in questi frangenti si sono messi in linea, cioè si sono dimostrati disposti a partecipare ad una concentrazione di tutte le forze nazionali . Lasciamo stare il De Marsanich, il quale, a dir il vero, in un telegramma circolare fra Cgil e Cisl si è limitato a dare ai suoi organizzati operai la parola d’ordine di rimanere neutrali; ma al di fuori di ogni specifica organizzazione vediamo in genere come in questo grave momento per i destini del paese si è comportata la stampa neofascista. Ecco qui un commento ispirato a concetti unitari di C.[oncetto] Pettinato ne Il Mattino d’Italia del 21/1 n. 3. «L’attuale governo è condannato a sparire ed è inutile che De Gasperi si lusinghi di cavarsela con semplice rimpasto in quanto il paese non si presterà ad una ennesima manovra il cui solo effetto sarebbe quello di rendere inutile la crisi. La colpa degli errori di Sforza e Pacciardi e degli altri ministri ricade su De Gasperi, unicamente su de Gasperi ed è giusto che sia lui a sopportarne il peso più grave. L’ingenuità con cui 40 milioni d’italiani hanno assecondato per ben cinque anni l’opera di questo astuto liquidatore della potenza del paese è un segno allarmante dell’incurabile buona fede del nostro popolo. De Gasperi non ha fatto in questi anni se non la politica della Chiesa : l’America è oggetto, non soggetto dell’azione internazionale di questo ex clericale austriaco; egli cerca di rimorchiare l’America perché questa è oggi per la Chiesa il braccio secolare destinato a servire la fede contro gli infedeli, la sola potenza laica idonea a cavare le castagne dal fuoco per la potenza ecclesiastica. […] Non diversamente dai tedeschi [e] dai francesi, noi italiani pensiamo a una nuova guerra mondiale come a un urto di forze al quale non siamo interessati, perché chiunque vinca non siamo mai noi a profittarne». Un altro settimanale fascista, a Roma, propone la costituzione di un «governo di salute pubblica». Occorre prima abbattere il presente gabinetto «pericoloso diaframma che impedisce agli italiani di ritrovarsi sotto i segni di una rinnovata volontà e di una comune concordia», e poi costituire un governo di salute pubblica «con a capo l’on. Gronchi, mentre il generale Graziani dovrebbe essere nominato capo del libero Stato italiano». Ma anche l’organo ufficiale del Msi e del De Marsanich, quello che dovrebbe essere in linea, ecco cosa scrive (Roma, 20): «Gli episodi avvenuti alla riunione del gruppo parlamentare Dc e durante il dibattito al Senato hanno rivelato che una acuta crisi rode tutto il mondo parlamentare formatosi l’8 settembre intorno alla bandiera bianca della resa a discriminazione. L’on. De Gasperi non può illudersi di aver creato col suo cavilloso e abile discorso al Senato un senso di solidarietà nazionale, un clima di unione sacra . Se il Parlamento dice sì il paese dice no al suo governo democristiano. Vi è una crisi di governo perché vi è una crisi di delusione e di sfiducia nel paese il quale sente che la Dc non ha ancora saputo superare lo stato d’animo della guerra civile» . |
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| Ieri sera si è data su questo proscenio «La fortuna del destino». La forza del destino! È vero, c’è una forza del destino e sono le vie dell’irrazionale, cunicoli sotterranei materialmente e spiritualmente parlando, dai quali improvvisamente sfociano sbocchi imprevisti. E tutto questo nella storia è stato chiamato fatalità e destino. Si è affermato lo stesso anche nella guerra. È celebre il detto di Mussolini che ripeteva del resto una tesi della teoria nazionalista: «la guerra è una legge fatale, è un destino della storia e del progresso». E questa conclusione nel cuore e nella fantasia dei giovani veniva immessa come lezione della storia ufficiale, delle cronache dei dominatori e specialmente della storia, dell’epopea e della tragedia dell’Impero Romano. Questa interpretazione della guerra come strumento inevitabile di progresso, come destino di popoli, viene ripresa ogni volta che la guerra si affaccia come una possibilità. E che ad essa si debba trovare una giustificazione. Di qui l’esaltazione della storia guerriera dei Romani, che fecero i giovani al tempo fascista e, parallelamente, che fece Hitler della tragedia dei Nibelunghi . Eppure, benché le storie ufficiali per lungo tempo avessero ripetuto affermazioni che potevano giustificare simile concezione della fatalità della guerra, c’era stata anche nella storia romana, una profondissima revisione di questa concezione. Quando poco attorno al Quattrocento Roma veniva occupata e quasi distrutta dai goti, un grande cittadino romano di origine africana, Agostino , aveva fatto la revisione nella Città di Dio. Citando Sallustio egli ricordava che «il desiderio sfrenato di dominio romano» aveva causato ingiustizie e spargimento di sangue infinito, e rifacendo la storia delle guerre, cominciando da Albalonga, diceva, a proposito di questa guerra, che il pianto della sorella degli Orazi, quando si accorse che il fratello vestiva le spoglie dello sposo, meritava «umanamente parlando una esaltazione ben superiore a tutte le gesta del popolo romano». Vennero poi a Roma le guerre sociali, servili e civili. E quando passiamo accanto ai Fori nei quali ricostruiamo con la fantasia le glorie delle vittorie e dei trionfi, dovremmo per la verità e per ottenere uno sguardo integrale della storia ricordare anche [che] questi Fori, ripetutamente, e soprattutto ai tempi delle guerre di Mario e Silla furono ripieni zeppi di cadaveri, di vittime, di imbratti di sangue civile, di sangue romano, tanto lo spirito della guerra civile aveva corroso le classi dirigenti della Città. A questo spettacolo Agostino diceva: «che cosa sono i regni se non grandi ladrocini?». Di fronte all’antica esaltazione della guerra eccovi il pensiero fondamentale evangelico. Il pensiero fondamentale evangelico è la pace. «Beati i pacifici – dice il discorso della Montagna –, perché saranno chiamati figli di Dio» . E pacifico vuol dire facitore di pace. E la beatitudine va collegata con la dichiarazione precedente: «beati i puri di cuore perché vedranno Dio». Il cuore puro possiede la pace in sé e con Dio. I pacifici sono coloro che vivono nella pace animati dallo spirito di Dio, e perciò sono figli di Dio. La pace secondo i cristiani non è semplicemente una non guerra guerreggiata, ma è spirito di solidarietà umana, volontà di cooperazione internazionale, volontà di libera discussione e comprensione fra i popoli; e se non c’è tale spirito la pace è minacciata ed esiste in potenza lo stato di guerra. Ecco perché in una polemica al Senato risposi all’onorevole Scoccimarro: «voi non siete contro la guerra: 1°) perché esaltate e fomentate lo spirito di odio che la crea; 2°) perché in ogni caso giustificate la guerra civile come insurrezione armata» . E a conferma a voi, giovani, voglio ricordare quanto pubblicato nella rivista Gioventù Nuova, organo del movimento giovanile comunista, non più tardi del giugno-luglio 1950. D fronte al mio appello per la solidarietà nazionale, per l’unione di tutti nell’interesse supremo della patria, la rivista scriveva: «riecheggia qui il vecchio concetto dell’unione sacra… l’inganno dell’unione e cioè l’assoggettamento della classe operaia alla propria borghesia (Lenin)… I marxisti non sono né per qualsiasi guerra né contro tutte le guerre. Lenin e Stalin ci hanno insegnato che possono esserci due tipi di guerre: la guerra giusta non annessionistica, la guerra di liberazione o l’emancipazione del popolo dalla schiavitù capitalistica o infine la liberazione delle colonie e dei paesi indipendenti dal gioco degli imperialisti, e la guerra ingiusta, annessionistica…» . Ecco dunque che dopo tanti anni si ritorna al concetto della «guerra giusta» e della discriminazione che fu fatica improba di tanti filosofi del Seicento. Ma oggi abbiamo fatto un passo più in là, perché abbiamo costituito degli organismi internazionali che possono conciliare ed arbitrare ed abbiamo impegnato per questo tutte le nazioni a una procedura pacifica. Noi oggi possiamo dire che la guerra giusta non può essere altra che la guerra di difesa contro l’aggressione. Non c’è altra guerra giusta. Ogni guerra che possa essere evitata è ingiusta. Ed ecco che la concezione predicata oggi dai giovani comunisti è una concezione vecchia, superata dai fatti e dalla dottrina, una concezione di comodo che non permette però ai comunisti di qualificarsi partigiani della pace in senso assoluto. L’odio: ma quante prove abbiamo portato dalla fomentazione all’odio che ha la sua sede soprattutto negli sforzi educativi della Repubblica sovietica? E poiché qui si tratta di giovani voglio ricordare qualche cosa che riguarda la loro formazione. Nel 1946 è stato pubblicato nell’Unione Sovietica un manuale per le scuole magistrali ad uso degli insegnanti, che si intitola appunto: Pedagogia. A un certo punto come conclusione di tutta la trattazione si legge: «un individuo ben educato subordina i propri interessi a quelli della patria e del suo popolo». Tale servizio presuppone l’ira e l’odio contro i nemici della patria? E altrove: «l’amore per la patria genera inevitabilmente un forte odio contro il nemico». In una rivista dell’emigrazione russa (aprile del 1950) il professore Anisinov – che dal 1937 si trovava a Riga e che vi rimase poi intrappolato per l’occupazione russa del 1940, e che aveva dovuto rifare tutto il suo tirocinio di insegnante per aggiornarsi, sotto la direzione dei professori mandati da Mosca, alla nuova pedagogia sovietica – pubblica uno studio per dimostrare il dogmatismo assoluto dei metodi del socialismo scientifico. Le conclusioni di Marx, Lenin e Stalin non vengono presentate come tesi dottrinali, bensì come leggi fondamentali e indiscutibili della storia. Tutto quello che è contrario viene dichiarato falso, tutto quello che è favorevole viene considerato come legge e come tale deve essere accettato da tutti, maestri e scolari. Ecco un passo: «una serie di milioni di giovani e generosi cuori vengono sistematicamente pervertiti ed educati all’odio allo scopo di preparare una generazione di ardenti difensori della patria del socialismo. Insensibilmente tra molti giovani cittadini sovietici cresce il sentimento che essi sono perpetuamente minacciati in casa propria, che essi devono lavorare duramente, accontentarsi di mangiare male e poco in causa dei propositi aggressivi dei paesi capitalistici. Aumenta così nello studente il senso che egli possa affermarsi nella vita solo prendendo atteggiamenti negativi contro il mondo occidentale, contro tutto quello che non è comunista». Non sono aggressivi contro la religione, ma in tutti i testi tutto tende a dimostrare che la religione viene considerata quale fenomeno politico sopravvivente da epoche sorpassate. Il concetto della superiorità scientifica dogmatica del socialismo è assolutamente indiscutibile. Perché è possibile educare così la gioventù, in modo da farne una massa fanatica e compatta? Perché, stroncata prima ogni opposizione interna ed ogni possibilità di discussione, viene applicata nei confronti dell’estero la più rigida censura. In tal modo i dirigenti sovietici sono riusciti a creare un sistema di educazione veramente diabolico, fornendo ai giovani una cultura tecnica e scientifica ed infondendo in loro una fede fanatica nella loro missione comunista. Ecco perché quando al Senato si è detto «discutiamo», io ho risposto a Scoccimarro: «sì, discutiamo, ma a parità di condizioni, su un eguale terreno di libertà, a condizione che il sipario di ferro venga alato, che ci possa essere un libero scambio di idee e di uomini. Solo allora possiamo parlare veramente di un colloquio efficace, altrimenti è un agguato». Il nostro patriottismo, come ho accennato prima, non nasce dall’odio ma dall’amore, cioè dal dovere della solidarietà e della fraternità. Nella epistola ai Galati dice S. Paolo: «aiutatevi reciprocamente a portare il vostro peso, e così, adempirete la legge di Cristo. Quale legge? Il mandato nuovo, che vi amiate l’un l’altro, come io amo voi» . È un dovere che ci può portare fino al sacrificio. E se è vero che dall’antica Roma noi abbiamo ereditato il diritto, il jure, è anche vero che questo diritto e questo jure è stato reso sacro, animato da uno spirito superiore, quando il cristianesimo entrò nella vita romana e diventò patrimonio della tradizione italiana. E quando Iddio pronunciò la parola: «facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra» quella parola entrò nel Creato come lievito in una massa, o piuttosto come la virtù seminale. La parola divina, operando nel Creato come «seminal virtù» nel terreno, formò un seme che è la religione, dal quale seme produsse la civiltà. Ed è la nostra civiltà che noi difendiamo. Ma il «mandato nuovo» maturò a mano a mano con l’andar del tempo, le generazioni divennero più consapevoli di una concezione di solidarismo sociale che, sul terreno politico, dovrebbe essere nello spirito della democrazia, perché come disse Bergson «la democrazia è essenza evangelica ed ha l’amore come motivo determinante» . Perciò il nostro patriottismo è un problema di coscienza. È la voce di Dio in noi che ci intima l’applicazione della legge e ci guida all’osservanza dell’ordine morale. È una norma etica, fondata sulla intuizione razionale immanente nel nostro spirito, ove arde come una fiammella; ma questo si applica a doveri civili e sociali, si aggiorna a mano a mano con lo sviluppo dei tempi, con l’evoluzione sociale e con la necessità di una certa «atmosfera psicologica». Perciò nei momenti più determinanti della nostra storia è doveroso fare un esame di coscienza. È lecito nei momenti di tensione economica per un cristiano sottrarre quei capitali e quei profitti che si accumularono durante il periodo di maggiore stabilità con la propria dedizione sì, ma anche con il lavoro altrui e con la protezione della legge e le provvidenze dello Stato ed in ogni caso nel comune sforzo della ricostruzione? È ciò conciliabile con la funzione doverosamente sociale della proprietà e della ricchezza? Invito voi, meglio, tutti gli italiani, a meditare su questa domanda ed a fare un esame di coscienza. È compatibile tutto ciò con i doveri della solidarietà nella comunità nazionale? È lecito imboscare le scorte, aumentare i prezzi in misura non giustificata rispetto al costo delle materie prime e di fabbricazione? È da uomini da preda, non da cittadini consapevoli, e molto meno da cristiani veri. Il governo farà, se il Parlamento vorrà, e perfezionerà, ove occorra, il suo organismo esecutivo. Ma non facciamoci troppe illusioni. L’esperienza passata e il carattere individualista del popolo italiano renderanno difficile la via, contrastata ogni misura. Io dico a coloro che temono tale asprezza: c’è sempre tempo di evitare la coazione delle leggi umane, quando si ascolti la voce della coscienza. Ecco perché l’atmosfera psicologica in cui la coscienza si risveglia ha una importanza enorme. Ecco perché è dovere delle classi e delle rappresentanze delle classi di agire e di espellere dalle proprie organizzazioni, o punire con sanzioni, coloro che degenerano nella funzione sociale e nella funzione economica. Ecco perché è necessario il vostro entusiasmo, o giovani; l’entusiasmo che viene dalla vostra età, la quale vi tiene ancora lontani dalle incrostazioni utilitarie della vita produttiva; voi che siete più anima e meno macchina e non avete ancora ambizioni politiche anche per una certa visione distaccata, per cui, senza sostare troppo, correte lungo il fiume della vita sapendo che l’avvenire è vostro. Se vi trovate dell’acqua stagna, se vi trovate nella palude putrida, avete il diritto ed il compito di scuotere le acque, di scuotere la coscienza. Vi domando, o giovani, di dare anche a noi, anziani, l’esempio del servizio disinteressato verso il paese; ed ai cultori delle discriminazioni eccessive, date, inculcate l’esempio di quanto preziosa sia la forza propulsiva e realizzatrice dell’unità e della compattezza. La società – osserva uno scienziato – si trova più difesa dal mondo cosmico nella parte corporea, che non dal mondo psicologico nella parte psichica. Nell’ambiente sociale si difende assai meglio il corpo dal mondo cosmico che la nostra coscienza dal mondo psichico. La pelle e le mucose proteggono il corpo dagli agenti fisici. La coscienza invece ha le frontiere completamente aperte ed è esposta a tutte le incursioni spirituali ed intellettuali dell’ambiente sociale. Ecco perché c’è la necessità della propaganda. C’è la necessità dell’esempio della forza organizzata che segue un ideale e milita sotto una bandiera. La società, e non faccio differenze se non per gradi e misure, va malauguratamente meccanizzandosi e la standardizzazione umana fa in molti paesi progressi, a danno dello spirito e della persona. Guai se noi non troviamo dei contrappesi a questi effetti della concentrazione economica e della vita produttiva meccanizzata. I contrappesi sono in coloro che si dedicano allo spirito, nei sacerdoti, nei filosofi, negli oranti e nei meditanti, negli idealisti e negli uomini benefici; ma soprattutto guai se non troviamo una compensazione nell’entusiasmo senza calcolo, nell’idealismo fervente dei giovani ancora illesi da questa macchina dell’attività sociale. Amici miei, Roma è la fonte del Cristianesimo; fonte perenne e viva. Guai alla nostra generazione se noi italiani del secolo XX, accampati con tutto il corredo della nostra esperienza secolare nei centri della cristiana civiltà, ridivenuti un popolo uno attraverso tante prove e con i mirabili sacrifici del nostro Risorgimento nazionale; guai se non trovassimo l’antidoto vitale che ci preservi dalla degenerazione e dal disfacimento. Preludio fatale del servaggio. L’attacco è formidabile, molteplice, subdolo, insinuante. Bisogna respingerlo, non semplicemente invocando misure governative, di stato, ma anche con la propaganda energica e chiarificatrice che possa illuminare i non consapevoli e bollare con l’infamia che meritano i subordinatori e i perfidi patrocinatori della fellonia. Come mai questa cartolina rosa, mandata agli ex-militari per avvertirli che in caso di richiamo per il completamento delle unità esistenti, nei limiti del trattato di pace, sarebbero destinati a tale reggimento, a tale città; come mai queste cartoline possono essere accusate di essere ordigno di guerra; o come mai coloro che si dicono partigiani della pace hanno osato suggerire ai destinatari di restituirle? Questo è negare alla patria il diritto di avere un esercito perfino nei modesti limiti concessi dal trattato di pace imposto dalle quattro Potenze vincitrici, compresa l’unione Sovietica, mentre si plaude alle immense armate popolari; ciò vuol dire negare alla patria una difesa necessaria qualora venisse attaccata. Partigiani della pace? Partigiani dell’invasione; partigiani della disintegrazione, nemici dell’Italia democratica e della sua indipendenza. Di fronte a tali tentativi è ora che stringiamo i denti, e che opponiamo la resistenza più accanita. Opponiamo la volontà ferrea e pubblicamente affermata di difendere il nostro paese nella solidarietà con i popoli liberi e secondo i patti sanciti dal Parlamento. Io ho fede in voi, o giovani, e non credo allo scetticismo che taluni degli anziani, o semi-anziani, rispecchiando il proprio interno smarrimento, attribuiscono a voi. Tutti noi vogliamo la pace e le stesse nostre misure modeste di difesa sono un provvedimento per la pace. La pace non ci stancheremo mai di cercarla, e volerla umanamente e cristianamente. Ma a chi parla e invoca il cristianesimo, rispondo che il cristianesimo è una concezione integrale: cristiano e sacro è il dovere di difesa. Cristiano è il nostro sforzo di alimentare, pur tenendoci lontani da ogni psicosi di guerra, lo spirito di fierezza e della resistenza degli italiani per il caso di attacco nemico. Cristiano è mantenere i patti solennemente, costituzionalmente sanciti. Cristiano è l’impegno di attuare e salvare la disciplina nazionale. Nella prima guerra mondiale i cattolici che pure in seguito al funesto dissidio fra Stato e Chiesa erano stati in gran parte tenuti lontani dalle pubbliche funzioni, talvolta perfino perseguitati, e sempre sottovalutati, fecero il loro dovere sulle Alpi, sul Carso, ovunque; e nella seconda guerra, pur diminuiti e mutilati nella loro libertà, si batterono in tutte le battaglie. Oggi che la patria è libera e democratica, che Chiesa e Stato indipendenti ciascuno nella sfera sua propria, hanno concordato costituzionalmente la loro azione nei settori comuni, la coscienza cristiana e democratica avrà delle esitazioni e delle debolezze? Non è vero, lo so; col vostro entusiasmo unitario, me lo dite. E so che voi giovani non volete dar rilievo ai vostri sentimenti religiosi, che per confermare con il sigillo di una convinzione profonda la vostra volontà di sacrificio; e voi sorelle, spose, madri future, andate incontro all’avvenire della vostra anima generosa, pronta a confortare e sostenere la maschia virtù dei vostri cari. Orsù, giovani, fatevi centro della solidarietà nazionale, siate di spirito largo e comprensivo verso chi, pur di diverso pensiero, milita sotto la bandiera della patria; siate energici, risoluti contro i seminatori di odio e di allarme. Guerra o pace? In verità io credo fermissimamente: pace. Io, il governo, la direzione del partito, tutti coloro che vi rappresentano e agiscono in vostro nome vogliono la pace, faranno il massimo sforzo per ottenere, per garantire e per consolidare la pace. Però, ripeto un pensiero a cui accennai altra volta: la pace bisogna meritarla perché non è semplicemente opera di uomo, ma bisogna invocarla e meritarla dalla Provvidenza di Dio. Ripeto, è la mia profonda convinzione e la mia sicura speranza. La Provvidenza ci darà la pace se saremo uniti, se faremo fronte contro i profittatori e i disintegratori, se difenderemo il popolo italiano dai seduttori, asserviti al bolscevismo straniero, se avremo fede in questo popolo, andando incontro ai suoi bisogni con ogni possibile provvedimento e con la massima generosità di spirito; anche se dovremo superare le nuove difficoltà della congiuntura internazionale per condurre a termine quelle riforme decennali che abbiamo iniziato con passo davvero giovanile. Soprattutto dovremo cercare di marciare avanti verso l’avvenire senza iattanza, ma con fermezza e senza paura. Ed eccomi alla questione che ho posto iniziando questo discorso. Forza del destino? No, forza consapevole della volontà, in collaborazione con i disegni di Dio. Ricordate il cieco [di] Bethsaida, nel racconto di S. Marco . Gli condussero un cieco perché lo guarisse. Ma Gesù non fece subito il miracolo, bensì prese il cieco per mano e camminando così, mano nella mano, lo condusse fuori della borgata. Qui avvenne la graduale guarigione. Al primo tocco il cieco vide in confuso gli uomini, come fossero alberi che si muovessero; al secondo tocco di Gesù egli vide chiaro. Era salvo! Ma egli – notate – ne era certo già prima ed aveva sperato efficacemente fin da quando si era incamminato; ecco perché sperare efficacemente vuol dire, giovani amici, marciare verso la luce e mettere la propria mano in quella di Dio. |
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| Non è opportuno che egli polemizzi con i vari intervenuti. Quello che di utile è stato detto è stato recepito da coloro che debbono riceverlo, e quello che di inutile è stato detto non è il caso di ripeterlo. Vuole estrarre dal dibattito il contenuto sostanziale del quale governo, gruppo e Dc possano profittare e trarre conclusioni. Anzitutto – a sua difesa – non di fronte al gruppo che ha avuto per lui maggiore apprezzamento, ma a certa stampa. Al riguardo rinnova la sua lagnanza per il metodo del gruppo. Un giornale passa il limite quando crede che egli abbia inventato il suo invito a Londra. Ciò rientra nella considerazione di una Dc intesa come il partito dell’abilità manovriera. Il gruppo con la sua libertà lo ha smentito. Non nasconde che la delega è un atto che può far nascere perplessità. Ma le responsabilità nuove non sono state chieste leggermente tanto più che l’aumento di responsabilità non è sempre in relazione con le energie degli uomini e cogli organismi. La delega nasce dall’esame profondo dello stato presente della legislazione in relazione alle nuove esigenze. Essa è stata sottoposta a giuristi. Perciò non c’è da meravigliarsi se il governo dica al gruppo che è grato della collaborazione per perfezionare il dis.[egno] di legge. Il ragionam.[ento] può estendersi anche al tempo. La delega è rivolta al Parlam.[ento] nel quale esiste una minoranza di tal genere di fronte alla quale non valgono forme di collaborazione. Così è nel paese. Noi dobbiamo in certi momenti la salvezza all’energia personale del ministro dell’Interno al quale deve andare la nostra gratitudine. Egli è sensibile di fronte alle accuse di gente in buona fede mentre sente profondam.[ente] che la Dc è ancora l’unica ancora di salvezza. Perché non se ne va De Gasperi? – si domanda Il Paese – e inventa il viaggio a Londra . Ma il viaggio era stabil.[ito] da prima S. Margherita ed è troppo serio perché egli potesse servirsene polemicam.[ente]. Se l’impostazione da lui data al principio, sembra vera, il gruppo dovrà trarne le conclusioni. Se non fosse vera il gruppo è libero di assumere le sue responsabilità e di trarne le somme dei diversi elementi. Sottolinea questa complessità di elementi che deve essere sottoposta a un giudizio complessivo. Sulla bilancia va posto l’attivo e il passivo del governo. Se gli interessi della nazione nel mondo hanno avuto una tollerabile soluzione. E poi sulla bilancia bisogna mettere anche le disgrazie: la Corea in un momento di pieno sviluppo della pol.[itica] governativa. Noi in Italia siamo condizionati in tutte le maniere dalla situaz.[ione] internazionale (materie prime, ecc.) e dobbiamo conservare la nostra dignità e indipendenza. Se dovete fare il quesito «andarsene o restare» (a questo proposito la solidarietà ministeriale andrebbe a picco se egli volesse essere manovriero) è inutile nascondersi dietro le formalità e con coraggio bisogna decidersi. Non è artificiosa questa impostazione. Non è un ricatto: è la vita parlamentare. Se egli vedesse possibilità di venire incontro alle difficoltà avanzate lo farebbe spec.[ialmente] per riguardo alla sua persona che ha il dovere di servire il partito. Pare a taluni che la c.[osì] detta inefficienza governativa sia prevalente e decisiva tanto da far correre il rischio. Ma non si può dire «facciamo la crisi e vediamo dopo». Queste cose bisogna vederle prima! I sottoscrittori dell’o.d.g. De Cocci non sono stati equanimi: una posizione in cui si esagerano i punti d’accusa e ci si restringe al settore economico. Quanto alla disoccupazione nega che la si sia accettata come un male cronico o non si sia fatto nulla dal governo. È il punto più debole per qualsiasi governo e la sua soluzione è condizionata anche internazionalmente. Ma ciò non ha portato né alla fatalità né alla inerzia. Si è fatto quello che si è potuto. Vorrebbe che un Comitato di gruppo volesse vedere in tutti i settori dell’amministrazione dove si può arrivare. Il problema è anche in relazione all’aumento demografico della popolazione; le statistiche dimostrano che mentre aumenta la popolazione attiva i disoccupati sono fermi sulle stesse cifre il che vuol dire che se ne assorbono 150.000 all’anno. [Prende quindi la parola l’on. Fanfani, che reputa errata l’interpretazione delle cifre fornita da De Gasperi]. Ad ogni modo egli voleva dimostrare lo sviluppo del piano degli investimenti produttivi e della conseguente occupazione operaia (cantieri di lavoro, INA-casa, edilizia) in base alle statistiche degli uffici minis.[teriali]. Così si è finanziata l’ICLE per l’emigrazione in Brasile, Australia insistendo presso l’OECE per il probl.[ema] della mano d’opera su scala internazionale. Non cerca qui una giustificaz.[ione] sostanziale sul problema che è aperto. Non si può staccare il probl.[ema] della consideraz.[ione] delle Finanze o della posizione in Italia nel mondo. Lo sforzo deve certo agire raddoppiato e per questo chiede la collaboraz.[ione] del gruppo. Quanto a dirigismo e liberismo ricorda che nella relazione dell’ONU si sottolinea che la pol.[itica] della massima occupazione non è legata né all’uno né all’altro indirizzo. Così per le cifre citate a proposito della Germania che non crede siano esatte. Tali probl.[emi] non sono risolvibili che affrontandoli attraverso diversi metodi e secondo le diverse possibilità. Si rifà all’esperienza di vecchi sindacalismi [non leggibile]. Aggiunge che non bisogna dimenticare il nesso che c’è col bilancio attivo e passivo del governo. Per la legge stralcio non si poteva fare più di quello che si è fatto. Così per la alimentazione. Quanto alla cosiddetta discordia dei ministri essa rientra nella dialettica dei governi secondo la quale ogni min.[istro] difende fino all’ultimo il suo punto di vista. Per questo si sono fatti i comitati interministeriali (es. Com.[itato] approvvigionam.[ento] che ha comprato per più di 200 miliardi di viveri che ha immagazzinato ecc.), finché non si trova l’uomo equo e onnisciente, che riducono la possibilità di sbagliare attraverso il sistema collegiale. Così per la elettricità – si domanda se sono tutte false le statistiche del governo che registrano nuovi impianti. Così per il metano. Una mancanza del governo è sulla legge mineraria. Fornisce precisazioni sull’attività del CIR precisando che esso non decide, ma presenta proposta al Cons.[iglio] dei ministri. In via generale pur con le inevitabili critiche, esso è stato utile per snellire l’azione del governo. Del resto la Dc non è la rappresentanza di diversi interessi e diverse categorie? In una situazione coma la attuale (risorgere della destra, crisi in campo comunista) la Dc per essere partito di governo deve estrarre dal suo seno autonomamente la sua linea, senza restare condizionata né alla destra né alla sinistra. O noi troviamo in noi stessi la positiva sintesi costruttiva sintetica o non rappresenteremo più il paese. (Applausi). Egli ha definito la Dc un partito di centro che si muove verso sinistra. Se la Dc vuol essere partito nazionale non può astrarsi dal cerchio ampio. Ma 1/5 è dovuto all’organizzazione del partito, ma gli altri 4/5 vengono per ragioni diverse anche se il 1/5 [recte: quinto] rimane il gruppo guida. Ricorda che a stento la Dc è riuscita a convincere gli italiani di essere cattolica ma liberale nei suoi rapporti cogli altri. (Applausi). Il programma della delega è [della] Dc. Intervenire per i deboli contro i più forti. Impedire che i sacrifici ricadano sulla povera gente. Salvezza della lira (non di chi ha miliardi ma dello stipendio). Il gruppo ha un obbligo di vigilare perché il governo a questo proposito non cambi strada. La delega non è una cambiale in bianco. Essa non vale a niente senza il costante consenso del Parlamento a mano a mano che si applicano i provvedimenti. Essa è stata chiesta, in vista della lentezza del meccanismo parlamentare: il problema della democrazia parlamentare è posto, ma non si possono anticipare le conclusioni. Es.[empio]: nella ammin.[istrazione] abbiamo fatto l’esperim.[ento] della Cassa del Mezzogiorno (se sarà buono il sistema si perfezionerà e formerà un utile correttivo). Così deve essere per la delega: autorizzazione a cominciare e al gruppo il compito di seguire anche attrav.[erso] la Comm.[issione] parlamentare. Per questo si debbono superare gli scrupoli e le responsabilità. Non c’è altro sistema per il rapido intervento (i decr.[eti] legge sono soggetti all’ostruzionismo parlam.[entare] entro 60 giorni). Quanto al Comitato delle «commesse» ricorda che l’abolizione del [non leggibile] a dare autorità al min.[istro della] Industria anche in rapporto internaz.[ionale]. Del resto o la forma collegiale o la figura del [non leggibile] che non è entrata nel sistema italiano. Precisa i compiti del Comitato per le commesse. Così un Sottoc.[omitato] si è trovato per trattare le questioni con gli americani. Se noi potessimo l’indirizzo sarebbe di abolire gli enti (es. Commiss.[ione] alim.[entare]). Così dobbiamo, a proposito di austerità, ridurre quelle élites per ragioni morali più che economiche. Quanto agli o.d.g. non accetta l’o.d.g. De Cocci , né quello Rapelli (del quale pure riconosce la buona volontà), quanto all’o.d.g. di Rivera è grato della collaborazione del gruppo ma non può accoglierlo. Accetta il Delle Fave-Pertusio in quanto cerca di qualificar la direttiva del gruppo. Insieme vuole accettare un impegno di lealtà reciproca. Il momento è troppo serio: noi vorremmo dire il gruppo manifesta la sua libertà e responsabilità. Fa appello al vincolo della responsabilità per la efficienza della Dc. |
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| La mia prima impressione è stata che si fosse verificato uno spostamento nella maggioranza, ma poi la cosa è risultata del tutto incerta. Un ulteriore esame ha precisato che i votanti dei partiti governativi furono 234, di cui 217 Dc, cosicché l’ipotesi dello spostamento entro la coalizione potrebbe essere avvenuta soltanto per poche unità. L’emendamento che è stato accettato non ha alcun valore, dato che l’accertamento delle scorte è stato già fatto e non si può annullarlo. Evidentemente non si può modificare una procedura per una operazione già compiuta. Se dal punto di vista tecnico la votazione non ha quindi rilevanza, essa poteva avere un valore sintomatico dal punto di vista politico in quanto avesse rivelato uno spostamento nella maggioranza. Ma lo spostamento è stato di minima ampiezza, al massimo di dieci, dodici voti; uno spostamento vi è stato invece fra la prima e la seconda votazione nei voti del Psu. È anche da tener presente l’altissimo numero degli assenti (81 deputati Dc più 51 degli altri gruppi). Ci vuole quindi un supplemento di inchiesta, una riprova che potrà essere data soltanto domani, che è la più importante. Io ero e sono sereno, in quanto ero già pronto a tirare altre conseguenze, poiché c’è una situazione morale in seno al mio stesso gruppo, ed ogni uomo ha il diritto di vedere chiaro. Se questo fosse avvenuto prima delle ultime discussioni di gruppo, forse nemmeno me ne sarei accorto, ma oggi, alla vigilia di una votazione molto più importante, quale risulta quella sul riarmo debbo vedere chiaro, e ho il dovere di salvaguardare tali votazioni anche di fronte al paese, affinché esse non siano esposte a fluttuazioni che alterino il pensiero della maggioranza. |
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| Non si tratta di una seduta formale di Consiglio dei ministri, ma di uno scambio di idee fra i principali esponenti , e soprattutto fra i rappresentanti dei diversi gruppi della coalizione. Non ci siamo perduti nella ermeneutica del voto: abbiamo constatato i fatti. Il governo non è in minoranza, non c’è una procedura di fiducia o di sfiducia, e quindi costituzionalmente – di fronte alla maggioranza parlamentare – i nostri rapporti sono quelli che erano ieri e speriamo che siano domani. Comunque si voglia interpretare il voto, è certo che l’interpretazione che ne dà la stampa di opposizione è inaccettabile. Né la maggioranza parlamentare né il paese accetterebbero che si considerassero in causa le basi del governo e le sue finalità essenziali, quali sono la democrazia sulla quale si fonda il principio dell’alleanza fra il partito maggiore ed i partiti minori, la sicurezza e la difesa che si fondano sui partiti internazionali. Questa considerazione e questo impegno che abbiamo dinanzi al Parlamento ed al paese, ci obbliga a continuare la nostra opera fino a quando il Parlamento ci concederà la sua fiducia, in modo particolare di fronte ai problemi della difesa interna ed esterna, e soprattutto fino a che il governo sarà in grado di fare appello agli elettori nelle elezioni amministrative, ingaggiando sulla base di una legge votata testè dal Parlamento una battaglia che è diretta a liberare certi Comuni da un anacronistico regime che non risponde più agli interessi né ai sentimenti del paese. [Il presidente del Consiglio risponde poi ad alcune domande sulle recenti votazioni del gruppo parlamentare democristiano della Camera dei deputati]. È una questione interna, e penso che in qualche modo possa essere avviata a soluzione. Ma noi ci siamo preoccupati essenzialmente di guardare all’interesse superiore del paese. Avremmo forse dovuto interrompere la nostra opera alla vigilia della realizzazione di tanti impegni già assunti? Penso di no. Da molte parti mi si consiglia di fare come Giolitti, al quale spesso vengo paragonato. Però in questo caso io, anche a rischio di logorare il mio prestigio, preferisco rimanere a sacrificarmi. |
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| Parlerà anche lui con piena sincerità. L’impostazione delle varie fasi della situazione è stata riassunta da Il Popolo. Le critiche fatte erano in maggior parte fondate e legittime. Egli però aveva prospettato l’inopportunità di fare dei cambiamenti nella compagine ministeriale perché questi avrebbero portato inevitabilmente alla crisi. Sarebbe immediatamente mancata la coalizione dei partiti e in questo momento in vista del convegno di Londra e soprattutto delle prossime elezioni amministrative non era possibile. (Consensi). Le trattative internazionali sono troppo importanti in questo delicato momento e anche la legge di delega doveva essere accolta con ogni fiducia dei membri del Parlamento , perché avendo tutti un’unica origine e un’unica meta ci dovrebbe essere maggiore comprensione per la grande missione cui la Dc è stata chiamata dopo le elezioni del 18 aprile. Ma è stato triste non essere riusciti a convincere di questo gli amici. Questi amici, dopo le critiche fatte al governo, hanno continuato a ripetere che il presidente ne era escluso. Egli del suo operato ne dovrà rispondere di fronte al paese. Ha avuto è vero la tentazione di aprire la crisi per potersi maggiormente dedicare alla presidenza del Consiglio nazionale del partito. Ma la concezione cristiana del mandato ha un valore ben diverso dalla concezione liberale. (Applausi). Ha poi valutato tutti i pro e i contro della situazione ed alla fine ha preso la determinazione di continuare la sua opera. Egli non può in questo momento allontanare dal governo i colleghi che hanno sempre collaborato con lui. Rileva quindi come la procedura della seconda votazione della Camera sia stata veramente corrosiva per l’unità del gruppo. Senza il principio della responsabilità comune il partito si sfascia. La forza e l’impulso del Partito comunista sono in questa disciplina. La Dc è stata dal 1948 ad oggi com’è, perché ha rappresentato il punto solido della nazione. Si augura quindi che i colleghi giovani e non giovani si possano ravvedere per riprendere insieme la perfetta collaborazione. Se il paese resisterà a questa demolizione del partito che dura da due mesi vuol dire che è forte! Certo però dice che questo continuo stillicidio che viene dall’alto può produrre i suoi frutti deleteri. Rievoca quindi gli sforzi del Partito popolare con la sua minoranza al governo dopo il 1922, prospettando le conseguenze che si verrebbero a verificare se dovesse tornare un’analoga situazione. Ringrazia quindi della comprensione trovata in seno a questo gruppo e infine facendo riferimento a quanto chiesto in principio di seduta in merito alla politica estera, riferisce circa il convegno di Londra e assicura per Trieste la completa vigilanza perché non si scivoli in posizioni pericolose. Non può rispondere completamente alle questioni rivoltegli dal sen. Galletto avendo riferito ampiamente anche nei riguardi dell’emigrazione nella precedente riunione. Per i rapporti culturali risponde a Carboni ricordando quanto già comunicato in merito agli scambi franco-tedeschi. Invita quindi i colleghi insegnanti a mettersi a disposizione del Ministero degli Esteri con i consigli e la collaborazione per l’organizzazione di campi, viaggi, ecc. Ringrazia di nuovo il gruppo. |
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| Caro Saragat, nei nostri passati incontri ti ho sempre dichiarato che credevo doveroso di astenermi da qualsiasi pubblico giudizio in materia che riguardasse il tuo partito ed i suoi sviluppi, pur riaffermando la mia antica convinzione intorno al valore della collaborazione socialista democratica nell’opera di consolidamento della democrazia italiana, e apprezzando quindi ogni sforzo tendente a creare una solida base al partito che, mirando alla giustizia sociale secondo i princìpi e metodi della democrazia, dovrebbe sottrarre al bolscevismo parte notevole delle masse socialiste. Non ho bisogno di dirti che questo atteggiamento, condiviso anche dalla prevalente maggioranza dei miei amici politici, è presente e fermo nel mio animo, anche nelle attuali circostanze. Ti ho esposto tuttavia verbalmente le ragioni, per cui ritengo opportuno di rinviare a un momento più adatto, per quanto non lontano, una revisione della situazione politico-governativa: ragioni che ti erano già note per averle io esposte anche in seno ai gruppi parlamentari Dc e comunicate al pubblico. Ora, anche in seguito al desiderio da te espresso, voglio qui precisare quelle che hanno più diretto riferimento con il tuo partito. Il fatto più importante dello sviluppo democratico italiano nelle prossime settimane è l’indizione delle elezioni provinciali e comunali. Fino a poco fa era lecito dubitare che le elezioni amministrative fossero imminenti, ma la recentissima approvazione data dalla Commissione parlamentare alle circoscrizioni del centro-nord, rende ormai possibile la convocazione dei comizi amministrativi nell’Italia centrale e settentrionale. Non ho bisogno di ricordare a te che fosti uno dei più attivi negoziatori, che dopo lunghissime e faticose trattative in sede parlamentare e fra i partiti della coalizione, venne raggiunto sui due sistemi elettorali un accordo che diede piena soddisfazione ai vostri postulati . La corrispondenza che hai in mano, attesta che la Dc ha abbandonato le sue iniziali posizioni per venire incontro alle richieste dei partiti minori e più particolarmente a quelle del tuo partito. In base a tale accordo il governo ha lasciato cadere i suoi progetti maggiori, ammettendo invece tutti i partiti apparentati a concorrere al cosiddetto premio di maggioranza. Perché si è potuto raggiungere tale compromesso che pur diminuisce le chances del partito più forte? Perché l’apparentamento facilita e può garantire nei Comuni e nelle Province la costituzione di un’amministrazione democratica a larga base, ossia estende al settore autonomo amministrativo il consolidamento della democrazia in Italia. Ecco la meta, sulla cui importanza non occorre richiamare l’attenzione di un politico come te, che ebbe sempre occhio e animo rivolto alle fortune della democrazia. Per riuscire tuttavia bisogna concentrare tutte le nostre forze, superare le differenze, rinviare le polemiche che potrebbero dividerci. Sarebbe possibile in un momento critico ottenere tale concentrazione, che, pur salvaguardando l’autonomia morale e politica di ogni partito, ci faccia marciare parallelamente verso il consolidamento della amministrazione democratica? Ammettiamo pure i buoni e lenti propositi dei dirigenti delle due parti, ma se i nostri rapporti politici fossero in situazione di crisi polemica, fatalmente acuita dalla rottura della collaborazione, come potremmo imporre alle masse elettorali quest’atmosfera distensiva che pur lasciando adito alle affermazioni di tendenza e di programma, le colloca in una visone d’insieme? È inutile farsi illusioni. Per quanto sarebbe desiderabile che il dibattito si svolgesse attorno ai problemi amministrativi, il grande schieramento che ci divide in Italia e nel mondo, si imporrà anche nella lotta amministrativa; e sarebbe del resto vano il contestare, ad esempio, che il voto dei Comuni non assuma – sia pure nei limiti del sistema elettorale adottato – un sapore politico. Saremmo sempre all’alternativa: democrazia e antidemocrazia, che fu la battaglia del 18 aprile. Essa verrà combattuta sotto la stessa bandiera nei Comuni nelle Provincie e nelle Regioni autonome; come la Sicilia e l’Alto Adige. Ciò constatato, non ti pare saggio e doveroso rinviare la revisione politica almeno a dopo i più significativi scontri elettorali? Come si potrebbe assumere la responsabilità di mettere in pericolo la vittoria democratica e di permettere che il sistema dell’apparentamento venga utilizzato contro coloro che l’ hanno proposto o concesso? Tu comprendi bene lo spirito con cui richiamo l’attenzione tua e, per mezzo tuo, dei tuoi amici, sulla grave responsabilità che incombe. E qui tocco materia delicata che non mi concerne direttamente, ma mi permetterai di aggiungere che se fossi nella tua situazione, non vedrei come questo doveroso riguardo verso la responsabilità democratica non possa essere in contrasto con l’ulteriore evoluzione unitaria del tuo partito, quale hai auspicato e preparato. Non è anzi sempre avvenuto che lo schieramento comune di due frazioni faciliti la loro unificazione; e tale sviluppo non è appunto agevolato anche dal sistema elettorale? Ma questa è materia della vostra ponderazione e deliberazione. Sentivo la responsabilità di dirti una parola, ispirata dalla costante amicizia e da una comune speranza; ora sento la responsabilità di tacermi dinanzi la vostra libera coscienza di socialisti e di italiani. Tuo cordialmente. |
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| Polemizzando con un articolo del senatore Tosatti, pubblicato ne La Libertà di mercoledì , il direttore de La Giustizia di stamane arriva alla seguente conclusione: «di fronte ad affermazioni di questo genere, che vanno sempre più intensificandosi in seno alla Dc, senza trovare nella maggioranza di quel partito alcuna seria remora, i socialisti democratici devono ormai porsi il problema se sia possibile e conveniente continuare a mantenere in seno all’attuale coalizione governativa delle posizioni che comportano delle pesanti corresponsabilità e per le quali si profila la minaccia di essere aggirate dall’esterno proprio da parte di forze che fanno parte del partito leader» . Ora nei circoli responsabili della Dc si fa rilevare che l’articolo incriminato esprime l’opinione personale dell’on. Tosatti e che tuttavia per quanto pubblicato dal La Libertà, che in materia ha sostenuto ripetutamente una direttiva divergente da quella del partito Dc, non si presta, nemmeno nei termini suoi, alla conclusione alla quale tende giungere La Giustizia. Ma tale conclusione, poi, è assolutamente inammissibile se si volesse riferirla alla posizione responsabile presa dai circoli dirigenti della Dc. L’atteggiamento della Dc e con l’accettare il sistema dell’apparentamento e con la conferma anche recente da parte del partito, del gruppo parlamentare e del governo della sua leale direttiva collaborazionista, sta a dimostrare come sia da escludere in modo assoluto che le si possono imputare velleità di rottura e propositi di aggiramento e di monopolio. La posizione ufficiale e responsabile della Dc è riassunta del resto nella lettera che il presidente del Consiglio ha diretto il 20 marzo all’on. Saragat. Ne fu letto il testo nella direzione del Psli, in quella della Dc, e in seno al Consiglio dei ministri. Ora che, previo consenso, essa è considerata dalle parti documento pubblico, gioverà ch’essa venga conosciuta più largamente, affinché serva a chiarire dubbi, a dissipare – se occorre – diffidenze fuori di posto. Ecco il testo della lettera . |
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| Egli [De Gasperi] ha ricordato quanti hanno contribuito ad affermare in Italia gli ideali della Democrazia cristiana e primo fra tutti il fondatore del Partito popolare, don Luigi Sturzo. De Gasperi ha sottolineato poi il significato della politica svolta dalla Dc negli ultimi anni: politica tesa al consolidamento della democrazia, al servizio della nazione e aperta alla collaborazione delle forze democratiche non per raggiungere la formula matematica della maggioranza, ma per tradurre una concezione larga e tollerante improntata alla liberalità e alla funzione assimilatrice del Cristianesimo. Ricordate le sue prime battaglie politiche e sindacali e le esperienze dei cattolici sociali in Italia e all’estero, il presidente del Consiglio osserva che in Italia il movimento cristiano-sociale è passato da un atteggiamento di critica nei confronti del vecchio Stato liberale alla fase del suo rinnovamento attraverso l’inserzione delle forze politiche ispirate al Cristianesimo. Coloro i quali non sono vissuti al tempo dei primi anni del fascismo e non hanno lottato allora per la libertà, non sanno quanto sia stata dura la tensione per aver dovuto subire il fascismo. Ecco perché talvolta mi vedete diffidente e cauto dinanzi a certi interventi dello Stato: è l’esperienza che parla, sono i miei 70 anni che mi consigliano di fare attenzione a non perdere la base della convivenza civile, che è la libertà politica. E questo ripeterò sempre come un monito, come una diffida, poiché la nostra libertà è tutto il nostro patrimonio. Durante il fascismo abbiamo perduto la libertà politica, quella personale, quella parlamentare, perché non siamo stati vigili abbastanza. Se noi concentrassimo oggi tutti i nostri sforzi, le leggi migliori, per tentare una maggiore e migliore distribuzione della ricchezza, per attuare le grandi riforme, senza fare attenzione ai pericoli che ci tendono i nemici della libertà democratica, finiremmo per avere delle altre nuove e amare delusioni. È sempre meglio – ha detto Montalembert – il peggiore dei parlamenti alla migliore anticamera. E l’anticamera della dittatura l’abbiamo vista: è la perdita della libertà, e la perdita della dignità umana. De Gasperi accenna, poi, alle condizioni dell’ambiente in cui si svolge l’azione della Dc e invita a non dimenticare alcune caratteristiche del nostro paese, povero di materie prime, con un aumento della popolazione che determina una leva del lavoro di 250 mila unità all’anno, non più assorbite come prima per le vie dell’emigrazione. Ricorda che il reddito individuale in Italia è la metà del reddito individuale francese, un terzo dell’inglese e un settimo dell’americano; e ciò prescindendo dalle enormi difficoltà distributive dei beni e dello sviluppo irrazionale delle nostre industrie, di cui alcune con tendenza monopolistica. Per risolvere questi gravi problemi non basta sempre la buona volontà, occorrono mezzi e possibilità che non sono sempre disponibili nel nostro paese. De Gasperi fa quindi appello all’unità, a quella unità che oggi gli è stata più volte clamorosamente confermata e che va cementata in un largo schieramento per resistere contro ogni pericolo interno ed esterno. Dinanzi alle nuove battaglie che dovremo affrontare, io vorrei che soprattutto dessimo ascolto ad una voce veneranda ed augusta, a quella del Santo Padre, il quale, in un suo recente discorso, diceva che vi sono classi dirigenti, le quali non hanno il coraggio di affrontare i problemi e che si lasciano sommergere dalle difficoltà perché interiormente hanno perso la loro forza costruttiva, permettendo così alle termiti di corrodere l’interno del legno. Questo è il quadro dell’Europa e del mondo, che impone ai democratici cristiani di coltivare, accanto all’unità del partito, una forza spirituale tale che superi le dure difficoltà odierne. Valga questo ammonimento a rafforzarci in una unità non conformista, ma in una unità ragionata, discussa e liberamente accettata perché in ciò è la nostra forza. A proposito della imminente campagna elettorale occorre, oltre al senso dell’unità, quello della risolutezza. Quanti dicono che io sono un tattico, e spiegano con ciò le vittorie elettorali, errano, in quanto non riconoscono che queste sono vittorie della fede nella nostra missione politica. Con questa fede, affronteremo le elezioni prossime anche se oggi vi sono difficoltà diverse e maggiori. Ai giovani dico di non perdersi in discussioni: vincere bisogna. Faccio appello a tutti ed anche a me, perché nei Comuni sia eretto un baluardo contro quanti vedono l’Italia come paese satellite che dipende da altri ordini e da altri comandi. Non abbiamo odio né risentimento contro nessuno, né ad Oriente né ad Occidente: ma abbiamo l’intima convinzione che se la nostra civiltà si dilegua, se la nostra luce si spegne, nessuna altra luce potrà restituirla. Io credo che, se altri meriti non avessimo che quello di aver mantenuto l’ordine in Italia, di aver fatto argine, quando veniva preparata o minacciata una rivoluzione, ciò sarebbe bastante per rivendicare alla Dc il privilegio di aver salvato, con l’ausilio delle altre forze democratiche, la libertà del paese. Ma ben altri ancora sono stati i meriti e gli sforzi realizzati dal nostro partito sino ad oggi: e i vostri propositi, la vostra volontà di combattere uniti le prossime battaglie, io li accetto come il migliore augurio di poter servire ancora gli interessi del paese. |
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| Anch’egli ha più volte rilevato che il probl.[ema] del funzionam.[ento] del gruppo esiste e va risolto anche perché interessa il governo e il partito. Rileva che la prospettiva delle ammin.[istrative] fu da lui fatta al gruppo prima delle vacanze ed è stata ratificata da tutte le informazioni venute spec.[ialmente] dal nord. La fatalità è che le amministrative debbano assumere valore politico (basta pensare al discorso di Nenni di ieri) e non si può evitarlo data l’impostazione data dalla opposizione (Patto atlantico e situazione internazionale). Base e amici ci hanno imposto di fare subito le amministr.[ative] perciò non si è avuta scelta. Q.[ues]t.[a] pregiudiziale ha condizionato anche la soluz.[ione delle] dimissioni [dei] ministri [del] Psli. Oggi c’è solo da fare le ammin.[istrative]. Dopo dovremo discutere a fondo su tutte le questioni che sono state sollevate. Questione politica e ciò interessa il governo, partito e gruppo come ogni organizzazione. Qualunque sia la nostra cautela, non sfuggiamo al fatto che qualsiasi elemento impostiamo all’interno assume ripercussioni all’esterno. Si rifà alla impostazione di Nenni ieri (crisi Saragat originata dalla crisi interna della Dc) e alla speranza degli avversari che la crisi si verifichi a proposito del probl.[ema] internazionale. Tutto è impostato così. Vedi anche Togliatti. Per questo richiede se l’interv.[ento] di Nenni non dà ragione a quanto da lui detto in gruppo e al partito il 3 aprile che questa è la battaglia per vincere anche per le amministrative. Lo stesso Pc sente il disagio della impostazione esclusiv.[amente] in politica estera. Gruppo e governo dovranno rispondere entrambi a Nenni, che ha saltato la votazione sul riarmo, che proprio questa distrugge la sua tesi. Sottolinea l’importanza del voto che è fondamentale ai fini dell’efficienza verso le amministrative . Poiché quanto abbiamo detto qui verrà risaputo riassume che il senso della discussione è che egli può prendere atto dell’unanime consenso del gruppo sulla impostazione data alla soluzione delle dimissioni [del] Psli . |
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| Qui si esalta la resistenza contro lo straniero, non la guerra che lo straniero accampato in Italia per conquista rese fatale e fratricida. Qui si celebra lo spirito di sacrificio sull’altare della patria e gli esempi come quelli illustrati oggi sono così luminosi da fugare le ombre che accompagnano ogni moto storico in cui le masse agiscono per passione collettiva. In questa immensa Arena aleggia lo spirito di libertà che i volontari vollero animasse un’Italia libera e democratica. Qui il ricordo di tanto sangue sparso rende più acuta la risoluta aspirazione della pace. Pace fra tutti coloro che sentono la solidarietà nazionale e in caso di pericolo la vogliono difendere. Unione per tutti coloro che dal crollo disastroso della disfatta hanno imparato che la nazione italiana deve reggersi in libertà in uno sforzo solidale per la giustizia tra le classi e fra i popoli. |
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| Amici trentini, quando i nostri padri, nel 1848, gridavano «Viva la Costituzione» e il Rosmini scriveva il suo libro sulla costituzione nella giustizia sociale , non pensavano alla forma, alla lettera, ma allo spirito delle cose nuove. La Costituzione è uno statuto della comunità nazionale, le leggi sono norme giuridiche che ne regolano la vita, il metropolitano che regola la circolazione non è il movimento: incanala, accelera, ritarda, ma non crea l’impulso, né ne determina la misura e la efficacia; il metropolitano, i carabinieri, i magistrati sono necessari come sono necessarie le dighe per i canali. Ma la sorgente della vita comune è il senso della solidarietà nazionale che scaturisce dalle montagne secolari della nostra storia e della nostra tradizione civile: è lo spirito della fraternità che deve animare la democrazia e rendere giusta ed efficace la libertà, è sopratutto la scintilla che si accende nel nostro cuore per creare e rendere operante la nostra coscienza morale. Cesare Battisti scriveva nel suo opuscolo su Antonio Gazzoletti: «nella vita dei popoli vi sono dei momenti in cui si impone il ritorno al passato» . Leopardi rievocava gli eroi romani alla vigilia d’Italia. Gazzoletti, prossimo il compimento dell’epopea nazionale, vede avanzarsi in lontananza l’era della umanità, il ritorno con il pensiero all’ideale cristiano. Tre sono i monumenti a Trento che vedo come simbolo della nostra tradizione, della nostra storia, della nostra vita civile: il monumento dantesco, la Torre Civica e la Cattedrale. Il monumento a Dante rappresenta la rivendicazione della difesa della famiglia nazionale, dei suoi diritti, della difesa etnica e politica, ricordando ai trentini di essere dei soldati di confine, dei militi confinari per la difesa della patria. Ma un supremo anelito di giustizia ispira anche da quel monumento, perché la scritta dice: «inchiniamoci italiani, inchinatevi stranieri, deh, rialziamoci affratellati nella giustizia». Ecco come il nostro senso nazionale, il nostro senso di unità e solidità della patria è contemporaneamente senso di giustizia internazionale, senso di universalità cristiana. La Torre Civica ricorda i Comuni come focolai della democrazia e della libertà, l’unione delle forze, l’autonomia. Sì, autonomia. Ma i Comuni sono anche motori di una comunità più vasta, di una gerarchia superiore: la libertà, l’autonomia della periferia, la unità al centro. Due forze che si sono cozzate l’una contro l’altra tante volte nella storia dei secoli, ma che alla fine hanno prodotto l’equilibrio che si chiama oggi Costituzione. Il vecchio statuto si limitava ad affermare nell’art. 74 che le istituzioni e le circoscrizioni comunali e provinciali sarebbero state regalate da apposite leggi; la vigente Costituzione invece stabilisce, già all’art. 5 che «la Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze della autonomia e del decentramento». Questa disposizione è d’importanza basilare, in quanto rappresenta garanzia di insopprimibilità delle libertà degli enti locali, mentre ribadisce e consacra la forma unitaria dello Stato, secondo le esigenze storiche italiane, costituisce la nuova Repubblica sul principio dell’autonomia locale e del decentramento vivamente sentito come esigenza moderna e contemporanea. I nostri avversari affermano che il nostro ministro dell’Interno particolarmente e il governo in genere non rispettano le autonomie locali, e ci si riferisce a qualche caso di scioglimento di comuni. Ma bastano le cifre già ricordate dal discorso dell’onorevole Scelba per raffrontare e concludere che oggi il rispetto delle autonomie locali da parte del governo è ben maggiore di quello che fu nei passati governi, anche di governi come quello di Giolitti in cui più numerosi sono stati gli scioglimenti delle amministrazioni comunali . Certo noi dobbiamo esigere che gli enti locali, i comuni, le province, le regioni cooperino, lavorino insieme con lo Stato. Questa è una necessità assoluta. Laddove non vi è questa cooperazione, né l’amministrazione statale, né l’amministrazione comunale possono andare di conserva. Già il problema finanziario ci incalza; ovunque dobbiamo compiere una opera amministrativa o promuovere lavori pubblici; già l’asprezza di questo problema ci costringe alla cooperazione: siamo legati alla stessa sorte e dominati dalla stessa necessità. In qualche paese si predica invece che la legalità e la cooperazione con lo Stato e i Comuni deve essere fatta fino ai limiti che potevano coincidere con gli interessi del partito. In qualche altro caso il fatto che siano state scoperte delle armi nelle case comunali, ci dice che accanto a questa legalità formale vi era invece una riserva di ricorrere a delle violenze, ricorrere a una insurrezione o ribellione qualora la legge venisse interpretata in un senso che non era utile al partito. Il terzo monumento che simboleggia la nostra attività e la nostra tradizione comunale e nazionale è la cattedrale. Cesare Cantù scrive, riferendosi al passato glorioso dei Comuni: «un Comune ed un Santo; ecco gli elementi di cui si componeva la nostra libertà. Quando suonano le campane, esse suscitano echi differenti conforme all’animo di chi sente: in alcuni risvegliano un atto di culto in altri questo atto di culto non è compiuto, ma tutti le ascoltano». Ecco perché l’atmosfera in cui viviamo è ancora cristiana per alcuni consapevolmente, per altri tradotta in formula umanitaria, in aspirazione di giustizia sociale. Ed allora diciamo: nell’azione civile e politica seguite questa norma: essere civilmente e socialmente cristiani implica un duplice dovere per chi professa dei culti; non scandalizzare i poveri, non scandalizzare chi ha senso di dignità umana e di giustizia sociale, perché l’ansia di giustizia e la fierezza di libertà sono elementi più o meno consapevoli della nostra tradizione cristiana e nazionale. Agli altri, a coloro che non accompagnano il suono delle campane con atti di culto, io dico: non uscite dalla nostra storia, agite pure in libertà da galantuomini, ma entro la nazione ed entro la democrazia. Noi, in fondo, abbiamo assorbito la dottrina e la predica dei neoguelfi del ’48 ed in genere del Risorgimento, cioè non concepiamo la politica al di fuori della morale, non concepiamo lo Stato senza la Chiesa, né la democrazia senza la religione. Ma fra loro e noi c’è una differenza nell’applicazione della visione pratica, e la differenza è questa: noi oggi dietro l’esperienza di un secolo che abbiamo attraversato crediamo nella forma democratica, crediamo nelle istituzioni libere e crediamo che lo Stato non basti che sia lo Stato gendarme dell’ordine pubblico, lo Stato del magistrato, dev’essere lo Stato sociale che si occupa dell’assistenza, che si occupa dei poveri, che ha dei doveri verso il popolo e soprattutto verso i deboli del popolo. In confronto con i neoguelfi di un tempo e la loro illuminata buona fede, abbiamo fatto in forza della esperienza, un altro passo avanti verso la chiarezza: oggi in noi c’è più chiara la distinzione tra la sfera di azione dello Stato e l’azione della Chiesa, fra politica e religione, e non confondiamo una missione con l’altra. E benché le sappiamo associate nel progresso umano tuttavia distinguiamo responsabilità e funzione. Questa visione delle cose garantisce la possibilità di un rinnovamento di tutte le forme, di tutte le strutture: noi non siamo legati né alla forma individualista né a quella socializzatrice. Possiamo, di caso in caso, essere per la libertà di iniziativa e in caso di necessità essere anche per la socializzazione e per la municipalizzazione; possiamo tranquillamente deciderci per una forma o per l’altra, purché la sostanza, cioè l’interesse del popolo, sia quello che ci guida. Direi però a coloro i quali non la pensano come noi ma che possono ancora muoversi entro la democrazia, secondo la confluenza generica della nostra tradizione civile: se volete lavorare col popolo non sradicatevi dalla nostra terra che è la vostra patria; non bestemmiate contro i vostri padri, rimanete nell’alveo della nostra storia. Ai credenti diciamo: prendete dai padri lo spirito e l’espressione, ma non volgetevi indietro a forme superate o contingenti, non siate lodatori dei tempi passati, siate democratici nello sforzo sincero e tenace di consolidare per rendere operante il metodo della democrazia e della libertà, con tutti i suoi errori. È il meglio che si possa fare, è il meglio che si sia trovato. Guardate la grande democrazia americana: il presidente che depone un generale in capo, pieno di meriti ed elogiatissimo, ed ha coraggio di farlo perché è nell’interesse della pace. Si sollevano discussioni; parlano i senatori e i deputati e parla l’opinione pubblica. Tuttavia il presidente e coloro che lo sostengono, guardano con fiducia alla maturità del popolo americano che capirà che nonostante gli entusiasmi di quelle giornate, nonostante i meriti di chi è stato colpito, la via della pace, la via della concordia, la via ricostruttiva della democrazia esigeva anche tale discussione. Levate il cappello dinanzi a questa democrazia, della quale si va dicendo che noi siamo servi e schiavi, e non si vuole riconoscere che seppure trascinata da passioni, sa correggersi da sé, sa rettificare la propria rotta. Può accadere ciò in un regime di dittatura o semi-dittatura? Quando un solo partito domina, quando i direttori e le organizzazioni vengono nominati dall’alto, quando la critica è una beffarda auto-critica? Vi dico che la storia ci insegna che nonostante i difetti della democrazia, il metodo democratico è quello che più trae dall’uomo le conclusioni possibili di una vita comune per un processo della comunità nazionale. E dico agli amici miei: siate tolleranti. Nelle questioni della coscienza siate tolleranti. Quanto più siete forti delle vostre convinzioni tanto meno avete bisogno di atti scomposti o di biasimare chi pensi diversamente. Siate tolleranti e sappiate scoprire il senso cristiano in tutto quanto si presenta nobilmente umano ed in buona fede, e sappiate scoprire il lievito evangelico nei fermenti rinnovatori e collaborare con pazienza a che questo lievito si rivesta di convinzione consapevole. Tale è la nostra idea politica. Amici miei, non è un caso che la legge elettorale che applicheremo in queste elezioni sia venuta dalla Svizzera . L’apparentamento, questa nuova formula è venuta dalla Svizzera; è nata in discussioni alle quali partecipai quando si manifestò la necessità di adottarla in Italia, allo scopo di trovare il modo di mettere d’accordo due partiti e due correnti, senza che una perda della sua autonomia in confronto dell’altra, trovare il modo di metterle d’accordo per poter raggiungere uno scopo comune: ecco perché il sistema attuale non ha niente a che fare con la confusione che era necessaria una volta quando si facevano i blocchi o le liste comuni. Voi potete appartenere al partito A e trovarvi nello schieramento generale democratico e collaborare con altri, che altro pensiero dominante hanno, ma che tutti si possono riassumere nella formula generale della democrazia italiana: dignità, libertà, collaborazione. Questo sistema non è una ghigliottina; esso garantisce a chi fa l’apparentamento la partecipazione alla maggioranza, e non elimina gli altri perché concede il controllo alla minoranza. Qualche giornale ha scritto: «c’era bisogno a Trento di una legge particolare, dell’apparentamento che unisce tutti i partiti democratici? C’era bisogno di impostare la lotta politicamente? Non basta discutere le questioni amministrative del Comune, gli affari del Comune?». È vero, se si potesse sarebbe meglio. Ma, amici miei, non possiamo isolare un comune o una provincia dal resto della nazione . Non possiamo dissociare le sorti della vita sociale della nazione dal destino del mondo. Parlano dappertutto di pace: parlano sopratutto di pace coloro che si vantano di essere i «partigiani della pace», e dimenticano una circostanza importante: mentre parliamo di pace, c’è della gente che fa la guerra, mentre parliamo di difesa c’è della gente che ha attaccato, e che ha incominciato la guerra. La Corea non è così lontana e da essa può svilupparsi un incendio in tutto il mondo. Allora il problema è di sapere chi ha attaccato; chi è che aggredisce, chi è che si difende: è una questione di grande importanza. Resta il fatto che l’intervento di circa 50 nazioni, le Nazioni Unite e la mediazione offerta ripetutamente non sono bastati per arrivare almeno all’armistizio od alla cessazione del conflitto e migliaia e migliaia sono ancora oggi i caduti; questo conflitto nasconde la possibilità di un conflitto ancora maggiore. L’argomento è significativo, ma prima di procedere, dato che le polemiche di questi giorni, mi hanno costretto a fare una parentesi nel mio discorso, vorrei accennare a quello che in fatto di politica internazionale ha fatto il governo in questi ultimi tempi. Abbiamo chiesto ed ottenuto dai firmatari della tripartita che se la Russia insistesse per trattare la questione di Trieste nella prossima auspicabile Conferenza a quattro, sostenessero la proposta che in tale dichiarazione si conteneva, cioè che il Territorio libero venga restituito all’Italia. Non abbiamo mancato di sollevare la questione di tutto il Trattato: esso è uno strumento moralmente superato, almeno nei confronti di tre sui quattro firmatari; esso è anche praticamente attuato per quanto riguarda le sanzioni, ovvero queste sono contrattualmente garantite per posteriori accordi; e se la Russia si opponesse ancora all’abolizione giuridica del Trattato, niente impedirebbe che gli Alleati, per quanto [ci] riguarda, solennemente proclamassero che il Patto atlantico assorbe e annulla moralmente in se stesso il Trattato come strumento di sanzione e lo sostituisce nei rapporti con i paesi atlantici. Anche questo nostro postulato può accordarsi senza urti e va considerato come elemento di distensione e di pace. Suggerimenti di pace sono anche quelli confidenziali del ministro degli Esteri, intorno a cui è naturale si mantenga per ora il dovuto riserbo, ma che mirano a rendere ancora più evidente e inconfutabile il carattere difensivo del Patto atlantico. Si è cercato di svalutare tali iniziative e d’altro canto la Pravda parla di macchinazioni dei nemici della Russia. Ebbene siamo vicini allo svolgimento di nodi che cinque anni fa sembravano perduti nelle nebbie dell’avvenire. È ancora la paura di invasioni totalitarie, che ha maturato gli spiriti e addolcito i propositi. Popoli e governi che nella folle guerra da essi scatenata nel 1939 ebbero responsabilità infinitamente più gravi di certe nostre addolorate passive acquiescenze, ritroveranno forse presto la pace e l’uguaglianza politica, grazie anche all’alto valore morale di taluno dei loro attuali reggitori. Quale responsabilità sarebbe stata la nostra se non avessimo colto l’occasione per affermare che s’impone ormai una morale revisione del Trattato; e se al tempo stesso, non avessimo provato col recente contributo circa la pace generale che siamo consci del nostro diritto e dovere di esercitare liberamente la nostra parte nella opera comune di ricostruzione della vera pace! L’aggressione in Corea può servire di chiave per interpretare tutto l’atteggiamento comunista. In Corea gli aggressori non sono i nord-coreani che hanno attaccato i coreani del Sud, ma i coreani del Sud che si difendono e le Nazioni Unite che accorrono in soccorso del paese invaso. Così sono aggressori i paesi atlantici che si uniscono in un patto difensivo contro la preponderanza armata dei paesi bolscevichi; così l’URSS non può essere sospettata di costituire un pericolo per la pace, perché essa è socialista e quindi non imperialista, e dato questo suo carattere, è ridicolo di riferirsi ai suoi armamenti o alle sue conquiste; mentre il Nord America che vittorioso in guerra ha smobilitato e non ha fatto annessioni è proclamato imperialista e quindi una minaccia alla pace. In base a siffatti ragionamenti, che cosa vorrà dire l’onorevole Togliatti, quando dichiara in pieno Congresso che i comunisti italiani anche nei problemi di pace o di guerra accettano la direzione dell’URSS che non è imperialista ma socialista? Vuol dire che essi, qualunque cosa avvenga, attacchi la Russia o attacchino gli altri, per i comunisti è già dottrinalmente fissato che l’aggressore sarebbe l’Italia, la Francia, la Corea del Sud; mai la Russia che si trova per definizione dalla parte dei pacifisti. Per conseguenza l’altra dichiarazione di Togliatti nello stesso Congresso che «il popolo italiano», cioè (i comunsocialisti) non combatterà mai una guerra al servizio dell’imperialismo americano per distruggere le conquiste avanzate «dei popoli e respingere tutto il mondo verso la schiavitù» , vuol dire che qualunque guerra che scoppiasse fra l’URSS e l’America e i suoi alleati verrebbe proclamata dai socialcomunisti guerra imperialista, e il popolo verrebbe esortato a non combatterla, perché, fosse provocata anche da un attacco sovietico, essa sarebbe sempre guerra di religione, cioè guerra tra imperialismo borghese e reazionario e progressivismo socialcomunista; e i socialisti del Pci. dovrebbero allora schierarsi da questa parte, qualunque sia la frontiera che li divide o la patria che li alberga. Ma ove comincia allora e ove finisce la patria? Che cosa rimane della Costituzione italiana che proclama sacro il dovere della difesa della patria? Intendiamo anche allora perché Togliatti si proclama non solo ossequioso alla direzione dell’URSS, cioè alle direttive del Politbureau, ma anche nettamente solidale con gli stati satelliti, col loro regime e coi loro governi. Gli italiani il 18 aprile si sono commossi e allarmati per il regime di terrore che si è instaurato in quei paesi. Quando un siffatto governo s’impadronisce anche violentemente del potere, ogni opposizione viene repressa, le istituzioni libere, la libertà politica, la democrazia scompaiono. Una volta Nenni cercò di scusare codesti sistemi reazionari ed arci-fascisti, allegando che si trattava di una necessaria e momentanea difesa della conquista popolare. Togliatti nel citato Congresso, è più franco e usa un linguaggio vorrei quasi dire spudorato. Ecco il suo ragionamento di cui ho citato i termini precisi alla Camera: il governo comunista, conquistato il potere, abolisce il capitalismo. Ora che il capitalismo è abolito, esso diventa un crimine, quindi non vi possono essere partiti capitalisti. Vi possono essere ancora, dice Togliatti, degli speculatori, degli agenti dello straniero, dei traditori. E allora, contro di essi viene condotta la lotta che deve essere condotta. Con questo ragionamento ogni libertà è un delitto, ogni difesa dei propri princìpi, o dei propri doveri diventa un tradimento, e contro questi traditori, viene condotta la lotta che deve «essere condotta». In nome di questa disumana dottrina, Nicola Petkov , capo dell’Unione agraria Bulgara, veniva impiccato e 23 deputati di opposizione eliminati. A morte venne condannato perfino Traicio Kostov vicepresidente del Consiglio, uno dei membri più anziani dello stesso Partito comunista bulgaro . In Ungheria il cardinale Mindszenty venne condannato all’ergastolo per cospirazione contro il governo e sentenza di morte fu pronunciata contro Ladislao Rajk, ministro degli Affari Esteri; e in Rumenia il processo contro il vecchio liberale Maniu e altri tre imputati, si concluse con la condanna all’ergastolo. Togliatti ebbe cura di non risparmiare nemmeno le classi dirigenti della Cecoslovacchia, che pur passavano sotto Masaryk e Benes, come democratici avanzati. Si è detto che durante la campagna elettorale dell’aprile 1948 noi abbiamo agitato il fantasma del colpo di Stato di Praga. Fantasma? Triste realtà che oggi potremo rievocare con particolari impressionanti. Dal maggio all’ottobre 1949 quattro grandi processi contro ufficiali e membri dell’esercito finiti con numerosissime condanne di uomini che pur avevano combattuto contro i tedeschi. In ottobre e novembre il Tribunale statale condanna sette giovani ed altri gruppi clandestini appartenenti per lo più al disciolto partito di Beneš; il 4 gennaio 1950 viene condannato a morte l’ex deputato slovacco Karel Folta; nel febbraio 1950, 23 commercianti di Brina condannati a morte, all’ergastolo, ed a pene fino a 25 anni, per attività sovversiva. Nel giugno 1950 a Praga si celebra il clamoroso processo dei 13 contro alcuni membri del partito del fronte nazionale, 4 condanne a morte ed altre pene ai lavori forzati. Nel novembre 1950 a Bratislava condanna di un gruppo titista fra cui il capo partigiano Guglielmo Znigor. Una sensibile recrudescenza di processi politici si ha in Cecoslovacchia durante l’anno in corso. Viene condotta la lotta che deve essere condotta, esclama Togliatti, ed essa si rivolge anche contro il Clero e la libertà religiosa. Preti e frati gettati in prigione, vescovi reclusi o internati; allontanati dai loro conventi, salesiani, redentoristi, gesuiti e francescani sotto le più assurde accuse di aver diffuso manifestini antistatali, data ospitalità a partigiani e simili. E borghesi, sacerdoti, operai, militari, sono perseguitati anche in Polonia. Ve ne risparmio l’elencazione. Questa è la lotta che conduciamo, possono esclamare anche i nostri comunisti che vantano tale solidarietà; e ora si capisce che cosa voglia dire Togliatti, quando ammonisce noi governanti dell’Italia di oggi «a guardarsi dalla collera e dalla rivolta degli italiani». Questo monito, questa minaccia, ci viene lanciata quasi quotidianamente anche per radio da Mosca, da Praga e da Tirana. La diffamazione dell’Italia e del suo governo da parte delle radio bolsceviche è veramente impressionante. Ingiurie come traditori, oppressori, criminali di guerra, sono all’ordine del giorno. Volete alcune prove fra le moltissime? Eccole: di Ilia Ehrenburg (17 novembre 1949 Radio Mosca): «le classi dirigenti italiane hanno da tempo dimenticato che cosa sia l’indipendenza nazionale e non avvertono neppure il loro tradimento. Gli americani hanno trovato in Italia dei lacchè bene istruiti…». Da Radio Praga del 19 novembre 1949 (dal corrispondente Jri Kronek): «in nessun altro paese del mondo si commettono tante ingiustizie e tanti crimini come in Italia». Dal discorso di Gottwald presidente della Repubblica cecoslovacca al Congresso di Praga – trasmesso da Radio Praga il 28 febbraio 1950 –: «in Italia la situazione è caratterizzata da spargimenti di sangue, da massacri in massa, di tutti coloro che chiedono giustizia». Radio Mosca 25 marzo 1950: «i fedeli lacchè di Wall Street che risiedono nei ministeri consolidano la loro posizione di nemici del genere umano e di assassini». Radio Praga 12 aprile 1950: «la civiltà di Roma consiste nell’estorsione e nell’assassinio… la politica dei Borgia è sempre viva negli uomini che da Roma vorrebbero comandare il mondo». Radio Praga 8 luglio 1950: «nell’ultimo Consiglio dei ministri in Italia sono avvenute delle scene che hanno attratto l’attenzione dei passanti… Si udivano chiaramente le parole: fascista! Mussolini! Queste grida erano dovute a ministri socialisti che si sono opposti all’invio nelle acque del Pacifico delle navi da guerra italiane». Radio Tirana 13 settembre 1950: riforma agraria: «il governo invece dà ancora terra a coloro che posseggono terra, in base ad una recente legge anticostituzionale. E se i contadini protestano, il governo soffoca nel sangue la loro protesta». Radio Mosca 13 aprile 1951: «non pochi abitanti di Bolzano ricordano i discorsi pronunziati da De Gasperi tre anni fa: senza gli aiuti americani non avremmo potuto risollevare il paese… Ha risollevato qualcuno questo aiuto, salvo lo stesso presidente del Consiglio…? «Trento ha offerto al Parlamento austriaco un così insigne Fuhrer, al Vaticano un bibliotecario, all’America un servo». Radio Mosca del 17 aprile 1951: «De Gasperi è venduto a Truman, ma egli vuol vendere anche il popolo italiano… Il popolo italiano impedirà la guerra voluta da De Gasperi e dai suoi padroni anglo-americani che vogliono che ancora si versi sangue degli innocenti». Ed infine il Commento al Congresso del Partito comunista italiano da Radio Praga del 13 aprile 1951: «dobbiamo rilevare le parole del segretario generale del Pci Palmiro Togliatti pronunciate durante il Congresso: “faccio appello a tutto il popolo italiano affinché si unisca per impedire la guerra”. Questo appello, dice Radio Praga, di Togliatti è molto attuale, mentre sono unite le forze degli imperialisti in Corea e mentre anche De Gasperi vuol aderire al blocco di guerra americano. Noi ben sappiamo che De Gasperi rinnova il fascismo in Italia e la dittatura monopolistica. Anzi, egli vende la gioventù italiana a Eisenhower. Il governo De Gasperi prima delle elezioni ha fatto molte promesse al popolo; però non ne ha realizzata nessuna. Il governo non ha risolto il problema sociale e il problema dei disoccupati. Malgrado questa realtà, il Pci al Congresso, ha dichiarato che vuol partecipare al governo alla condizione che sia cambiata la linea della politica estera, cioè che l’Italia si sganci dal Patto atlantico. Ciò significa che il Pci vuol collaborare con chiunque tenda al miglioramento della vita degli italiani e ad una politica di pace. Oggi, dopo l’inutile tentativo, il Pci porge la mano a tutti quelli che vogliono rovesciare il governo democratico cristiano». Vi sono coloro i quali dicono che il comunismo va indietro, che ormai il pericolo è superato. Quelli sono degli sciocchi, quelli non sanno che anche se fosse vero che il comunismo abbia perduto dei voti e degli aderenti, ed io credo sia vero, restano tutta la grande armatura, l’esercito, i quadri del comunismo; poiché il Partito comunista non va giudicato come un altro partito che se perde gli elettori ha perso tutto. No, perché è un’armata in movimento, ha una disciplina propria, dei fanatici in buona o cattiva fede, i quali credono di dover preparare tutte le riserve per il grande giorno del conflitto e della loro vittoria. Pensate che su undicimila cellule comuniste, cinquemila si trovano nelle settecento maggiori aziende industriali italiane, e che queste aziende sono precisamente quelle nelle quali si sono scoperte le armi più numerose. Non come diceva Nenni, nascoste lì nel 1944-45; no, esse sono armi lubrificate, tenute fresche e pronte per l’uso, armi, munizioni ed esplosivi che se fossero scoppiati in certe industrie a Milano, avrebbero prodotto danni immensi, e là, dove lo scoppio avvenne, come alla Fiat, hanno causato morti tra gli stessi operai. Ma non è questo che mi impressiona, poiché di armi ne abbiamo raccolte tante fino ad oggi che la nostra brava Arma dei Carabinieri pensa di continuare nel brillante lavoro. Non è questo che mi spaventa. Mi fa, invece, impressione il fatto di questo fanatismo organizzato dall’alto in basso, di questa possibilità di mezzi, di questo concentramento di forze che in certi momenti rappresentano la mobilitazione civile, di fronte alla quale ci sono gli scettici, ci sono i pavidi, ci sono gli uomini che non vogliono credere alla realtà della vita e sperano sempre che un partito o l’altro sia sempre lo stesso. No, con loro non possiamo apparentarci, perché per essere parenti bisogna riconoscere di essere nella stessa famiglia nazionale. Anzi negli Stati popolari, secondo la regola di Togliatti, questi verrebbero considerati traditori. Noi chiediamo soltanto che il popolo li mandi in minoranza e controlli la minoranza. Abbiamo celebrato oggi a Verona l’anniversario della Liberazione e della Resistenza . In presenza di migliaia e migliaia di partigiani, che avevano il diritto e il dovere di ricordare il sacrificio fatto abbiamo detto però che non celebriamo la lotta fratricida; quella fu un grande delitto di Caino, che vogliamo obliare, vogliamo che resti nel buio delle ombre della nostra storia. Abbiamo celebrato la lotta contro la guerra dello straniero accampato in Italia, il quale impose la guerra fratricida. Abbiamo celebrato la lotta dei partigiani come lotta per la pace, ed abbiamo detto che tanti furono i fulgidi esempi di questa resistenza disinteressata e tanti furono i sacrifici e lo spargimento di sangue in buona fede, che questa luce lascia nell’ombra anche quei crimini che sono deplorevoli, ma che purtroppo si accompagnano sempre all’urto della storia, quando sul palcoscenico ad agire sono le folle prese da passione. Lotta dunque oggi contro la guerra e lotta per la pace e lotta anche per la pacificazione. Ma si sottraggono a questa pacificazione quelli che si ostinano a non trarre ammaestramenti dalla sconfitta. Ci possiamo pacificare con gli uomini, ma non possiamo accettare riabilitazioni della dottrina e della direttiva politica che condusse al disastro nazionale. Ecco la differenza. Possiamo riprendere la nostra unità, cercarla affannosamente e fraternamente, purché non si voglia riabilitare un passato che è così denso di colpe e così grave di responsabilità. Ora amici, vi ho detto tutto l’essenziale di questa campagna elettorale: essa vedrà naturalmente nei vari comizi e nei vari dibattiti discutere gli argomenti amministrativi, le opere compiute e progettate nei Comuni, l’attività di governo; e non rifiuteremo di rendere ragione di tutto, perché nonostante il molto che c’è da fare ancora, l’Italia è là, per dimostrare al confronto il molto che si è fatto. Possiamo riconoscere che in tutti i campi vi sono stati degli amministratori buoni e onesti, possiamo riconoscere che i Comuni possono diventare centro di collaborazione amministrativa. Ma il punto decisivo, il centro della battaglia, non è là, è un altro, bisogna vincere per consolidare in Italia la democrazia; bisogna, questa è la nostra vita, riconquistare giorno per giorno, la vita propria e quella del proprio paese. Amici miei, mi rivolgo ai giovani, specialmente a coloro che non hanno paura, a coloro che sentono l’ardore dell’ideale, a coloro che non si perdono in piccole ambizioni locali, in questioni di lizza, in questioni di posti, e che lasciano da parte le discussioni e la discordia. Occorre ormai guardare agli interessi del paese e io vi dico: ridestate nella propaganda il senso di responsabilità nelle coscienze. Ridestate questo senso di responsabilità! È quello che anche io comincio a fare oggi, e lo farò in tutta Italia e lo faranno cento, lo faranno migliaia in tutta Italia, perché il popolo deve sorgere in piedi e deve fare un esame di coscienza. Deve pensare al passato, ma soprattutto all’avvenire. Ogni «viltà convien sia morta». E lasciate indietro, o giovani, gli egoismi, gli sfruttatori, coloro che portano al sicuro la moneta e gli averi al di là della frontiera. Lasciateli andare; verrà il castigo anche per loro. Lasciate indietro i pavidi, gli incerti, quelli che si perdono per via in piccole beghe, in questioni personali, in questioni locali e tirate innanzi. Amici miei, vi dico una parola sola: avanti per l’Italia e per il suo secondo Risorgimento. |
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| Io vi ringrazio dell’opera che fate ogni giorno per giorno, notte per notte, del contributo che date alla nostra causa e, ringraziandovi ad uno per uno ricordo la profondità e la fecondità della vostra fatica. Penso anche di dirvi una parola di incoraggiamento, essendo io stato del mestiere e sentendomi un po’ ancora oggi del mestiere, benché faccia un giornale parlato invece che un giornale stampato. Il quotidiano, come un discorso, vive 24 ore; pur tuttavia è ogni giorno una conquista. Voi vi chiamate Il Popolo, vi chiamate così perché siete al servizio del popolo, e io voglio essere come voi soprattutto al servizio del popolo, il popolo visto nella sua entità presente, nella sua esistenza giusta, nella sua aspirazione verso la giustizia sociale, e anche nella tradizione che lo fa vivere compatto, sperare ancora, costruire e lavorare per la grandezza del paese. Sono pochi i nostri mezzi, ma c’è un simbolo davanti a noi, il Crocefisso, ed è il più grande da invocare nei momenti difficili. Il giornale è uno strumento di apostolato. Ma nel rappresentare questa nostra aspirazione di rendere meno grave la vita del popolo italiano e di mantenergli soprattutto quella spiritualità che è la sua anima (e che traluce, lo abbiamo visto poco fa, all’esposizione del Caravaggio) , questo nostro sforzo, questo spirito di sacrificio che poniamo nel nostro lavoro, è un contributo che noi diamo anche indirettamente alla diffusione di quella luce che non può essere che la luce cristiana che ci viene dalla tradizione. In politica non è sempre possibile e opportuno fare esplicitamente del cristianesimo nella forza della predicazione e dell’esortazione, ma è doveroso per ogni giornale e per ogni uomo che si batte nella vita politica di essere soprattutto giusto e onesto, di dare esempio di equità verso gli avversari e di fraternità verso gli amici; soprattutto di dedicarsi interamente a questa causa collettiva che, in fondo, è la causa dei figli di Dio. Io perciò, mentre vi ringrazio come presidente del Consiglio nazionale del partito , vi ringrazio anche come uomo politico e come rappresentante dello Stato, perché lo Stato deve alle vostre ali se in certi momenti può risollevarsi ancora dal suolo. Vi ringrazio come cattolico praticante, in quanto voi con la vostra quotidiana fatica siete e dovete essere l’esempio; dovete infondere, inculcare negli altri l’esempio di quello che devono essere nella vita gli uomini i quali hanno una aspirazione cristiana e nella loro coscienza mantengono vivo il culto del Cristo. Vorrei a mezzo vostro ringraziare anche tutta la stampa di diversa corrente, ma che è onesta, che sente la dignità della tradizione italiana e la fierezza e l’orgoglio di questo popolo il quale ha diritto di ottenere finalmente le sue rivendicazioni e ha diritto di difendersi se il pericolo minaccia. A tutti coloro che sostengono la nostra causa, a coloro che in questo momento sentono questa nostra battaglia, mando a mezzo vostro il mio omaggio e il mio fraterno saluto. |
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| Dopo la visita all’esposizione di Milano che è l’esposizione della forza e della macchina, oggi l’esposizione della grazia, della genialità, dell’opera personale. Ha soggiunto poi che quando ebbe la fortuna di venire qui alla ripresa della mostra dopo la liberazione, ebbe l’impressione di vedere un ragno che ritesse la tela squarciata dalla bufera, e di avere sentito allora come fosse buona la scelta di Firenze, per essere il centro di questa ripresa dell’industria, dell’opera, del decoro della famiglia, del decoro in genere della vita, di ciò che rende gentile, operosi e familiari gli sviluppi della nostra arte e gli sviluppi della nostra industria in quello che è conforto alla vita. Io mi rivedo qui in una mostra ormai convalidata da parecchie esperienze annuali e sono nell’attesa di assistere ad un crescente numero, ma soprattutto a un crescente affinamento delle opere esposte e sento bene, come rappresentante del governo, il dovere di rivolgere la massima attenzione a questa branca di attività pubblica e privata, cioè all’artigianato. Il governo ha fatto qualche cosa nel campo del credito, ma deve fare di più e dovrà fare di più. Ora si dovrà fare una legge la quale stabilisca i diritti dell’artigiano e dell’artigianato, della figura giuridica dell’artigiano, della bottega dell’artigiano, per poterne fare oggetto di una legislazione speciale di previdenza e di aiuti. Dopo aver detto di confidare che attorno a questa legge si possa sviluppare una attività particolare per il progresso dell’artigianato, l’on. De Gasperi ha elogiato l’energia personale, il lavoro dei singoli che si affina per la genialità propria e per il quadro storico della tradizione rappresentata soprattutto da Firenze e dalla Toscana: io ritengo che la missione principale dell’esposizione deve essere quella di diventare, accanto alle piccole esposizioni regionali, che più si adeguano alla genialità dell’uomo, la sintesi di tutti gli sforzi regionali e provinciali e diventare la mostra nazionale di tutte le singole iniziative. E accanto a questo carattere nazionale, che sarà preminente, il carattere internazionale, nel senso che vengano ammesse nei concorsi, nelle gare, anche le altre nazioni che hanno già cominciato a partecipare. Un carattere internazionale, un carattere generale, sono cose che non si improvvisano: ma voi avete dimostrato con la vostra tenacia, di saper superare molte difficoltà e altre le supererete con l’aiuto degli Enti pubblici domani. Formulato l’augurio che la mostra possa diventare veramente la sagra dell’artigianato nazionale e possa divenire anche centro di concorrenza internazionale, l’on. De Gasperi ha concluso: con questo sentimento di certezza dichiaro aperta la XV mostra mercato nazionale dell’artigianato. [Dopo la visita, il presidente del Consiglio rilascia le seguenti dichiarazioni dinanzi alla statua del «gruppo equestre», plasmata in America e fusa e dorata in Italia, destinata al ponte monumentale di Arlington per il centocinquantesimo anniversario di Washington capitale degli Stati Uniti]. L’on. De Gasperi ha preso la parola affermando che è facile comprendere come tra le altre città sia stata scelta Firenze per la fusione dei gruppi equestri e come la consegna del primo gruppo era logico che avvenisse nel seno della mostra nazionale dell’artigianato, nel quadro mirabile di questa città. Gli Stati Uniti d’America dovevano fondere questi quattro gruppi per simboleggiare le virtù militari di quel popolo. L’Italia, memore del simbolico gesto del «treno dell’amicizia», ha offerto in segno di riconoscenza l’opera dei suoi artigiani per la fusione e la doratura di questi gruppi. Il dono è stato accettato. Il poderoso lavoro, eseguito sotto gli auspici del Ministero dell’Industria e del Commercio, è stato ripartito fra quattro città italiane perché assumesse un chiaro valore simbolico di solidarietà fra tutte le regioni d’Italia, per costruire l’opera che vuole avere soprattutto carattere di affetto e di gratitudine nazionale verso l’America, ricambiando il dono a suo tempo pervenuto. L’on. De Gasperi ha messo poi in rilievo le caratteristiche tecniche dei quattro gruppi, per la cui doratura sono occorsi 25 kg di oro purissimo. Il gruppo che oggi qui risplende attende di raggiungere il porto di Livorno per essere imbarcato su di una nave che a Genova e a Napoli imbarcherà anche gli altri gruppi. Salperà dunque dal vecchio mondo la colossale quadriga che muoverà verso il nuovo mondo, per portarvi un messaggio di amicizia e di solidarietà. Il messaggio è impresso nel bronzo e nell’oro, che sfidano i secoli. Ma noi vogliamo che la nostra amicizia superi i limiti del tempo e dello spazio per affratellare tutte le genti, e particolarmente coloro che, come l’Italia e gli Stai Uniti, credono negli ideali di democrazia, di pace e di dignità umana. |
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| Amici fiorentini, operai, il giorno delle elezioni comunali è ancora lontano, comunque occorre parlare di questa campagna ed ho bisogno di richiamarvi alcune idee generali che valgono non soltanto per i Comuni toscani, ma per tutti i Comuni nazionali, per tutta l’Italia, poiché è questo un momento estremamente grave. Devo parlarvi delle grandi idee e delle profonde convinzioni che devono guidare la decisione del corpo elettorale, per la forma stessa del nostro schieramento, in quanto si tratta non di un solo partito, ma di parecchi partiti insieme, riuniti per la difesa della democrazia. È quindi necessario che vi illustri i motivi che devono inquadrare le nostre azioni e guidare il vostro voto elettorale. Per rendersi ben conto delle ragioni per le quali noi accettiamo l’alleanza di coloro che il 18 aprile si sono con noi affermati, vi richiamo un poco – voi che, vivendo a Firenze, siete educati a vedere le cose inquadrate nella storia – alle origini del nostro movimento, alle impostazioni generali del nostro partito, al significato della nostra lotta. Quando noi siamo sorti come partito di centro e come partito di governo in Italia, ci siamo trovati di fronte due grandi correnti di pensiero e di azione: la tradizione unitaria liberale, che aveva dominato dal Risorgimento fino alla prima guerra mondiale e il movimento socialista che dall’inizio del secolo si abbatteva contro questa tradizione ora penetrandola, ora minacciandola. Di fronte a queste due correnti noi, legati alla tradizione del Risorgimento dal filo spirituale del neoguelfismo, abbiamo rappresentato il movimento del decentramento, il movimento delle autonomie degli organi periferici, abbiamo rappresentato l’idea della necessità della riforma dell’amministrazione dello Stato e della decentrazione regionale. Però sempre e profondamente nel nostro pensiero, anche quando pensavamo e ci preoccupavamo soprattutto del decentramento delle libertà comunali, rimaneva in noi il senso della unità della patria, così come ci tramandava tutta la tradizione della nostra storia dal Risorgimento alla prima guerra mondiale. Ed è perciò che, come voi oggi vedete, pur sostenendo le libertà dei Comuni e il necessario cammino verso il decentramento contro lo Stato burocratico, ci sentiamo costretti, ogni qualvolta un movimento separatista si sviluppa e si rivela, a sostenere, ad affermare, a difendere l’unità nazionale e la solidarietà del popolo. Il presidente del Consiglio venendo a parlare dell’aspetto religioso della Democrazia cristiana ricorda come sin dall’inizio del Risorgimento si fu concordi nel pensare che uno Stato progressista, democratico, liberale non poteva sussistere se non presupponendo una morale, uno spirito di civismo permeato di un elemento superiore. A mano a mano che si andò avanti nell’evoluzione politica e sociale del nostro paese, a mano a mano che l’Italia andò verso il progresso industriale e nacquero le necessità di riforme strutturali e sociali, quello spirito religioso sino allora espresso in formule generiche piuttosto vaghe prendeva un contenuto sostanziale realizzandosi politicamente nel programma cristiano e sociale. Oggi questo programma non può chiamarsi che cristiano e democratico in quanto il problema del metodo di governo della democrazia si è dimostrato prevalente e preminente. Volete oggi riaprire in Italia la questione religiosa? Io vi dico che, se sentissi il bisogno di riaprirla, per assicurare la libertà di coscienza a qualcheduno, sarei disposto a dire che bisogna riaprirla. Ma mi domando: c’è forse in Italia qualcuno che senta veramente questo bisogno di altre formule di protezione della libertà della sua coscienza? A Firenze lo Stato ha fatto forse torto agli ottomila non cattolici o che non appartengono ad alcuna fede religiosa, sui 316 mila abitanti secondo il censimento del 1931? C’è uno solo di questi ottomila che sia stato conculcato nella sua libertà di coscienza che trovi nella legge dello Stato non una protezione ma un impedimento per arrivare a tutti i gradi della vita pubblica cui arriva qualunque altro cittadino? C’è qualcuno che sente la sua libertà e i suoi diritti diminuiti dalle leggi o formule e dalle conclusioni che ci legano al Concordato? Davvero non direi. Nel passato, e anche di recente, è avvenuto che persone appartenenti ad altre religioni, specialmente israeliti, si impuntino a predicare a noi il vero significato del Vangelo cristiano. Ma io dico in verità che costoro non possono insegnare a noi cosa vuole significare il Vangelo e noi dobbiamo energicamente respingere questi consigli, queste critiche, queste osservazioni. Noi cristiani mai ci siamo sognati di interpretare le cose e i rapporti della legge ebraica per applicarli all’atteggiamento politico o non politico sociale in genere di coloro che appartengono alla religione israelita. Badate però voglio essere molto franco, anche se qualche mia parola può implicare un certo rimprovero. Non si deve esibire la propria religione, metterla in mostra, soprattutto non la si deve utilizzare per scopi politici, non si deve farne uno strumento, non si deve vantare la propria tolleranza verso coloro che la pensano diversamente; e soprattutto, nel nostro contegno e nelle nostre dichiarazioni, manteniamo sempre quel limite che è segnato dal rispetto per la coscienza degli altri cittadini che la pensano diversamente. Questo deve essere il nostro principio. Si può essere cattolici senza appartenere ad alcun partito e si può praticare la stessa religione ed essere nel settore economico e politico di diverse tendenze. Culto e dottrina religiosa appartengono alla Chiesa, la quale si muove su un piano più alto. Negare che da una determinata concezione della vita si possano derivare ispirazioni e norme per la convivenza sociale e quindi per l’attività politica; negare che un partito possa alimentare la sua coscienza morale e la sua ideologia, attingendo all’etica e alla fede cristiana, è perciò voler negare la socialità del cristianesimo, è commettere cioè un grosso errore storico. Ma in una convivenza civile, si deve saper tener conto anche degli uomini che la pensano diversamente. Ecco dunque che la parola cristiana nel titolo del nostro Partito democratico cristiano non è una presunzione o un monopolio, quasi noi dicessimo: i cristiani siamo solo noi. No, è un impegno morale. E particolarmente coloro che hanno qualche cosa al sole, che hanno delle proprietà, che hanno la possibilità di aiutare i propri fratelli e la povera gente, devono sapere che quando si dicono cristiani, significa che devono ricordare il Vangelo applicandolo ai rapporti con i loro simili ed il loro prossimo. Cose vecchie e superate parlare di clericalismo e anticlericalismo. A questo punto l’on. De Gasperi ha ricordato come proprio a questa vecchia e trita polemica continuino ad attaccarsi i socialcomunisti e particolarmente l’on. Nenni. Egli è passato poi a trattare gli argomenti più strettamente politici del suo discorso. Si è poi soffermato sulla interpretazione che i socialcomunisti danno della guerra di Corea e del Patto atlantico. Ribadendo concetti già espressi nei suoi discorsi di Trento e di Rovigo ha riaffermato la responsabilità dell’attacco nordista e il carattere difensivo del Patto atlantico. Affinché l’esempio della Corea non sia preso come un paradigma di quello che si potrebbe fare altrove, è necessario controbattere questa versione e affermare ancora una volta che l’Italia persegue una politica di pace e che il Patto atlantico è un patto difensivo, un patto di pace. C’è un articolo del Trattato, l’art. 11, che dice chiaro che noi ci impegniamo a sostenerci a vicenda se saremo attaccati. Se non saremo attaccati il Patto atlantico sarà una polizza di assicurazione che non sarà mai pagata. L’on. De Gasperi a questo punto si richiama alla storia recente, dimostrando come dal corso degli avvenimenti politici del primo dopoguerra si possono trarre insegnamenti per la situazione presente. Legge quindi una pagina dal libro Dal socialismo al fascismo dell’on. Bonomi al quale l’oratore inviò un commosso pensiero. Nel settembre 1919, Gabriele D’Annunzio apriva la crisi rivoluzionaria del dopoguerra e con reparti dell’esercito, sottrattisi alla disciplina occupava la città di Fiume. Fu allora che l’on. Nitti pronunciò il ben noto discorso: «coloro che eccitano gli animi, egli disse nella seduta della Camera del 13 settembre 1919, tradiscono gli interessi della patria. L’Italia deve dare all’estero affidamento di meritare il credito di cui ha bisogno. Una politica di avventure ci farebbe cadere nella miseria e nell’anarchia. Gli operai e i contadini debbono impedire ogni particolare avventura; essi debbono ammonirci e sospingerci nella via della rinunzia e del dovere» . Ma gli operai e i contadini ai quali si dirigeva l’appello erano ormai ebbri di dissolvimento. Essi miravano a ben altro che a salvare lo Stato: guardavano con occhi affascinati il bagliore di incendio che veniva dalla Russia. Gli invocati difensori dello Stato, si proclamarono, con minacciosa iattanza, suoi becchini e si prepararono a dargli il colpo di grazia. Tutto allora parve irrimediabilmente compromesso. A destra e a sinistra si moltiplicarono i pericoli e si intensificarono le minacce. Coloro che avevano con più tenacia sorretta la resistenza del paese, asserirono mutilata la vittoria, necessaria la Costituente, legittima la Costituzione e invocarono apertamente i soldati di Fiume a «liberare» Roma e l’Italia. Gli operai e i contadini, abbacinati dal miraggio russo e sospinti da smisurate speranze, credettero prossima l’ora di instaurare la dittatura del proletariato. Se allora queste forze si fossero intese e avessero marciato insieme, lo Stato, già in crisi durante la guerra e profondamente scosso dopo la guerra, non avrebbe trovato alcuna forza per resistere al molteplice assalto. Per fortuna D’Annunzio non si mosse da Fiume e il socialismo bolscevico, odiatore di ogni cosa che avesse il suggello della guerra, continuò vanamente a inscenare scioperi, a commettere violenze senza senso. Così lo Stato potè sfuggire al pericolo mortale. Ma cosa avrebbe vissuto? – chiede Bonomi – Come avrebbe superato la sua crisi? Quali forze gli avrebbero consentito la guarigione? L’estremo pericolo suscitò nuovi organismi politici. Le forze che il cristianesimo, da secoli organizzato nella Chiesa, aveva accumulato nella nazione e che vicende storiche avevano pressochè immobilizzato in una attesa estenuante, ora sotto il pungolo della suprema minaccia, trovarono, in forme nuove, la via di manifestarsi. I vecchi partiti, già logori dalla lunga resistenza e ormai indeboliti dall’urto degli avvenimenti, incontrarono nella loro tenace difesa dello Stato un inatteso alleato. Il Partito popolare entrava nell’arringo politico. Noi abbiamo fatto partecipi diversi governi, finchè giunta la nostra ora abbiamo assunto in pieno le responsabilità di dirigere le forze democratiche dello Stato che rischiavano di essere travolte da destra e da sinistra. Se ci si chiede se nel periodo che siamo stati al governo abbiamo cambiato l’Italia, abbiamo abolito la miseria, noi rispondiamo, no. Siamo però sulla buona strada. Abbiamo ancora da fare, bisogna continuare e perciò vogliamo ancora avere la responsabilità del governo. Noi domandiamo ai perplessi che si scuotano per poter così domani partecipare con noi ad un governo democratico. Ad ogni modo risultati concreti sono stati ottenuti. L’on. De Gasperi ha qui citato dati e cifre che dimostrano nel campo dell’alimentazione, in quello industriale ed in quello della ricostruzione (ed a quest’ultimo proposito cita lungamente i risultati del Piano INA-Casa) come il governo abbia seriamente e fattivamente lavorato. I rimproveri che oggi ci si rivolgono sono gli stessi che si rivolsero al vecchio Partito popolare. Se voi leggete un giornale neofascista vi trovate [le] stesse accuse che si leggevano nel 1919-1921, come se allora quella propaganda non si fosse rivelata falsa e non fosse finita in un fallimento disastroso per la nazione. Si parla di un’Italia in catene, al servizio dello straniero; si parla di un’Italia che volle perdere la guerra e tradire il proprio destino, come se l’armistizio non fosse stato fatto quando ormai l’Esercito era crollato e quando ormai ogni ripresa era impossibile e come se noi nella nostra coscienza e con noi il popolo, avessimo potuto credere che la guerra ormai incominciata avesse potuto terminare con la vittoria. E quando questo giornale scrive: smascheriamo le menzogne delle libertà democratiche, mi pare ancora di sentire le voci rivoluzionarie di altra epoca, quelle voci pazzesche contro il Parlamento che ne chiedevano l’abolizione. Perché se il Parlamento ha commesso degli errori che dimostrano la sua insufficienza, non si può comunque perdere la libertà di discutere perché quando si perde la libertà di parola si perde la libertà di circolazione e dalla camera all’anticamera si va a finire in prigione come a qualcuno è accaduto. Ma forse credono i signori del Msi che se si ritornasse ad una dittatura e crollasse il Parlamento e le libertà democratiche, la dittatura che subentrerebbe al nostro governo sarebbe la dittatura fascista? No, sarebbe quella comunista. E il pericolo della dittatura comunista, badate bene, è più grave di quella che fu la dittatura fascista, perché la dittatura fascista, sia stata o no crudele, si capiva bene che non poteva durare, mentre con una rivoluzione comunista non c’è più speranza di libertà. È perciò che noi chiediamo a tutte le forze della vera democrazia di cooperare nell’interesse comune per il bene, della stessa famiglia nazionale, per impedire che nell’interno si formino disgregazioni. Noi siamo per la pace, vogliamo la pace, ma se ci attaccano dovremo difenderci, noi non abbiamo né monopoli italiani né americani da difendere. Siamo italiani e come italiani abbiamo da difendere la nostra vita di uomini liberi. Dobbiamo unirci, guardare all’essenziale, rafforzare la democrazia e l’ordine interno, pretendere la solidarietà di tutti, lavorare per la pace, premunirci da ogni attacco. Non siamo soli, non siamo isolati. La pace si salverà, nella collaborazione dei popoli liberi di Europa e del mondo. La pace è nella concordia interna, nello spirito democratico di libertà, nella fedeltà alle nostre grandi tradizioni. È questo il nostro impegno. |
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| Siamo all’indomani di uno sciopero di funzionari e siamo alla vigilia forse d’un altro, di un altro minacciato o proclamato. Ora quando avvengono degli scioperi in altri organismi privati il problema è diverso da quando avvengono nello Stato, cioè quando sono i funzionari dello Stato che abbandonano il servizio, servizio che è diretto alla nazione e alla collettività; è un problema diverso, non solo di una categoria, ma di tutto il popolo. Ed ecco perché amici miei io ve ne parlo e voglio parlarvene con tutta la responsabilità, col sentimento che mi lega alla classe impiegatizia, perché in fondo io mi sento come il primo impiegato dello Stato, come il capo dell’amministrazione. Ora innegabilmente gli impiegati sono mal pagati. Questo è chiarissimo. Però quale è la vera ragione? Una delle ragioni fondamentali che non possiamo pagare adeguatamente è perché disgraziatamente abbiamo ereditato dallo Stato dell’anteguerra e dell’immediato dopoguerra un aumento nientemeno che di 300 mila addetti allo Stato, un gran numero di impiegati. E badate questo fenomeno è fenomeno non solo dello Stato centrale, ma purtroppo di tutte le amministrazioni. Abbiamo ereditato un tal numero di addetti impiegati in forma organica o meno, un tale numero che ogni piccolo aumento che si concede ad una categoria o ad un membro della categoria, si rovescia naturalmente sopra un numero colossale che supera il milione. Per questo ogni piccolo aumento si traduce in miliardi e porta naturalmente a delle conseguenze di carattere finanziario. Perché naturalmente lo Stato non può pagare con moneta falsa. Qui non c’è che aumentare le entrate o stampare banconote, il che vuol dire in fondo che se si stampano banconote che non hanno copertura o un’entrata corrispettiva è come batter moneta falsa. Quale è in questo caso il pericolo? Stampando banconote, pagando con moneta che è falsa, i prezzi vanno su. Ecco il problema grave. Quando giudico questo problema lo giudico soprattutto dal punto di vista dei prezzi. Dopo aver accennato alla negativa esperienza della Francia, l’on. De Gasperi ha affermato che il punto essenziale del problema consiste nel mantenere un certo equilibrio dei prezzi senza fissarli fermamente onde mantenere alla moneta il suo valore di acquisto. Ora tutta la nostra politica, la politica cosiddetta di tenere fermo il bilancio, di tener fermo soprattutto il prezzo di acquisto della moneta a che cosa mirava? Mirava a mantenere i salari e gli stipendi come quella forza di acquisto che avevamo prima del ’47. E direi che per un periodo lunghissimo, fino a questa estate, l’operazione è riuscita, perché le oscillazioni sui prezzi sono state pochissime, anzi i prezzi andavano diminuendo. Nell’estate in seguito all’allarme internazionale intervenuto dopo l’attacco della Corea, c’è stata una reazione, un sussulto dei prezzi? Dopo aver accennato alla tattica e alle misure adottate dal governo, l’on. De Gasperi ha dichiarato che i prezzi non hanno potuto raggiungere quei livelli che sono stati lamentati in Inghilterra o in America. Facendo quindi il punto della situazione, il presidente del Consiglio si è dimostrato fiducioso della impossibilità di verificarsi di un grande aumento dei prezzi o quanto meno del ritorno ad un certo equilibrio, seppure rimarrà qualche modificazione dei prezzi. Dopo aver affermato che questa è una politica di lunga portata di cui non è che entro 24 ore se ne possono vedere le conseguenze, l’on. De Gasperi è passato a parlare della scala mobile, precisando che i prezzi formano, secondo un certo criterio, un indice del costo della vita. Di fronte a questo indice del costo della vita c’è un indice dei salari o degli stipendi che deve crescere a mano a mano che crescono i prezzi. Con ciò si cerca di compensare o frenare gli effetti che una cosa ha sull’altra. Ora noi che cosa abbiamo risposto ai funzionari i quali ci dicevano: badate che la scala mobile dovrebbe mettersi in movimento? Abbiamo detto: noi crediamo che gli aumenti che sono intervenuti in quest’ultimo periodo, ridotti a quelli che sono fissi, non alle oscillazioni momentanee, ma che sono rimasti come permanente segno della situazione economica, crediamo che siano assorbiti da quel tanto che nella scale mobile già dopo il ’47 noi non abbiamo richiesto a pagamento dei salari. Ora su questa questione non siamo andati d’accordo; c’è una interpretazione diversa degli uni e degli altri. Ma in ogni caso si è detto: se domani i prezzi andassero su e se gli aumenti si rovesciassero non più solo sui titoli dell’alimentazione – perché adesso, fino ad adesso, la scala mobile è fondata sull’alimentazione – ma anche su un indice diverso il quale tenga conto degli alloggi, dei tessili, dell’abbigliamento ecc., allora ci hanno chiesto, se andassero su questi prezzi che garanzia ci date? Ed abbiamo risposto: siamo disposti a studiare con voi un nuovo congegno, una nuova scala mobile che vi garantisca in caso che questi aumenti si manifestino. Ora diciamo che noi crediamo che ciò si manifesti. Noi speriamo, noi lavoriamo contro questa tendenza che si rivela, siamo disposti a dare questa garanzia, questa tranquillità. Ed ecco perché abbiamo creduto di risolvere in questo modo il problema. Ora guardate, bisogna ricordarsi di una cosa, e ve ne parlo perché voi tutti siete cointeressati, siate funzionari o lavoratori o appartenenti al ceto medio o professionisti, tutti siete cointeressati perché è un problema dello Stato. Quindi non è questione personale, non è questione di cecità, di ostinazione. Evidentemente ci sono argomenti sui quali si deve discutere, si può discutere, si può trattare. Si riconosce che si ha a che fare con una categoria benemerita che lavora, che fa il suo dovere e d’altro canto si deve riconoscere che anche il governo è composto di gente che non ha nessun interesse a trattare male i propri funzionari oppure a risparmiare là dove non sia necessario risparmiare. Quando si considera il problema da questo punto, voi vedete che in fondo noi, tutti, siamo nella stessa barca, governo funzionari e popolo in genere e soprattutto pagatori di tasse in genere. Una conseguenza, una conclusione che se si tira per una categoria si rovescia naturalmente su tutte le altre. Ora è problema che interessa il complesso del popolo italiano. Ora io dico: è possibile che si possa e che sia lecito ricorrere ad abbandonare il servizio? Ecco un problema che va affrontato, perché è uno dei più gravi problemi che in ogni democrazia si deve presentare. Amici miei, nello Stato dittatoriale, ossia nello Stato fascista, voi ricordate che lo sciopero era semplicemente proibito. Nello Stato dittatoriale comunista, in tutti gli Stati comunisti – Russia in testa – lo sciopero è assolutamente proibito. Ora io dico: che cos’è il funzionario, che cosa sono i funzionari di fronte allo Stato? Sono come le braccia dello Stato e se le braccia si rifiutano di lavorare, lo Stato è mutilato. Ma chi paga le conseguenze di tutto questo? Tutti coloro che devono utilizzare un servizio pubblico. E allora noi diciamo: questo Stato democratico, questo Stato libero, in cui tutto si discute, in cui ci sono le libere organizzazioni sindacali, ce ne sono di tutti i colori, dalla bianca alla rossa, questo Stato in cui c’è un Parlamento – il quale decide anche sulle leggi degli statali, sulle entrate, sulle spese, sugli stipendi – questo Stato non possa essere costretto alla ragionevolezza che con uno sciopero, che con un atto di violenza, con una paralisi contro lo Stato stesso? Badate bene che tutto questo investe tutti gli organi. Se domani si proclamasse lo sciopero di tutti i funzionari, delle prefetture, dei comuni, ecc., le elezioni amministrative chi le fa? È vero, si può dire, facciamo senza le elezioni. Ma quando si trattasse dell’assistenza, chi la distribuisce? Insomma è possibile che in questa nazione democratica che lascia la libertà di discutere, che ha dei rappresentanti delle categorie nel Parlamento dove si deve decidere – perché in fondo la decisione è del Parlamento, questo Parlamento che è fondato su libere elezioni a suffragio universale in contestazione fra i diversi partiti – è possibile che non si trovi un modo di risolvere il problema senza ricorrere a questa assurdità, a questo atto di violenza contro se stessi, a questa mutilazione? Ora io dico, quando si trattò di questa questione, e alla Costituente si fece il problema: gli organi dello Stato, i funzionari, gli addetti allo Stato possono o non possono scioperare? Allora si rispose con un articolo, con una proposta della Commissione, la quale diceva: tutti i lavoratori hanno diritto allo sciopero. La proposta non è stata votata per l’insorgere dei numerosi emendamenti i quali chiedevano che venisse ristretta, che si distinguesse tra le diverse categorie in quanto per alcune di queste come la polizia e la magistratura tutti erano d’accordo sulla assurdità dello sciopero. Ed ecco invece che venne accettata la formula proposta dall’on. Merlin , come formula di compromesso, la quale diceva: il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, ossia, evidentemente, vuol dire, il diritto di sciopero esiste sì, ma viene circoscritto ed applicato a seconda delle categorie e delle circostanze con determinate leggi e con determinate disposizioni. In quell’occasione allora, quando anche i comunisti cooperavano con noi, eravamo al governo insieme, le cose le vedevano un po’ diversamente, le vedevano cioè da un punto di vista, non dell’opposizione continua, feroce, accanita contro il governo, ma le vedevano da un punto di vista di corresponsabilità nello Stato. Diceva Di Vittorio agli statali: abbiate fiducia nello Stato che è cosa vostra e del quale voi siete la spina dorsale. Vi è una presunzione assoluta, che questo Stato, cioè lo Stato democratico non voglia sfruttarvi. Esso vi retribuisce come meglio può, diceva allora nel 1947, quando gli statali erano retribuiti molto peggio di adesso. Ad ogni modo discuteremo questo argomento con calma e libertà e regoleremo la materia con leggi particolari. Ecco anch’egli prevedeva leggi particolari. Perché questo Stato possa vivere bisogna che un regolamento avvenga e noi vogliamo che sia riconosciuto il diritto sacrosanto dei lavoratori, ma vogliamo anche che sia riconosciuta la forza dello Stato e ne sia garantita in pieno l’autorità. Dichiarazioni sacrosante che oggi bisogna riaffacciare alla realtà, che bisogna rimettere in attualità perché si tratta di risolvere questo problema: o lo Stato democratico trova il modo di risolvere questo problema in modo che l’autorità sua non venga diminuita o corriamo il rischio che rinascano aspirazioni verso la cosiddetta mano forte, verso la cosiddetta dittatura, verso questo sogno che un’autorità fortissima possa intervenire ed appianare tutte le difficoltà e imporre la sua volontà. Noi non vogliamo tornare indietro, noi sentiamo questo pericolo e vogliamo regolare questa questione secondo la legge. Il presidente del Consiglio, riferendosi quindi alla accusa mossa al governo di trovare il danaro quando si tratta di spese militari , ha detto che non era possibile accettare di rimanere con un esercito disfatto e da riorganizzare incapace quindi di far fronte a qualsiasi evenienza e costretto a combattere senza armi o con i vecchi fucili di fronte alle nuove macchine da guerra. Bisogna fare quel tanto, quel minimo che è indispensabile per la difesa dell’Italia, quel tanto che è necessario per evitare un attacco. Continuando sull’argomento, ha sottolineato come questo minimo sia già garantito dal trattato di pace e come se la situazione fosse stata tranquilla l’aggiornamento del nostro esercito avrebbe potuto avvenire con più calma dividendo perciò l’onere del bilancio in un maggior numero di anni. D’altra parte la risoluzione è stata condizionata ad un contributo da parte degli alleati i quali hanno ammesso che la prima difesa necessaria dappertutto ma in particolar modo in Italia è la difesa sociale. E noi occupandoci delle questioni sociali, dobbiamo anche fare la nostra parte per quel che riguarda la difesa delle frontiere. E quando tutto questo sforzo verrà fatto in Europa, allora arriveremo si e no a 30-40 divisioni. Avremo di fronte, a parlare solo della Russia, circa 100 divisioni in Europa. Che bisogno c’è, mi si dice, di armarsi, basta essere neutrali, ma per essere neutrali, bisogna essere armati, per essere neutrali bisogna sapersi difendere da tutti. Ci vuole più difesa ancora! Fatto l’esempio della Svizzera e in polemica con quanto affermato in questi giorni dall’on. Nenni, ha detto: noi abbiamo bisogno degli alleati e di una nostra difesa. Ecco perché noi siamo arrivati alla conclusione che ci conveniva accettare il Patto atlantico. Ma ci si risponde: ma nessuno attacca, non è vero che la Russia vuole attaccare! E io dico: ma io sono disposto a credere che non voglia attaccare. Ma come si può pensare che non ci sia la possibilità, che non venga la tentazione, quando vediamo che la Russia come qualunque Stato borghese, ha occupato dei paesi, se li è annessi, tiene eserciti occupanti dappertutto ed ha un enorme potenziale bellico in continuo aumento? Il presidente del Consiglio continuando è passato a sottolineare le differenze di comportamento tra la Russia e l’America ed ha affermato che gli Stati Uniti godono di una preminenza dell’autorità borghese su quella militare, preminenza che ha portato all’allontanamento di Mac Arthur. E l’esempio dimostra come il presidente Truman abbia interpretata la volontà di pace del popolo americano, di un popolo che vuole sviluppare le proprie immense forze di pace, come le ha sempre sviluppate in un periodo di pace. Dopo aver sottolineato come gli americani abbiano abbandonato le Filippine, l’on. De Gasperi ha chiesto quando mai la Russia ha abbandonato un paese dopo averlo occupato. Continuando ha quindi portato l’esempio della smobilitazione che gli Alleati hanno attuata riducendo le spese militari all’epoca del Patto atlantico, due anni fa, rispettivamente l’Inghilterra al 13 per cento del bilancio di guerra del 43-44, gli Stati Uniti al 14 per cento mentre quelle della Russia sono rimaste al 61 per cento. E questo giustifica il sospetto che lo sforzo colossale fatto dalla Russia per mantenere l’esercito implichi la possibilità dell’insorgere della tentazione di adoperare tanto potenziale bellico. Questo mi ha spinto a dare il mio voto alla decisione del governo di proporre al Parlamento questo limitato riarmo o meglio messa a punto di quel po’ di esercito che ci può rimanere secondo il trattato. È una polizza di assicurazione che speriamo di non pagare. Dopo aver negato di essersi incontrato a Udine col gen. Eisenhower secondo quanto afferma la propaganda comunista e aver accennato alla visita di Montgomery come dimostrativa dell’aver gli inglesi compresa la necessità di difendere in ogni eventualità di attacco le frontiere italiane nell’interesse europeo ha dichiarato che non saremo soli caso mai la disgrazia avvenisse, disgrazia che non può verificarsi che nel caso che altri ci attacchino, perchè noi non siamo impegnati dal Patto atlantico che alla difesa, mai all’offesa. Fatta quindi la storia di Trieste e del Territorio libero, l’on. De Gasperi ha sottolineato la responsabilità di Togliatti e di Nenni nella disgraziata situazione in cui versano queste terre italiane. Il presidente del Consiglio ha poi ricordato per rispondere alle accuse del Msi su chi cada la colpa della disastrosa avventura nella quale il fascismo ha lanciato l’Italia. Riferendosi quindi ad alcune statistiche pubblicate da l’Unità in merito alla disoccupazione , l’on. De Gasperi, cifre alla mano, ha confutata l’esattezza delle statistiche stesse precisando che qualora i provvedimenti adottati dal governo non fossero stati producenti dovremmo avere un aumento di circa 170.000 unità all’anno, aumento che non si verifica invece proprio perché lo Stato è riuscito a far fronte al problema nel limite che le contingenze gli offrono. Passando poi a parlare delle industrie ha dichiarato che la produzione industriale è salita del 129 per cento. L’on. De Gasperi ha accennato quindi, documentandole, alle realizzazioni compiute dal governo nel campo della ricostruzione edilizia e del potenziamento della ripresa del Mezzogiorno. Realizzazioni che si sono potute effettuare grazie anche all’aiuto offertoci dagli alleati. È doveroso, per ragioni di ospitalità, dare alcune risposte al signor sindaco il quale oggi nel comizio che ha tenuto ha avuto la bontà di rivolgermi alcune domande, dico la bontà per cortesia perché dal tono delle domande c’era piuttosto acrimonia e ironia. Comunque, poiché egli in questo momento rappresenta la città, voglio rispondergli. Il signor sindaco ha detto: perché il presidente del Consiglio ha obbligato il governo a indire le elezioni comunali un anno fa? Rispondo: perché io non ho mica il potere di Stalin! Io sono un presidente del Consiglio di un governo parlamentare e queste cose sono state discusse in una Commissione parlamentare e poi deliberate dal Parlamento. Aggiungo però a mia volta una domanda: se si sentiva a disagio il signor sindaco, perché non se ne è andato quando il Consiglio dei ministri ha deplorato il suo contegno l’anno scorso? Ma non voglio essere ingiusto di fronte agli uomini che hanno la responsabilità amministrativa e non voglio nemmeno essere ingiusto dinanzi alla sua persona. Può essere – io non lo conosco da vicino – può essere un perfetto galantuomo, però si trova in mala compagnia, questa è la sua disgrazia. E difatti lo vedo da quel che viene a dire quando esce dal suo settore amministrativo. Egli dice: la politica estera del governo è stata un grave errore perché porta alla guerra e noi abbiamo un gran bisogno della pace. E chi vi ha detto che questa nostra politica è politica di guerra? Signor sindaco queste cose le avete imparate leggendo i cattivi giornali, evidentemente. Guardatevi dalla cattiva stampa! Ma il signor sindaco ha imparato anche dai giornali a ripetere che noi siamo coloro che fomentano l’odio e la divisione. Ho portato in questa campagna elettorale tanti esempi, in altre città, del come scrivono, del come agiscono e soprattutto del come diffamano l’Italia all’estero, per dire, per concludere che se c’è un odio – e non c’è nel petto nostro – se c’è un odio, un’avversione, questa è portata da questa continua campagna per la quale non c’è niente di fatto bene da parte nostra. Centinaia di leggi, centinaia di provvedimenti tutti contro gli interessi dei lavoratori; centinaia di interventi, tutti assassini, interventi assassini contro i lavoratori. Queste cose si dicono non soltanto in Italia, ma si dicono in Parlamento, si stampano sui giornali, si dicono – e qui sta la colpa grave dei nostri comunisti – queste cose nelle radio di tutti paesi dei Satelliti russi, si dicono su tutti i giornali, diffamano il nostro paese. E questa è una delle cause per cui c’è tanta amarezza in noi e tanto sospetto in confronto a ciò che è l’avvenire. Continuando sullo stesso tema l’on. De Gasperi è passato a documentare con esempi tratti dai giornali o dalle trasmissioni radio dalla Russia e dai paesi al di là della cortina di ferro l’opera diffamatoria svolta dai socialcomunisti. Citando l’esempio di Lussu, ha ripetuto le seguenti affermazioni fatte dal senatore, il 17 marzo 1950 alla radio di Mosca: «in tutte le città e i villaggi d’Italia, nelle fabbriche, nei campi, negli uffici, nelle scuole, intorno alle colombe della pace si stringono, si raccolgono la maggioranza di cittadini e si raccolgono per far intendere ai nuovi briganti quanto sia grande il loro amore per la pace. Il popolo italiano esprime la sua fiducia e il suo grande amore verso il capo dell’umanità: Stalin». Dopo aver sottolineato come, quando egli ebbe motivo di trovarsi in America per quanto pressato dagli americani a dir male dei comunisti coi quali trovavano stranissimo che egli potesse collaborare, non ha mai detto una parola. E ancora ha aggiunto quanto del senatore Michele Giua pubblicò il Daily Worker del 17 maggio 1949: «milioni di bambini italiani non hanno mai visto un bicchiere di latte. La mortalità infantile è salita a uno su quattro. Il numero dei tubercolotici è enormemente salito rispetto al 1939» . L’on. De Gasperi ha continuato nelle citazioni chiamando in causa Secchia, Nenni, Togliatti e quindi ha detto: ditemi se è possibile, se non è pericolosa questa diffamazione continua che si fa del nostro paese? Se è possibile, se è lecito, che la cosa continui così. Ma quello che è più grave è ripetere in ogni occasione, a Praga, a Budapest, a Mosca, nei comizi e per radio che gli italiani non si batteranno mai contro l’Unione Sovietica; questo vuol dire invitare alla passeggiata trionfale e liberatrice. Amici miei, è una grave responsabilità. Io non so se qualcuno, in Russia, possa avere l’idea di una guerra – spero di no – ma dico che è una grave responsabilità per il cittadino italiano il continuare a dire che se a qualcuno venisse in testa di tentare l’avventura qui non ci sarebbe che un popolo che lo accoglie a braccia aperte e che si dimentica di essere italiano e che non difende la sua patria. Sottolineato il pericolo che tale affermazione continuamente ripetuta rappresenta, il presidente del Consiglio ha concluso dichiarando: questo è uno dei pericoli per la pace: la disgregazione interna, la disfatta interna, la irresolutezza, la neutralità. Il respingere qualsiasi concetto di difesa della patria, questo è un pericolo per la pace. Uno degli strumenti per la pace è invece quello di dimostrare che non ci sono passeggiate senza rischio; che se ci si arrischia, bene o male, gli italiani si difenderanno e che siamo un popolo che vuol essere indipendente da tutti, da destra e da sinistra, dall’America e dalla Russia. Viva l’Italia! |
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| Non si dica che noi portiamo l’odio, che siamo noi a volere la divisione del paese. La verità è che noi la divisione non la vogliamo, ma la subiamo. Noi vogliamo l’unione di tutte le forze politiche sulla base della libertà, del reciproco rispetto, della tolleranza; vogliamo l’unione sulla base dello sforzo concorde per la ricostruzione democratica della Repubblica. Tuttavia siamo costretti a tenere gli occhi ben aperti, perché una divisione, disgregazione profonda, esiste ed è penetrata negli animi. Siamo costretti ad essere vigili non per odio, ma per molta logica. Dopo aver ricordato le tradizioni democristiane di Ravenna, il presidente del Consiglio si sofferma ad illustrare l’azione politica del compianto Giuseppe Donati , che dalle colonne de Il Popolo si battè con estremo vigore contro il nascente fascismo e che per la causa della libertà morì in esilio. E prosegue. Anche oggi, come allora, taluni criticano il Parlamento. Si dice che parla troppo. E qualche volta è vero. Meglio però contare le teste che manganellarle. Meglio discutere, votare, che ricorrere ai metodi violenti. L’on. De Gasperi dopo aver riaffermato la volontà di collaborazione che ha sempre ispirato l’azione politica della Democrazia cristiana, ricorda che la collaborazione con le estreme sinistre non fu possibile per la colpa dei capi comunisti i quali obbediscono a paesi stranieri anche quando è in gioco l’interesse generale della nazione. Il presidente del Consiglio a questo punto dichiara che la collaborazione dei repubblicani fu «chiara e leale» e passa a parlare dei liberali. Al governo c’erano anche i liberali. Ad un certo momento abbandonarono la coalizione governativa e giustificarono questo gesto dicendo che non erano d’accordo sulla riforma elettorale. Ma dovevano esserci altre ragioni, quale ad esempio la riforma agraria. Ora essi non vanno troppo d’accordo fra loro. In alcune regioni si sono alleati con noi e in altre no. Quando erano al governo votarono per la riforma agraria. Si mostrano poi in disaccordo nel momento di applicarla. Taluni sentirono degli interessi in pericolo. Riconosco che nella riforma agraria molti problemi sono di difficile soluzione se si vuole agire secondo giustizia. Non possiamo non riconoscere i meriti di quegli agricoltori che hanno profuso capitali nelle loro terre rendendole altamente produttive. Essi meritano molto dalla nazione. Siamo disposti anche ad ammettere di essere incorsi in qualche errore: altri errori potranno essere fatti nel realizzare un’opera così grande e così complessa. Ma è un’opera necessaria. Spesso mi sono appellato alle classi che possiedono, ricordando loro come la storia sia fatta di sacrifici di chi ha, a favore di chi non ha. Taluni se ne rendono conto; altri no. Ed alcuni tra questi ultimi appoggiandosi al movimento missino, vorrebbero che ritornassero i manganelli a difesa della loro proprietà. Io dico a costoro: vi sbagliate. O una riforma moderata che dia terra ai contadini e salvi con ciò la libertà sociale o una rivoluzione in un tempo più o meno prossimo che porti al calcoz di tipo russo. A questo punto il presidente del Consiglio come già in altri recenti discorsi parla del concorso dato dall’America alla ricostruzione italiana e del Patto atlantico, patto difensivo. Nel 1948 i socialcomunisti, protetti dal grande mantello di Garibaldi, andavano dicendo: «siamo sicuri della vittoria perchè il popolo è con noi». Anche nel 1951, come allora, essi si sbagliano. È faticoso far procedere un paese per la strada della democrazia, ma ciò è necessario perché noi abbiamo già fatto l’esperienza una volta di quello che vuol dire una dittatura. Vogliono i liberali correre il rischio di farlo un’altra volta? Vogliono assumersi questa responsabilità di fronte ai loro meriti, al loro passato, alla storia del Risorgimento? Potrebbe venire un giorno in cui noi dovremmo rimproverare a costoro non soltanto ogni voto non dato, ma anche ogni voto disperso in questa battaglia che è decisiva, battaglia di cui non è in gioco soltanto il destino di singoli partiti, ma è in gioco il destino e la libertà d’Italia. |
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| Accetto il vostro invito a resistere alla fatica e a continuare nell’opera mia fino a che sia raggiunta la meta, che è questa: dopo una guerra disastrosa, dopo una necessaria, ma lunga e difficile ricostruzione, fondare fra i cittadini al di sopra dei partiti, quella base di solidarietà nazionale che ricostituisca l’unità e sia fondamento di indipendenza e di sviluppo della nazione. Ci sono dei momenti in cui la responsabilità della chiarezza, della precisione, della scelta della strada e dei mezzi per percorrerla, s’impongono. Venendo io a questo balcone dopo tanti oratori, non detterò argomenti intorno all’amministrazione del Comune o ai problemi locali (specialmente ai problemi economici dai lati complessi e contrastanti) perché su questo è stato discusso, responsabilità si sono precisate, i programmi sono ormai chiari, le volontà ormai schierate. Ma quando si tratta di contare ogni voto, e nella battaglia impegnare tutte le forze, è forse utile che io accetti di intervenire in una polemica che si è fatta da questa tribuna e risponda con chiarezza e con responsabilità. Togliatti di qui ha detto che fino dal 1946 egli aveva proposto alla Democrazia cristiana una collaborazione che fu respinta, e che noi democratici cristiani avremmo scelto, invece delle via della collaborazione con i rappresentanti della classe operaia, le difese di interessi e di privilegi, e rifatto il cammino che prima di noi aveva percorso il fascismo, mettendoci poi al servizio di un imperialismo straniero, americano . Accuse infondate ma persistenti, onde è necessario che la verità, pure così lampante, sia riaffermata e si riaffacci alla mente di tutti. Come è facile dimenticare! Noi abbiamo dimenticato i tempi (e sono vicinissimi), in cui si mangiava il pane nero e a mala pena si poteva iniziare la ricostruzione delle strade, dei ponti, delle ferrovie. Noi abbiamo dimenticato, e stiamo per dimenticare, le cause di questa guerra, e non c’è nessuna meraviglia che con quel desiderio che tutti hanno di arrivare ad un certo periodo di tranquillità e di pace si dimentichino anche i torti avuti, gli eccidi compiuti, i fattacci di sangue che hanno macchiato i combattimenti, le vittorie e le sconfitte. Ma nella storia ci sono spiegazioni per un problema così fondamentale come quello sollevato da Togliatti. È vero che noi – e adesso lasciate che io parli a nome dei cattolici – nei momenti decisivi ci siamo richiamati alle nostre dottrine e teorie per negare la collaborazione che, al di fuori della dottrina, al di fuori del partito, sopra i partiti si manovra per ricostruire il paese, per rifare la nazione forte ed indipendente, è vero? No, non è vero, voi siete qui testimoni del nostro contributo ricostruttivo, oggettivo di pace, tra le diverse fazioni più accese. Noi accettammo di collaborare col comunismo, purché in questo modo si trovasse la formula di concentrare le cure in quella che era la necessaria azione di ricostruzione. Abbiamo fatto questo sacrificio, abbiamo compresso, direi, le nostre obiezioni ideologiche, non abbiamo avuto paura, ci siamo esposti anche ad eventuali raggiri o inganni, poiché ben sospettavamo che ci si potesse, in realtà, raggirare in questa tattica. L’abbiamo accettato. Perché eravamo dopo una guerra. E badate bene, che se da qualche altra parte appunto ci si muove l’accusa di aver collaborato in un primo periodo nei Comitati di Liberazione con i comunisti, e oggi certi eroi, che allora non so dove fossero rintanati, ci fanno il rimprovero di esserci esposti, io respingo anche questa seconda accusa e rispondo: no! Assumemmo quella responsabilità di collaborare, perché era doveroso pensare alla patria boccheggiante ed era naturale che noi avessimo un po’ di ottimismo, e sperassimo che dopo la guerra disastrosa che ci ha accomunati nella disfatta e il dolore, si trovasse la strada, insieme, di sentirci tutti italiani, tutti compatti per la difesa della nostra nazione. Lo abbiamo fatto! L’abbiamo fatto, e non me ne pento, come non mi pento se, nel 1922, dopo la Marcia su Roma, io stesso ho contribuito, ho consigliato al mio partito di tenere una collaborazione col fascismo, per costringere, per indurre Mussolini, e allora l’organizzazione militare del fascismo, a rientrare nel metodo parlamentare e ad accettare la libertà come base delle istituzioni. Ho fatto questo tentativo in buona coscienza, sempre avendo di mira non il vantaggio del partito – anzi disprezzando il rischio che il partito correva – ma quello dell’Italia, della necessaria unità in momenti disastrosi, per salvarci da quello che, fatalmente poi, non potemmo evitare, cioè un ventennio di dittatura. Ma quando il sospetto si fece realtà, che si mirava cioè a distruggere le libertà costituzionali dello Stato italiano, allora il primo partito ad abbandonare il tentativo di coalizione, fu il Partito popolare, cioè il partito che precedette la Democrazia cristiana. Mi vanto di questo ancora, perché questo senso di libertà l’abbiamo difeso sempre, specialmente sopra fatti concreti, sopra un delitto terribile che non riguardava persone nostre, del nostro partito, della nostra famiglia cristiana: riguardava un capo socialista! Ma era la libertà, era l’integrità, era la dignità umana che bisognava difendere in prima linea. Ebbene, con questo sentimento ci potete dire che noi siamo dei faziosi, che noi vediamo soltanto interessi di parte, che non sappiamo assumere responsabilità coraggiosamente, anche rischiando alleanze che possono portarci dei danni come partito! Come oggi abbiamo deliberato un sistema elettorale che concede ai partiti minori il modo di farsi rappresentare, e magari anche a scapito del successo della Democrazia cristiana, così nel passato agimmo come Partito popolare, in confronto al fascismo e, nei primi tempi, di fronte al comunismo. «Perchè – dice Togliatti – non abbiamo continuato in questa collaborazione?» . Non abbiamo continuato, amici miei, perché abbiamo capito che nei problemi di carattere internazionale, problemi che erano legati e vincolati alla difesa sostanziale della nostra nazione, il comunismo italiano non agiva come italiano, ma come una frazione del bolscevismo internazionale o, per meglio dire, sotto la direttiva e secondo la direttiva del partito bolscevico russo che ha in mano il governo della Russia. Ecco perché noi abbiamo cominciato a insospettirci, proprio nell’agosto del 1946! Io ero a Parigi, allora , e dinanzi ai rappresentanti di tutte le nazioni, e soprattutto dinanzi ai rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici che imponevano un trattato, io, con la mia debole voce, ma con la dignità che compete al rappresentante del popolo italiano, difesi gli interessi del paese . Ad un certo momento, soprattutto, dimostrai che la soluzione allora proposta per il Territorio libero di Trieste non era una soluzione ma una sistemazione provvisoria che diventava pericolosa per la pace stessa e, soprattutto che non portava la possibilità di collaborazione tra i due popoli confinanti e ci offendeva nel nostro sangue di italiani, nel sangue degli italiani di quei paesi, di quelle zone. Io avanzai allora una proposta perché la soluzione di questa organizzazione del Territorio libero (che era disastrosa, perché appariva come una gabbia invece di essere uno Stato) venisse rinviata e che ci si pensasse bene ancora un anno. Ma con mia grande sorpresa, il giorno dopo si alzò il rappresentante della Russia, Molotov, e dopo fece un lungo e vivacissimo discorso che diceva: «De Gasperi è venuto qua non a rappresentare la politica democratica quale l’Italia vuole avere e dice di avere, ma è venuto a presentare le rivendicazioni nazionaliste del fascismo, dell’imperialismo fascista» . E questo «imperialismo» era costituito dal fatto che io tentavo di far capire che Pola era città italiana, e che il minimo che ci si poteva dare era la fascia dell’Istria che era stata colonizzata, italianizzata, coltivata dalle forze Venete, cioè dalle forze italiane. Fascista, mi si disse, e pazienza: ed io mi inchinai al parere del rappresentante della Russia nonostante tentassi poi in un colloquio, di cui è bello oggi a distanza leggere gli appunti, di persuadere Molotov che non era vero, che noi non eravamo corresponsabili della guerra fascista, che noi, soprattutto, non volevamo rivendicare le stesse posizioni e che eravamo arretrati fino al limite del possibile, quel tanto possibile che ci permettesse di salvare le piccole città istriane, italiane, italianissime! E la città di Trieste, soprattutto, che io, esagerando nella politica nazionalista, avevo rivendicato come città italiana! Che in quel momento, la Russia – patrona degli slavi e degli jugoslavi – pensasse così era spiegabile; ma che in quei giorni, proprio in quei giorni, l’Unità uscisse a Roma con articoli e corrispondenze che venivano da Parigi (ove si trovava anche Togliatti) e in cui si diceva e si chiedeva: «chi ha autorizzato De Gasperi a chiedere il rinvio di una simile questione?», non era proprio spiegabile . Allora mi insospettii. E oggi, ritornando indietro e vedendo le origini del dissidio tra noi e i comunisti, data l’impossibilità sviluppatasi e dimostratasi di una cooperazione, oggi ancora capisco esser chiaro che la linea fondamentale per cui non possiamo andar d’accordo è questa: che il Partito comunista decide di questi problemi non da un punta di vista italiano ma da un punto di vista bolscevico, cioè internazionale; e noi non possiamo accettarlo! Vi ricordate, poi, quando nel 1948, venni a parlarvi ? Allora potei vantare la dichiarazione tripartita, che era una dichiarazione solenne in cui tre dei quattro firmatari del trattato dicevano: «Trieste e il Territorio vanno all’Italia perché si tratta di paesi italiani»; e questi tre proponevano al quarto, che era la Russia, di fare un codicillo, un’aggiunta al trattato, in cui si affermasse che questi territori dovevano ritornare prima o poi all’Italia. Ebbene: se allora il Partito comunista fosse stato governato da uomini che vedevano i problemi dal punto di vista italiano, avrebbe dovuto mandare Togliatti, che era stato segretario del partito internazionale comunista insieme con tutti i rinforzi di Secchia e compagni (li conoscete anche voi, li avete visti qua, naturalmente) a dire a costoro che andando in Russia nel paese modello, nel paese meraviglioso, al quale dobbiamo guardare come paradiso in terra, dicessero che questo paese ci facesse il piacere di conquistarci, di conquistare tutta l’Italia, concedendo Trieste. Che colpo contro la Democrazia cristiana e gli anticomunisti, se il Pci fosse riuscito a portare Trieste al territorio italiano. Invece Togliatti agì diversamente e disse subito: «ma che state a credere, adesso, che questo problema sia risolto? Bisogna che ci sia anche il permesso della Russia». Sicuro. Questa era la proposta. Ma voi dovevate aiutarci con i vincoli di amicizia, di dedizione, di ammirazione, che avete con la Russia, dovete aiutarci e andare a Mosca, come la Regina Saba da Salomone e dire: «ma dateci una mano su via, aiutateci…». Perché mai non l’hanno fatto? Non l’hanno fatto perché l’interesse di difendere la posizione di Trieste per gli slavi è talmente forte, che rinunziano addirittura anche alla possibilità di conquistare l’opinione pubblica italiana. Non l’hanno fatto; e di qui, guardate bene, derivano tutte le impossibilità per noi di lavorare insieme a loro. Come avrei potuto lavorare insieme, d’altronde, quando Togliatti (mentre io stavo trattando con La Guardia, che era presidente dell’UNRRA dicendogli: «mandaci grano, perché altrimenti dobbiamo abbassare la razione a 150 grammi e qui abbiamo la necessità della ricostruzione…»), quando Togliatti, dicevo, mentre io facevo questo, diceva in articoli o parlando a voce: «cafoni americani…», tanto da mettere in pericolo persino i tentativi per un trattato commerciale? Egli, poi, respingeva l’alleanza economica del Piano Marshall. Ma che cosa avremmo fatto in Italia, che cosa avrebbe fatto lo stesso comunismo, che vanta tanti favori dal di fuori, se non ci fosse stata, ad aiutarci, l’America? Dicono che siamo dei servi! No, signori. Trattiamo da eguali ad eguali, con dignità. Ma non si può sputare nella minestra e poi mangiarla! Il Piano Marshall, questo Piano di collaborazione economica, fu un’idea grandiosa nella storia. Quando saranno passati molti anni, altre generazioni che avranno più calma di noi, e ripenseranno a quello che è avvenuto con meno passionalità di giudizio, dovranno dire che un popolo, sia pure ricco, ad un certo momento, ha sentito che era necessario – per impedire la disgregazione della civiltà e una insurrezione generale della fame – di aumentare le tasse dei suoi cittadini, per poter mandare a distribuire ai paesi di Europa un aiuto. Si può criticare l’America, si può dir male degli americani, perché sono uomini come tutti gli altri e nei loro sistemi non tutto è giusto e non tutto è buono e anche là esistono uomini e sistemi che noi non potremmo accettare. Ma, vivaddio, questo atto di generosità, di chiaroveggenza, di solidarietà è un tale fatto storico che i nostri nipoti lo ricorderanno ad esempio, per quello che potrebbe avvenire in un momento di disastri internazionali. Allora gli americani hanno offerto a tutti, ricordatelo, a tutti!, anche alla Russia, alla Cecoslovacchia, alla Polonia, alla Bulgaria, anche agli Stati balcanici, al di qua e al di là della Cortina, dichiarando: «mettiamoci assieme in un Comitato comune, vediamo come ripartire questo materiale e che possiamo dare ai paesi europei e cerchiamo di suddividere questo contributo secondo giustizia». Ma la Russia disse no, e costrinse la Cecoslovacchia, che aveva già detto sì, a rifiutare. Perché? E qui per fortuna non siamo chiamati a decidere sul destino della Russia e non siamo chiamati a criticare e spiegare il perché dell’atteggiamento dei russi: avranno avuto le loro ragioni e, tra parentesi, io sospetto che la loro vera ragione è che nessuno «cuccasse» dentro… La conoscete anche voi questa parola? Non volevano che si guardasse dentro il sistema russo, perché capirete bene che se Cucchi e Magnani e alcuni altri vanno a fare una passeggiata in Russia, e là scoprono che le madri, le gestanti, un mese prima e un mese dopo, hanno libertà e hanno la sovvenzione e dicono (uno di loro, non dei due, uno degli altri): «che meraviglia, che paese straordinario è questo!»; al che un altro piano piano osserva: «ma in Italia sono tre mesi prima e tre mesi dopo»… Figuratevi che cosa succederebbe. E se invece che questi due bravi galantuomini, andati insieme ad altri galantuomini, andasse una missione americana a vedere? Ma la Russia tutto questo non lo vuole, per sistema vuole tenere il sipario di ferro. Gli italiani, i comunisti, potevano dire che per l’Italia era una buona cosa che venissero i dollari, ma la parola d’ordine è stata di votare contro il Piano Marshall, irridendo alle conseguenze. Ed i comunisti hanno votato contro. Ci dicono adesso: «sapete perché abbiamo votato contro?» perché era la preparazione di un movimento per il riarmo. Ma non è vero. Se la Russia, e con la Russia tutti i paesi comunisti, avessero accettato di collaborare al Piano Marshall, la pace si consolidava. Non c’era più questo segreto misterioso di un paese che non si può mai sapere in che misura dia l’idea del paradiso e dell’inferno, non ci sarebbe stata più nessuna ragione, nessun sospetto contro la pace, nessun sospetto che si preparasse la guerra. Questo chiudersi della Russia ha portato il sospetto che si stia preparando un conflitto invece che una soluzione pacifica. Ecco perché ad un certo momento abbiamo dovuto deciderci e metterci di qua o di là con coloro che potevano difenderci, o abbandonarci, col pericolo di essere il paese di nessuno, com’era l’Italia ai tempi di Carlo VIII , quando veniva un imperatore germanico o un re francese e, attraverso il nostro paese mettendo le città una contro l’altra. Ma i nostri padri non hanno combattuto invano. Lo sforzo fatto per consolidare l’Italia attraverso il Risorgimento, e gli altri, compreso quello della prima guerra mondiale, di cui oggi 24 maggio celebriamo l’anniversario, tutto questo, o popolo ci dice che c’è un’altra Italia che dobbiamo difendere, che è un’altra Italia che dobbiamo creare, un’altra Italia che, se potrà – in qualunque maniera, in qualunque occasione, con le trattative, in un verso o nell’altro –, dovrà riuscire a consolidare la pace in Italia. E lo farà, e il governo sarà tenuto a cogliere ogni occasione di buona volontà. Ma se ci attaccassero, dovremo difenderci, in qualunque maniera dovremo difenderci, o gioventù! Naturalmente i comunisti hanno sì votato contro il Patto atlantico, hanno detto che trattasi di un Patto offensivo, hanno accettato la tesi russa, quello che scrive la Pravda, quello che dice Radio Mosca e Radio Praga; hanno ascoltato tutto questo come un Vangelo e ci hanno accusato di essere noi gli offensori, noi gli attaccanti. E a un certo momento mi è parso così strano, guardandomi attorno e vedendo l’Esercito che avevamo ieri e quello che abbiamo oggi, un esercito inferiore a quello che ci vuole alla difesa, non dico all’offesa. Abbiamo un Trattato che ci impedisce di avere cannoni che tirano al di là di trenta chilometri. Non abbiamo soprattutto l’aviazione per l’offesa, non abbiamo siluri: il trattato ce lo ha impedito . Se ci guardassimo attorno verrebbe da dire: questo non può essere uno Stato di offesa, e allora votiamo questo. Invece hanno votato contro il Patto atlantico e contro gli armamenti quasi che noi avessimo fatto cosa esagerata. Guardate la Svizzera: ha 4.700.000 abitanti, un paese che da secoli è ritenuto e considerato ormai intangibile nella sua neutralità, perché è difeso soprattutto dalle Alpi: 4.700.000 abitanti. L’altro giorno hanno votato 220 miliardi e noi, 47 milioni di uomini, abbiamo votato 250 miliardi di lire. Se fossimo neutrali, dovremmo moltiplicare per dieci la spesa, e saremmo in condizioni ben diverse: accettate il ragionamento. Questi sono fatti, sì o no? Pensate davvero, col vostro gridare, di farci passare per aggressori? Noi aggressori? Con che cosa? Con l’artiglieria insufficiente, con i fucili vecchi, con i moschetti? Aggressori? Ma io ho paura di avere trovato la spiegazione: è questione di vocabolo. Quando in Corea è avvenuto che i coreani del nord, aiutati da armi che provenivano da altri paesi, sono intervenuti, una bella mattina alle 4, e hanno attaccato e c’era là una Commissione Internazionale la quale telefonò subito in tutti i paesi: «badate che hanno attaccato così forte che gli altri hanno incominciato a retrocedere». E sono retrocessi per tre settimane e mentre retrocedevano i comunisti dicevano: ecco gli aggressori! Ma se si ritiravano. Io l’ho detto alla Camera, all’on. Nenni: la cosa è evidente, diavolo, vi arrampicate sui vetri, è chiaro che «non volete» ammettere. Ma la cosa non è semplice e già lo sapete perché Togliatti ce lo ha spiegato. Loro dicono: «uno Stato, quando è socialista o comunista (e quando loro dicono così vogliono dire comunista) allora ha già in sé il vaccino contro la guerra». Ma la Russia l’ha fatta anche lei. Sì, ma tutte le volte – rispondono – è attaccata sempre dagli altri. Però ad un certo punto si era messa d’accordo perfino coi tedeschi, che non erano mica agnellini. Hanno fatto un cattivo affare perché poi li hanno attaccati. Non è che il vaccino funzioni sempre ed è inutile perdere parole. La dottrina di Lenin dice: «uno Stato, il quale è comunista poiché non rappresenta più interessi di privilegio dei signori, non può attaccare, e non attacca. Se c’è una guerra vuol dire che è stato attaccato». Così la Corea Povera Italietta, ci hanno spogliato di tutto, ci hanno portati via tutto, e noi saremmo i capitalisti che avremmo nascosto i milioni per i cannoni per la guerra. Noi saremmo i rappresentanti della plutocrazia che vorrebbe freddamente la guerra. Saremmo i servi dell’imperialismo americano . E vorrei anche essere compagno di quei milioni di italiani che sono là e che adesso, un pochino perché li abbiamo trascurati, smozzicando l’italiano, ma quando sentono che uno arriva e parla italiano, se vedeste che facce, come rinascono nel loro dialetto, come ho visto a Cleveland . Come sentono la paria, come sentono l’Italia, come la fanno sentire quando si tratta di votare. Avete visto nelle ultime elezioni? Credete che gli americani ci vogliono bene? È perché ci sono là degli italiani che si fanno sentire, dove tutti valgono per uno, tanto i ricchi che i poveri. Ad ogni modo avete capito quali sono le ragioni per cui ci riesce impossibile… Sono troppo lungo ? Figurarsi se non sono d’accordo e invece che cinque siano pur sei, sette, o otto: sono contentissimo. Ma se hanno da essere cinque, con la America, la Francia, l’Inghilterra e la Russia, quando si arriverà a discutere anche di Trieste, il quinto dobbiamo essere noi perché è roba nostra, perché si tratta della nostra carne! In quanto alla pace io direi a Nenni o a Sereni: cominciamo con le cose pratiche. Dove è che c’è la guerra adesso? In Corea. Allora cominciamo là a fare la pace, l’armistizio, giù le armi. Là dove si è attaccato si ricominci a dire «discorriamo». Ed ecco che io mi auguro di tutto cuore, come italiano e come democratico, che Nenni sia chiamato in Corea, a mettere pace. È difficile collaborare quando si è in due o tre partiti e si va abbastanza d’accordo. Figuratevi un lavoro con i rappresentanti del Pci o addirittura con il partito bolscevico russo! Se i comunisti vogliono tornare al governo, abbandonino non dico il comunismo, ma il bolscevismo. Facciano questo superamento. Ci è mancato il fiato quando si è trattato di collaborare coi comunisti. È stato il loro sistema di doppiezza che usano quando si presentano. Non c’è il fiero combattente come in certo socialismo romantico dei tempi passati che, avesse torto o ragione, si buttava avanti, transigente o intransigente, ma secondo un principio fondamentale. Questi sono manovratori, questi sono abili, questi sono machiavellici: vengono con una cosa e ne pensano un’altra, prendono un impegno e lo giurano. Lo abbiamo provato tante volte, non ci si può fidare. Perché loro tendono alla conquista dello Stato e si servono del governo per nidificare dappertutto come il cuculo. Non possiamo fidarci. Perché? Perché non siamo sicuri che essi abbiano accettato, nella loro coscienza, come definitiva legge la democrazia, cioè che la maggioranza comanda e la minoranza controlla. Accettino questo e cioè tutte le cose che si decidono per voto e non accarezzino segretamente ancora l’idea di una riserva che può essere riserva d’armi o di alleanze poste al di fuori. E quando troviamo delle armi non dite che esageriamo: prima di tutto le troviamo, in secondo luogo le troviamo oleate, ingrassate, preparate e certe volte con la cartuccia in canna! In nome di Dio, contro chi sono preparate queste armi se non contro gli italiani, se non contro le forze dello Stato italiano? Noi stessi ad un certo momento dicemmo: consegnate le armi entro tre mesi e non puniremo nessuno. Ma non le hanno consegnate, non le hanno restituite e questo ci fa sospettare che non siano democratici sinceri, che non accettino la legge fondamentale della democrazia. E allora diciamo: su questo bisogna venire in chiaro e finché non ci troveremo di fronte ad un atteggiamento sicuro, non sarà possibile collaborare né affidare loro alcun mandato politico o amministrativo. Circa le elezioni in Bologna dobbiamo chiederci: perché mai i comunisti hanno rinunciato alla falce e martello? Hanno preso le due torri: ma esse sono il segno di Bologna, della sua missione, della sua storia. È lo stesso tiro che si è fatto con Garibaldi l’altra volta. E questa è un’altra ragione per cui noi non ci fidiamo. Il bello è, poi, che essi, secondo la parola di Molotov e di Togliatti, dovrebbero essere gli antifascisti per eccellenza e hanno sempre gridato allo scandalo che si poteva ancora permettere l’esistenza di un partito che voglia ricostituire il fascismo; adesso, in certi paesi, dicono al popolo: «dateci una firmetta, perché mancano le firme per presentare la lista del Msi». In certi altri paesi attivisti vanno intorno come guardie del corpo perché il Msi abbia la possibilità di attaccare la Dc. Ah! Che combutta! E io non so proprio quale sia la vergogna maggiore, se dei comunisti che danno questi aiuti, o degli altri che li accettano. Io riconosco che la nostra tendenza è stata fino a ieri quella di pacificare, di dimenticare il passato, di non tornare indietro. I conti non si saldano più ed è nella storia e in Dio il giudizio sopra tutti questi fatti complessi. La giustizia umana può occuparsene, non le passioni, non i partiti. Non vorrei, insomma, parlare del passato, ma quando questi signori (non credo, perciò, che tutti coloro che hanno simpatia per il Msi siano d’accordo con certe dichiarazioni dei loro capi), quando uomini come Almirante e Mieville dicono, anzi si vantano, di essere gli eredi della Repubblica sociale e contemporaneamente attaccano i partiti democratici e in modo particolare la Dc (perché la parola d’ordine di Togliatti è questa: «a qualunque costo attaccare la Dc»), quando essi vengono a dire questo e trovano ancora qualcuno che si illude, li vuole aiutare, come li aiutò l’altra volta, io mi chiedo: ma codesti elettori non sanno che la Repubblica sociale si vantava di avere superato il comunismo nei provvedimenti di carattere sociale, come l’esproprio e i consigli di gestione e non sanno e non ricordano i tribunali speciali, i tribunali di ogni provincia, i delitti? Italiani! In questo ultimo periodo sono stati commessi tanti delitti da una parte e dall’altra. E quelli che sono stati fatti sotto l’impeto delle passioni possono essere spiegati, mai giustificati. Ma quelli che non possono esserlo sono i delitti fatti attraverso formule di magistratura, attraverso i Tribunali. Ricordate voi il processo di Castelvecchio in Verona, nel 1943, dove i capi dal fascismo, quelli che avevano votato contro Mussolini e non avevano fatto altro che fare appello al re perché assumesse il comando, furono accusati e fucilati, anche se c’era fra loro il genero del capo della dittatura? Ricordate quelle scene sanguinose, perché l’hanno fatto? E non bastasse questo, ricordate gli ammiragli Campioni e Mascherpa , due ammiragli che avevano difeso con le armi in mano Rodi italiana e che, fatti prigionieri dai tedeschi, furono poi consegnati alla Repubblica sociale e vennero fucilati anche essi? Questi signori che dicono di volersi assumere la responsabilità e l’eredità della Repubblica sociale, si assumono pertanto una gravissima eredità: quella di avere servito i tedeschi e il nazismo hitleriano proprio essi che ci gridano: siete servi dello straniero, siete servi degli americani. E mi pare impossibile che dei giovani, i quali sentono senza dubbio il senso della patria, di una patria che vuole rinascere, non sentano anche tutto ciò che è giustizia, tutto ciò che è fraternità, tutto ciò che è democrazia e solidarietà; mi pare impossibile che tutti questi giovani vadano domani a votare per questa eredità e con questa affermazione. E l’affermazione di questa eredità non viene fatta per caso. È perché essi vogliono affermare che la guerra non fu perduta per eventi di guerra, per le battaglie, non per l’impreparazione assoluta con la quale essa fu provocata, non per mancanza di direttive, ma fu perduta, dicono, per tradimento dei capi, tradimento di alcuni gerarchi e tradimento soprattutto dei democratici che stavano ancora in patria. In verità, che cosa potevamo fare noi che avevamo da poco lasciato le prigioni, che ne eravamo appena usciti, guardati con sospetto e controllati? Non potevamo far niente. E allora combattemmo e rischiammo la pelle per la difesa della libertà, costasse quel che costasse. Oggi ci vengono a rimproverare, perché vorrebbero rifare un processo di involuzione storica, come lo fece già Hitler per l’armistizio del 1918, concluso dagli uomini politici, perché i capi dell’esercito avevano detto che non era più possibile vincere o resistere. Tuttavia, più tardi, la menzogna si fece largo tra la gioventù nazista e a furia di dire che tutto era successo per il tradimento interno, questa spiegazione che accarezzava l’orgoglio nazionale dei tedeschi fece nascere il medesimo pericolo che poi minacciò tutta l’Europa. Per questo mi occupo della polemica missina; non per accusare gli attuali rappresentanti del Msi di voler consapevolmente questo finale, ma per ammonirli: badate che questo pericolo di immettere nella gioventù questa falsa interpretazione della storia porta con sé delle responsabilità gravissime contro le quali noi abbiamo il dovere, costi quello che costi, di opporci. Togliatti dice: «perché i preti si agitano, perché i vescovi mandano fuori osservazioni, raccomandazioni, moniti?» . Io non sono stato mai anticlericale, dice lui; non c’è un solo atto del nostro partito, o di una amministrazione democratica, che si possa dire contro la religione. Ed io su questa questione bisogna che vi dica qualcosa, affinché le idee restino chiare. Lo dico anche per qualche anticlericale di vecchio stampo che deve abituarsi a vedere la situazione dopo la conciliazione. Noi abbiamo la Costituzione, che è un patto fra i singoli partiti, i singoli uomini, le singole correnti: un patto di convivenza e norma onorevole per vivere l’uno accanto all’altro, anche pensando diversamente. L’art. 7 dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. E l’art. 8 afferma che tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Ora, e vi parlo come presidente del Consiglio, io dico: questa è la base e la norma su cui deve agire e agisce il governo. Nella zona politica, nella zona dello Stato, nel proprio ordine indipendente e sovrano, tutte le confessioni sono uguali, ma questo non vuol dire che dobbiamo ingerirci nella zona autonoma della Chiesa cattolica. Quando un prete si rivolge ai propri parrocchiani, ai propri fedeli e dice: «tu che sei battezzato e cresimato, intendi mantenerti secondo la morale cattolica, secondo gli obblighi di disciplina di questa Chiesa? Sì? E allora va con Dio: in questo momento il voto ha una importanza colossale»; io mi compiaccio che, invece di parlare del peccato di non andare a messa e di tutte quelle cose che appartengono per definizione alla Chiesa, la Chiesa allarghi lo sguardo e dica: più che andare a messa o no è peccato non ricordarsi dei propri doveri di cittadini, in un momento in cui si tratta di decidere l’avvenire del popolo. Ci sono venuti in rinforzo i maestri di coscienza, i quali dicono: non scherzate, è un atto importante quello che dovete fare, è un diritto della vostra sovranità che dovete manifestare. Ma questo è democrazia, è progresso. Essi, aggiungono: «badate che se votate male, o non votate, siete in contrasto con la nostra legge canonica», che cosa c’entra Togliatti in tutto questo? Se lui non va in Chiesa, nessuno lo disturba. Quelli che invece ci vanno, stanno alla regola! Ad un certo momento, non so più se qui o altrove, Togliatti disse che per suo conto (ed è stato proprio qui!) per suo conto egli assolveva senz’altro il piccolo peccato. Ma Togliatti non è ancora diventato vescovo come è vescovo Stalin e compagni in Russia… Dicono: non abbiamo mai fatto niente… naturalmente, finchè non avete il potere in mano siete quasi innocenti perché non potete peccare… E la Russia e tutti gli altri paesi? Ascoltate radio Praga e radio Mosca e sentirete quale campagna elettorale essi facciano per i contadini comunisti in Italia, trasmettendo i discorsi del sindaco di Bologna, del sindaco di Genova, ecc. Il discorso di Togliatti venne subito trasmesso e ritrasmesso per radio. Tanto che io mi domando se non ci facciamo una triste figura noi che, avendo la radio in mano, trasmettiamo il sunto dei discorsi degli avversari. Essi, infatti, hanno a loro disposizione quattro-cinque radio dei popoli d’oltre cortina e c’è da chiederci se non ci convenga, d’ora in avanti, pensare ai fatti nostri e lasciare la nostra radio ai partiti democratici… Circa il modo come la Chiesa cattolica viene trattata in altri paesi (essa che da noi si difende non già col bazooka o coi cannoni ma con le armi canoniche, i precetti, gli ammonimenti), vi dirò soltanto che quando il Papa vuol sapere esattamente come vadano le cose nelle terre dove comanda il comunismo, egli non ha da fare altro che aprire l’annuario pontificio. Potete aprirlo anche voi, è un bel libro, che si pubblica ogni anno. Ci sono tutte le diocesi, tutti i vescovi, tutte le organizzazioni religiose, tutte le cariche religiose. E vi sono moltissime pagine in cui, in luogo del nome di vescovo, c’è scritto fra parentesi «in prigione», «deportato», «soppresso». E queste annotazioni sapete perché stanno lì? Perché sono la situazione di fatto dei vescovi e dei preti nei paesi comunisti. Vi rientrano 34 vescovi e arcivescovi, fra cui il cardinale Mindzenty e poi una serie di sacerdoti: il 9 per cento dei cattolici di tutto il mondo è perseguitato ed in Europa lo è il 15%. Anche se Togliatti fosse venuto a dire: noi comunisti italiani biasimiamo fortemente questi attentati contro la libertà religiosa e queste persecuzioni, ci sarebbe da obiettargli quanto venne detto nel recente Congresso comunista a Roma. Togliatti disse, infatti, che là dove i comunisti vanno al governo e dove si è introdotto il sistema socialcomunista, naturalmente gli altri partiti non hanno diritto di esistere, nessun’altra forza ha diritto di esistere. E aggiunse: «in questi frangenti, in questi paesi, la lotta naturalmente va condotta come ha da essere condotta» . E allora, amici miei, voi pretendete che non apriamo gli occhi? Non lo dico a voi bolognesi, lo dico a tutta l’Italia. La lotta va condotta come deve essere condotta, cioè fino all’ultimo voto. Abbiamo tanti «parenti», in questa occasione. «Apparentamento»: un sistema venuto dalla Svizzera, che abbiamo applicato per facilitare quei partiti e quegli uomini che abbiano ancora degli scrupoli di fronte alla Dc e ci sospettino come troppo clericali e reazionari da un lato e dall’altro troppo vicini agli operai, troppo riformisti (ce ne sono tante di queste mezze anime!). E allora io vi dico: sceglietevi il partito che volete, purché accettiate questo principio: che bisogna stare in democrazia. Questo è l’essenziale. Debbo aggiungere che vi sono anche le anime fiere che hanno dietro di loro la tradizione del Risorgimento, la tradizione liberale, la tradizione repubblicana, e va bene. Votino secondo la loro coscienza. Però stiamo bene attenti. Qualcuno avrebbe un gusto matto di portar via voti alla Dc ma se si indebolisce, con una campagna rabbiosa e reazionaria, il partito-blocco della democrazia, il partito che è alla base, non illudetevi sulle conseguenze. Per lungo tempo ancora l’Italia ha bisogno della Dc! Se questa non ci fosse, cadrebbe tutto. Perché questa Democrazia cristiana è uno sforzo di uomini, uno sforzo di equilibrio. Ha i suoi difetti, lo so bene e non riesce a fare tutto. Riesce talvolta a far male. Ma ditemi voi se c’è un paese al mondo dove le cose vadano sempre bene! Ditemi voi quale governo abbia mai soddisfatto tutti! In genere i governi buoni sono quelli lontani. Sentite parlare bene del governo italiano fuori di qui. Questo è fatale. Nessuno accontenta, nessuno soddisfa, ma per quello che è direttiva, ed è la sostanza della Dc riaffermiamo che essa vuole essere tra le forze non estreme, da una parte e dall’altra, partito che cerca soluzioni nazionali, le soluzioni più giuste ed eque. Ci attaccano per il piano della riforma agraria e l’ho già detto a Ravenna . Ma non si può considerare la questione semplicemente dal punto di vista della produttività del terreno, bisogna risolverla anche con criteri sociali e guardare ad occhi aperti quello che è possibile e quello che non è possibile. Questo è sempre stato il nostro sforzo. Noi rappresentiamo una tendenza che dà un certo equilibrio, che vuol realizzare senza spezzare ed evolversi, senza rivoluzionare, che tende al progresso nella pace e nella concordia del più largo possibile numero di cittadini e di interessi. La Dc ha del resto molti meriti, non ultimo quello di governare come richiede l’esigenza di una grande nazione. Ma c’è un altro merito, la pace religiosa in Italia. L’avere portato tutti coloro che credono e tutti coloro che sentono la tradizione religiosa nel campo della democrazia, della libertà, della tolleranza, riconoscendo a tutti il diritto di agire secondo la Costituzione; l’averli portati su questa legge comune e per poter dire loro: voi che avete della fede, voi che avete delle opinioni radicate, siate tolleranti; l’aver portato dentro le forze democratiche, questa immensa fiumana, invitandola a lottare per la democrazia, per la difesa dell’ordine, nella libertà e della libertà nell’ordine, l’aver alimentato la loro coscienza morale e fatto appello alla tradizione del passato per fare rivivere gli antichi monumenti e dare fiato alla chiamata delle nostre campane e sentire quello che furono le nostre glorie del passato e rivivere la nostra vita e prospettare queste glorie verso l’avvenire, questo è stato, questo è il grande compito della Dc. E allora, cittadini, non indebolitela, rafforzatela, difendetela! Perché difendere e rafforzare la Democrazia cristiana, vuol dire difendere la democrazia e difendere la democrazia vuol dire difendere la solidarietà, la solidità, la pace dell’Italia. |
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| 101951-1955
| Milanesi, amici lombardi, è grande onore per me concludere questa campagna elettorale in Milano, centro vitale della nostra vita economica e politica e di essere a Milano collegato con altri comuni lombardi il cui nome ricorda un periodo glorioso della nostra storia nazionale. Ho cominciato questa campagna a Trento , mia città natale e l’ho continuata recandomi a Venezia, a Firenze, a Genova, ad Imperia, a Parma, a Pistoia, a Ravenna, Pesaro, Cremona e Bologna. La concludo venendo in mezzo a voi . Si era detto in principio che la discussione sarebbe stata sui bilanci comunali e si era detto dai nostri avversari che ci sono stati dei comuni che si sono apprestati un bilancio posticcio in pareggio per dimostrare che tutte le cose erano andate bene: ma altri problemi incalzavano ed è errato pretendere che in un periodo in cui si lanciano vivaci accuse contro il governo fosse possibile pensare che questa campagna si svolgesse in pacifica discussione. Ma il governo e i partiti che lo sostengono non potevano sottrarsi alla discussione pubblica e alle loro responsabilità per distaccarsi dal quadro generale in cui la vita comunale si svolge. Durante questa campagna abbiamo dovuto rispondere a diverse accuse. Abbiamo dovuto rispondere a manifesti che ci venivano mostrati in piena libertà nella stessa piazza in cui parlavamo, prova evidente della libertà in regime democratico. Si è trattato di volantini che ci venivano comunicati magari per posta o fatti arrivare nelle nostre tasche e che talvolta anche al di là di quello che sarebbe stato lecito, contenevano ingiurie personali. Alle accuse abbiamo sempre risposto a tono, energicamente, sapendo che la verità era dalla nostra parte. Anche qui da Milano rispondo ad accuse e a calunnie che si ripetono contro la mia persona. Si è montata una campagna di denigrazione senza fondamento. Volendo rispondere in assemblee che sono chiamate a deliberare sopra un atteggiamento di carattere amministrativo dovremo riferire su tutti i problemi della nostra vita politica, nazionale e internazionale. Bisognerebbe cominciare con lo spigare all’on. Togliatti perché non è stato possibile continuare una collaborazione che avevamo ad un certo momento iniziato . Non è stato per capriccio, non per odio, non per fanatismo religioso o per fanatismo anticomunista. Noi siamo degli anticomunisti semplicemente per essere contro il comunismo come movimento sociale. Noi riconosciamo che in ogni movimento vi sono dei rapporti complessi di male e di bene; ci sono degli eccitamenti che nella storia si sviluppano in elementi costruttivi. Riconosciamo che ci sono degli elementi di discussione e di collaborazione che ci hanno indotto in altri tempi a metterci insieme tutti per ricostruire la nostra nazione. E io rivendico a me e ai miei compagni l’avere superato le difficoltà e l’abisso che si era scavato fra le dottrine da una parte e la dottrina cristiano-sociale dall’altra; l’avere tentato di superare questo abisso per collaborare e raggiungere la concordia. Questa concordia avrebbe potuto durare se il Partito comunista avesse accettato. Io non contesto la coscienza nazionale di ciascun comunista e non vengo a dire se uno si senta o no italiano. Ma dico che il Partito comunista nei momenti difficili di politica internazionale non ha agito dal punto di vista italiano ma dal punto di vista del bolscevismo internazionale. E l’ho dimostrato su tutte le piazze risalendo ancora a quell’agosto del 1946, in cui questo povero, piccolo, modesto rappresentante dell’Italia si trovava di fronte al grosso Molotov rappresentante dell’immensa Russia vincitrice . Ho rievocato quell’episodio della Conferenza della Pace per dimostrare che allora, anche su questioni del più vivo interesse nazionale come quella di Trieste e del Territorio libero, noi non potevamo contare sull’appoggio e sulla cooperazione del Partito comunista fino a quando la Russia non avesse dato un ordine diverso in nome non dell’interesse italiano ma del suo interesse. E poco importa perchè la Russia non è chiamata a render conto a noi di quello che fa. Essa fa i suoi interessi o quelli dei vari partiti proletari o degli slavi in genere. Ma quello che importa è che gli italiani, inquadrati in un partito italiano, sia pure comunista, nel momento decisivo sentano e agiscano come un partito nazionale dal punto di vista nazionale e non dal punto di vista straniero. E allora sulle piazze, a proposito di elezioni comunali, abbiamo dovuto rifare la storia degli ultimi anni perché gli uomini affaticati da tanti altri problemi potevano avere dimenticato. Ciascuno di voi ha avuto il suo problema del dopoguerra, ciascun comune è stato angustiato dai problemi amministrativi, ciascuna provincia e regione, tutta la nazione, insomma, è stata assorbita e travagliata da questi problemi. E non ci meraviglia se ci si viene a dire perché non abbiamo collaborato e si vuole spiegarlo con un presunto odio e diffidenza del nostro spirito reazionario. Si dimentica come il punto fatidico è stata la famosa Conferenza di Parigi nella quale l’America aveva proposto a tutti, popolo russo compreso, di mettersi insieme per creare il piano di risanamento economico, per aiutarsi a vicenda e si sapeva che ciò facendo il sacrificio principale sarebbe toccato agli Stati Uniti. Io non so se mai si ripeterà l’uguale perché invano risalireste col pensiero nei secoli della storia: non trovereste un tal atto di solidarietà, dico di solidarietà interessata. Sta bene, c’è naturalmente dell’interesse in tutto il mondo che la pace sia consolidata attraverso la prosperità economica. C’è dell’interesse in tutto il mondo con clienti i quali possono comprare e pagare. C’è in questa solidarietà internazionale dell’interesse, ma esso è fondato sopra un principio umano, sopra la solidarietà umana, sopra il pensiero. Se così non fosse, se così non si facesse, si correrebbe il rischio di creare situazioni di sovversione nella massima parte dei paesi. L’esempio di solidarietà dato dagli Stati Uniti attraverso il Piano Marshall è un unico esempio. La Russia allora disse di no e impedì alla Cecoslovacchia, che era uno stato satellite e che aveva accettato l’idea del Piano, di partecipare alla cooperazione economica promossa da questo Piano. Qui è il principio della lotta e delle difficoltà di tutto il mondo e dell’Europa specialmente. Qui è l’inizio dell’impossibilità di una collaborazione. Da una parte erano coloro che riconoscevano la necessità di uno sforzo metodico per ricostituire una solidarietà economica e soprattutto una Europa economicamente risanata; dall’altra vi era l’egoismo, lo spirito di divisione della Russia la quale per proteggere il proprio sistema economico, evidentemente fondato sopra un allentamento di ogni contatto fra le diverse economie, escludeva la collaborazione e un controllo reciproco delle singole nazioni. Ebbene, la Russia avrà pure le sue buone ragioni. Non siamo qui né a difendere né ad accusare: è interesse russo. Ma l’Italia aveva altre ragioni, aveva il motivo di accettare. I comunisti hanno sempre combattuto, sempre diffamato questo accordo, si sono sempre opposti, hanno anche votato contro, salvo poi nei singoli comuni, dove potevano cercare di approfittare dei contributi del Piano Marshall; ma essi, dico, per principio erano contrari perché questo era caro al loro asservimento straniero. Ed ora dicono: «badate, il Piano Marshall va a finire in un piano di riarmo, si aggiunge ad esso anche il piano di riarmo», ma se voi e i vostri padroni aveste accettato la cooperazione economica non si sarebbe arrivati al riarmo, ma alla solidarietà economica, pacifica. Di chi è dunque la colpa se è avvenuta questa decisione? Domando a Togliatti di chi è stata la colpa se non è stato possibile collaborare nonostante la nostra volontà. Poi venne il Patto atlantico e si disse che avrebbe promosso la guerra. Tornerò su questo argomento in seguito occupandomi del discorso che l’on. Nenni ha fatto su questa stessa piazza . Per ora vi prego di fare attenzione a questa grande discriminante, questo grande spartiacque di carattere sociale e civile. Togliatti nel Congresso recentissimo del suo partito ha dichiarato che bisogna accettare la direzione dell’URSS in tutti gli affari internazionali e specialmente per quel che riguarda la pace e la guerra . E a Bologna, cercando di attenuare un po’ l’impressione di questa parola «direzione» ha detto: «noi riconosciamo nello Stato sovietico lo Stato modello, lo Stato dal quale dobbiamo trarre costantemente tutta la nostra vita economica» . E ha così tentato di attenuare l’impressione della parola «direzione». Ma in realtà egli aveva parlato di direzione e in realtà si tratta di direzione. Ora il mondo è piccolo e le nostre campagne, le nostre discussioni, i nostri dibattiti non si svolgono semplicemente alla radio italiana e nelle nostre grandi piazze, ma si svolgono anche alle radio di tutto il mondo, specialmente alla radio degli Stati satelliti della Russia. Vi dirò dunque che talvolta trovo nella radio di Mosca, della Cecoslovacchia o di Budapest aiuto in certe interpretazioni. È così che recentemente, celebrandosi l’anniversario della Repubblica cecoslovacca, il presidente della Repubblica faceva un discorso in cui interpretava che cosa per i comunisti e per un governo comunista voglia dire direzione dell’unione sovietica. Egli diceva queste parole: «a nessuno è lecito dirsi comunista se nega l’aiuto al partito che è la salvaguardia del proletariato, se incrina il principio dogmatico di Marx, di Engels e di Stalin, se non accetta l’autorità che promana dalla Russia e dal suo grande capo». Questa è la direzione sovietica, questo è quello che intendono specialmente Secchia e coloro che ne interpretano il pensiero vero. Questa è la parola d’ordine, questo è il dogma principale assoluto della politica dei partiti comunisti che vogliono restare fedeli. Voi sapete che uno dei lati loro meno simpatici e che li distingue dagli antichi socialisti come Turati e Treves, che sapevano difendere la loro bandiera attaccando la borghesia, è quel loro ricorrere a tutte le trasformazioni, a tutti i giuochi di prestigio per penetrare entro il nemico prima che il nemico se ne accorga. Ricorderete l’ultima volta il grande mantello di Garibaldi che doveva coprire tutte le falci e martelli. Oggi, invece, nella grande piazza di Bologna si cercherebbe invano lo stemma del Partito comunista. Niente falce e martello. Trovai due torri. Dicono che il comunismo a Bologna si chiama due torri, ma le due torri sono la storia di Bologna, sono la nostra storia, sono la nostra civiltà. Oggi ricorrono alla così dette liste indipendenti. Una volta liste indipendenti erano quelle degli osti i quali, secondo un vostro romanziere, fanno gli osti e non si occupano di partiti e tirano a vendere il loro vino. Una volta quelli erano gli indipendenti innocui, i quali non volevano correre troppi rischi e preferivano battersi senza scaldarsi troppo. Adesso i comunisti hanno inventato questa parola: «indipendenti». Indipendenti da chi? Indipendenti da tutti fuorché da loro che li educano. Ma si può essere indipendenti, chiusi nel proprio guscio, insensibili a quello che succede al di fuori? Si può essere indipendenti dalle tragedie del mondo quando queste tragedie sono nostre e vostre, sono di tutti perché sono nelle nazioni e nei rapporti internazionali e non è possibile sfuggire al mondo? Il mondo è diventato piccolo e tutto il mondo è Milano e Milano è tutto il mondo. Ora non è a caso che i signori del Msi hanno trovato protezione benevola e qualche sorriso amichevole oltre ad alcune firme per presentare la loro lista. Non è a caso che i signori Pettinato e Almirante si vantano di essere eredi della Repubblica sociale. Io ricordo – e voi lo dovreste sapere – la Costituzione sociale di Castelvecchio in cui i neofascisti repubblicani si vantavano di superare il comunismo, di fare meglio e più dei comunisti nei rapporti di lavoro, e ricordo pure che essi inaugurarono la loro attività piantando in ogni provincia un Tribunale speciale e uno, particolarissimo, per i membri del Gran Consiglio. Quando ricordo questo e penso alle analogie e penso alle cosiddette Repubbliche popolari se non sociali nelle quali si innalzano le forche dei Tribunali; quando penso che gli stessi princìpi hanno condotto alla fucilazione i membri del Gran Consiglio compresi Ciano e De Bono che pure, dal loro punto di vista, avevano bene meritato durante tutta la loro vita, quando penso a tutto questo e guardo alla soppressione dei partiti avversari avvenuta da parte delle Repubbliche popolari dei Balcani, allora dico: non è apparenza ma è dunque vero quello che diceva Visinskij nel 1926 e cioè che fra i due estremi esistevano delle rassomiglianze. Ora, badate bene, non una parola voglio dire contro le singole coscienze. Rispetto i giovani i quali si entusiasmano al pensiero della patria, si organizzano e credono con questa azione di assicurare la consistenza, di assicurarle l’avvenire e di rivendicare la dignità della nazione. Tutto questo è rispettabile, è comprensibile. Ma tutto questo si può compiere, si può fare senza prendere ed assumere senza beneficio d’inventario quella triste eredità cui ho accennato. Soprattutto senza lasciar credere che si possa ricorrere, in mancanza di libertà di discussione, alle bombe, come è avvenuto recentemente. E avrete letto la notizia dell’arresto avvenuto ieri, solo ieri, perché uno dei principali responsabili, che doveva essere arrestato come supposto autore di quegli attentati, è ritornato in Italia solo adesso da un recente Congresso internazionale fascista. Alla Camera io ho detto: signori, noi siamo per la pacificazione; quanti vogliono entrare in democrazia e col metodo democratico ben vengano; i partiti sono aperti . Ma non possiamo accettare il sospetto che si adoperino mezzi violenti. Prove! In quel momento le prove non le potevo offrire ma avevo la sensazione che fossimo sulla buona strada. Spero che l’autorità giudiziaria nei prossimi giorni possa dare queste prove. E io confido che questa lezione data a dei giovani, i quali, forse non avendone l’intenzione si lasciavano avviare per strade che sono in genere percorse dai rivoluzionari di sinistra, farà convertire tutto il movimento verso l’ordine, verso la patria, che è la patria di tutti, purché vi sia dignità e rispetto della nazione e della libertà democratica. Non ci si dovrebbe forse nemmeno occupare di questo episodio. Ma il passato amici miei ci insegna qualche cosa. Molti di coloro che sono qui ed hanno assistito al sorgere del nazismo in Germania debbono ricordare quello che è avvenuto. La prima guerra mondiale era cessata solo perché il capo del governo era allora Hindenburg e il capo di stato maggiore che era Ludendorff avevano dichiarato al loro Quartiere generale che le truppe non potevano più resistere e che un imminente attacco delle forze alleate le avrebbe sgominate. Allora gli uomini politici trattarono per la pace, ma già serpeggiava nella gioventù orgogliosa questo pensiero: non era possibile ammettere che un esercito venisse soverchiato da forze superiori, non era possibile ammettere che l’esercito tedesco fosse battuto, bisognava spiegare questo armistizio e questa pace col tradimento. Ed allora si creò, si consolidò la leggenda che la prima guerra mondiale fosse stata perduta dalla Germania per il tradimento dei propri capi. Ecco perché ammaestrati da questa leggenda che poi portò alla creazione del movimento nazista hitleriano che mandò tanti giovani nella fornace ardente che doveva incendiare il mondo, ecco perché oggi si sente la responsabilità di avvertire tutti e di avvertire i giovani che è una leggenda quella che la pace e l’armistizio siano stati opere di tradimento e che la guerra sia cessata non per la preponderanza delle forze che avevano già invaso la Sicilia e minacciavano l’Italia meridionale, non per impossibilità a resistere a forze soverchianti; e la cosa non può meravigliare quando si sappia in quali condizioni di impreparazione la guerra era ingaggiata: si accusano gli uomini politici, gli uomini democratici della responsabilità della perdita della guerra e non si tiene conto che se ciò da una parte è dipeso dal destino dall’altra è dipeso da coloro che la guerra ingaggiano senza preparazione, senza ragione e soprattutto senza morale e senza giustizia. Mi trovavo a Genova quando mi si portò una dichiarazione dei Vescovi nella quale si diceva: noi rispettiamo la libertà di tutti, ma abbiamo il dovere di ammonire che le elezioni come si presentano decidono di una cosa molto importante; non soltanto decidono di cose amministrative, ma dell’indirizzo generale della politica delle amministrazioni che deve dare un indirizzo generale alla società italiana. Togliatti, Terracini e Nenni ne hanno qui parlato e bisogna che io dica il mio pensiero a proposito di questo intervento. Terracini ha detto che le forze governative sentendosi deboli si sono affrettare a chiedere il prete al capezzale. No! Noi siamo rimasti nel campo delle politiche competizioni, nel circolo della nostra attività che è quella politica e quella dello Stato e non siamo affatto entrati nel circolo di attività che è della Chiesa. La Costituzione dice all’art. 7: lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani. E l’art. 8 dice: «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge». Ebbene questa è la nostra norma di condotta quando dobbiamo fare delle leggi, quando dobbiamo applicarle, quando dobbiamo prendere delle decisioni. Ma ciò non toglie che non abbiamo in qualsiasi modo il diritto di intervenire quando la Chiesa si rivolge nella sua sfera di competenza e dice: se siete battezzati e cresimati e vi riconoscete fedeli alla Chiesa tenete conto ed ascoltate il nostro suggerimento. Questa è questione che si ha da risolvere tra i fedeli, tra il maestro che insegna e l’allievo che accetta. Se non accetta l’insegnamento, ci pensi lui, ma il maestro ha il diritto d’insegnare perché si trova nel suo campo, nel campo della morale pubblica. E ditemi un po’: forse che noi democratici, noi che abbiamo scritto nella Costituzione l’obbligo morale del voto dovremo lagnarci se oltre a parlare dei peccati individuali, di mancanze individuali, la Chiesa coglie anche l’occasione di dire che c’è una responsabilità collettiva? Amici, una volta non c’era tutto questo; vi era la coscienza del Re, era la coscienza del capo dello Stato, era la coscienza del dittatore o del Sovrano assoluto. Oggi noi siamo in democrazia. Oggi i sovrani siamo noi tutti e i responsabili siamo noi e siamo tutti. Del resto io dico che la Chiesa ha il diritto di difendersi quando si trova nell’annuario pontificio e che la tale Diocesi è vacante, quell’altra è vacante, qualcuno è morto, molti altri sono in prigione, 34 vescovi e arcivescovi cattolici sono in prigione o mandati via dalle proprie Diocesi. E non vi racconto dei molti altri casi consimili. E se questo venisse fatto in nome di particolarismi religiosi o in spiegazione di una legge eterna si potrebbe capire, ma questo invece viene fatto contro la libertà di pensiero. Ora la libertà politica si perde ove si perde la libertà religiosa. E sappiamo che la libertà religiosa è legata alla libertà politica e se si perde l’una si perde l’altra. L’on. Nenni, nel suo discorso, che io, naturalmente, ho letto nello stenogramma , ha fatto un discorso molto moderato, molto saggio, molto bravo. Dico la verità che se avessi la fortuna di sentire un linguaggio così pacifico, sobrio e bonario quando Nenni parla dai banchi socialcomunisti, mi sentirei consolato e attenderei con pazienza il ritorno di questo esulo mio ex ministro degli Esteri che mi pare si trovi tanto male in quella mala compagnia. Ricordo in Parlamento quando Togliatti, Secchia e gli altri rappresentanti del comunismo puro urlavano alzandosi: noi non combatteremo contro la Russia, dall’altra parte si chiedeva: neanche se la Russia attaccasse l’Italia? È impossibile – si rispondeva – non combatteremo mai. Io allora volsi lo sguardo verso la faccia sorridente di Nenni. Ho sperato che si alzasse. Non s’è alzato. Non s’è alzato lui che poteva dire una parola coraggiosa e distinguersi dagli altri. Oggi alla vigilia delle elezioni parla di neutralità. E dice: no, non combatteremo mai contro la Russia e parla di difesa fisica. Vorrei soltanto sapere che cosa vuol dire con la difesa fisica. Difesa della frontiera fisica? Vorrebbe forse dire che abbiamo il diritto di difenderci quando siamo a tre passi da chi ci spara? E se ci sparano dall’alto e se ci attaccano dal mare; se un attacco generale viene portato al nostro Stato allora bisogna essere forti ed avere almeno le truppe in proporzione. La Svizzera che ha quattro milioni e mezzo di abitanti ha speso 223 miliardi mentre noi che siamo in 47 milioni ne abbiamo stanziati 250. Ed oltre a questo noi dovremmo avere anche le montagne della Svizzera e non i mari aperti e dovremmo avere le materie prime, il carbone, il grano, il pane, onorevole Nenni! Tutto questo nella tua neutralità dove lo trovi? Ti difenderai da solo, con che cosa? È una neutralità della quale finora non avevi mai parlato, mentre ora parli delle immense spese che gli italiani non possono sopportare perché dovremmo costruire l’aviazione di ogni specie, le bombe di ogni specie; e tutto questo da chi lo potremmo avere nel caso disgraziato di un attacco? Lo possiamo avere dai nostri alleati perché è un atto di difesa che è previsto dal nostro dovere. Dio disperda questa visione. Non credo alla guerra, la odio. Nessuno vuole la guerra. Ma quando si è responsabili, quando un bel giorno ci trovassimo nella situazione, noi che non vogliamo la guerra, che qualcuno la voglia? Ed allora bisogna almeno pagare una piccola polizza di assicurazione. Che forse quando voi fate una polizza d’assicurazione avete deciso di suicidarvi e di buttarvi dalla finestra? È Nenni a fare qui accapponare la pelle ricordando quello che è successo nel ’40. Ma allora c’era un altro che comandava e sosteneva che per fare un grande popolo bisogna portarlo al combattimento magari a calci nel sedere. Questo era il pensiero dell’uomo. Ma non vorrà mica pensare l’amico Nenni che intorno a me o in me ci siano simili pazzie o simili coscienze e non vorrà certo credere che noi abbiamo concluso un patto di difesa che sia automatico e che al momento decisivo non possa sempre essere interpretato con lealtà dal Parlamento. Noi non ci siamo uniti a dei pazzi, a dei dittatori ma a veri socialisti democratici come quelli della Francia, come quelli del Belgio, come quelli dell’Olanda e della Svezia, come i laburisti d’Inghilterra. Credete che questi uomini siano dei pazzi? Credete che specialmente l’Inghilterra che ha fatto lo sforzo massimo per una riforma sociale compia di queste pazzie e per follia si mette a provocare la guerra? Voi sapete che essere alleati di questa gente, essere alleati della democrazia americana significa cercare di avere tutte le garanzie possibili. Voi avete visto quando un generale in America, che era un generalone di cui non abbiamo l’idea, idolatrato dal pubblico, aveva dato segni di poca avvedutezza e di poco accorgimento partecipando eventualmente o rischiando una guerra sia pure a titolo di difesa come quella di Corea, avete visto come un semplice borghese come Truman, appoggiato da altri militari, da altri borghesi e soprattutto dal popolo, ha avuto il coraggio di mandare via questo generale. Ditemi voi dove è successo questo: presso un dittatore o presso un altro Stato dove c’è la democrazia. Ditemi voi se saremmo più garantiti se fossimo alleati di uno Stato come la Russia o di altro Stato suo satellite dove a governare vi sono dei marescialli o borghesi che diventano militari. Avremmo forse così la possibilità di garantirci maggiormente la pace? Si fanno sforzi concordi per riunire l’Europa. So che le cose vanno adagio. Vi sono problemi difficili, interessi contraddittori da mettere insieme, diverse civiltà, diverse culture da conciliare. Ma è un pensiero sano, un pensiero che noi italiani, popolo troppo grande per un paese troppo piccolo dobbiamo sviluppare. Amici miei, a me pare che Nenni non sia neutrale nell’animo e ha ragione Togliatti quando dice che non è neutralità l’atteggiamento strategico e tattico che si può adottare in un certo momento, ma nel cuore non si può essere neutrali, nel cuore in fondo si ha una concezione o filobolscevica o antibolscevica e io ho paura che Nenni sia dall’altra parte e ho paura che se non è proprio belligerante è cobelligerante. Ad ogni modo può essere che mi sbagli. Se l’on. Nenni ha fatto un passo verso la liberazione dal dogma bolscevico e lo ha fatto qui a Milano, faremo mettere una lapide per questa sua conversione e sarei lieto di questo dibattito che lo ha costretto a incamminarsi verso la luce e verso la verità. Ma sarà vero o appartiene esso a quelle missioni che vanno a far saltare le mine che isolano il partito socialcomunista dal resto della nazione? Non so, sarebbe crudele voler essere profeti; non bisogna mai disperare quando penso a Nenni che fu per un paio di mesi mio ministro degli Esteri e andavamo tanto d’accordo quando si trattava di salvare Trieste. Prendete un italiano, liberatelo dalla coccia di certi dogma di partito e mettetelo in posizione di responsabilità, ma deve essere un italiano che non sia passato attraverso la scuola di fanatismo della Russia perché allora la coccia è dura e non so se c’è la possibilità di redimerlo. Nenni ci accusa di essere un governo debole che tollera la disintegrazione, lo sciopero dei funzionari, lo squadrismo. Ma che cosa ha fatto lui col suo giornale? Non ha fatto altro che sollecitare continuamente questa lotta di classe, gli scioperi, le agitazioni, togliendo la speranza nella giustizia degli uomini e nella buona volontà del governo. Che cosa è lo spirito che muove in questa campagna che fa assieme al suo collega di cobelligeranza? La disoccupazione. Si dice che io non avrei tentato tutti i mezzi per fronteggiare la disoccupazione. Non è vero che la disoccupazione sia aumentata: è diminuita, è diminuita per i continui sforzi fatti per contrastarla. Ma, mi dicono, la tal fabbrica si chiude. È un’accusa infame quella secondo cui il governo per capriccio o per certi interessi smobiliti la nostra industria metallurgica. Abbiamo dato aiuti per 60 miliardi e se qualche volta non siamo riusciti a regolare le cose è perché invece di collaborazione abbiamo trovato delle ostilità. Quando si parla delle fabbriche che si liquidano non per seppellirle, ma per fare un’altra società, bisogna dire che ogni occupazione ha distrutto ogni possibilità di commesse, ha tolto ogni possibilità di lavoro. È un’accusa infondata quando si dice: non fate niente, c’è la mortagora, non fate nulla. Gli indici della produzione industriale dimostrano il contrario. È vero che ci sono delle cose che ancora non vanno. Tanti miliardi sono stati spesi e tuttavia non basta. Non siete contenti voi, non sono contento io, non è contento nessuno. Ma ditemi voi se nel dopoguerra c’è qualcuno di contento nel nostro paese, nelle nostre città. Le esigenze, i bisogni naturali, tutto questo crea inquietudine. Ma sta di fatto che era tutto da rifare, tutto da ricostruire. Dire che non abbiamo ricostruito nulla è un po’ troppo. Io penso che se alla direzione della produzione del metano ci fosse stato un comunista, su tutte le cantonate avreste visto attribuire a gloria del partito queste perforazioni e questi progressi. Oggi la rete dei metanodotti è in continuo sviluppo e ci assicura sempre nuove fonti di energia. Questo è servire il paese. Del resto voi milanesi siete gente che girate il mondo per il vostro commercio e le vostre industrie e ne abbiamo avuto una magnifica rassegna dalla esposizione recente. Voi avete visto città e avete potuto osservare e controllare in Isvizzera, in Francia una voce sola, che l’Italia si è rifatta presto. Dopo la prima guerra mondiale dieci anni ci sono voluti per arrivare al livello di prima, dopo questa guerra siamo arrivati a superare il livello prebellico e tutto questo senza negazione della libertà. Da parte dei commercianti si parla di certi ambienti statali e si fa il confronto con altri paesi, ma dovete sapere che ci sono aziende che dall’estero vengono in Italia perché in Italia c’è la libertà e la possibilità di lavorare e questo abbiamo fatto soprattutto con la fiducia massima nella energia della nostra media industria e soprattutto con la fiducia che quelle forze che hanno contribuito a salvare la nazione contribuiranno a ristabilirla del tutto. Amici miei, nonostante questo, siamo in una Repubblica mutilata. Voi avete un’idea curiosa della Repubblica. La Repubblica non è soltanto una Camera, un governo, un presidente della Repubblica. Questo è uno schema infantile per i bambini. La Repubblica ci sarebbe se ci fossero un Consiglio nazionale economico, una Corte costituzionale, ecc. Sapete bene che la parte essenziale della Repubblica parlamentare invece è il governo e il Parlamento. E in Parlamento non si fa altro che dell’ostruzionismo, c’è chi vota sempre contro. C’è chi frappone difficoltà articolo per articolo e tutto trova sbagliato, tutto giudica male; non c’è mai niente di buono. Niente, neanche una legge hanno votato! È mai possibile? È mai possibile che tutta la verità sia dalla loro parte e gli altri siano soltanto degli zotici, dei delinquenti sociali per dire la loro parola? Si dice: revisione del Trattato! Volete rivedere le clausole militari? Ebbene allora io dico che abbiamo richiesto il riconoscimento solenne di maturità per la nazione italiana. Siamo maturi ormai, siamo eguale agli altri nei rapporti internazionali, siamo eguali ma vogliamo che ce lo scrivano, che ce lo riconoscano. Una volta si è mancato imponendo delle sanzioni limitative come fossimo un popolo che meritasse le umiliazioni e i controlli più severi. Vogliamo che questo ci venga tolto, ma che venga riconosciuto solennemente. Naturalmente non domandiamo semplicemente l’abolizione delle clausole militari. Questo è una parte di tutto il Trattato. Ci doveva essere indipendenza su tutto senza che ci venissero limiti da nessuna parte. Noi abbiamo lanciato l’idea e lasciamo che si maturi la situazione internazionale e se i quattro sono raccolti adesso a Parigi per combinare la Conferenza della pace riusciranno nel loro compito non saremmo noi a creare difficoltà e complicare la partita. Quello che noi vogliano è che quando si tratti di questioni che ci interessano ci facciano partecipare alle decisioni. Nessuna intenzione contro l’Albania, stia tranquilla l’Albania per quello che riguarda noi. Abbiamo altro da pensare cha all’Albania. Amici miei, un’ultima parola. Io poi, oltre che presidente del Consiglio, sono anche presidente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana. Mi si perdoni dunque se dico qualcosa che può essere giudicato un po’ parziale per il mio partito. Penso sempre che sia necessario per la vita costituzionale italiana un partito di centro cha sia un partito di massa che con le sue direttive di equilibrio e di giustizia sociale rappresenti e componga in sé l’unità strutturale della nazione, senza pretenderne la esclusività ma costituendone il nucleo sostanziale. Il nostro è un partito che ha profonde radici spirituali nella nostra storia, partito riformatore che attinge alle idee cristiane l’impulso rinnovatore, partito di libertà perché accettiamo tutte le norme di tolleranza e di rispetto reciproco della convivenza civile che la Costituzione impone e riafferma. Ma è anche vero che tale visione larga presuppone che d’altra parte non si faccia il gioco dell’avversario, quasi che il venir meno di un partito di centro non costituisca un pericolo per la democrazia e il conservarlo almeno fino a che rappresenti lo spirito e le classi sociali che lo legittimano non sia interesse di tutti i partiti democratici. La legge dell’apparentamento è una legge che aumenta la libertà di voto ma se ne abusa quando si utilizza per sprecare il voto, per renderlo strumento di pura affermazione di postulati. Comunque nel collegamento è una solidarietà finalistica che implica lo sforzo di attrarre nella propria orbita elementi affini dello schieramento democratico e nella fusione degli sforzi sarà la vittoria democratica. Amici ho finito. Durante il mio pellegrinaggio che qui finisce andando di città in città per parlare al popolo raccolto sulle piazze giunsi una sera sul tramonto a Ravenna a Sella Marina dove il Po discende e quasi per reazione spontanea a questo nostro affannarsi e agitarsi contro il pericolo di nuove guerre e per l’ansia che ci punge per le interne discordie raccolsi il pensiero tra i monumenti di un impero spento. Anche gli imperi, anche le Repubbliche possono morire, anche la civiltà può tramontare. Cercavo io qualche cosa di sicuro, di incontestabile, di eterno che riaffermasse la nostra fede nei destini della patria, che fosse il segno supremo della nostra storia, l’ancora della nostra speranza, la sorgente perenne della nostra civiltà e piegai le ginocchia dinanzi alla tomba di Dante. Egli che aveva battagliato per la libertà politica aveva infine riposato nel poema della redenzione e della libertà religiosa. Vi arde la lampada di Trento e di Trieste e invidiai i sacerdoti che custodiscono quel luogo. Sembra strano che chiudendo questa rumorosa battaglia elettorale in mezzo a questa Milano meravigliosa per le opere sonanti delle sue industrie e per il ritmo febbrile dei suoi commerci, io chiuda con un pensiero quasi contemplativo. Ma mi è parso che questo ci sollevasse un poco al di là dell’attimo che fugge, alle sorgenti spirituali della nostra storia e ci inculcasse il senso del dovere al di sopra delle questioni quotidiane: il dovere di garantire che alla eterna fontana di cui parla Dante possano attingere vita e vigore anche i nostri figli e i nostri nipoti. |
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| 101951-1955
| Amici palermitani, amici vecchi e amici nuovi, con alcuni di voi ci rivediamo dopo cinque anni, altri sono venuti di poi, tutti seguendo la stessa via, tutti avendo il medesimo proposito e la definitiva meta: qual è la sostanza, l’essenza delle cose, quando si parla di amministrazione regionale e di relazione tra Stato e Regione? Lo so, ci sono delle differenze, delle discussioni, dei contrasti sul testo delle leggi, sull’interpretazione degli statuti, ma che importano ancora queste discussioni, che importano divergenze sulla lettera dei testi quando ci sia l’accordo sulla sostanza, cioè su questo: che Stato e Regione devono andare per il bene del popolo. È ovvio constatare nei fatti, cioè nelle opere compiute, che questo accordo fattivo, nonostante le discussioni, nonostante la diversità di interpretazioni in qualche momento, questo accordo ha avuto veramente la conseguenza di unire gli sforzi dello Stato e della Regione per il progresso siciliano. E oggi avrei solo il dovere di venire qui innanzi a voi a felicitarmi con l’amministrazione della Regione per l’opera compiuta, specialmente con l’amico Restivo e il suo predecessore Alessi e tutti i collaboratori, felicitarmi per l’opera compiuta soprattutto perché non hanno permesso, né permetteranno, perché conosco il loro spirito e il loro animo, che qualcuno turbi la concordia e la necessaria collaborazione tra Stato e Regione. Il fatto conclusivo è che oggi io qui, come presidente del Consiglio dei ministri del governo di Roma, l’amico Restivo come presidente del governo regionale, possiamo dire entrambi: abbiamo lavorato, stiamo lavorando, siamo impegnati a lavorare anche domani, in pieno accordo, nell’interesse del popolo siciliano. Dicono che in un comizio così numeroso, a tanta distanza tra oratore e pubblico, le cifre non si devono citare, che non bisogna parlare di numeri, ma io ho bisogno di richiamare la vostra attenzione su qualche numero e su qualche cifra perchè si dimostri che quando ho detto che abbiamo lavorato e abbiamo compiuto Stato e Regione assieme delle grandi opere, ho detto qualche cosa che si può dimostrare con le cifre, con la spesa fatta o con la spesa impostata. Lavori pubblici e agricoltura: in questi cinque anni stanziati e resi effettivamente servibili 110 miliardi, 76 a carico dello Stato, 34 a carico della Regione; oltre ciò 30 miliardi erogati dallo Stato a titolo di solidarietà nazionale. Strade: 23 miliardi e 500 milioni, 12 miliardi e 500 milioni a carico dello Stato e 11 miliardi a carico della Regione. La Regione ha inoltre stanziato altri 14 miliardi e 500 milioni. La Cassa per il Mezzogiorno ha inoltre impostato un decennio, un programma stradale – di strade – per altri 33 miliardi. Per le case sono stati disposti finanziamenti per complessivi 25 miliardi di lire, di cui 4 miliardi a carico dello Stato, 10 miliardi attraverso il piano Fanfani, 6 miliardi sul bilancio della Regione, 5 miliardi attraverso gli Istituti autonomi delle case popolari. Si tratta di un complesso di oltre 65.000 vani, già costruiti o in corso di costruzione. Scuole: per le scuole elementari la Sicilia fino a qualche anno fa disponeva solo… dipendeva solo… . Ora, dicevo dunque che accanto ai programmi della Regione, per tutte queste categorie di lavori, si aggiunge il programma dello Stato della Cassa per il Mezzogiorno; questo programma vuol dire per dieci anni, 100 miliardi di lire, ossia per la Sicilia vuol dire 225 miliardi e 435 milioni di lire. Questi progetti vi dicono la collaborazione e l’impegno preso dal governo di Roma per lo sviluppo della Sicilia, accanto a impegni presi dal governo della Regione. Devo aggiungere che io mi sarei limitato a rilevare queste conquiste del lavoro, questi fatti progressivi, questi vantaggi che l’amministrazione regionale con l’appoggio dello Stato ha potuto portare allo sviluppo della nostra economia, mi sarei limitato a questo se, venuto, qui non avessi trovato che alcuni altri oratori avessero attaccato il governo di Roma, il governo cosiddetto democratico-cristiano, dichiarandolo governo di repressione e governo ostile all’autonomia, alla libertà e agli interessi del popolo siciliano. Leggendo il discorso di Li Causi mi sono fatto l’idea che non è tanto la causa della Sicilia che si vuol difendere, né i progressi del popolo siciliano che si vuole promuovere, ma che invece è soprattutto la parola d’ordine che viene non dalla Sicilia, non dall’Italia, ma fuori dell’Italia per costituire, per il tentativo di costituire, in seno al movimento autonomista o regionale, un esperimento comunista, un esperimento di rinnovamento e ricostruzione sociale che imitasse il lavoro che viene in tal senso compiuto nell’Unione Sovietica. E quando egli dice che nel mondo c’è la guida dell’Unione Sovietica e del suo grande capo, quando egli dice che i popolani siciliani devono guardare a lui e a questa guida dell’Unione Sovietica, dicendo che là c’è l’esempio di quello che un partito può fare quando è al governo, allora mi spiego l’irruenza con cui si combatte il governo di Roma, mi spiego l’attacco violento contro le nostre azioni e sovrattutto contro i nostri propositi, la diffamazione continua che vien fatta nelle piazze durante la propaganda contro il governo e la democrazia. Il popolo siciliano sono sicuro che nel suo buonsenso, nel suo senso di libertà, nella sua intelligente disamina della situazione reale, porterà in questa discussione, in questa lotta fra partiti soprattutto equilibrio, sana ragione e ferma decisione secondo verità e secondo giustizia. Nello stesso tempo a questo modo di vedere e giudicare la questione siciliana si unisce anche l’attacco e la critica contro il modo di vedere le questioni generali e internazionali, cioè la questione di pace e di guerra. Si dice che De Gasperi è un dittatore come Mussolini, che vuole assolutamente la guerra, che coinvolge il paese. Ora si è arrivati ieri a pubblicare un manifesto nel quale da una parte si vede una nave americana che sbarca dei marinai ad Augusta e si dice «questa è la guerra» e, dall’altra, si vede una nave del porto di Palermo che parte carica di agrumi e si dice: «questa è la pace». C’è De Gasperi e il governo che vuole la guerra e dall’altra parte si vogliono vendere gli agrumi in libero commercio, si vuole la pace con l’Oriente. Così non è, non c’è nessuna operazione di guerra nel porto di Augusta, non c’è nessuna armata americana che invada o venga all’attacco, ci sono delle semplici manovre con il permesso dato dal ministro della Difesa; come a noi è stato dato il permesso recente ai nostri marinai, a Malta, di scendere a terra per una gita, così anche ad Augusta è stato fatto. Non c’è nulla che indichi cessione dei nostri diritti o prevaricazione da parte degli alleati. Ma questa è sempre l’accusa, che noi vogliamo la guerra, mentre la Russia, l’Unione Sovietica e i comunisti vogliono sempre e, a qualunque costo, hanno voluto la pace. Ora dicono: facciamo trattative, facciamo un accordo, facciamo una conferenza di cinque Stati, che questi cinque grandi Stati decidano sulla pace; e domandano a me – comunque mi trovo nelle assemblee in cui parlo – se io accetto questa proposta e rispondo: «la accetterei con cento cuori, ma desidererei che quando questi cinque o quattro o sei, oggi sono in quattro, si siedono a discutere, trovassero veramente il modo di intendersi; ma ci vuole buona volontà da tutte le parti». E domanderei, oltre ciò, se oltre i cinque grandi ci siano anche rappresentanti dei piccoli e soprattutto l’Italia, che è una piccola grande nazione. Ma voi capite subito come si interpreta la situazione quando vi aggiungo che l’oratore seguente, D’Onofrio, che accompagnava l’onorevole Li Causi, si è richiamato come esempio all’attacco in Corea e ha eccitato i siciliani a seguire il movimento dei coreani del nord, che difenderebbero la loro libertà di fronte agli aggressori americani. Ecco una contraffazione della verità ed è impossibile supporre che i siciliani, persone intelligenti, non abbiano tenuto dietro agli avvenimenti come si sono succeduti e non abbiano capito che cinquantasei nazioni, rappresentate alla società delle nazioni nelle Nazioni Unite a Washington, hanno confermato su testimonianze, su relazioni autentiche, che l’attacco è avvenuto dai coreani del nord contro quelli del sud e che nessuna trattativa è stata possibile per il rifiuto dei coreani del nord. Ma che cosa importerebbe a noi se hanno ragione quelli del nord o quelli del sud, se non fosse questo l’esempio che dimostra come si cerchi di ingannare le folle e si chiami aggressore chi è attaccato e chi attacca invece lo si giustifichi, quasi difenda la propria terra e la propria indipendenza. Se dicono così, amici siciliani, se dicono così quando si tratta di un paese lontano, che non è facile per noi controllare direttamente, che cosa direbbero domani se una qualunque potenza, mettiamo la Russia, Jugoslavia, o qualunque altra, si presentasse alla nostra frontiera e ci difendessimo, direbbero che noi siamo coloro che attaccano e coloro che attaccano sono in realtà i difensori della libertà e dell’indipendenza. Noi ci dobbiamo armare contro questa impudente contraffazione del dato storico, del dato vero, ci dobbiamo armare perché tutto quello che abbiamo fatto da parte nostra è fatto per la pace, per difendere la pace, per consolidare la pace, per negoziare la pace, per consolidare la pace e tutto invece ci viene attribuito come fosse guerra, veniamo calunniati come noi che ci difendiamo, che abbiamo un piccolo esercito per difenderci, come se pensassimo di organizzare un attacco o coinvolgerci in una guerra che non sia di difesa. Ricordatevi che nell’articolo rispettivo, l’articolo 5 del Patto atlantico, è detto chiaro: ogni potenza è impegnata soltanto se si tratta di difendersi e ogni potenza al momento decisivo, attraverso il suo Parlamento e le forme costituzionali, ha il diritto di decidere se prende parte o non prende parte, cioè di decidere se si tratta di guerra di difesa o guerra di offesa. Non è vero quindi che ci sia un impegno morale che leghi il popolo, che leghi il governo anticipatamente, c’è un programma di difesa comune e quando si dice – ultimamente si è detto anche ma sì arriveremo, arriveremo lo dicono i socialisti nenniani – arriveremo a difendere anche la frontiera, ma soltanto a difendere la frontiera fisicamente gli uni contro gli altri, ma non altro, allora rispondiamo: come difenderemmo noi in questa deprecato caso di una guerra che noi vogliamo, speriamo, che sia lontanissima, come ci difenderemo se non abbiamo materie prime, non abbiamo carbone, non abbiamo petrolio, non abbiamo grano a sufficienza, tutto ci viene al di qua dei mari, e come ci difenderemo lungo le coste di tutto il nostro Stato, che è esposto a tutti gli attacchi, a tutte le sorprese e come ci difenderemo nella campagna aerea e anti-aerea, come volete che noi in questo campo non siamo costretti cercare degli alleati, degli alleati i quali non avranno il nostro aiuto se facessero qualsiasi azione contro la pace; ma noi avremo il loro aiuto, se qualcuno ci attaccasse e mettesse in pericolo la libertà, l’indipendenza dell’Italia. L’Assemblea di Washington aveva proposto che una Commissione andasse in Corea e facesse la pace, respinta. Il rappresentante dell’India aveva proposto la mediazione, respinta. Un’altra Commissione di altre tredici-quattordici nazioni aveva proposto una missione… . Io sono al quindicesimo comizio sulle piazze d’Italia, in nessuna parte è mai successo niente e non succederà neanche qui, neanche qui nella terra di Sicilia. Se c’è qualcuno che si è proposto di disturbare non riuscirà ad impedirmi di dire la verità, tutta la verità che va detta. Io non so a chi e a quale indirizzo questo qualcuno possa appartenere, io domando di dire quello che devo dire liberamente a questo grande popolo, che ha il desiderio di ascoltarmi. Ho da dirvi ancora qualche cosa su di un altro indirizzo. Ho sentito che qui in Sicilia, nei primi giorni specialmente della campagna, i missini hanno svolto una grande attività. E sono giovani i quali non conoscono la storia di ieri e se la conoscono l’hanno dimenticata o vogliono farla dimenticare. Questi signori che si dichiarano eredi della Repubblica sociale, mi costringono a ricordare ai siciliani che non hanno visto e che non hanno assistito ai fatti, perché liberati prima, mi costringono a ricordare cosa fu, che cosa disse, che cosa volle la Repubblica sociale italiana. Il 15 novembre 1943 nella Sala del Castelvecchio a Verona si riuniva l’Assemblea costituente della Repubblica sociale e con la protezione, sotto la protezione dei tedeschi, dichiarava separarsi dal resto d’Italia e organizzarsi in una nuova Repubblica sociale neo fascista. Ora in questa Assemblea si statuì un’organizzazione e uno Statuto fondamentale, su cui lo Stato doveva fondarsi. Io vorrei ricordare che cosa c’era in questo Statuto, quali erano i propositi di questi signori, primo perché ci sono molti che non lo ricordano e ora dimostrano delle simpatie verso questo movimento che rinasce; secondo, perché essi stessi si sono dichiarati eredi della Repubblica sociale e noi quindi abbiamo l’obbligo di vedere quale fosse e come fosse questa eredità. Ora proclamano in questo Statuto l’espropriazione delle terre incolte e delle aziende mal gestite, i lavoratori iscritti d’obbligo nei sindacati, dicono in un certo punto che nelle riforme sociali vogliono andare più avanti ancora del comunismo, dicono in un certo punto che tutte le fabbriche devono venire socializzate, dicono ancora – e hanno in parte anche attuato quello che dicevano – di costituire dappertutto Tribunali straordinari, diretti e presieduti da magistrati del partito, diretti e nominati dal Partito fascista, che condannasse tutti coloro che erano venuti meno all’impegno del Partito fascista e hanno costituito anche, voi ve lo ricordate, un Tribunale speciale per coloro che erano stati i capi, che erano stati membri del Consiglio nazionale fascista, del Gran Consiglio e che avevano votato contro Mussolini. Per aver votato contro Mussolini e fatto appello al re, cinque di questi – gli altri erano scappati – cinque ne vennero fucilati e non valsero preghiere e interventi, né parentela. Niente venne risparmiato, anche il genero del Duce venne fucilato. Perché, perché? Io non andrei a parlare di queste tragedie, non vorrei nemmeno ricordarle, vorrei che fossero sepolte nella vostra storia se non fosse vero che questi signori vengono qui adesso e a noi democratici danno colpa di asservimento nei confronti degli americani, dicono che siamo servi degli stranieri. C’è mai stata una servitù più oltraggiosa, più sanguinosa, più macabra di quella che portò a simili processi per far piacere ai tedeschi? E se non basta questo, se non basta questo, ricordatevi che due generali, due ammiragli italiani, che difesero Rodi dalla occupazione tedesca e che dopo eroica difesa si arresero ai tedeschi, i tedeschi li consegnarono al Tribunale militare, al Tribunale straordinario della Repubblica sociale e questi due generali Campioni e Mascherpa furono anche fucilati perché tale era l’ordine della Germania. Ora ditemi voi, ditemi voi se questo non fu un asservimento, se con questi connotati nella propria storia si può avere il coraggio di affrontare noi e dirci: servi degli americani, servi dello straniero, non preoccupati dell’indipendenza della patria. E quando mi si fa l’onore – onore per modo di dire – di paragonarmi al Duce come dittatore e quasi in uno di questi attacchi dei senatori che prima ho citato, mi si dice: «come era Mussolini, così oggi è De Gasperi e con lo stesso spirito andremo a finire in una guerra»; ah, io dico: ricordo di leggere nel diario di Ciano, dell’ex ministro Ciano una certa volta dell’11 aprile 1940 – quando Mussolini tentava invano di persuadere il re a precipitare le cose e intervenire nella guerra – diceva Mussolini a Ciano, lamentandosi delle esitazioni regie: «è umiliante stare con le mani in mano mentre gli altri scrivono la storia» e la scrivono la storia l’occupazione della Polonia e l’invasione della Francia fatta dalle truppe naziste. «Poco conta chi vince – dice Mussolini – per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari a calci nel sedere, così faro io». Non dimentico che nel ’18 in Italia c’erano 540.000 disertori, questo era il pensiero, con questi propositi, con questa mentalità si è lanciata l’Italia in guerra. Ditemi voi se nelle nostre azioni, nel nostro costume, nelle nostre parole, in quello che siamo dentro e fuori la nostra coscienza c’è un qualche cosa di simile, che possa far dubitare che noi non abbiamo a cuore soprattutto la pace e ditemi voi se noi alleati non di nazisti, non di dittatori come Hitler, ma alleati di laburisti operai come gli inglesi, di socialisti e democratici cristiani come nel resto dell’Europa – in Francia, in Belgio e in Olanda –, degli americani stessi che, come avete visto, quando un generale sgarra lo sanno mandar via, ditemi voi se non siamo più tranquilli circa le velleità guerresche di qualcuno. No! C’è una Lega per la pace, c’è una volontà di pace che non romperemo a qualunque costo e a qualunque sforzo, ma c’è dall’altra parte, dall’altra parte un pericolo che noi non vogliano esagerare, ma esiste e che ci impone il dovere sacrosanto, la responsabilità di fare qualche armamento, qualche armamento piccolo perché, vedete, le 10-12 divisioni che noi metteremo assieme sono appena appena una parte dell’esercito che sarebbe necessario per la pura difesa della frontiera orientale; e noi possiamo far questo, limitarci per ora a questi armamenti perché siamo certi che abbiamo impegnato, in caso di attacco, anche l’aiuto degli alleati che sono con noi nel Patto atlantico. Ecco che il Patto atlantico è veramente un patto di pace e di difesa. Amici miei, non è possibile che uomini abituati a render conto al popolo, non soltanto nei Parlamenti, ma dinanzi alle folle come siete voi, uomini che guardano negli occhi del popolo e sanno che cosa il popolo soffre e ha sofferto nella guerra, non è suo desiderio vivissimo e giusto di avere la pace e la possibilità di lavorare? Uomini che hanno impegnato tutte le loro attività nelle costruzioni, nei lavori pubblici, nel progresso sociale e economico, questi uomini che sognano una Sicilia nuova come un’Italia nuova, un rinnovamento nella giustizia, nella distribuzione della ricchezza, nella distribuzione del reddito, coloro che sognano e che aspirano ad una migliore struttura sociale in favore di lavoratori e di operai, no, non è possibile che costoro abbiano dei pensieri truci e macabri di guerra, che pensino a distruzioni, che abbiano in mente la vanagloria che poteva accecare e avere Mussolini di buttarsi addirittura nella fornace, indipendentemente da chi vince e da chi perde. No! Noi siamo responsabili dinanzi al Parlamento, voi siete il popolo sovrano che richiama a dovere anche il Parlamento, voi siete per la pace, il Parlamento è per la pace, il governo è per la pace, è un patto di popolo. E ora, amici miei, è tempo che io chiuda e che raccolga il succo di tutto questo discorso. Ogni momento della storia ha dalla Provvidenza assegnato il suo compito, ogni generazione è chiamata a esercitare una funzione storica, ebbene io dico: oggi qual è il nostro compito? Qual è la meta che dobbiamo raggiungere? Qual è la ricostruzione, la rinnovazione dell’economia e della struttura sociale del nostro popolo sulla base del progresso e della giustizia. Perciò tutti i nostri sforzi nella legislazione centrale e nella legislazione regionale, nelle amministrazioni, devono essere diretti a ricostruire, a rifare, a ritrasformare l’ambiente, le condizioni di ambiente, in senso favorevole al progresso e soprattutto favorevole ai lavoratori, alla grande massa del popolo venuto qua, che siete voi qui raccolti. Ora amici miei, in favore, in favore di questo programma, di questo compito storico, qui siamo tutti e tutti siamo impegnati e non lasciatevi distrarre da altre questioni che sono lontane, o che riguardano forme di strutture di Stato che non sono attuali, non lasciatevi distrarre e raccoglietevi sovrattutto in questo programma, attorno a questo programma di realizzazione, di pace, di progresso sociale. Un accordo per una nuova Italia che nella concentrazione dello sforzo, ma nella decentrazione dei mezzi, disponga veramente di tutte le libere energie e le convoli verso il progresso della democrazia e verso un rinnovamento sociale. Amici miei, però accanto a questo vorrei dirvi ancora una parola. Accanto al proposito di trasformare il nostro ambiente, di modificare le condizioni di vita in cui ci troviamo, accanto al proposito di cambiare la struttura della società, ah voi vedete quanti cambiamenti si son fatti, quanti cambiamenti sono passati anche sopra questa vostra gloriosa Palermo, regimi e regimi diversi, imperi e regni e sono cambiate statue e sono rinnovati monumenti, tutto passa, tutto passa, ma quello che non passa e che non deve passare è il senso morale del popolo, è la coscienza morale del popolo. Vi è in questo che vi ho detto, in questo trasformarsi delle cose e delle posizioni, sembra che tutto si evolva, sembra che tutto si cambi, si tramuti; ed è vero, molto si tramuta e la Sicilia dei nostri nonni non è più la Sicilia d’oggi e domani per i nostri posteri vi sarà una nuova Sicilia e una nuova Italia e speriamo che sia un’Italia più forte, più pacifica, più sicura di sé, più dignitosa, ma soprattutto in mezzo a questi cambiamenti c’è qualche cosa di eterno ed è eterno e assolutamente difendibile: eterna è l’anima dei vostri figli, dei nostri figli e noi dobbiamo fare uno sforzo soprattutto per difendere quest’anima dei nostri figli e perché quest’anima si tramuti di generazione in generazione e respiri la grande nostra storia cristiana, che ha lasciato tutto ciò che è glorioso, tutto quello che è vitale nelle imprese, nei monumenti e nella storia del passato e che sarà anche domani, domani siciliani, domani palermitani, sarà ancora sempre la nostra bandiera con la quale è glorioso il combattere, è necessario il vincere e soprattutto è, se necessario, anche bello il morire. |
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| Amici catanesi, siciliani, io oggi non vengo per diritto a parlarvi perché non sono né elettore, né eleggibile nel vostro paese, ma vengo come amico, come lavoratore, vengo se volete come rappresentante dell’amministrazione, di questa amministrazione, di quest’Istituto che oggi deve essere rinnovato. E vengo a dirvi l’ammirazione per coloro che hanno lavorato. È inutile che gli avversari vangano a dirci che molte cose ancora sono da compiere, che molti difetti sussistono ancora, che lo Stato non ha fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare, che la Regione non ha saputo soddisfare alle aspettative che potevano sorgere quando essa fu istituita: lo sappiamo. Ma possiamo vantarci che è stato fatto tutto quello che si poteva fare. Eppure non dobbiamo negare che vi sono ancora molte aspirazioni, molto lavoro da compiere. Ma, amici miei, dopo che abbiamo ammesso tutto questo – perché è la verità – vogliate accordarci che si è fatto progressi, che veramente non assomiglia più la Sicilia di quest’anno alla Sicilia di cinque anni fa. Si può negare questo, si può negare che laddove la Regione si è messa d’accordo con lo Stato e le due forze hanno agito assieme, si sono raggiunti i più alti scopi nell’interesse della popolazione? Gli avversari cercano di fare polemiche, mostrandoci quello che si potrebbe dare, ma non possono negare che si è fatto molto. Ciò che si potrebbe fare è sempre lontano dalle nostre possibilità, ma facendo i conti facciamo un po’ di bilancio. Dovremo sentire qualche cifra. Per i lavori pubblici e l’agricoltura sono stati stanziati per la Sicilia 110 miliardi di cui 76 miliardi a carico dello Stato e 34 a carico della Regione, oltre i 30 miliardi erogati dallo Stato in base all’art. 38 dello statuto e i fondi della Cassa del Mezzogiorno. Sono stati stanziati 14 miliardi e 500 milioni dalla Cassa del Mezzogiorno, è stato previsto un programma di costruzione di strade per 33 miliardi di lire. Voi vedete che non si va avanti alla meno peggio e non è vero quello che si dice che si fa quello che si può e che il governo non ha programma. C’è un programma di 100 miliardi di lire all’anno, di 1.000 miliardi in dieci anni, di cui distributrice è la Cassa del Mezzogiorno costituita come ente autonomo accanto allo Stato, costituita da amministratori del Mezzogiorno, i quali distribuiscono alle diverse regioni le provvidenze della Cassa. Per quanto riguarda la costruzione di case popolari, sono stati disposti finanziamenti di 25 miliardi. Non si deve la penuria di alloggi solo alle distruzioni del tempo di guerra, ma a un aumento continuo della popolazione. Di 400 mila anime è aumentata la popolazione e di questi 200 mila sono giovani che chiedono lavoro. E a questo problema di lenire la disoccupazione dovremo rivolgere tutti gli sforzi. Per quanto riguarda le scuole elementari, la Sicilia fino a qualche anno fa disponeva di 330 aule scolastiche. Con il finanziamento di 17 miliardi di lire, 8.276 aule sono ora sorte, coprendo in tal modo il fabbisogno dell’Isola. In Sicilia abbiamo il programma della Cassa del Mezzogiorno che deve provvedere ai grandi acquedotti e il programma della Regione che provvede ai piccoli acquedotti: saranno spesi 17 miliardi di lire, di cui 9 a carico della Cassa. E, tra gli altri, l’acquedotto etneo interessa molto da vicino voi catanesi. Il problema delle acque in Sicilia sarà quindi risolto. Per l’energia elettrica è stato costituito l’Ente siciliano di elettricità con un programma di bacini montani per 32 miliardi di lire. Per le ferrovie sono stati stanziati in quattro esercizi finanziari trenta miliardi di lire per la ricostruzione e il potenziamento della rete siciliana. E per l’industrializzazione il banco di Sicilia ha avuto a disposizione 11 miliardi di lire di cui 10 a carico dello Stato. Collaborazione e comprensione ci vogliono fra Stato e Regione: e allora per questa via – la via della ricostruzione – si potrà continuare. Non so come mai voi siciliani, che siete un popolo così colto, così sentimentale, possiate essere descritti per le vie del mondo come un popolo che alberghi briganti alla macchia, quasi che in Sicilia un galantuomo sia raro a trovarsi: i siciliani per il novantanove per cento e mezzo sono galantuomini.Ma vi fanno proprio questa fama di briganti, i signori del «Blocco del popolo». Se oggi abbiamo pane a sufficienza, è merito dei contadini che lavorano la terra, ma anche e soprattutto delle navi (navi dell’ERP) che ci han portato grano. Con la Russia e l’Oriente è stata aumentata l’esportazione, ma gli accordi son difficili. Oggi dobbiamo alla Russia 100 milioni di dollari per riparazioni; questi 100 milioni di dollari si dovranno pagare in parte con i sequestri dei beni italiani negli Stati balcanici e per l’altra parte con prodotti industriali forniti dall’Italia. Ma da tre anni noi non abbiamo potuto concordare una conclusione. Essi stimano i nostri beni in quelle terre 11 milioni di dollari, mentre noi li stimiamo 170 milioni. È difficile trovare oggi un stemma comunista: è diventato una rarità. Si mimetizzano, i comunisti: o dietro le due torri, o dietro la faccia e il mantello di Garibaldi. Del loro volto – questa la conclusione – i comunisti non si fidano troppo. Marines ad Augusta? Non si tratta, come sostengono i comunisti, di un’intimidazione a fini elettorali – li immaginate voi questi siciliani, che, per spavento delle navi ad Augusta, votano per De Gasperi e contro i comunisti? –, ma di manovre militari che l’Italia permette, nelle proprie acque, per antica tradizione e alle quali ha inviato a partecipare proprie navi. Trieste? Chi si oppone è sempre la Russia. Voi siete un beato paese che non ha avuto la fortuna di conoscere la Repubblica sociale italiana. Adesso vengono qui degli apostoli che si vantano di essere stati collaboratori, amministratori, uomini politici di questa Repubblica sociale italiana…, occorre, però, prima chiedersi e sapere chi sono costoro. Sapete voi, ad esempio, che l’Assemblea Nazionale Costituente di Verona del 15 novembre 1943, che costituì la Repubblica sociale, ebbe uno statuto antidemocratico e dittatoriale? E un loro tribunale del popolo ordinò la fucilazione di Ciano e di altri personaggi che ci sono lontani ma che erano vicini a coloro che ne hanno ordinato la fucilazione? E ancora: perché queste fucilazioni? Voi (i fascisti) siete arrivati al punto di servire il nazismo e ammazzare la gente e di fucilare i gerarchi italiani: l’asservimento più vile, la guerra civile che tutto ha distrutto. Noi che abbiamo le mani pulite, noi li deploriamo quei fatti. Noi vogliamo la pace, noi vogliamo la pacificazione anche per questi giovani; ma non ci vengano a rifare la storia a modo loro, perché la storia vera ognuno la può leggere e ricordare. E infine un incitamento esplicitamente elettorale: non basta che noi abbiamo un programma di distribuzione della ricchezza, di aumento della produzione, non basta che noi vediamo la necessità di creare attorno alla nostra nazione ricostruita un’aureola di indipendenza, di dignità politica: è necessaria la fiducia del popolo e che al popolo ci ha legato. Amici miei, questo non è lavoro di un anno o due. Dateci, prendetevi tempo di lavorare, poiché la meta verrà raggiunta e la Sicilia, attraverso le sue opere particolari, la sua organizzazione autonoma, si rifarà in confronto dell’arretratezza che ebbe per il passato, perché è cominciata anche per la Sicilia la sua ascensione. Ora si parlerà con orgoglio dei siciliani e nessuno oserà ricordare quei miserabili che sono perduti e che si chiamano briganti; nessuno oserà prendere questo caso come simbolo di attività siciliana, mentre qui è un popolo che lavora e che sul lavoro fonda la sua ricchezza. |
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| Oggi codesti avversari accusano noi di fare chiacchiere , mentre un programma per il Mezzogiorno è stato già impostato e i lavori si sono iniziati, si è iniziato il grande acquedotto campano, sono state appaltate le nuove strade; hanno inizio o si continuano i lavori di bonifica, di irrigazione e di trasformazione della terra. E c’è dinanzi tutto un programma di lavori per 10 anni per il Mezzogiorno, per il quale programma c’è l’impegno solenne del governo, non solo di questo governo, ma di ogni governo, perché c’è l’impegno del Parlamento. Cento miliardi all’anno sono stati riservati al Mezzogiorno per la legge di riforma e i lavori di ricostruzione. Il programma per la Puglia è stato determinato in 154 miliardi di cui 28 il primo anno che s’inizia adesso. La Cassa del Mezzogiorno cui è affidata la realizzazione di questo primo piano è un organismo composto di tutti meridionali ed ha in mano le somme necessarie per agire. Per quel che riguarda in particolare Taranto, si sono costruiti con il solo piano Fanfani 144 alloggi per 300 milioni, sono in corso di costruzione altri 752 alloggi per oltre un miliardo di lire. Ciò nonostante non sono abbastanza contento perché non tutti i danni sono riparati, non tutto quello che è stato distrutto è stato rifatto, non tutto quello che si può ricavare dalla terra è stato ricavato. Siamo di fronte ad un lavoro che impegnerà più di una generazione. Questo è solo il principio ma si arriverà certamente a fare del Mezzogiorno una zona ricca, più di altre, ad aggiungere industrie a quella che sarà la fecondità della terra rinnovata. Purché al governo non manchi il conforto, l’appoggio delle popolazioni. Quanto a Taranto essa deve ridiventare quella che era una volta e ancora di più perché crescente è la sua popolazione. Taranto deve acquistare la sua importanza nel Mediterraneo perché essa è uno dei grandi polmoni dell’Italia sul mare. Già i suoi cantieri e i suoi arsenali sono in ripresa mentre nel non lontano 1948 si parlava ancora con angoscia dell’eventualità di una chiusura dell’Arsenale e del Tosi, mentre oggi c’è la sicurezza che i cantieri e l’Arsenale e le altre industrie lavoreranno. Perché il lavoro aumenti e aumenti la sicurezza e la serenità del lavoro occorre fra i dirigenti e i lavoratori una maggiore collaborazione, una mutua fiducia. Dopo aver affermato che anche il problema del ponte girevole, uno dei problemi più sentiti dalla città, sarà risolto con la costruzione del tunnel, se si realizzerà una efficiente collaborazione fra la popolazione e tutti gli Enti interessati, riferendosi a un manifestino volante messo in circolazione dai comunisti e contenente l’accusa del governo di asservimento allo straniero, il presidente del Consiglio ha rilevato che la predica viene da un pulpito squalificato in quanto i bolscevichi sono pronti agli ordini degli stranieri. L’Italia ha invece stretto con le nazioni occidentali un patto di alleanza, da eguale a eguale, in piena dignità. Essa non attaccherà nessuno ma se invece ad un certo momento qualche cosa succedesse al di fuori della nostra volontà, essa sarebbe garantita nella difesa delle sue frontiere, delle sue e dei suoi mari. Ai valorosi alpini che guardano le frontiere e che hanno dimostrato recentemente a generali stranieri le loro straordinarie capacità di soldati, l’Italia è fiera di poter aggiungere i suoi valorosi marinai. Ma essa ha il dovere di dotare di mezzi e armi moderne tutti i suoi soldati perché essi possano compiere il loro dovere senza essere inutilmente sacrificati come invece è avvenuto nell’ultima guerra. Ho sentito con orgoglio i nostri ammiragli riferirmi che le nostre navi e i nostri marinai nei confronti delle navi e dei marinai alleati raccolti a Malta hanno fatto recentemente una splendida figura, ristabilendo il prestigio della Marina italiana. Lasciateci il tempo e lentamente, come i nostri mezzi permetteranno, noi ricostruiremo una Italia che non attaccherà e offenderà nessuno, ma che sarà pronta a difendersi qualora ci attaccassero dall’altra parte. De Gasperi ha ricordato poi l’accusa che gli vien mossa dai socialcomunisti di preparare la guerra. Gli hanno chiesto se è favorevole all’incontro dei cinque proposto dai partigiani della pace. Ed egli lo è senz’altro, anche se è convinto della cattiva volontà di una parte di mettersi d’accordo. Così come è incontrovertibile il diritto dell’Italia di partecipare ad un tale convegno qualora si arrivasse a discutere di questioni nostre come quella di Trieste e dell’emigrazione. L’oratore ha ironizzato su questa affermazione di pace dei comunisti, rilevando che se veramente desiderassero una pacificazione, potevano dimostrarlo in Corea, mentre hanno sempre risposto negativamente a tutti i tentativi partiti dall’ONU o da altre nazioni. Egli ha altresì ricordato la teoria comunista delle aggressioni che, ha detto, può essere valida per quei paesi non liberi nei quali non si leggono giornali stranieri, non si ascoltano radio straniere, non si hanno contatti di nessuna sorta con il mondo libero. Ma è folle credere che tali teorie possano attecchire in Italia dove si comprende facilmente che chi avanza attacca e chi indietreggia è attaccato. Questa ostinazione di volere dimostrare che coloro che hanno attaccato sono stati aggrediti, quando la verità è così chiara, questo tentativo fa nascere il sospetto che se avvenisse qualcosa di simile in Europa, che Dio non voglia, vicino o lontano dalle nostre frontiere, i nostri comunisti ripeterebbero anche contro la patria lo stesso ragionamento. Da questo grande porto che s’apre sul mare io ricordo che non abbiamo potuto mantenere le colonie perché erano state perdute nella guerra. Abbiamo però riattivate le comunicazioni, ripreso i rapporti di collaborazione con gli italiani che stanno in Libia e in Eritrea, che sono fierissimi patrioti e che riguadagnando le posizioni morali ed economiche daranno ancora la possibilità all’Italia di espandersi non politicamente, non militarmente, ma con i suoi commerci, con le sue iniziative, con la forza del suo lavoro. Ieri ho ricevuto il governatore della Somalia, Fornari. Egli mi descriveva come il popolo somalo affidato alle nostre cure per dargli reggimento libero, ci sia riconoscente. Gran parte delle truppe che avevamo mandato in Somalia è stato possibile ritirare e sostituire con i somali e vedremo tra poco circa 900 somali partecipare al potere legislativo ed esecutivo del territorio sotto forma consultiva. Noi stiamo compiendo in Somalia qualche cosa di nuovo, qualche cosa di non mai tentato; e occorre l’appoggio e la cooperazione di tutti gli italiani che vivono in patria, ai quali non può certo sfuggire la responsabilità che ci siamo assunta di fronte al mondo. La soddisfazione data al nostro paese nell’affidargli la missione di preparare, in nome delle Nazioni Unite, la Somalia alla maturità sarà successo della democrazia e successo delle Nazioni Unite. Preparando la Somalia all’indipendenza noi renderemo un servizio preciso, oltre che al territorio sotto tutela, alle Nazioni Unite e all’Italia. Sarà per noi nuovo titolo di merito e nuova opera di civiltà. Il colonialismo nella sua antica concezione è in via di scomparire; e l’Italia ben consapevole della individualità nazionale che si va profilando in Africa, ha optato per la politica della cooperazione, della comprensione, dell’incoraggiamento alle aspirazioni delle popolazioni africane. L’Italia vuol essere all’avanguardia di quel movimento che tende a sostituire, al vecchio colonialismo, l’amicizia e la collaborazione con i popoli indigeni, attraverso il proprio lavoro e le proprie iniziative. Nel quadro dello sforzo ricostruttivo, grande importanza spetta all’emigrazione. Si sono già raggiunti dei buoni risultati. L’Italia ha insistentemente richiamata l’attenzione di tutti gli Stati sul problema dell’emigrazione. Noi abbiamo sostenuto che il problema dell’emigrazione e del libero trasferimento della manodopera è condizione indispensabile per la ripresa economica internazionale. A parte le difficoltà d’ordine interno dei vari Stati, l’emigrazione non è la più facile impresa di una volta perché si tratta di creare l’ambiente per il lavoratore che deve partire dall’Italia non più alla ventura o in miseria ma con l’assicurazione di trovare lavoro e condizioni buone di vita per sé e la famiglia. Quindi occorrono trattative internazionali, insistenti, laboriose. Queste trattative hanno già avuto buoni risultati. Possiamo dire che questo problema è considerato ovunque non più esclusivamente italiano ma europeo e mondiale. Sarà in Italia che si terrà nell’ottobre prossimo la grande conferenza internazionale – la prima del genere dopo la guerra – che dovrà occuparsi dell’emigrazione. Il governo italiano ha voluto che questa conferenza, alla quale converranno 30 nazioni, si tenga a Napoli perché abbiamo sempre riconosciuto che si tratta di un problema che interessa soprattutto il Mezzogiorno. Egli ha quindi negato che questo sia un ripiego dell’incapacità di creare possibilità di lavoro in patria, tanto è vero che le cifre dei disoccupati sono inferiori a quelle di qualche anno fa. Gli è che il nostro popolo cresce di oltre 400 mila unità all’anno e che bisogna perciò far necessariamente ricorso all’emigrazione. Della quale peraltro non bisogna vergognarsi perché l’emigrazione ci ha dato in tutte le Americhe e in certi paesi d’Europa dei collaboratori ferventi nei momenti critici. Nulla è perduto del sangue italiano se si sanno coltivare quei legami con i nostri emigrati per cui essi diventano ambasciatori in terra straniera del popolo italiano e ci fanno onore con le loro dimostrate capacità di lavoro, di iniziativa e di realizzazioni. Tuttavia il governo perseguirà sempre più decisamente l’obiettivo di creare il maggior numero possibile di occasioni di lavoro in patria. In questi tempi così tristi una fiamma di speranza è accesa dal metano con il quale si spera di sostituire una parte del carbone che importiamo e di potenziare le nostre industrie e di occupare una maggiore quantità di manodopera. Il presidente del Consiglio è quindi passato a rispondere a un’altra accusa degli avversari che imputano al governo di non pensare alla dignità dell’Italia, al sentimento nazionale. Egli ha ricordato quali erano le condizioni dell’Italia dopo il ’45, con le eredità di una guerra sciagurata trasformatasi in guerra civile per colpa della Repubblica sociale; ed ha esortato i giovani che abbiano veramente il sentimento della patria nel cuore, a non costringerlo a risollevare quel velo con cui furono coperti gli orrori della Repubblica sociale. Ha ricordato che la Repubblica fascista non solo asservì l’Italia allo straniero ma consegnò ad esso tutto l’oro della Banca d’Italia alla Germania e giunse a far fucilare due valorosi ammiragli, Campioni e Mascherpa, che in nome del governo legittimo avevano compiuto il loro dovere di soldati. L’altro giorno sono stato in Sicilia e in una stazione un giovanotto, con aria tracotante mi ha detto: abolite le leggi eccezionali, aprite le porte a coloro che sono in carcere. Io ho risposto: abbiamo fatto la centesima parte di leggi eccezionali che furono fatte dalla Repubblica sociale. Noi abbiamo generosamente perdonato, abbiamo tirato un velo su tutto quello che è avvenuto, abbiamo fatto una grande amnistia tanto per i neri che per i rossi. I 585 individui che ancora sono in carcere sono responsabili di delitti comuni, di omicidi, di rapine e di fatti di stragi, di sevizie. E se si vuole qualche esempio ricordo che fra essi vi sono i colpevoli dell’eccidio di Forno di Massa, dove furono trucidate 62 persone e molte altre scomparvero senza traccia perché arse vive nelle case incendiate . Né si tratta di operazioni di guerra: allora si chiamavano così anche i delitti personali. Seguite il processo della banda Carità che si fa a Lucca , seguite gli orrori che vengono scoperti. Ditemi come si può avere il coraggio di chiamarci crudeli persecutori. Non può la giustizia non tenerne conto. Ne abbiamo graziati 480. Le grazie dovevano essere concesse calcolando la gravità delle colpe, perché altrimenti non ci sarebbe giustizia di fronte alle vittime, alle famiglie delle vittime. Se questi giovani vogliono la pacificazione, non debbono ricorrere ai petardi e alle bombe, come hanno fatto recentemente, non debbono adoperarsi per dividere il popolo italiano perché poi riescano i bolscevichi a conquistare i comuni italiani. È questo il tradimento della patria. Io non ho nessun risentimento, nessun odio. Riconosco tutti coloro i quali sentono nel cuore il palpito della patria. Dico loro: non resuscitate il passato. È un brutto spettro. Dimentichiamo. Cerchiamo invece di ricostituire l’unità nazionale di coloro che vogliono veramente un’Italia libera, pacifica, democratica, integra nella sua dignità. Qui, innanzi al mare nostro, giuriamo, promettiamo di essere tutti concordi per questa Italia. |
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| Le accuse che mi fanno questi signori del Msi di essere filocomunista sono oltre tutto ridicole, come lo sono altrettanto quelle dei comunisti che mi accusano di avere spalleggiato il fascismo. Agli uni e agli altri posso rispondere che sempre ho agito da italiano e da democratico e quando nel 1922 io e i miei amici ci siamo accorti che la libertà era in pericolo, abbiamo preso la strada della libertà e della democrazia e ne abbiamo pagato le conseguenze. Questo è stato il mio fascismo. Falsa è dunque l’accusa dei comunisti ma falsa ancora più l’accusa del Msi. È proprio ridicolo pensare come dalle due parti si falsifichi la storia, come si pensi in ogni modo di colpirmi. No, io fui e sono un democristiano (e sono cinquant’anni che sono in politica), mai sono venuto meno a questa linea di azione. Ma la mia parola ben poco conta, quello che conta sono le opere che il mio governo ha fatto, la ricostruzione dell’Italia che ha riportato il paese ai livelli prebellici. Quello che il fascismo fece contro di me nel 1924 è stato oggi riesumato da gente di cui non posso credere alla buona fede. Devo dire ai signori del Msi: ove eravate voi negli anni dal 1946 ad oggi, quando si è trattato di organizzare un governo democratico? Dove eravate voi, salvatori d’Italia, quando la parte comunista minacciava la conquista del potere? Noi democristiani abbiamo affrontato il popolo nelle piazze a sostegno di una politica di giustizia, di una politica costruttiva. Dopo avere ricordato quanto il governo ha fatto per Grosseto ed essersi soffermato sulla prossima realizzazione dell’acquedotto di Fiora che darà l’acqua a tutta la Maremma – e per cui è prevista una spesa di 9 miliardi – l’oratore ha messo in rilievo quanto il governo si appresta a fare in Maremma in tema di riforma agraria. Noi abbiamo sentito il «problema della terra» e vi dico che in provincia di Grosseto saranno espropriati ben centomila ettari. Per ventisettemila l’esproprio è già attuato. Se a questo aggiungete tutti gli altri lavori che la riforma agraria comporta, potrete render conto della mole dei lavori che per una più equa giustizia sociale il governo attua ed attuerà in questa regione. Questi sono fatti. Il governo giudicatelo dai fatti e non dalle chiacchiere della propaganda socialcomunista. Non è facile contrastare il progresso delle masse socialcomuniste, che dispongono di grandi mezzi e che hanno sulle folle una grande attrattiva. Noi però faremo ogni sforzo per contendere il passo ai socialcomunisti, non per ragioni sociali – che è nostro precipuo intendimento applicare una maggiore giustizia sociale –, ma perché nel partito comunista vediamo un partito che serve una causa che vede solo le cose da un punto di vista sovietico. Quelli del Msi ci dicono che non siamo adatti per combattere il comunismo. Io mi domando se essi vogliono ricorrere ancora alla violenza, oppure arrivare ad un rivolgimento che avvenga attraverso le libere consultazioni popolari. Io mi domando se essi non si sentono di rendersi ridicoli con l’affermare che siamo un partito di vecchiette e di beghine. No, signori del Msi, vi sbagliate se pensate di avere il monopolio della gioventù. Penso che non sia troppo tardi, però, per invitare questi signori a fare un atto di coscienza. Se veramente essi sono guidati da un entusiasmo nazionale, come possono pensare di risollevare l’Italia da soli, proprio soli, senza l’aiuto di nessuno? Noi abbiamo perdonato, abbiamo dimenticato e dobbiamo vedere oggi questa gioventù che si aggrappa ancora al passato, che fu violenza e servilismo, accusare noi di servilismo. Essi ci accusano di non essere italiani, di mancare di sentimento nazionale. Questa è una accusa che noi respingiamo nella maniera più categorica. Noi siamo pronti ancora ad una collaborazione, ma a una condizione: che non si parli più del passato e che si operi solo ed esclusivamente nell’interesse del paese, il quale deve seguire una politica come la nostra, una politica di dignità, di alleanze con popoli liberi, una politica di pace. Ai comunisti che ci accusano di preparare la guerra e di preparare al popolo un nuovo servaggio io rispondo: quale imperialismo abbiamo noi da difendere, quali mire possiamo noi avere con il piccolo esercito a nostra disposizione? Noi non riusciremo mai a provocare un conflitto, e perché non vogliamo e perché non possiamo. Ecco perché tutta l’impostazione della propaganda comunista è falsa e ampiamente lo hanno dimostrato gli avvenimenti coreani, i quali dai comunisti sono stati prospettati esattamente al contrario solo perché così volevano i loro interessi, gli interessi della Russia. La propaganda comunista è una continua calunnia contro il governo. Noi siamo circondati da una falsa propaganda, che proviene dagli Stati satelliti della Russia. Finché sono parole, niente è da temere (benché facciano tanto male). Ma è da temersi che questo lancio di parole possa trasformarsi in un lancio di colpi di offesa e allora io dico: noi non siamo soli. È inutile il gioco di Togliatti, il quale dice: mettiamoci l’uno accanto all’altro. Io l’ho provato. Finché si tratta di problemi di politica interna, benché l’accordo sia spesso faticoso, a qualche risultato si giunge, ma quando si toccano problemi di politica estera, allora si vede subito la politica sleale del Pci, perché non è un Partito comunista nel vero senso della parola, ma un Partito comunista bolscevico, che segue ciecamente la parola di Mosca. Fu per questo che trovai necessario eliminarli dal governo. Io mi auguro che dal voto che voi esprimerete domenica prossima possano uscire amministrazioni democratiche, feconde per lavoro e per opere. Mi auguro che la Maremma, con la riforma agraria e lo sviluppo industriale, possa avviarsi ad essere una grande regione. La nostra meta è creare una nuova Italia, che abbia profonda la legge della giustizia, un’Italia che sia rispettata all’estero e che riprenda la sua funzione nel mondo, cui le dà diritto la gloria del suo passato e l’operosità del suo presente. |
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| Amici di Torino, ho bisogno di dirvi una speciale parola di riconoscenza per questa vostra presenza, nonostante l’avversità della pioggia . Voi mi volete bene, ma io ho una ragione particolare per volere bene soprattutto ai torinesi e alla città di Torino, perché fu a Torino che nel 1948, inaugurando la campagna elettorale politica , venni a chiedere ispirazione alle tradizioni, alla gloria di Torino e oggi torno per esprimere la gratitudine a questa città che ha infuso nella nostra campagna uno spirito di così vigoroso idealismo. Ho incominciato questa campagna a Trento il 25 aprile e sono partito dalla constatazione che la forza e la persistente minaccia del pericolo comunista continua e che dovevamo prendere le nostre decisioni e aumentare la nostra resistenza considerando questa premessa: c’era bisogno che noi lo dicessimo perché alcuni dei partiti interessati a tener mano al comunismo per la propria affermazione negavano che esistesse in Italia un pericolo di bolscevizzazione, cioè il pericolo della conquista del potere da parte del Partito comunista. Dovevo dire che la verità era questa e la verità andava guardata in faccia e come responsabile maggiore e massimo della nazione dovevo fare appello a tutti: al sentimento, al cuore, all’energia, alla volontà di tutte le popolazioni perché serrassero le fila e resistessero a combattere per la libertà. Qualche giorno dopo la mia affermazione, qualcuno dei partiti minori insisteva nel dire che la mia affermazione stessa era artificiosa, che io creavo un fantasma per spaventare la gente e farla correre a votare per la Democrazia cristiana. In realtà il comunismo era già diminuito notevolmente, perché nessuno poteva pensare a possibilità che il comunismo attaccasse, potesse attaccare, per conquistare il potere politico. Ora il prof. De Marsanich, che ha parlato qui ieri, è l’autore di un articolo pubblicato sul settimanale «La Lotta ideale» nel quale dice che la pretesa minaccia comunista è un pretesto atto a carpire i voti della paura. E un altro sosteneva ancora questi temi. Oggi, dopo le elezioni, Togliatti ha detto qui che l’esito del risultato elettorale è stato una vittoria e ha dimostrato l’aumento delle forze comuniste. La verità sta nel mezzo. Non è vero che ci sia stato un aumento delle forze, non è vero che ci sia stata una vittoria comunista, ma è vero che si illudono coloro che credevano che, per articoli di giornale, anzi per campagna di propaganda, questa farsa quotidiana del Partito comunista, questa organizzazione infeudata, avesse perduto la sua forza. È meglio, amici, che noi guardiamo in faccia la realtà, l’afferriamo e la riconquistiamo in tutta la sua interezza e ci battiamo contro questa realtà per diminuirne la forza e l’efficacia e per erigere una diga insormontabile contro ulteriori progressi. Dunque, amici, prendete atto che ancora potete fare uno sforzo ultimo per affrontare tale realtà. Il pericolo della bolscevizzazione dell’Italia esiste, è ancora presente, esige la massima vigilanza, il massimo concorso per tutte le classi, le classi operaie anzitutto, le classi intellettuali, dei ceti produttivi, per superare la minaccia o ridurne gli effetti. Poiché non si tratta di fantasmi, non si tratta solo di forze, ma si tratta soprattutto di un partito che non ha scrupoli di coerenza, che oggi afferma una cosa, domani ne afferma un’altra. Si tratta di un partito contro il quale non è bello combattere perché non si tratta solamente di battaglia in campo aperto, bandiere contro bandiere, ma con tutte le trasformazioni possibili, diverse da città a città; una battaglia contro un mostro dalle diverse mostruose teste. Vi darò qui a Torino, capitale dalla quale è partito il movimento per l’unità italiana, vi darò un esempio, uno degli esempi più caratteristici che si sono svolti recentemente: l’autonomia siciliana. Quando si è trattato, nel Consiglio dei ministri del ’44, di fare questa concessione, di accogliere provvisoriamente lo Statuto che era stato proposto dai siciliani, salvo poi gli emendamenti e i coordinamenti che si dovevano fare alla Costituente, allora i rappresentanti del socialismo comunista e del comunismo socialista, cioè Togliatti e Nenni, erano molto perplessi e nel Consiglio dei ministri, come era naturale, trattandosi di movimento centralizzato e centralizzatore, questi due hanno certamente fatto obiezioni, sono stati molto esitanti ad accettare. Ora che cosa avviene? Oggi il Partito comunista siciliano ha assorbito addirittura il separatismo, si è fatto assertore della stessa causa separatista e cerca di esercitare i siciliani all’esempio, alle imitazioni dell’Unione Sovietica e all’esempio della indipendenza della lotta per l’indipendenza coreana; cerca di creare uno stato d’animo che non è per uno Stato nazionale italiano, ma piuttosto uno Stato federativo, che pensa ad una protezione che venga dall’estero. Guardate quello che avviene in questo momento; quella che doveva essere un’autonomia amministrativa per lo sforzo dei comunisti minacciava – perché la maggioranza dei siciliani non ha accettato ed ha votato contro – minacciava di creare uno Stato nello Stato. Se il tempo fosse stato eliminato, vi avrei addirittura letto la parola che il senatore Li Causi in proposito ha pronunziato in tutte le piazze della Sicilia . Eccovi le parole e voi comprenderete che io non ho tradito il senso sunteggiando. «Nel mondo – disse il senatore Li Causi a Palermo – c’è la guida dell’Unione Sovietica e sotto la guida dell’Unione Sovietica e del suo grande capo il compagno Stalin, il popolo che ha avuto la ventura di liberarsi per il primo è per la pace e costituisce col comunismo un mondo libero e felice». Fate attenzione: «l’enorme volontà di lavoro del popolo siciliano trova oggi nell’Unione Sovietica l’esempio vivo di che cosa può fare un popolo che è al potere». State attenti: «come il popolo coreano che suscita la stessa ammirazione dei difensori di Stalingrado, il popolo siciliano lotterà per la pace, per la terra, per il lavoro, per la libertà» . Dopo ciò sentite la conclusione: che cosa vale l’assicurazione che egli ci dà, che il popolo siciliano romperà con lo Stato italiano; che cosa mancherebbe alla nostra rottura formale con lo Stato italiano quando andasse al governo in Sicilia un partito per cui guida suprema rimane lo Stato sovietico e l’incitamento all’indipendenza dei coreani del nord aggressori dei coreani del sud. Bisogna però constatare che accanto a questo pericolo esiste la possibilità di difendere il regime democratico. Però il regime democratico non vince senza l’impegno di tendere con tutti i mezzi verso la giustizia sociale e verso l’elevazione dei lavoratori e della povera gente. La libertà di produrre reclama il dovere di dedicare una equa parte del profitto al lavoro, all’assistenza, alla elevazione delle classi più povere. Oggi non si possono introdurre disgraziatamente certe riforme nell’amministrazione, nelle fabbriche perché appunto il virus, il veleno della bolscevizzazione rende impossibile il loro equo funzionamento, ma noi dobbiamo lasciare aperta la porta a tutte quelle istituzioni che rappresentano collaborazione e partecipazione degli operai. La proprietà si può difendere, ma purchè eserciti una funzione sociale e non costituisca nemmeno sulla terra un monopolio terriero. Perché nessuna proprietà edilizia e terriera potrebbe sussistere senza questa funzione sociale e senza creare in corrispondenza uno stato di libertà in coloro che sono vicini. Se ciò avvenisse, se noi pretendessimo che la democrazia, in regime democratico, mantenesse le attuali situazioni di proprietà e di profitti, vorrebbe dire che la democrazia sarebbe un regime di statica sociale conservatrice e questo noi non vogliamo, vogliamo una democrazia che progredisce, che si fonda sulla migliore giustizia sociale. La legge suprema del nostro regime libero deve essere la solidarietà nazionale e questa esige dei sacrifici da parte di chi ha in favore di chi non ha e ha il diritto di avere. Senza ciò la fraternità cristiana è una parola vuota e la Democrazia cristiana sarebbe una ipocrisia. Ciò hanno inteso quegli industriali che provvedono all’assistenza sociale e alla più larga cooperazione possibile con i loro operai. Essi pagano con ciò una polizza di assicurazione che è più fruttuosa di quella stupida o criminale di sovvenzionare la stampa e la propaganda neofascista nell’illusione che la violenza e l’illegalità… Poiché bisogna mettere in chiaro che il neo fascismo si affaccia, spunta sull’orizzonte un altro pericolo, contro il regime democratico. È vero, i missini anche se antiatlantici vogliono distinguersi dai comunisti dichiarando che in caso di conflitto si batterebbero per l’Italia. Riconosciamo che questo impegno merita la massima considerazione. Ma non c’è solo un fronte di combattimento, c’è un fronte interno e su questo fronte attaccano il sistema parlamentare preparando la dittatura e richiamandosi all’esempio dei loro maggiori legittimano col ricorso alla violenza la violenza e l’illegalità comunista. Così bisogna pure dirle certe verità, dirle anche alle grandi folle come siete voi, dirle a tanti, perché la minaccia non ingrossi; bisogna dire che il fascismo e il comunismo si alternano nella vita italiana motivandosi e giustificandosi reciprocamente. E intanto si tenta da ogni lato la soffocazione della democrazia. Con senso assoluto di responsabilità questi post-epigoni ricostruiscono la situazione del 1921. Quando si vedono le attuali collusioni tra comunisti e fascisti e i reciproci compiacimenti e sorrisi, si ricorda la tattica di Mussolini, nel 1920 e nel 1921. Dinanzi all’occupazione delle fabbriche egli stava neutrale e lo studente ucciso barbaramente in questa città era un nazionalista, non un mussoliniano. Ma allora il governo del tempo cercava con le sue forze di ridurre all’impotenza da una parte gli squadristi fascisti e dall’altra gli arditi del popolo. Ma Mussolini voleva impedire che si riuscisse a domare questa forza nemica, che si riuscisse così a creare la base di pacificazione. E tenne alla Camera un discorso, il 1° dicembre 1921, in cui ammoniva il governo di non martellare con provvedimenti di polizia il fascismo, giacchè esso potrebbe anche allearsi al comunismo per rovesciare lo Stato, salvo poi a «conflittare», come diceva lui, col nuovo alleato per la spartizione del bottino. E oggi, a sentir la trascuratezza dell’on. Almirante che si richiama ai maggiori e dice di assumere la responsabilità anche dell’eredità della Repubblica sociale (e si sente l’attacco al regime parlamentare), ci si ricorda di quello che diceva Mussolini: il regime parlamentare – diceva già nel 1919 – ha aperto la successione e siamo noi che abbiamo diritto alla successione, perché fummo noi che spingemmo il paese alla guerra e la condizione alla vittoria. Così vuol ragionare oggi anche il successore on. Almirante. C’è una piccola differenza: alla guerra ci hanno spinto essi, ossia i loro capi, i loro responsabili a cominciare da Mussolini, ma invece che alla vittoria ci hanno condotto questa volta alla disfatta. Ora i missini vanno di piazza in piazza sollevando l’accusa, che in fondo è diretta contro tanti e contro l’intero popolo italiano, che responsabili della guerra siamo noi democratici e tutti coloro i quali non avevano entusiasmo per l’obbedienza di Mussolini! Basta consigliare ai missini di leggere il diario di Ciano del 7 aprile. L’ex ministro degli Esteri dopo una discussione col gen. Favagrossa che doveva provvedere alla preparazione del materiale di guerra, concluse che oramai neanche col poco oro rimasto si poteva comprare qualsiasi metallo, che tutto era consumato nelle scarse risorse interne…; le pentole di rame, le cancellate di ferro, lo ricordate voi come sono scomparse? Tutto è andato comediceva e con questa mancanza di riserve c’è chi può pensare di intervenire in guerra ? Ebbene, pochi giorni dopo questa annotazione nel suo diario, egli ha avuto un altro colloquio dove dice: Mussolini ritorna imbronciato dal Re ed è arrabbiato perché il re vorrebbe tenerlo che non si muovesse, che ritardasse perlomeno l’intervento nella guerra. E Mussolini ha allora questa espressione: è umiliante stare con le mani in mano mentre gli altri scrivono la storia per fare un grande popolo. Non importa vincere o perdere, bisogna pur farlo un combattimento, magari con calci nel sedere . Questa era la disfatta, l’origine della disfatta e bisogna proclamarlo nelle piazze perché bisogna evitare quello che è avvenuto in Germania con Hitler dove anche là la pace era stata fatta e la resa era stata ottenuta per fatti militari. Questi pensieri, animati anche dalla leggenda, erano entrati nel cervello dei giovani: pensieri fatali perché danno l’illusione che la storia sia passata invano e che le colpe non siano le colpe di coloro che ordinarono e ci lanciarono in questa guerra senza preparazione e quindi giustificando un passato si pretende anche di avere la legittimazione della popolazione, di determinare la stessa realtà nell’avvenire. E si lagnano e vanno d’attorno questi signori e si lagnano delle leggi eccezionali essi che piantarono in ogni provincia della Repubblica sociale i tribunali speciali; e si lagnano di una disfunzione transitoria della Costituzione, essi che annullarono abusivamente i mandati dei deputati, essi che sciolsero tutti i partiti e ci cacciarono in prigione o ci costrinsero all’esilio. Abbiamo sopportato per venti anni in silenzio col nostro senso patriottico intatto. Nulla abbiamo fatto contro il regime democratico. E costoro, dopo cinque anni di democrazia, pretendono che ci si dimentichi delle loro responsabilità passate e domandano al popolo una loro investitura. Ed io voglio qui tirare un velo sopra i massacri del passato durante il periodo della guerra civile. L’avevamo già tirato questo velo e non se ne parlava più di quanto nascondeva per un desiderio di pace e di pacificazione; ma questi signori, con una tracotanza irriducibile, ci obbligano a rifare la storia. Le ricorderemo queste malefatte se occorre; in ogni piazza ci sarà qualcuno che potrà alzare la mano e dire: «tu hai fatto questo» e «tu hai lodato questo». Amici, per salvare la democrazia, bisogna utilizzare tutte le forze e qui, badate bene, astraggo dal parlare di combinazioni unilaterali, di dosature, o di crisi; mi metto al di sopra di tutto questo che può essere lo strumento variabile intermittente delle stesso sforzo comune. Parlo di un concorso più ampio: parlo degli scrittori, parlo dei professori, dei giornalisti, che accanto agli uomini politici hanno oggi la responsabilità di guidare le folle e di insegnare al popolo quello che la storia e le esperienze ci hanno fatto imparare. Ritornano ora moderne certe tendenze che parevano superate: gli impulsi dell’irrazionale, il permanere del sentimentale, il mito dell’Unione Sovietica, l’esaltazione della forza come unica fattrice di storia. Ricompaiono sulla piazza i catilinari che fanno appello alla piazza ed alle caserme contro il sistema rappresentativo. Credo in verità e voi che siete qui siete miei testimoni, credo che la diga che può resistere sia costituita dalla concezione spirituale della vita, la quale attingendo la morale dal Vangelo, alimenta la fiamma della fraternità sociale e difende così le libertà essenziali per salvaguardare soprattutto quella dello spirito. In questo senso, amici, noi ci sentiamo di essere uomini liberi e ci diciamo cristiani in quanto resistiamo al mito, all’utopia, perché abbiamo nel cuore una più alta e più eterna speranza. Ma sappiamo che ci possono essere alleati anche tutti coloro che in nome della libertà si alimentano alle due grandi tradizioni del Risorgimento, quella di Cavour e quella di Mazzini e con maggiore evidenza voi socialisti, che credete che il socialismo debba essere, possa essere conciliabile con la democrazia e con la libera e dignitosa personalità umana. E perché l’idea di libertà dovrebbe essere dissociata dall’idea nazionale mentre fu per tanto tempo della nostra storia congiunta? Perché nazionale dovrebbe essere il contrario di democratico? Dimostrano veramente un alto senso di responsabilità coloro che rinunciano a riaffermare i propri particolari sentimenti onde non disperdere voti in una battaglia che è ingaggiata contro il tentativo di sovvertire totalmente il nostro regime politico sociale. La democrazia però deve saper correggere i suoi difetti. Bisogna lavorare lealmente nel Parlamento per renderlo sicuro, fattivo palladio del regime libero, del regime democratico. Certi deputati del Msi ricevono l’istruzione di parlare al Parlamento, al paese, servendosi di Montecitorio, non servendo il Parlamento nelle Commissioni e nell’Aula. Certo un popolo è già in grado di valutarli dalla loro stessa stampa e non occorre che io aggiunga che in realtà anche la parola d’ordine dei comunisti è servirsi del Parlamento per l’agitazione finchè verrà il momento che ricorrendo alla forza e alle milizie delle piazze il Parlamento potrà essere rovesciato. Senza dubbio noi dobbiamo correggere, rettificare, disciplinare la democrazia parlamentare. E ricordarsi che lo stesso Parlamento che già nel ’20-21 a Giolitti e a Bonomi negò la delega per la riforma amministrativa, subì poi vergognosamente la dittatura in silenzio. Il che vuol dire che non tutti coloro che gridano alla salvaguardia delle libertà, prerogativa del Parlamento, in realtà fanno eccesso di critica della funzione della Camera stessa. L’on. Nenni non so se ripeterà anche qui quello che ha detto a Milano, cioè ha accusato il governo presente di permettere che nel paese si manifestino certi fenomeni di aggregazione ed ha parlato dei tentativi di sciopero di magistrati e di alti funzionari . Io gli risponderò ricordando un piccolo episodio di questi giorni: trovandomi a Brindisi gli operai portuali con il loro capo sono venuti ad offrirmi un omaggio di fiori dichiarando di essere orgogliosi di essere stati i primi, nonostante gli ordini avuti dai bolscevichi, a trasportare il materiale del «Patto atlantico». Ed io, dinanzi a loro, i quali vantavano che a Brindisi da parecchio tempo mai si era fatto uno sciopero, dinanzi a loro dissi che conveniva metterli all’ordine del giorno della nazione perché altre classi più colte imparassero lo spirito di sacrificio che esige la disciplina nazionale. Conviene, quindi, per salvare la democrazia e il regime libero, disciplinare anche la legge sindacale, disciplinare l’organizzazione dei sindacati e limitare l’esercizio del diritto di sciopero per tutti coloro che sono organi esecutivi dello Stato. Se non si ha il coraggio di farlo noi, verrà un giorno il Soviet e lo farà il governo comunista. Infine, senza dubbio – e su questo bisogna insistere – dobbiamo riconoscere che l’amministrazione nostra è invecchiata, che le leggi dal ’65 in qua, che vigono ancora per il sistema amministrativo, non possono durare e che bisogna cambiarle. Dobbiamo dire che gli studi che abbiamo fatto, l’esame della questione dettagliata dimostrano che le difficoltà sono molto maggiori di quello che si pensasse e che bisogna cambiare molte leggi prima che veramente si possa ottenere uno strumento esecutivo rapido e sicuro. Amici miei, oggi non è più possibile vivere separati, né voi a Torino siete separati dal destino del resto d’Italia, né l’Italia può essere separata dal destino dell’Europa e del mondo. Oggi le comunicazioni sono rapide, tutto diventa nostro e tutto il nostro diventa loro e di tutti. Oggi si può parlare veramente di una vita corale dell’umanità e quando morì Napoleone a Sant’Elena due mesi dovettero passare prima che la voce della notizia arrivasse all’orecchio di Alessandro Manzoni che scrisse il famoso Cinque Maggio . Oggi le comunicazioni sono rapide e nella notte la notizia viaggia da un Continente all’altro. Voi avete visto che l’affare coreano che sembrava lontano è oggi invece vicino. Siamo costretti a seguire con interesse le sue vicende e soprattutto le sue possibili conseguenze. Ora non è possibile essere soli. E quando i missini mi dicono: noi siamo contro il Patto atlantico però siamo per la difesa del paese, mi domando: dove prenderemmo i mezzi per difenderci noi se la Svizzera che ha 4 milioni e 700 mila abitanti già ha votato 220 miliardi per il suo esercito che è niente in confronto con quello che noi abbiamo bisogno per difendere le nostre frontiere orientali e soprattutto per difenderci lungo il mare e dall’aria. Noi abbiamo bisogno degli Alleati e quando dobbiamo scegliere la compagnia in pace, sempre in pace, e nella deprecata ipotesi di conflitto per difenderci allora dobbiamo tener conto delle condizioni permanenti dell’Italia. Noi non abbiamo che pochissime materie prime, non abbiamo grano abbastanza, non abbiamo carbone, non abbiamo petrolio, non abbiamo metalli in quantità sufficiente. Tutto deve venire di là dai mari. Come faremmo se non avessimo amici coloro che posseggono il dominio dei mari? Dobbiamo cercare il commercio dappertutto, anche con i paesi orientali; ma il più essenziale commercio ci deriva dal mare. Il Patto atlantico è dunque un patto di difesa e risponde certo al concetto democratico e agli istituti liberi che ci legano con gli Stati occidentali e democratici; ma corrisponde anche alle necessità geo-politiche dell’Italia. Togliatti ha detto a Torino che noi facciamo una politica asservita all’imperialismo straniero . Eppure non è vero: noi abbiamo semplicemente degli incontri, dei contatti, delle discussioni con gli americani. È vero anche che tutto il contributo della nostra politica internazionale è diretto a sorreggere, a creare, a ricreare l’Europa, l’unità europea, l’unità soprattutto negli Stati socialisti e democratici cristiani, gli Stati insomma democratici per eccellenza che collaborano con il nostro programma, in ogni settore, specialmente in quello dell’Europa unita e in vari settori economici. Questo fu il nostro programma nell’incontro di S. Margherita con i francesi; e se l’unione doganale non è ancora perfezionata, essa non è compromessa ed intanto furono ottenuti i risultati che l’unione doganale preconizzava. L’esportazione in Francia, da 6 miliardi del 1947 è salita a 72 miliardi nel ’50; l’importazione dalla Francia in Italia da 7 miliardi nel ’47 è salita a 57 miliardi nel ’50. Nel 1938 eravamo al 14° posto fra coloro che commerciavano con la Francia. Oggi l’Italia è al 5° e al 1° fra i fornitori europei. Parigi ci ha concesso aiuti per rimetterci in circolazione nei convegni diplomatici, nelle conferenze internazionali. Ed alla Francia e all’appoggio che noi abbiamo ottenuto a Londra al convegno del marzo dobbiamo anche non solo la ripresa delle tradizioni con i francesi e con gli inglesi, secondo un passato che ha servito a mantenere la pace in Europa ma dobbiamo anche se abbiamo ottenuto la rappresentanza nel Comitato mondiale delle materie prime ed in altri comitati centrali ove l’Italia assieme con i diplomatici di queste due nazioni è rappresentata. E tutto il lavoro del piano Schumann, del Consiglio d’Europa, dimostra che l’Italia è dignitosa e consapevole dei suoi limiti ma anche della sua forza. E il discorso che faremo prossimamente, nei prossimi giorni, con Adenauer , cancelliere tedesco, dimostra che l’Italia nuova, la nuova Italia come disse Bidault quando passò qui a Roma, la nuova Italia democratica si allinea con le potenze libere, si allinea e riprende forza. Questa è la gloria del nostro paese e dei nostri sforzi. Questi giovanotti del Msi si meravigliano dopo le dolorose vicende della guerra in Africa, che noi non siamo stati capaci con le discussioni di riguadagnare quello che sui campi di battaglia è stato perduto e ci accusano di aver perduto le colonie. Ma io dico che, posto che una disgraziata sconfitta c’era stata, noi abbiamo ottenuto già a sufficienza, primo, di rimanere in Somalia e di avere con ciò il piede in Africa per tutte le questioni ed i futuri sviluppi che i problemi africani avranno; secondo, di diventare un elemento costruttivo, assieme agli Stati nuovi indipendenti perché ormai vedete come è il movimento e l’evoluzione: i paesi che prima si accontentavano di essere colonie oggi vogliono essere Stati e se noi vogliamo penetrare in questi Stati e lo stiamo facendo, è la forza del lavoro, la stabilità del commercio, il genio italiano che ci creerà una strada senza uso di armi, senza nuovi conflitti e noi avremo mezzo di essere amici di questi Stati senza mancare agli impegni verso le potenze anglo-francesi e di conseguenza essere amici dei nuovi Stati arabi. Sia pure dunque che la guerra ci costò delle perdite lacrimevoli, delle perdite dolorose, ma il mondo non cambia, l’italiano e la sua tempra è salvo, il suo lavoro e la sua energia ed allora con il concorso della comunità italiana rimasta sul luogo sappiamo ormai ed abbiamo un programma e facciamo ogni sforzo per uno sviluppo che rispettando l’indipendenza, contemporaneamente apra a noi le vie del lavoro e dell’emigrazione. Togliatti ha detto: vedrete che De Gasperi a Torino non parlerà di Trieste; e perché no? Io ricordo due manifestazioni e le metto una accanto all’altra perché voi giudichiate quale vi piace di più. La prima è il discorso di Bidault, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri francese a Torino, il 20 marzo 1948 , quando discorrendo della questione di Trieste concluse che secondo la Francia la soluzione del problema di Trieste non può essere che il ritorno puro e semplice di tutto il Territorio libero all’Italia. Intanto Togliatti, e questo davvero credo che non andrà a dirlo a Gorizia, intanto Togliatti nell’autunno del ’46 aveva fatto quella specie di intervista e di patto di assaggio con l’allora suo intimo amico ed oggi riconosciuto traditore Tito per lo scambio di Gorizia con Trieste . Questo è il primo discorso, la prima manifestazione di pensiero che vi ho citato. Adesso ve ne ricordo un’altra. Quando a Parigi, alla conferenza conclusiva della pace, tentai di persuadere i 4 alleati che commettevano un enorme sproposito creando un Territorio libero in cui non c’era padrone, in cui non c’era pane a sufficienza, in cui c’erano diritti, diritti, diritti ma c’erano i contrasti fra slavi ed italiani in modo che non sarebbe stato vitale questo Stato, quando tentai di persuadere che almeno si aspettasse un anno, ci si ripensasse a trovare una soluzione migliore, allora chi si alzò e fece un discorso che è amaro ricordare? Molotov. Non fischiate, perché Molotov è russo e dal suo punto di vista faceva bene, quello che fa male è Togliatti che è italiano e parla come se fosse russo. Adesso sentite quello che mi rispose Molotov il 13 agosto 1946 alla Conferenza di Parigi: si alzò e rimproverò l’oratore degli italiani, cioè l’on. De Gasperi, di avere usato un linguaggio imperialistico, incapace di una politica democratica nuova. Eppure avevo dimostrato che noi avevamo già ceduto su due trincee gran parte dell’Istria, che si trattava di salvare ciò che era veramente italiano, città come Pola. E Molotov mi rispondeva: badate, sentite la gravità di questa proposta. Sentite quello che disse, è storia, si può ascoltare da tutti senza fischiare e senza applaudire: «la penisola istriana e la città di Trieste non hanno mai appartenuto all’Italia prima della prima guerra mondiale e a titolo di partecipazione al bottino vennero all’Italia cedute dopo il crollo dell’Impero austro-ungarico, benché in maggioranza fossero abitate dagli slavi». Dunque, a me, che domandavo in fondo gli italiani per l’Italia, solo la città italiana e solo le piccole città italiane, che rinunciavo agli altri territori che venivano contestati – e si diceva secondo le statistiche che fossero slavi – e a me che rappresentavo quindi veramente l’essenza di una democrazia nazionale, che non avevo altra meta che di avere il proprio, non di comandare, non di imperare, non l’imperialismo dunque, il rappresentante russo mi rispondeva che questo è imperialismo e che Trieste non ha mai appartenuto al regno d’Italia finchè non è venuto il crollo della Monarchia austro-ungarica. Ma chi l’ha detto che Trieste appartenesse allo Stato italiano? Ma Trieste apparteneva alla nazione, alla famiglia italiana, è sempre appartenuta alla nazione italiana… Amici miei, è ora che io concluda e mi rincresce di non aver potuto cominciare dalla fine perché adesso vedo che non piove più. Mi auguro e questo augurio vorrei che venisse espresso in tutte le città d’Italia e si sentisse, si manifestasse, si comunicasse in tutte le capitali del mondo, mi auguro sinceramente come presidente del Consiglio italiano, come rappresentante delle aspirazioni profonde del popolo, mi auguro che i negoziati che si stanno facendo fra le 4 potenze non falliscano, che la Russia risponda, che si accettasse di discutere sopra tutti i problemi, in modo che ne provenga una distensione. Mi auguro soprattutto che i nostri amici comunisti, invece di mandare intorno le colombe per l’Italia, dove non ce ne è bisogno, perché qui siamo tutti per la pace, le mandino invece in Corea affinché persuadano i comunisti a finirla con quella guerra. Ed occorre che l’Europa si ritrovi solidale ai paesi liberi nella difesa della pace, nell’aspirazione della pace, nello sforzo della pace e nell’organizzazione della sicurezza e che la democrazia francese – scusate un augurio particolare poiché anche là si incominceranno tra poco le elezioni politiche – mi auguro che la democrazia francese, difendendo la libertà ed il regime libero, si associ a tutti coloro che confidano nel trionfo della civiltà: l’Italia, lo posso dire a vostro nome popolo torinese, l’Italia non verrà meno alla sua missione europea ed alla universalistica missione a cui la chiamano la sua storia e la sua tradizione cristiana. |
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| La lotta è stata impegnativa e su moltissimi punti ha dato alla democrazia una vittoria mirabile, su alcuni altri ha portato chiarificazione e distensione di responsabilità. Chi si balocca con nostalgiche rivendicazioni, si lascia sfuggire il presente e si compromette irreparabilmente l’avvenire. «Nazionale» significa rappresentare, in un certo momento della storia, le esigenze imprescindibili della vitalità del paese. La Democrazia cristiana, difendendo la libertà e lo sviluppo sociale del popolo italiano, consolida e garantisce la fede nel nostro destino nazionale. Essa non è tutta la democrazia, ma chi si accanisce contro la Democrazia cristiana mette in pericolo nazione e democrazia. Questa è una verità che pochi avversari ammetteranno esplicitamente, non lo dicono, ma lo credono, e oggi che la Democrazia cristiana, attaccata su tutti i fronti, ha costituito il centro basilare, granitico su cui si appoggia la resistenza democratica, gli italiani sentono più che mai che la funzione sociale che essa esercita è indispensabile, insostituibile e nazionale nella sua tempestività e nella sua concretezza. |
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| Dica agli amici di Torino che sento l’orgoglio di aver contribuito sia pure in piccola parte a questo loro mirabile successo, opera della loro fede nei nostri ideali, del loro coraggio in confronto degli avversari, della loro lealtà verso i loro alleati. Tutti hanno sentito quale linguaggio io tenni, linguaggio che fu il nostro e di noi tutti, durante la campagna nessun esclusivismo, nessuna tendenza monopolizzatrice, ma porta aperta verso tutti i democratici. Onde anche oggi le mie felicitazioni si rivolgono a tutti i torinesi, che hanno ottenuto la vittoria in nome della libertà e del progresso sociale. Ma ora che la meta è raggiunta con lo strumento di una legge che favorisce l’autonomia dei partiti, pur rendendo loro possibile uno sforzo comune, sia lecito rilevare che il nucleo centrale e necessario dello schieramento democratico è, e rimane, la Democrazia cristiana. Essa potrà venire accresciuta o diminuita per afflusso o deflusso di aderenti occasionali, ma nella sua parte nucleare eventuali erosioni periferiche la potrebbero bensì intaccare, ma mai sostituire con una forza altrettanto coesiva e propulsiva. La sua funzione storica è quella di un centro di resistenza e ad un tempo di dinamica sociale, centro che si fonda sui valori spirituali e morali che appartengono alla coscienza del popolo italiano e al patrimonio della sua tradizione. Per questo la Democrazia cristiana è un partito essenzialmente nazionale ed è logico che la sua rinnovata affermazione si compia a Torino, culla gloriosa del Risorgimento e delle speranze d’Italia. Oggi che risplende il sole della vittoria, vi ripeto, come l’altra sera quando cadeva la pioggia: avanti, Torino! |
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| Fa sempre pena vedere come Pietro Nenni abbia ridotto l’Avanti! ad organo del Cominform. È vero che egli si è ormai acquistato di fronte al Cremlino il titolo di demolitore del socialismo italiano, cioè di demolitore dall’interno di qualcosa che è assai più che la tradizione d’un giornale. Un titolo di benemerenze, notare bene, che può vantarsi di essere il solo ad essersi procacciato nell’Europa libera. Non esiste infatti, si sa bene, un solo capo socialista in Francia o in Germania, in Inghilterra o nel Belgio che come lui sia riuscito a ripetere l’impresa notturna del cavallo di Troia, se pure, in quei paesi, s’è trovato qualcuno disposto a tentarla, ciò che non risulta. È stata, infatti, una disgrazia italiana. Fa sempre pena, dicevamo, vedere come l’Avanti! serva fedelmente (ma si può parlare di fedeltà del cavallo di Troia?) le tesi del Cominform in tutto e per tutto, con le sole trasparenti variazioni della tattica. Viene a Roma il cancelliere Adenauer. È democristiano e quindi l’Avanti! deve dire di questa visita, come faceva ieri, tutto il male possibile mettendoci anche qualche inutile cattiveria. Ma, notare anche questo, se il cancelliere fosse anziché un democristiano, il capo dell’altro grande partito tedesco, quello socialista, l’Avanti! dovrebbe dirne peste ugualmente . Il giornale conosce ormai bene il repertorio degli argomenti cominformisti, non solo quelli contro i partiti democristiani, ma anche quelli contro i partiti socialisti, o radicali, o altri; tutti meno, s’intende, quelli comunisti. Si fa più presto a dire che conosce ed adopera le tesi comuniste contro tutti i partiti esistenti nell’Europa non soggetta all’URSS. L’Avanti! serve, infatti, il comunismo; per essere precisi, quello stalinista. Lo serve non soltanto per quanto riguarda il Patto atlantico, ma anche per quanto concerne la difesa dell’Europa, la posizione dell’Italia, tutto. Non sappiamo se sia di Nenni l’articolo dell’Avanti! al quale ci riferiamo, dal lungo titolo ironico Adenauer si congratulerà con De Gasperi perché le sinistre del 1951 sono più forti del ’22; vi si leggono a proposito della visita di Adenauer le solite tesi sovietiche circa l’imperialismo americano, le mene del Vaticano e le minacce all’Unione Sovietica. Suo è certo lo spirito sempre così astiosamente anticlericale (non vorremo dire anticattolico), la sua malcelata sostanza rivoluzionaria. Spirito e sostanza caratteristici di questo unico, anomalo esemplare di capo d’un troncone di partito di denominazione socialista che avversa tutto ciò che avversano i comunisti, vuole tutto ciò che essi vogliono, e niente di tutto ciò che si fa senza di loro. La sua anomala posizione lo costringe, come si vede bene anche da codesto articolo (se ne è lui l’autore), ad avversare ogni e qualsiasi forma di avvicinamento anglo-tedesco, di collaborazione in Europa fra cattolici e socialdemocratici e finanche ogni intesa occidentale europea, forse, temiamo, perché s’è ridotto a non credere altro che nell’ordine nuovo che i carri armati sovietici formerebbero, come un tappeto, se dilagassero in occidente; né si capisce bene se quell’ordine nuovo nel fondo del suo animo lo paventi più di quanto lo speri, o paventandolo lo speri, o sperandolo lo paventi. E sempre, per il tormento di questa «finzione», egli è indotto ad arzigogolare come fa anche in codesto articolo presentando stranissime interpretazioni del Piano Schuman e di un immaginario ritardo d’un anno e mezzo nella visita di Adenauer. Nelle quali elucubrazioni non lo seguiremo, anche perché non è facile farlo. Piuttosto, per chiudere questo sfogo, non vogliamo lasciare senza rettifica un richiamo storico che è nell’ultima parte dell’articolo dell’Avanti!. Gli esponenti del Ppi che nel 1921 fecero un giro in Germania per una iniziativa di conciliazione che essi intrapresero dopo la guerra, erano don Sturzo, De Gasperi, Jacini e Ruffo , e fu in quell’occasione che incontrarono il dr. Adenauer, allora borgomastro di Colonia. Ma quello che volevamo precisare è questo: certo, allora in Germania, in Italia o altrove il pericolo comunista non era quello di oggi, perché non c’era la potenza militare sovietica; e in quella Germania convulsa d’allora il movimento «spartachista» fu piuttosto anarcoide. Ma a fronteggiarlo fu un governo di coalizione composto del Centro cattolico, dei liberali e dei socialisti. E questi erano veri socialisti e non fusionisti. Erano ben distinti dai comunisti. E nessuno di loro era guidato da un capo camuffato. Nessuno di loro, pensiamo, avrebbe creduto ad un cavallo di Troia trovato, al mattino, dentro le mura della città che era il loro Partito socialista. |
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| Riepiloga i modi della discussione, come tracciati da Gonella ; ed invita gli oratori a distinguere bene argomento da argomento, onde giungere a risultati conclusivi. Discussione serrata, ma profonda, meditata ed organica. […] Sollecita gli oratori ad approfondire meglio i punti dello schema di discussione Gonella, specie quello che riguarda il comunismo e quello relativo al problema sindacale. Parlare ex professo sui singoli settori. […] Il divieto di sciopero riguarda solo i pubblici dipendenti, perché solo nel loro caso è in ballo la sovranità dello Stato. Più che delle disquisizioni teoretiche, bisogna tener conto della realtà politica. Se lo Stato è carente su questo terreno, sia sicuro Romani che in Francia ci penserà De Gaulle e in Italia qualcun altro. Questa è la realtà. Niente è più grave di quello di non far niente, lasciando apparire lo Stato come inerte di fronte alle ribellioni dei suoi dipendenti. […] Legge un o.d.g. conclusivo della giornata d’oggi, a firma Montini e Dall’Oglio, od.g. che saluta il successo della Dc nelle recenti amministrative. [Dopo l’approvazione dell’ordine del giorno, il presidente del Consiglio interviene nuovamente nella a seduta antimeridiana del 30 giugno 1951]. Annunzia che è imminente l’armistizio in Corea; tener conto che i comunisti sfrutteranno l’avvenimento. Propone e legge una risoluzione del C.[onsiglio] n.[azionale] sull’argomento, nella quale ci si rallegra dell’avvenimento e si auspica una giusta pace. (Il C.[onsiglio] n.[azionale] approva all’unanimità la risoluzione). [Segue, dopo alcuni interventi, un duro attacco rivolto da Antonio Jannotta alla sinistra dossettiana , che determina l’uscita dall’Aula di Amintore Fanfani e la replica di De Gasperi]. Dispiace a lui che alcune parole accese abbiano determinato un urto, quando invece si vogliono comporre le differenze. È ingenuo pensare come ha fatto Jannotta che gli estromessi dalla Direzione vadano a finire nel governo. La crisi, se ci sarà, è un fatto parlamentare. Il C.[onsiglio] n.[azionale] può dare suggerimenti, ma non può imporre cambiamenti automatici nel governo. Invita a parlare i due capi gruppo parlamentari. [De Gasperi interviene nuovamente nella seduta pomeridiana del 30 giugno 1951, in relazione alla disputa tra Armando Sabatini e Mario Romani sulla regolamentazione del diritto di sciopero] . Siamo in regime democratico e ha visto con piacere che Sabatini dissente da Romani. I sindacati lascino il Parlamento libero di decidere e portino il contributo dei loro lumi. Ma la Cisl non deve affiancarsi alla Cgil perché così abbandona il terreno democratico. I liberi sindacati dicano in Parlamento il loro pensiero, portino alla legge i loro emendamenti, ma non debbono ricorrere all’arma dello sciopero generale. […] Oggi sciogliendo il comunismo, non si farebbe altro che indurlo a mimetizzarsi nella Cgil; lo stesso potrebbe fare il Msi con la sua Cisnal se noi lo sciogliessimo. Chiede ai cons.[iglieri] naz.[ionali] tutti i suggerimenti possibili sull’argomento della difesa contro gli estremismi. Denuncia il «memorialismo» attuale in atto sui settimanali a rotocalco che fanno di nuovo la storia del fascismo. [Nella seduta antimeridiana del 1° luglio 1951, il presidente del Consiglio replica alla proposta di Francesco Santoro Passarelli di «soprassedere alla legge sindacale, anche se essa segue lo schema costituzionale, per evitare l’assassinio del Sindacato libero», come «si è ritenuto necessario ritardare l’attuazione statutaria delle autonomie regionali»]. Difficoltà di arrivare alla soluzione Santoro. La Costituzione è stata fatta in periodo di Sindacato unico. Il governo non può sottrarsi alla Costituzione. Se mai la Camera dovrebbe prenderne l’iniziativa; a parte il fatto che egli ritiene che lo Stato non può sempre mettere il polverino su ciò che i Sindacati hanno fatto. La tendenza a dare maggiore respiro al Sindacato libero è giusta; ma non tiene conto delle irresponsabilità di capovolgere la maggioranza attuale del Sindacato comunista. Come si fa a mettere da parte la proporzionalità della legge? Lasciateci presentare il progetto com’è, accettando il male minore. [Nella successiva seduta pomeridiana del 1° luglio 1951, il presidente del Consiglio replica alle accuse formulate da Giuseppe Lazzati contro i partiti minori della coalizione e contro la tolleranza dimostrata verso di essi]. Dice a Lazzati che egli e Gonella sono stati a provocare la discussione sul governo. Non è loro colpa se non tutti hanno raccolto l’invito. Si parli sul governo, ma per temi specifici, perché egli non può ammettere che i suoi colleghi al governo siano messi indiscriminatamente sul banco degli imputati. Protesta contro questo «balcanismo». [Il presidente del Consiglio interviene nuovamente nella seduta antimeridiana del 2 luglio 1951]. Dice che stasera parlerà verso le 19,30. Dà atto agli oratori di oggi della loro concretezza. Ha capito che si desidera un rinnovamento; ma occorre tener conto delle competenze dei gruppi e dei rapporti coi «parenti». Il C.[onsiglio] n.[azionale] deleghi la Direzione ad interpretare, negli sviluppi degli avvenimenti, il pensiero del C.[onsiglio] n.[azionale]. In quanto alla sostanza delle cose, non c’è in lui nessuna difficoltà a trattare sulle cose del governo, ma non bisogna andare oltre le procedure parlamentari. A lui pare che l’importante sia questo: che il C.[onsiglio] n.[azionale] dia le direttive più precise possibili e che poi l’attuazione sia affidata alla Direzione e ai gruppi. Questo è subordinato alla elezione di una Direzione efficiente e rappresentativa. [Il presidente del Consiglio interviene nuovamente nella seduta antimeridiana del 3 luglio 1951]. Dice che il problema della funzionalità parlamentare è accennato anche nell’o.d.g. generale di questo C.[onsiglio] n.[azionale]. Comunque ritiene che non si debba aver paura di rendere l’opinione pubblica edotta di queste cose. […] Propone di tornare sopra più tardi l’o.d.g. Avanzini; e passa alla discussione dell’o.d.g. per l’inserimento di ministri nella Direzione, anche a titolo deliberativo. […] Legge un o.d.g. Sala sulla designazione da parte del C.[onsiglio] n.[azionale] di ministri a partecipare alla Direzione come membri consultivi. […] Occorre tener conto dei motivi di opportunità, volta per volta. È la Direzione che deve vedere questa opportunità. Ciò non toglie che in Direzione ci possano essere due ministri a titolo consultivo, in funzione permanente di collegamento fra governo e partito. Concorda con Ravaioli sui nomi di Piccioni o Scelba; si trovi la forma per designarli. Propone che, quando si annuncerà l’elenco della Direzione eletta, sia precisato che Piccioni e Scelba partecipano in funzione consultiva permanente. (Dissensi). [Segue la replica di De Gasperi ad una breve interruzione di Palmiro Foresi, che «rileva che la scelta di Piccioni e Scelba è motivata dal fatto che sono stati segretari del partito]. La proposta di Foresi riguarda gli ex segretari; e fra cui c’è anche De Gasperi. Dunque De Gasperi, Piccioni e Scelba partecipino alla Direzione a titolo consultivo. Ma, visto che il C.[onsiglio] n.[azionale] è diviso su questo argomento, ritorna alla sua prima proposta di far apparire nell’elenco dei membri della Direzione eletti, anche i ministri che essa Direzione riterrà di chiamare a titolo consultivo. (Il C.[onsiglio] n.[azionale] decide di soprassedere per ora ad una decisione sull’argomento) . Legge un o.d.g. Dall’Oglio sulla esigenza di un doppio fronte totalitario. (Il C.[onsiglio] n.[azionale] decide di considerare questo ordine del giorno come specificativo di quello di ordine generale, che sarà successivamente discusso) . [Dopo un decisivo intervento del segretario politico sui temi delle elezioni e del comunismo, il presidente del Consiglio svolge la sua relazione finale]. Non ha preso nessun appunto di quello che s’è detto. Ma ha cercato di cogliere il senso di questa discussione. Risponderà alle questioni presentate anche senza rispondere direttamente. Conferma la sua buona volontà di prendere atto della buona volontà collettiva, in quanto sia espressione di aspirazioni oggettive e rispettabili. Rinuncia alla polemica diretta col discorso di Dossetti , perché ritiene che non porti a risultati pratici. Si è detto da tutti che siamo in un momento molto serio. Pensano tutti alla difficoltà del meccanismo che si deve far funzionare? Meccanismo ostruito dal sabotaggio dell’estrema sinistra e dall’inflazione legislativa. Questo malanno sarà aggravato dalla discussione sul prossimo rimpasto che assorbirà tutto luglio. Quando si pensa a questo, appare chiaro come la situazione politica è «sbarrata»; e l’opinione pubblica sta per perdere la pazienza. Quando comincia a venir meno la fiducia, si profila il pericolo della dittatura. E, come prima fatalità, si pone l’istanza dello scioglimento delle Camere. Diranno gli avversari: la Dc è in crisi, nuove elezioni. La crisi: è una fatica morale sensibile. Si scontentano le ambizioni oneste, si accentuano le opposizioni e tutto questo avviene nel frastuono generale. Di qui legittima è la risoluzione di chi deve affrontare la crisi. La scelta dei partiti e degli uomini è di tale difficoltà che quasi sempre le crisi non rappresentano un progresso. La crisi di 24 ore non esiste, a meno che non si sia dittatori. C’è una prassi complessa e difficile che è sempre ritardatrice della soluzione di una crisi. Fantasiosa la difficoltà formale proposta da Dossetti, per i «parenti». Abbiamo finora lottato affinché forze, guadagnate alla democrazia, non tornassero indietro. Ed ora vogliamo mettere in pericolo anche il restante diminuito margine di sicurezza? Non esiste il famoso «choc» psicologico. Certe situazioni non si cambiano per volontà di uomini. La situazione atlantica l’abbiamo accettata per garanzia di sicurezza. Ma è certo che certe connessioni di fatto in tempo di pace determinano necessariamente una diminuzione di libertà di movimento. Provate a considerare queste difficoltà e vedrete che vi sono delle condizioni fisse che non si superano con le sole nostre forze. Non crede di essere eccessivamente pessimista; è l’esperienza che gli fa vedere le cose nella loro bruta realtà. Si è chiesta una revisione del governo, in modo da rendere più incisiva l’attività del governo, specie sul piano economico. Questa richiesta merita di essere accettata; non c’è da stabilire i limiti e le dimensioni di tale rinnovamento. C’è da stabilire se è possibile un ministero di coalizione. Egli è convinto della superiorità di un governo omogeneo; ma in linea di principio. In linea di fatto, le circostanze rendono necessaria ancora la coalizione democratica per allontanare la probabilità della conquista comunista. Se si accetta questo presupposto democratico a meno che non si voglia ricorrere a formule extra-legali, resta il problema di vedere come mantenerci gli alleati necessari a conservare il famoso «margine di sicurezza». Se questa coalizione non si può fare, dobbiamo fare un governo che chiuda fino alle prossime elezioni le porte ai «parenti»? Il problema è difficile ed è un problema di coscienza. E allora bisogna che il C.[onsiglio] n.[azionale] gli lasci un certo margine fiduciario per arrivare ad una soluzione possibile. Possibile ma affatto facile. Poiché il partito si esprime per la rapidità, egli non fa che accettarla, salvo il suo diritto di consultarsi coi gruppi e con la Direzione. Sono state fatte questioni personali; non bisogna dare a queste pubblicità, anche perché bisogna parlarne coi partiti coalizzabili. Circa la questione economica si richiama alla parte finale dell’esposizione di Pella. È augurabile che lo stabilizzarsi dei prezzi permetta di alleggerire gli attuali freni creditizi. Ci sono dei provvedimenti da fare su questa linea. Però bisogna procedere con grande cautela, giacché non si può mutare la linea generale della politica economica in quanto diretta ad impedire il rialzo dei prezzi e, quindi, ad evitare l’inflazione. Ricordatevi del 1947. Se ritorniamo alla crisi di allora, noi non abbiamo più la forza di ricreare la linea Einaudi di allora. Se è possibile avere in tale materia una certa larghezza, è necessario servirsi perciò di uomini che siano portati a negare ogni larghezza. Dossetti ha parlato di «trasudamento» di contrasti fra ministro e ministro. È vero: ciò proviene dalla spinta che ogni ministro ha di dimostrare la sua buona volontà. Ma il «trasudamento» è avvenuto anche in ordine alla questione del cosiddetto «coordinamento» dal C.[onsiglio] n.[azionale] auspicata. Tentativo onesto di superare difficoltà in linea pratica ma dimostratosi estremamente difficile. Anziché «coordinamento» l’ora impone «precisazione e distinzione di competenze». Il cercare in ogni modo l’accordo finisce col ritardare le soluzioni. In realtà il lavoro nostro è diventato improbo anche per i ministri. È questo che ha determinato il suo scatto nervoso dell’altra sera, del quale ha chiesto e chiede ammenda. Si deve fare uno sforzo per precisare il più possibile le responsabilità, anche se certe «materie miste» sono difficili ad essere selezionate. Al riguardo, sottolinea la difficoltà gravissima di regolamentare la Presidenza del Consiglio. Articoli tanti, ma l’attuazione [è] estremamente pesante. Abbiamo fatto la legge sui magistrati: speriamo di non farne una seconda, altrimenti la riforma burocratica ci si spezza in mano. Conviene sulla necessità di accentuare il «colore nazionale» della politica estera. Ma non bisogna correre il rischio di fare quel colore e poi dietro non trovare più niente. È un fatto che dopo una guerra andata male, il popolo se la prende coi liquidatori. Ci troviamo in una posizione difficile a tale riguardo. Ci si fa colpa del nostro bagaglio di anti-fascismo e si dimentica che solo gli antifascisti hanno potuto, a guerra perduta, rifare la Dc. Noi dobbiamo tirare fuori i vecchi dossiers e presentare chi sono questi signori che ora ci accusano di tradimento della patria. Credete sul serio che una legge sulla stampa, che dia la possibilità del sequestro possa passare? Allora si deve passare a delle disposizioni speciali; ma questa è una delle ragioni della nostra debolezza. Come si fa a superare le «ingenuità» della nostra Costituzione? Quando si parla dell’autorità del Governo credete voi che esso non la userebbe se lo potesse costituzionalmente? Non dimenticate che Scelba ha creato almeno un’armatura che ci difende da tentativi insurrezionali. L’anno scorso Scelba era un padreterno; oggi non va più bene, perché così dice la stampa «indipendente». Stampa «indipendente» che a sua volta offre elementi alle manovre giornalistiche delle estreme. Ciò detto conviene sulla necessità di accentuare il colore patriottico della nostra politica estera, pur senza arrivare al nazionalismo. Non è facile accentuare questo colore in rapporto alla situazione internazionale e alla solidarietà atlantica; è difficilissimo fare una politica «sonante», nei confronti del passato e coi legami del presente. Armamenti : una delle cose più gravi è la proporzione del peso che dobbiamo portare alla soluzione di tale problema. Il costo degli armamenti è oggi arrivato al di là del limite. Noi abbiamo degli impegni e degli interessi. Se si crede eliminato ogni pericolo di guerra e se si crede che gli armamenti alimentino il pericolo, da questi due punti di vista le critiche di Gronchi sarebbero accettabili. Ma se invece l’armamento è garanzia di pace, allora il discorso cambia. L’Italia ha interesse che la difesa si concreti sul proprio territorio o no? Se no, allora siamo vicini alla tesi di Nenni. Ma questo non lo crediamo e non lo crede Gronchi. Se nel piano strategico generale si dice che, di fronte alla minaccia russa, bisogna forzare sulle ali, allora, in tal caso, viene naturale la richiesta del passaggio di truppa sul nostro territorio. Circa le basi, non drammatizzare. Nel P.[atto] a.[tlantico] non sono previste le basi e non è previsto l’esercito integrato; ma non è escluso che si possa parlare di transito per i rifornimenti delle truppe alleate in Austria e Germania. Certo la questione delle basi non è di facile giustificazione psicologica per il governo; ma bisogna considerare il valore di difesa collettiva del P.[atto] a.[tlantico]. Il fatto del peso degli armamenti determina, nella situazione generale odierna, uno stato di disagio psicologico. Si può reagire anche di fronte a critiche della stessa stampa americana, ma il problema di fatto resta. Tener conto che Italia e USA sono due democrazie dove la libertà di critica è generale. Questo comporta una innegabile diminuzione delle nostre possibilità «gladiatorie» in tema di rivendicazioni nazionali; e ciò perché i fatti reali non sono superati. La collaborazione internazionale è un compito difficile, che va propagandato senza stanchezza e senza scetticismo. Se non facciamo questo, che cosa resta da dire ai giovani se non vogliamo ritornare alla propaganda fascista della guerra di conquista e della milizia imperialista? Questo ritorno non è possibile perché è stolto; e allora occorre fare uno sforzo per insufflare nei giovani l’ideale della continuità internazionale. Rompere le spire dello «scetticismo borghese», che partorisce fra i giovani il comunismo e il neofascismo. Egli non fa il profeta sul MSI; ma dice che bisogna fare uno sforzo per sottrarre i giovani al MSI; e questi giovani per venire a noi hanno bisogno di vederci compatti e fidenti. Con le critiche interne non possiamo guadagnare la gioventù. La gioventù non si conquista con la esasperazione dialettica della democrazia, con la «congestione» della democrazia. Poche idee chiare, ma realizzabili ci vogliono. È l’energia, è l’autorità che deve farsi valere. La troppa discussione isterilisce l’azione. Bisogna essere dei politici, non dei dialettici per vincere. Conclude dicendosi pronto ad ogni sacrificio, consista esso nel ritirarsi o nel servire ancora il partito al governo. Ma nessuno pensi che si possano fare grandi colpi. Non dite ciò, perché così dicendo dimostrerete di non aver valutato le difficoltà dell’allora. Egli soffre fisicamente dei dissidi interni. Per andare avanti ha bisogno di sentirsi confortato nella sua opera. C’è bisogno di ossigeno per ciò e anche per dare slancio alle nuove generazioni. Il partito più che milizia è spirito di sacrificio; se questo spirito manca, manca la molla costruttiva. Occorre subordinare le proprie idee personali all’apostolato supremo della difesa della libertà politica e della libertà religiosa. Di fronte a questa esigenza primaria occorre sacrificare, se necessario, le nostre visioni particolari. Perché non trovare ancora in noi la volontà di riportare il partito ad uno spirito di unità realizzatrice? Non nega le tendenze; ma è possibile che queste non siano capaci di costringersi in una concordia discors, coagulatrice delle nostre capacità di avanzamento? Guardate i comunisti come riescono a dominare i loro dissensi per combattere insieme con messianico fanatismo. Se avete fiducia in me, io non esiterò a mettermi sulla buona strada di fare. Ma se questo faccio, fatelo anche voi. Mettetevi d’accordo. Sarebbe grave se si fosse al principio di ulteriori deviazioni. Se Gonella, che ringrazia per l’animo che ha posto nel suo servizio a pro del partito, sarà, come sarà, ancora il segretario politico, stringetevi attorno a lui in questo tempo, in cui occorre fare lo sforzo massimo per salvare la democrazia. Caro Dossetti, se non saremo uniti saremo travolti tutti dalla stessa valanga. Il mio appello non è per la questione formale della Direzione; è l’appello alla volontà unitaria di tutto il partito , volontà unitaria che è la sola condizione per salvare la libertà . [Al termine della sua relazione, il presidente del Consiglio interviene nella seduta notturna del 3 luglio 1951 dopo la lettura del seguente comunicato del segretario politico: «il Consiglio nazionale ha invitato stamane la Direzione a riesaminare la situazione interna. La Direzione si è riunita, e mi ha incaricato di esprimervi la sua gratitudine. In seguito ad esame, la Direzione ha constatato, all’unanimità, la possibilità di assicurare un lavoro stabile e proficuo. Perciò la Direzione ritiene che cadono le ragioni per le quali aveva dato le dimissioni»]. Fa voti affinché questa concordia che è nelle intenzioni si concreti nei fatti e che la fiducia di tutti si riaffermi intorno al segretario del partito. [Giuseppe Rapelli domanda se la Direzione uscente è stata riconfermata attraverso un esplicito voto del Consiglio nazionale]. Non cavilliamo. Il C.[onsiglio] n.[azionale], facendo l’invito , si è rimesso alle decisioni della Direzione. Quindi non gli resta che ratificare o meglio prendere atto che la Direzione rimanga. [Segue una nuova interruzione di Rapelli, «convinto che questa soluzione, pur se dettata da necessità, potrà essere accolta in modo vario e discordante dai gruppi parlamentari» e «ciò anche per gli aspetti connessi alla sistemazione del governo»]. Il monito di Rapelli cade se si pensa che io non mi sono rifiutato di portare serie modifiche all’attuale governo. Del resto l’ordine del giorno conclusivo dei presenti lavori precisa questa esigenza ed è tale da calmare le preoccupazioni di Rapelli nei confronti del gruppo. Legge poi l’o.d.g. conclusivo dei lavori del C.[onsiglio] n.[azionale], dopo che questo ha approvato la dichiarazione Gonella sul ritiro delle dimissioni della Direzione . [Segue un’osservazione di Giulio Andreotti sulla parte dell’ordine del giorno conclusivo «che riguarda i “valori nazionali”»]. Rileva che l’o.d.g. non potrebbe essere più esplicito su questo punto. La condanna riguarda il fascismo e si evita di citare il Msi come tale. [Il segretario politico propone quindi «di togliere l’inciso; così si rafforza il punto che riguarda i “valori nazionali”. (Si concorda con Gonella)»]. Prosegue la lettura dell’o.d.g. conclusivo . (L’o.d.g. conclusivo è approvato salvo il voto contrario di Gronchi) . Legge un o.d.g. Gronchi che chiede che il Congresso del partito sia tenuto entro dicembre. Osserva che questa è materia direzionale. […] Due sono le proposte: una di Gronchi per la fissazione oggi del Congresso; ed una Tupini-Scelba per rimandare la questione ad altro C.[onsiglio] n.[azionale] . |
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| Scambio di idee, ricevute delle indicazioni – le risposte dei partiti minori – non dare la sensazione di provvisorietà – quadratura –. Non mi sono mai trovato in condizioni simili. Questa è una novità assoluta – difficoltà per tutti –, per me se si tendesse troppo la corda. Non cerca difficoltà – più facile per lui ritirarsi – ma non ha difficoltà a sobbarcarsi la fatica. Desidera però che le esigenze gli siano fatte conoscere attraverso gli organi direttivi, non con mandati imperativi, di ammettere se sia generale il desiderio di rimpasto. Negli aggettivi essere meno perentori: ampio, radicale, ecc. Anche l’altra volta si andò fatalmente alla crisi benché la partenza fosse diversa. Se c’è la volontà di dare ad altro uomo allora è giustificata la crisi ma altrimenti non si può andare avanti con mandati imperativi. Ma se devono essere cambiati uomini di primo piano si presenta una questione morale per lui e non potrebbe rimanere. Se si tiene in questi limiti si può fare il rimpasto – suggerimenti, o.d.g., indicazioni dei direttivi e direzioni dei partiti sono canali sufficienti ad evitare discussioni pubbliche sugli uomini. La situazione è più grave però. Il governo non è in crisi perché non gode più la fiducia dei gruppi parlamentari. Sono i gruppi che sono in crisi! Parliamo pure prima del governo, dirò che si chiede un profondo rinnovamento pur non desiderando un cambiamento del presidente. Far tabula rasa di tutte le eccezioni. Ma mi domando: se non c’è nessun impegno e nessuna disciplina come si può procedere sicuri [?]. È doveroso per parte sua accettare consigli anche al di là di quello che sia giusto. Ma dobbiamo credere che un nuovo governo trovi l’appoggio e la fiducia dei gruppi parlamentari? Attenti a Romita. Domani relazioni. Oggi non si può fare il grande rinnovamento, quindi la crisi. Allora qualcosa di ridotto: tutto il ministero? Parte del ministero, se preferite il secondo io sono disposto a farlo. Dite il vostro pensiero. […] Intendo sottopormi ad una particolare disciplina. Dico che questi 20 mesi sono la prova del fuoco per noi. Se i gruppi [hanno] disciplina per loro anch’io accetto con disciplina, perché oggi occorre vincere. Romita sostiene che i voti certamente li hanno avuti dagli operai accanto a Nenni voti borghesi. Pensare alle riforme elettorali. La trova molto difficile. [Segue l’intervento di Giuseppe Dossetti]. Si va al gruppo, si parla. Non parlano quelli che hanno molte cose da dire, si sfugge alle responsabilità. |
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| È noto l’o.d.g. del Consiglio nazionale, tuttavia lo rilegge nelle sue linee generali . Ad esso si richiama per sottolineare che la sua prima parte era di accertare se c’era una possibilità di collaborazione con le forze dei partiti democratici. Riassume le sue prese di contatto così: nessuno respinge pregiudizialmente la coll.[aborazione] salvo a concordarne le modalità (programma, dicasteri). Alla domanda: oggi? O se non oggi, quando? Tutti e due i partiti [hanno risposto] nonora per ragioni di carattere interno (unificazione, consolidamento ecc.) spec.[ialmente] il Part.[ito] soc.[ial] democr.[atico] che è legato a un prossimo Congresso. Chiesto ai due segretari del P(siis), non hanno escluso che il Congresso venga anticipato verso l’autunno . Quindi la possibilità di collaborazione oggi non c’è. Così il Pli ha bisogno di un nuovo Congresso. In conclusione [se] in q.[ue]s.[to] momento non c’è possibilità di collaborazione è lecito ritenere che il problema si ripresenti o nel tardo autunno o dopo il secondo gruppo delle amministrative. In questi colloqui si è ribadito dai due partiti che lo schieram.[ento] generico politico (apparentamento) non è mutato . Quindi nelle questioni fondam.[entali] la n.[o]s.[tra] maggioranza può essere rafforzata da un alone di consenso abbastanza sicuro. Qui sottolinea che al Senato la Dc non ha la maggior.[anza] assoluta e questa considerazione vale per giustificare per il partito il tentativo, fondato sui motivi di interesse del paese, della collaborazione con tutti i partiti democratici. E vale altresì per pensare alle future elezioni. Stando così le cose – per quanto riguarda la prima parte del suo compito – nelle attuali circostanze è inutile pensare a una coalizione (attraverso la crisi), quando non sussiste la ragione di una crisi generale. Appare impossibile di differire quei cambiamenti consigliati dalla 1) necessità di uscire dalla provvisorietà di alcuni incarichi dopo le dimiss.[ioni del] Psli e 2) dalla necessità di avere un gov.[erno] effic.[iente] per l’ultimo scorcio e 3) di provare nuove energie nei sottosegretari. Riassume le indicazioni circa i cambiamenti: 1)togliere la provvisorietà di alcuni incarichi post dimiss.[ioni] Psli; 2)aumentare la funzionalità del governo adeguandolo ai nuovi compiti dell’ultimo scorcio; 3)possibilità di scoprire e consolidare nuove energie (sottosegretari). Crede che la campagna elett.[orale] amm.[inistrativa] e le discussioni avvenute dopo hanno già impresso la gravità della situazione di quest’ultimo periodo. Noi come partito abbiamo interesse di pensare la nostra attività in q.[ue]s.[to] ultimo periodo e di compiere i provvedim.[enti] che sono in corso. Questo periodo, che sarà gravissimo e pieno di responsabilità nella prova che dovranno dare gli organi democratici di fronte al pericolo totalitario, darà la riprova se la democrazia resisterà. Democrazia che è di fresca data e non ancora costituita nel costume e disgregata dalla minaccia dei due totalitarismi, dalla diffic.[oltà] del lavoro parlamentare e conseguente svalutazione. È ora di dire che è in mano nostra di decidere se questa democrazia vincerà. (Applausi). In questo c’è l’accordo. Ma deve esserci anche una grande consapevolezza. Fa appello alla mobilitazione di tutte le forze partito, governo e Parlamento e prega di considerare per sommi capi quello che oggi abbiamo sul tavolo [del] governo e [del] Parlamento. Alle Camere 298 dis.[egni di] legge [governativi] in discussione, di cui 173 [alla] Camera e 125 [al] Senato; per non parlare delle 575 proposte di legge di iniziativa parlamentare. I più rilevanti: – dinanzi al Parlamento: Regioni, Tribunale supremo militare, Delega norme economiche, Finanza locale, repressione attiv.[ità] fascista, referendum, Corte cost.[ituzionale], riforma [del] C.[odice] p.[enale] per quanto riguarda le norme antisabotaggio; – leggi pronte al Con.[siglio dei] ministri: idrocarburi, petroli, acceleram. [ento] pensioni, ratifiche convenzioni, provvid[enza] profughi, ospedali comunali, previd.[enza] di carattere sociale; – leggi di elaborazione al Con.[siglio dei] ministri: ordinam.[ento della] Presid.[enza del] Cons.[iglio], controllo Enti sovvenzionati dallo Stato, legge sindacale, ecc. Tutto questo è oggetto di provvedim.[enti] già maturati. Altri vi sono come propositi, da maturare. Provvedim.[enti] per ridurre la disoccupazione, esecuzione della riforma agraria. Come il governo ha disposto la priorità [degli] investim.[enti] e utilizzo delle materie prime così spetta ai gruppi parlamentari preoccuparsi di realizzare il migliore funzionam.[ento] dell’attività parlamentare e creare un ordine di priorità delle leggi da portare a maturazione d’accordo con i futuri ministri. Bisogna arrivare al calendario dei lavori. Quanto alla presente situazione continuiamo a contare sulla collaborazione del gruppo repubbl.[icano] e sull’appoggio dei partiti democratici. Questa è la sua relazione. Su questo chiede l’assenso di fiducia che renda possibile questa operazione la cui difficoltà è evidente perché d’ora innanzi assai spesso dovremo fare da noi concentrando disciplina e compattezza. Il governo è a vostra disposizione per tutti i consigli che i gruppi vorranno manifestare. Egli riconosce la gravità della situazione che richiede da tutti sforzo di collaborazione e adattamento, perché è in gioco la esistenza del regime parlam.[entare] e del forte partito cattolico. Se non saremo uniti non vinceremo certo. (Applausi). [Seguono gli interventi dei due capi gruppo e del presidente della Camera dei deputati]. Gronchi ha messo la vera alternativa: l’o.d.g. non entra nel merito del rimpasto, decide sopra una delle due dichiarazioni da prendere . Egli era stato incaricato dal Cons.[iglio] naz.[ionale] di accertare se era possibile oggi di continuare una magg.[ioranza] del 18 aprile. Se questa possibilità ci fosse ci sarebbe la strada della crisi. Gronchi ha detto che consultando più largamente è impossibile influire per una consultazione a più larga base. La strada da lui presa era la più opportuna: saggiare senza avere deliberazioni formali che se negative avrebbero ripercussioni gravissime. È impossibile che quando i due segretari del P(siis) dicono che sono legati dal Congresso che non si può fare prima dell’autunno si vadano a consultare i gruppi all’interno del partito. Oggi queste vie non sono aperte. Posta in termini di crisi quali sono nel Parlamento attuale altre possibilità? Non esistono. Il quesito dunque è se le possibilità aperte sono due o se ce ne è una terza di rinnovo totale di direttiva di gabinetto. Egli non è un uomo buono a tout-faire né può accettare qualsiasi direttiva. Almeno sulla questione pregiudiziale non c’è ancora molto da discutere. Si è discusso, in vista del Cons.[iglio] naz.[iona]le, quanto alla direttiva generale. Si è discusso in Cons.[iglio] naz.[ionale] davanti a lui la attuazione di questo programma. Egli non preclude la possibilità di discutere sulle modalità del rimpasto che i gruppi indicheranno o direttamente o attraverso i direttivi. A De Martino C.[armine] osserva che è il Parlam.[ento] che deve dare l’approvazione al mandato da lui assolto. Altrimenti si distrugge il parlamentarismo che è fondato sul mandato di fiducia. Il suo esame lo ha portato alla conclusione che ha detto e non vede le possibilità viste da Gronchi . L’o.d.g. dice fate il rimpasto perché non v’è altra soluzione. Egli ha espresso le sue linee per il rimpasto che sono veramente ampie. Se egli lo ritenesse utile per il partito certo si ritirerebbe ma crede di poter essere ancora utile, proprio per q.[ue]s.[ta] inquietudine generale diffusa. Se questa è la strada da scegliere approvate l’o.d.g. e nei gruppi mi direte quello che avrete da dire ed egli cercherà di trarre una sintesi dai desideri non sempre combacianti che poi voi affronterete o no alla Camera. (Applausi). [L’on. Gronchi replica che non sono stati ancora consultati i gruppi parlamentari e l’organo esecutivo del Ps(siis)]. Interrompendo precisa i colloqui col P(siis) e la loro portata. Per accettare Gronchi dovrebbe dire aspettiamo allora per tutto a novembre. [L’on. Gronchi interviene nuovamente per collegare il problema alle elezioni amministrative nel Mezzogiorno: «per questo dovremmo aprire la consultazione più larga possibile»; riferisce poi sulle riserve espresse dall’on. Saragat a mutare la propria linea politica, nel caso in cui si presentasse «una situazione di emergenza per la difesa della democrazia»]. Ricorda che per natura è sempre stato incline alla coalizione. La dichiarazione di Saragat si riferisce a singoli problemi contingenti. Riporta l’opinione prevalente nel P(siis). Le elezioni non possono avvenire che nel tardo autunno. Se loro nel frattempo muteranno atteggiamento si potrà vedere. Quindi o non fare nulla o altrimenti bisogna fare il rimpasto per rendere il governo più efficiente . |
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| Due scritti apparsi di recente hanno riproposto il problema della collaborazione tra i partiti democratici. Pasquale Jannacone su La Stampa e Mario Ferrara su Il Corriere della Sera hanno voluto dedicare ancora un commento alla soluzione della crisi governativa, ricercare le ragioni dell’assenza dal nuovo gabinetto De Gasperi dei liberali e dei socialdemocratici, individuare come elemento auspicabile e necessario del rafforzamento del governo un rinnovato schieramento comune dei partiti democratici. Ci perdonino i lettori se anche noi, a breve distanza dal dibattito parlamentare concluso con il voto di fiducia , ci proviamo a riepilogare sinteticamente taluni fatti che hanno accompagnato l’apertura e lo svolgimento della crisi. Prima constatazione: nel Consiglio nazionale di Grottaferrata la Dc rilevò solamente e pubblicamente l’opportunità di una vasta coalizione dei partiti democratici per il consolidamento delle libere istituzioni . Seconda constatazione: prima ancora di accingersi alla revisione del suo ministero il presidente del Consiglio interrogò i segretari dei partiti minori sulle possibilità di una collaborazione, ma le loro risposte furono negative e motivate da ragioni interne di partito, concernenti i processi di unificazione e di chiarificazione in corso . Terza constatazione: quando l’on. De Gasperi ebbe il reincarico dal capo dello Stato, convocò i presidenti dei gruppi parlamentari dei partiti democratici. In questi incontri fu posta di nuovo la questione pregiudiziale della collaborazione, senza naturalmente affrontare la discussione di condizioni e di programmi. Ma, pregiudizialmente, i presidenti si richiamarono a deliberazioni dei loro partiti e gruppi o dilatorie o contrarie alla collaborazione. Anche questi incontri furono dunque infruttuosi e sembrò allora evidente che le polemiche e le contraddizioni interne dei partiti democratici costituissero una almeno delle cause della loro volontaria esclusione dal governo. Ancora una volta schierarsi all’opposizione riuscì più facile a uomini e correnti diverse, che associarsi all’azione responsabile della collaborazione. Del resto, la divergenza deipunti di vista e degli atteggiamenti potè essere constatata da tutti. Sono note le discussioni che portarono all’approvazione dell’o.d.g. del 20 luglio dei gruppi parlamentari socialdemocratici, che ebbe contraria una autorevole minoranza . Le divergenze interne del Partito liberale furono sottolineate dai suoi rappresentanti al Parlamento. Alle dichiarazioni di voto fatte a nome dei gruppi dal senatore Casati e dall’on. Cifaldi si affiancò infatti, a Montecitorio, una rosa di interventi che posero in evidenza una gamma di opinioni e di correnti. Mentre l’on. Giovannini concludeva il suo denso discorso auspicando «una discussione tra viandanti, che conmezzi diversi si incamminano verso una unica meta» , l’on. Cocco Ortu esordiva rimpiangendo il collegio uninominale, che consentiva a un deputato di sottrarsi alla disciplina del partito e l’on. Perrone Capano distingueva la sua posizione da quella del gruppo, dichiarando di parlare a nome della corrente «dei liberali di punta, definiti guastatori» . Mettiamo in rilievo queste circostanze, non per compiacercene, ma perché dovrebbero pur fornire qualche insegnamento ai troppo rigidi censori della Dc. Il precetto medice, cura te ipsum è valido per più di una partito politico. Il sen. Jannacone non ha dunque pienamente ragione di scrivere che la nuova formazione ministeriale è l’epilogo di internidissidi del partito di maggioranza. Ma c’è un altro punto del suo articolo che ci interessa. Il sen. Jannacone e la «dozzina» di senatori indipendenti a nome dei quali egli sembra parlare si astennero dal voto a Palazzo Madama . Ora se i parlamentari liberali e socialdemocratici ubbidivano ad una direttiva di partito, questi sono senatori di diritto o addirittura di nomina presidenziale, e combattono la partitocrazia, perché si rifiutano di assumere la responsabilità di un voto? Non si vede come questo atteggiamento sia in armonia con tutta l’impostazione dell’articolo di Jannacone che auspica un maggior accostamento tra il presidente del Consiglio e altre forze politiche che non siano unicamente quelle del suo partito! Ma soprattutto, non è il sistema migliore per convincere i parlamentari provenienti dai partiti a riconoscere la necessità di una riforma del Senato che dia ai tecnici, agli indipendenti, ai «misti», la possibilità di consolidare quello Stato dei cui interessi generali i partiti sarebbero scarsamente solleciti. Noi ci auguriamo che uomini eminenti, alcuni dei quali molto benemeriti del paese, comprendano che l’opinione pubblica seguirebbe con più viva adesione il loro atteggiamento se in esso vedesse espressa una maggiore preoccupazione per le sorti dello Stato democratico. Perché si tratta, appunto, della salvezza e del rafforzamento di questo Stato. È ora di concludere. Dinanzi a richieste di una più vasta coalizione democratica, non saremo noi, che l’abbiamo sempre voluta, ad avanzare obiezioni. Diciamo però che prima della collaborazione deve venire la chiarificazione. E poiché si auspica una collaborazione dei socialdemocratici e dei liberali, occorre che i due partiti fissino gli obiettivi, che a loro avviso, debbono essere perseguiti prima delle elezioni politiche. De Gasperi disse una volta che il governo non è un alveare col suo andirvieni di api che entrano ed escono a piacere. Crediamo che il paese condivida questa opinione. I due partiti democratici erano già al governo e ne sono usciti per ragioni che essi hanno considerato preminenti sulla collaborazione. Occorre che facciano conoscere quali sono i loro propositi per l’avvenire in modo chiaro e responsabile, in modo cioè che sia dato di valutare se può essere trovato il terreno di un’azione comune, leale, fiduciosa e durevole. Indebolire però nel frattempo l’attuale governo, presentandolo come provvisorio, formulare riserve sulla passata crisi quasi per impostarne un’altra, non è davvero opera costruttiva e che giovi al consolidamento democratico. In quanto ai nostri amici, apprendano dai nostri critici quale valore abbia la confermata compattezza e non dimentichino mai di valutare la complessità degli sforzi che il governo compie e dovrà compiere per risolvere i più gravi problemi che mai abbiano bussato alle porte della nostra vita nazionale. |
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| Pace o guerra? I comunisti ingenerano la convinzione che la Dc e i suoi amici portano alla guerra. Bisogna su questo argomento poter dare notizie esatte. Per questo ha affrontato il viaggio in America. Rientrando ha avuto la impressione più sgradevole della monotonia della propaganda comunista: rendere meno probabile una guerra. Non c’è nessuno che creda che la soluzione del grosso problema antibolscevico possa essere risolto con una guerra. Ha cercato di ingenerare la convinzione della sincerità delle intenzioni per potere continuare il discorso e influire nel discorso. Non c’è una forza in America che spinga decisamente alla guerra. La Provvidenza ci ha illuminato quando abbiamo preso la decisione di partecipare al P.[atto] a.[tlantico]. Non si vuole arrivare ad una struttura di pace da parte della Russia. Non si vuole liquidare la guerra. Qui è il pericolo. Vedere se ci sono Stati che hanno dei diritti da riprendere nella vita internazionale e prima ancora in quella interna, in Germania, in Austria, nel TLT. Ha la convinzione che Trieste si è difesa entrando nel P.[atto] a.[tlantico] (la Grecia, la Turchia e la Jugoslavia sarebbero entrate ugualmente). Se neutri, chi avrebbe difeso Trieste, senza l’aiuto americano economico, che cosa avremmo potuto fare? Se anche neutri non saremmo stati travolti? E allora non è meglio essere da una parte? Non si può escludere la eventualità di una guerra! Mancano notizie dalla Russia. C’è però una preparazione in atto. Passeranno ancora un paio d’anni prima che l’Europa abbia un esercito. Verso il 1952 un certo rischio si potrà correre quando la forza alleata sarà prevalente. Quale è la forza morale che può sviare la guerra?: solo l’Europa cioè una coalizione stretta dei paesi europei. Trovare una coesione che non può essere data che dalla lealtà. Stare nel P.[atto] a.[tlantico] con lealtà. Come influire? La Dc deve uscire dalla sua capsula e far sentire il suo spirito direttivo. T. [ruman] riconosce nel nostro spirito religioso la forza di resistenza e di propulsione direttiva in Europa della Dc. Conforto spirituale dato dal giudizio degli uomini di Stato con i quali parla delle [questioni] più disparate. Non c’è nessuna compromissione di carattere offensivo. Certo Livorno è un passaggio. Ha l’opinione della democrazia americana – da una parte [fare veloce] per costringere il Congresso a votare le leggi. C’è ma la maggior parte non vedono l’ora di liberarsi dalle tasse che l’opprimono. I sacrifici che fate rimetteranno in piedi l’Europa la quale poi farà da sé e libererà l’America dai suoi pesi attuali. Trieste? Piccola parte nello schieramento atlantico. L’Italia alle porte del movimento europeo. Lavorare per lo Stato cristiano ma non al di là di un deserto ma in questo tempo e nella condizione [in] cui ci troviamo . |
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| Due discorsi parlamentari, durante il dibattito di politica estera alla Camera, perfettamente paralleli, quello di Togliatti e quello di Nenni . Nenni e Togliatti, Togliatti e Nenni: la stessa sostanza, la stessa dialettica e, nella forma, qualche sfumatura diversa in Nenni, per apparire diverso, con un effetto, invece, di mancanza di chiarezza e di nebulosità diffusa. La stessa dialettica, e anche la stessa omissione, nella loro costruzione dialettica, dell’elemento fondamentale, del presupposto essenziale: nientemeno l’Unione Sovietica. Bene lo ha osservato ieri nel suo discorso Saragat , accennando al discorso di Nenni, [che] nel quadro che ha tracciato ha costantemente ignorato quella massiccia realtà che è l’URSS e così il quadro risulta tutto falsato. Si potrebbe aggiungere in tal modo che Nenni e Togliatti sembrano addirittura avere ragione. Ignorando l’URSS e le sue gesta postbelliche: l’asservimento completo dei paesi dell’Europa orientale fino al colpo di Stato in Cecoslovacchia, la guerra per procura in Grecia, l’assedio di Berlino, l’aggressione per procura in Corea, lo stato di guerra acceso e fomentato in Indocina e Birmania, insomma tutti gli atti con i quali s’è manifestato in questi anni un espansionismo violento dell’Impero sovietico-comunista; ignorando tutto ciò, dicevamo, allora certamente non si capisce più né l’allarme del resto del mondo, né il Patto atlantico, né il riarmo dell’Occidente. Il gioco è fatto, il solito gioco. Con tutte queste omissioni diventa facile presentare l’Italia come trascinata dal suo governo, dietro al bellicismo americano, alla catastrofe di una guerra e De Gasperi come colui che approfondisce i solchi e rinfocola i contrasti. Ed allora diventa inutile ricordare a Togliatti come il temuto ritmo del riarmo americano fosse posteriore all’attacco coreano. Non serve richiamare alla sua memoria alcuna delle cronologie degli eventi che hanno scosso ogni volta il mondo in quegli anni, né i loro rapporti di causa ed effetto. Nella nostra memoria invece la cronologia è ben scolpita a scarico della coscienza. Ma l’omissione dell’URSS e delle sue gesta dal quadro comunista ha radici e ragioni più profonde: l’avvento, cioè, del comunismo con l’aiuto dell’Unione Sovietica. E poiché il contrasto tra la convenienza pratica dei comunisti e la realtà non si può negare, o si nasconde assai male, tutto tiene sopra un tono falso, ambiguo, equivoco; come quando Nenni e Togliatti sembrano offrire e chiedere distensione, comprensione o, come ieri, azione comune per fermare il pericolo di guerra. Ieri Togliatti è giunto fino a dire che la guerra è inevitabile solo se le due parti – dunque non solo USA, ma anche l’URSS – proseguono nella gara di armamenti. Ma poi si è scoperto quando ha detto che bisognerebbe creare in tutta Europa centri efficienti di resistenza alla pressione bellica degli americani. Togliatti comincia con ignorare una parte essenziale della realtà, poi parla come uno che la vede completamente rovesciata e pretende di convincere quelli che la vedono diritta; nello stesso tempo li minaccia e vuole spaventare e a tutto questo aggiunge qua e là un tono di chi cerca distensione e comprensione. Non è troppo? Togliatti ha parlato anche di Trieste, ed è questo un punto concreto del suo discorso che non può passare inosservato. Egli ha parlato come uno che tema che domani gli italiani mettano a confronto il suo «accordo» con Tito all’epoca del suo viaggio a Belgrado con la posizione nella quale è oggi il governo italiano, posizione che permette all’Italia di giungere ad un accordo tanto migliore del suo senza perdere Gorizia. Egli teme e perciò mette le mani avanti dicendo, oggi, che non era, allora, del tutto consenziente sulla soluzione che aveva trattato con Tito a Belgrado e che fece clamorosamente annunciare al suo ritorno. Ci limiteremo a riprodurre, tanto per mettere le cose a posto, le sue parole all’intervista, che allora pubblicò su l’Unità. Quella che riferisce la sostanza dell’accordo Togliatti-Tito. Eccole: «Tito mi ha dichiarato di essere disposto a consentire che Trieste appartenga all’Italia, cioè sia sotto la sovranità della Repubblica italiana qualora l’Italia consenta a lasciare alla Jugoslavia Gorizia, città che anche secondo i dati del nostro Ministero degli Esteri è in prevalenza slava (questo non è vero). La sola condizione che il maresciallo Tito pone è che Trieste riceva in seno alla Repubblica italiana uno statuto autonomo effettivamente democratico, che permetta ai triestini di governare la loro città e il loro territorio secondo princìpi di democrazia» . Quanto, poi, alla misura del suo accordo con Tito, Togliatti rispose all’intervistatore de l’Unità: «io penso dunque che la proposta del maresciallo Tito può felicemente servire di base per la soluzione definitiva di tutte le questioni controverse fra i due paesi e soprattutto per soffocare sempre, ecc. ecc.» . Togliatti che non era e non è il governo italiano non poteva esprimere in maniera più formalmente corretta il suo «accordo» con l’amico di un tempo. |
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| Vorrei, amici uditori rendervi conto delle mie ultime 48 ore, da quando con notevole ritardo – facendo un giro vizioso perché la via più diretta era già contrastata – giunsi col collega Fanfani a Rovigo e mi incontrai, nella sede della prefettura coi sottosegretari Bubbio e Rumor, arrivati due giorni prima e che stavano consultandosi sulla situazione col prefetto, coi funzionari della prefettura, coi tecnici del Magistrato delle acque e coi comandanti dei vigili e delle forze militari. Da quel momento abbiamo subito l’ansiosa incertezza di notizie ora ottimiste, ora allarmanti, finché prevalse unanimemente il parere, concepito ancora come misura precauzionale, di invitare anche la popolazione di Rovigo ad abbandonare la città. Il parziale sgombero procedette subito in grande ordine coi treni e coi numerosi mezzi automobilistici, concentrati da tutte le province limitrofe. Contemporaneamente le imbarcazioni dei vigili e dei mezzi militari esploravano nella foschia la discesa delle acque per recuperare gli esitanti che si erano attardati nei centri minori e non avevano voluto abbandonare le loro sedi per uno spiegabile attaccamento alle loro case, nonostante le pressanti insistenze delle autorità e il crescente pericolo. Questo lavoro continuava tutta la notte alla luce di potenti riflettori, mentre sugli argini rosse fiaccole di resina illuminavano le squadre di operai che nei punti più critici costruivano ripari provvisori. Continuo fu anche l’afflusso degli sfollati verso Padova, ove erano stati organizzati posti di ristoro e uffici di smistamento. Stamane – mentre il ministro Aldisio teneva a Padova una riunione di funzionari e tornava poi a Rovigo per dirigere l’opera dei tecnici – l’on. Fanfani ed io iniziammo la visita ai centri degli sfollati toccando Monselice, Este, Vicenza, Thiene, Schio e Montecchio. A Este ci raggiunse l’on. Rumor con le ultime notizie su Rovigo e Adria, per cui in una riunione nel Municipio di Este venne deciso di inviare Fanfani e Rumor fino a Cavarzere per avere più sicure informazioni su Adria e le sue comunicazioni. Poi questa sera ci siamo ritrovati a Verona, dopo aver visitato i centri profughi, numerosissimi anche in questa generosa città, ed abbiamo riassunto così fatti e impressioni: 1) i tecnici trovarono grandi difficoltà di controllare l’anormale regime delle acque e di prevedere l’anormalissimo sviluppo. Una nebbia ostinata rese più difficile ancora l’opera di salvataggio a mezzo di aerei, rendendo inutili soprattutto i preparativi che si erano fatti a Treviso, accumulando presso l’aeroporto mezzi e viveri per le zone rimaste isolate. Ciononostante venne compiuta una grande opera, per merito specialmente dei vigili e dei militari. La concentrazione dei mezzi di trasporto nelle ultime ore assunse proporzioni grandiose: colonne di autocarri e autobus affluirono da varie province e città. Lunghissima ed efficace fu l’opera di assistenza. I comitati presieduti dai prefetti e dai sindaci con la partecipazione di vari enti e organizzazioni e facendo perno specialmente sugli ECA lavorano attivissimamente valendosi del concorso di asili, scuole, istituti e ospedali. Ovunque abbiamo sentito dai profughi parole di riconoscimento e dai capi degli enti locali assicurazioni di continuare e sviluppare i soccorsi fino al totale soddisfacimento dei bisogni. Al concorso dello Stato si sono aggiunte molte offerte del pubblico, in natura e in denaro, ma lo spettacolo più mirabile l’hanno dato i privati, anche assai modesti, prendendosi in casa volontariamente bambini. In una delle città visitate, innanzi a un centro di sfollati si dovette ricorrere ai carabinieri perché la calca di signore e donne del popolo che portavano indumenti e chiedevano bambini da ospitare minaccia di abbattere le porte. A questa buona volontà s’aggiunge l’organizzazione pubblica: rappresentanti del governo, prefetti, autorità militari collaborarono e collaborano con ogni impegno. Abbiamo notizia che anche sull’altra sponda (Ferrara) si è lavorato intensamente. Ora rimangono da superare le difficoltà per le comunicazioni di Adria. Si è fatto appello ai mezzi della Marina e si conserva la certezza che domani essi riusciranno a collegare Adria con la zona di Rovigo. Senza dubbio, parte della popolazione comprese troppo tardi che l’evacuazione si imponeva. Già ieri nel pomeriggio, conversando anche coi rappresentanti parlamentari della zona, fra i quali la senatrice Merlin, si constatò che l’impresa più ardua era quella di persuadere la popolazione ad abbandonare le case e la stessa senatrice, recatasi subito dopo quella riunione in Adria, dovette personalmente esperimentarlo. Le ultime notizie telefoniche a Rovigo, a Cavarzere e a Ferrara ci assicurano che niente tuttavia potrà avvenire prima del ricollegamento. Certamente, quando tireremo le somme, dovremo riparare molti danni e creare nuove difese. Il disastro, aggiuntosi a quello del Mezzogiorno, inciderà fortemente sul nostro bilancio economico, ma lasciatemi frattanto concludere con un pensiero consolante: i giornali vi hanno detto del mio incontro all’ospedale di Rovigo . Eravamo al piano terreno, dove su lettini e materassi alcuni degenti sfollati attendevano di essere di nuovo evacuati verso, chiamiamolo così, il «retroterra». L’on. Rumor richiamò la mia attenzione su un uomo di mezza età dal volto arso dal sole. Era quel Bellinello che, nel disastro di Frassinelli, aveva perso la moglie e cinque figlioli. Gli strinsi affettuosamente le mani ed egli con gli occhi pieni di lacrime mi disse: «presidente, sono rimasto solo, mi faccia venire in licenza da Palermo ove fa il militare il mio ultimo figlio». Rumor lo interruppe dicendo: abbiamo già telegrafato all’autorità militare. Ed io non ebbi tempo di aggiungere altro che il povero padre, trattenendo con atto di fierezza i singhiozzi spiegò: «Eccellenza, voglio mio figlio solo perché sono caduto in questa angustia. Del resto voglio che egli faccia il suo dovere. So che il paese ha bisogno, e io sono un uomo d’ordine». Mi venne un nodo alla gola, ed altro non seppi fare che abbracciarlo: ma – se mi fossi trovato solo dinanzi a lui – avrei piegato le ginocchia come innanzi al Milite ignoto, perché questo era l’italiano ignoto e ignorato che a pochi si manifesta come mi si è rivelato in quel momento il tipo dell’italiano ideale, che non dimentica il senso del dovere ed è animato soprattutto dallo spirito della solidarietà nazionale. |
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| Celebrando oggi, qui in Campidoglio, tra una corona di amici di tutte le patrie, celebrando alla presenza di Luigi Einaudi, uomo del Piemonte, io uomo di Trento, Luigi Sturzo siciliano , sento l’Italia una con pienezza tale di sentimento, che per essere espressa vorrebbe da me parole belle e solenni, le parole che ebbero i nostri poeti più grandi e i nostri statisti più felici; parole che io, pressato e angustiato dalla azione quotidiana, non so trovare. Dalle nostre Alpi al mare di Sicilia, è questa la nostra Italia una, la nostra Italia libera; una Italia senza smanie di vane e inique grandezze e perciò veramente grande; una Italia che ha reso e vuol rendere giustizia a tutti i suoi figli; una Italia che ricorda con umiltà la sua passata grandezza, ma prepara con fierezza un suo avvenire; una Italia che non invidia né insidia i suoi vicini; una Italia che non combatte né spregia nulla, nemmeno l’Italia di ieri, che ci oppresse, ma, vigile, contro il ritorno di infauste avventure, vuol ereditare quel che ebbe di buono anche il tempo che buono non fu. Se non fosse la gravità insopportabile del vivere quotidiano e la tensione della lotta politica che ci tolgono ogni nobile ozio, dovremmo poterci dedicare con maggiore attenzione alla nostra storia, alla storia di chi ci precedette nella vita politica e sociale, onde divenire più giusti verso il passato per non ripetere gli errori di esperimenti falliti, per diventare più prudenti nelle imprese avvenire. Magnifica occasione sarebbe stata questa della celebrazione di un uomo poliedrico nella figura e «polihistor» nell’attività pubblicista, come Sturzo, che egli stesso è un complesso fattore di storia. Ma devo rinunziare al tentativo di un quadro completo e limitarmi ad un aspetto particolare. Luigi Sturzo agli occhi di molti, di troppi italiani, passa per un critico troppo acre del regime borghese, per un perturbatore dell’equilibrio nazionale, per uno scompaginatore del vecchio Stato. E certo, a rileggere i suoi discorsi politici, recentemente raccolti, innanzi a qualche pagina taluno potrà rimanere perplesso. Egli vi appare come un chirurgo che con mano ferma e talvolta inesorabile sottopone ad una crudele anatomia quel regime liberale, che pur aveva creato lo Stato nazionale unitario. La critica in realtà è rivolta contro l’accentramento burocratico e contro la classe parlamentare, discorde o incapace; e chiede un regime di popolo da sostituirsi al regime ormai polarizzato della borghesia, un contenuto di giustizia sociale da trasfondere nelle stracche arterie dello Stato democratico. Ma era facile per gli uditori o lettori superficiali, soprattutto per gli avversari faziosi o interessati di interpretare la sua polemica come diretta contro le libere istituzioni democratiche e soprattutto come politica di risentimento e di rivincita di quella parte cattolica che era appena entrata nel cimento politico. Ma per interpretare storicamente la durezza e talvolta l’asprezza di quella polemica bisogna ricordare che nel triennio dal 1919 al 1922 il Partito popolare fu al centro della lotta politica, tra il fuoco non sempre metaforico della destra e il violento attacco dell’estrema; che c’era un cumulo di pregiudizi ostili da rovesciare, una cintura di avvenimenti da superare, una massa incerta da orientare e trascinare a uno sforzo di partecipazione alla vita politica. Bisognava soprattutto dominare la varia psicosi del dopoguerra, col suo spirito sovversivo, colle sue confuse tendenze o dittatoriali o disgregatrici. In tali frangenti Sturzo affrontò il problema dello Stato, chiedendone in una forma audace o perentoria, il rinnovamento. Di fronte ai due estremismi conveniva dare agli italiani una visione radicalmente riformatrice e preparare una nuova Costituzione che, al di fuori e contro l’accentramento statale, sprigionasse le forze autonome della vita pubblica e delle società intermedie e le utilizzasse per una grande riforma politica e sociale. Bisogna ricordare però che quando Sturzo parlava e scriveva così, nessuno in Italia immaginava che fosse in pericolo la stessa base dello Stato liberale costituzionale e messa in causa la stessa libertà come accadde poi col fascismo; nessuno poteva figurarsi che, criticando il sistema rappresentativo nella sua insufficienza e disfunzione, volesse giungere a rovesciare la stessa tribuna parlamentare. Se avessimo davvero temuto tale possibilità, forse maggiore sarebbe stata la nostra cura di distinguere anche nel tono e nella formulazione le finalità della nostra critica da quella dei due estremismi. Comunque, Sturzo in parecchie solenni manifestazioni marcò con precisione la differenza tra un programma di rinnovamento e quello rivoluzionario. Egli aveva ragione di sperare che tale programma avrebbe avuto il sopravvento sopra la tattica della conquista violenta. Non fu così. Oggi guardando indietro ammaestrati dall’esperienza, abbiamo diritto di chiedere alla giovane generazione che pur sospingendo la vita politica italiana verso le riforme di struttura e un rinnovamento sociale più che mai necessario, non dimentichi mai di difendere pregiudizialmente le basi della nostra convivenza civile, cioè la libertà e il sistema democratico. Luigi Sturzo fu sollecito a mettere in rilievo tale necessità 2 mesi dopo la «marcia di Roma», nel discorso tenuto a Torino il 20 dicembre 1922 , nel quale egli insiste nelle sue riforme costituzionali, ma pone come pregiudiziale ad ogni riforma il ristabilimento delle libertà e dell’ordine, il che voleva dire garanzia per il metodo e il libero sistema rappresentativo democratico. Anzi, a tali condizioni, egli mette in vista anche la possibilità di una collaborazione quando dice: «è obbligo di ciascun italiano che non vive di odii e di esaltazioni… concorrere con disciplina al ripristino dell’ordine, alla trasformazione dei nostri istituti politici e alla rivalutazione delle nostre forze economiche» . La sorte d’Italia, la necessità della «ricostruzione legale» – com’egli chiama prudentemente la soluzione antirivoluzionaria –, gli è più cara che la sorte del partito ch’egli ha creato e dirige, tanto che pur avendo avuto delle riserve circa gli atteggiamenti del nostro gruppo parlamentare, ne difende però nel suo discorso di Torino, due mesi dopo la «marcia» il tentativo da noi fatto in un primo momento, di stare a fianco del governo fascista, onde modificarne e legalizzarne la direttiva . «Se nel 1919-20 – egli dice – il nostro gruppo avesse rinunziato al ruolo del collaboratore necessario e incomodo insieme, la marea bolscevizzante avrebbe soverchiato i governi e precipitato il paese nell’anarchia; se vi rinunziava nel 1921-22, la Camera non avrebbe più potuto funzionare e le ripercussioni sarebbero state assai gravi» . «Se noi – concludeva – possiamo concorrere efficacemente a superare lo stadio rivoluzionario e di disordine, a far sentire la forza delle più alte e superiori direttive morali e nazionali, da far ritornare il paese nella legalità e nell’esercizio costituzionale, anche quelli che dubitano, per amore o per pregiudizio, della nostra linea di condotta, troveranno che la nostra funzione politica l’abbiamo compiuta» . Questo è possibile quando anche noi, nei più difficili momenti, abbiamo fede nei destini della patria nostra. È noto che questo spirito di transigenza e di patriottismo disinteressato non ebbe fortuna. A mano a mano che il fascismo accentuava la sua tendenza dittatoriale, il Partito popolare dava maggior rilievo alla sue pregiudiziali libertarie e democratiche, finché nel discorso al Congresso di Torino (23 aprile), Sturzo elevò quell’inno alla libertà per cui Mussolini provocò la rottura, esclamando che quel discorso era il «discorso d’un nemico». La rottura si allargò, fino che i capi del popolarismo dovettero pagare di persona e Sturzo prendeva la via d’un esilio lungo e sconsolato. Egli si dava così in ostaggio a quei princìpi di libertà e di dignità per i quali aveva combattuto, esempio non solo di fierezza e di resistenza, ma anche di fede nell’immancabile rottura finale. Così da lontano il suo spirito ci fu ancora di guida. Pubblica nel 1925 il suo Italy and Fascismo che fu tradotto in diverse lingue e arrivò anche in qualche biblioteca italiana; fonda il Secrétariat International des Partis Démocrates d’Inspiration chrétienne con l’intervento della maggior parte dei partiti europei di tale tendenza; nel 1927-28 scrive il suo lucido libro sulla Comunità onternazionale e il diritto di guerra . Nel 1931 esce a Parigi il suo poema Il ciclo della creazione . Nel 1935 pubblica, sempre a Parigi, il suo Saggio di sociologia , con una sua personale teoria, segnalata dai più insigni sociologi; due anni dopo il suo libro sulla Chiesa e lo Stato e, nel 1939-40, inizia la stesura di quell’opera così densa di pensiero che è La vera vita, sociologia del soprannaturale: in quel periodo egli era a Londra, sotto i bombardamenti . Dall’ottobre 1940 al 1946 Sturzo svolge in America una intensa attività come collaboratore politico e letterario di parecchie riviste e si occupa delle sorti d’Italia, tenendosi in contatto con le autorità americane e con le comunità nazionali. L’indefessa attività di quegli anni è narrata nel suo libro La mia battaglia da New York (1944-46) e le sue speranze nella rinascita dell’Italia sono narrate nell’altro volume Italy and the new order (1943-1944). Finalmente il 6 settembre 1946 sbarca a Napoli. Dopo questi accenni bibliografici, naturalmente incompleti, voi concluderete che quest’uomo è sostanzialmente un uomo di pensiero e di alto pensiero; pensiero nutrito di severi studi e vasti; pensiero consapevole dell’antico, informato del nuovo e tra le fonti gloriose della tradizione, nuova fonte esso stesso. Ed è stato ciò non di meno, ed è, un uomo dall’azione umile e quotidiana. Un grande pensatore e un grande politico sembrano secondo certi bolsi miti retorici, esseri sdegnosi, solitari, gladiatori truculenti. Luigi Sturzo è invece l’uomo che ha militato in tutte le nostre milizie umili e faticose, lo ricordiamo in tutte le nostre file, in tutti i nostri gruppi, in tutte le nostre preparazioni. Luigi Sturzo è l’uomo che vive, naturalmente, tra gli umili ed è umile egli stesso. Oggi, a ottanta anni, nelle sue stanzette, presso una casa di suore, è sepolto tra mucchi di carte, una buona parte delle quali è di povera gente che a lui ricorre. Pensatore e politico, sì, ma un uomo di azione come pochi in tutti i campi, dall’Azione Cattolica alla cultura, all’assistenza; dalla predica alla conferenza, dall’articolo di giornale alla lettera di direzione. Spesso quanti lo abbiamo avvicinato, abbiamo sentito la violenza del suo pensiero, l’acutezza implacabile delle sue osservazioni, la veemenza della sua azione. Ieri ha compiuto ottanta anni; ma io posso dirvi in confidenza che questi vizi egli non li ha perduti. Mai però abbiamo sentito in lui qualcosa che sembrasse, anche lontanamente, ipocrisia di pura forma o rancore acido e aperto. Questo critico acerbissimo di istituzioni centenarie e di uomini pubblici si offende come una bimba, a sentire un giudizio cattivo portato in conversazione su un altro uomo. Ma io sono qui a onorare in Luigi Sturzo anzitutto un italiano. Eppure la maggior calunnia che gli sia stata fatta è quella di aver avuto scarso sentimento di italianità. Io sfido a trovare una parola nella sua opera, dalla quale non traspiri un amore addirittura cocente per l’Italia. L’Italia è il tema che lo elettrizza, che fa lacrimare di tenerezza quei suoi vivissimi occhi che non sembrano avere ottant’anni. L’Italia non è stata per lui quel comodo mito che certuni celebrerebbero con varie liturgie; ora troppo segrete, come nelle così dette «Logge», ora, come durante il Fascismo, troppo dal balcone. L’Italia è stata ed è per lui questa terra così forte e così delicata (quanto sia delicata noi lo sentiamo in questi giorni); è questo popolo mirabile che ha sopportato tutte le servitù e sempre ne è uscito libero; che ha dato al mondo alcune tra le più alte glorie dell’uomo e lavora i suoi magri campi e sta dietro alle sue scarse fortune. L’Italia è stata per lui ogni paese italiano, ogni città, ogni regione, ogni campagna, ogni casolare. È stata tutta la sua storia, è stata ed è civiltà, è stata ed è una forma di vita, una potenza nell’ordine delle anime dello spirito. Luigi Sturzo prese nelle sue mani nervose agili e fortissime tutte le fila, tessute nel silenzio e nel pianto dai cattolici italiani, messi allora al margine della nazione. Il merito di Sturzo non è soltanto quello di un puro empirico, né quello di un mero pensatore; c’è in lui come un poeta così uno storico. Egli ha veduto questa forza che rinasceva nel mondo, la forza dei cattolici, che si rinnovavano e, lasciando cadere tutte le scorie di cui i tempi li avevano ricoperti, le spoglie di cui li avevano rivestiti, come di livree i vari regimi, tornavano a essere cittadini con pieni diritti e con eguali doveri. Egli ha veduto, in particolare qui in Italia, che cosa mancava alla nostra unità spirituale e, contro ogni dittatura larvata o aperta, sostenne la democrazia, quale politica di popolo e per il popolo. Egli ci ha insegnato a servire questo nostro mirabile paese, come serviamo Iddio e l’umanità, con lo stesso scrupolo e la stessa dedizione. Né Iddio è un padrone di schiavi, né l’Italia è un paese di servi. La raffiche della violenza possono devastarci, ma non ci spengono. Le voghe della servitù possono per un momento annebbiarci e ubriacarci, possono darci grosse febbri, ma non ci uccidono. Luigi Sturzo compie ottanta anni. Io che vi parlo di lui sono un vecchio, né giovani sono i maggiori miei amici e i maggiori miei nemici. Che cosa lasciamo detto ai nostri giovani? Quale è il nostro legato per i figli? Abbiamo vissuto tra ogni sorta di terrore e di angustia. Lasceremo a loro un mondo che, quanto più si dilata nel pensiero e nel cuore, tanto più sembra che diventi stretto e feroce nei rapporti sociali e politici? La mia voce, tra l’oppressione delle cose e l’acerbità dei problemi, può parere talvolta distratta. È tuttavia ferma ed è chiara: giovani amammo la libertà; la libertà spirituale e politica difendiamo da vecchi. Giovani amammo il popolo e il popolo amiamo da vecchi. Daremmo tutta la nostra storia, se fosse necessario, daremmo la nostra vita pur di poter essere certi che i nostri figli avranno gli stessi amori: la libertà, il popolo nella sua consistenza nazionale, nella sua sete di giustizia sociale, nella sua fede. Nessuno spirito di fazione o di rappresaglia ci muove. Anche quando dobbiamo ammonire o reprimere, non è la libertà di una parte che vogliamo soffocare; è la libertà di tutti che vogliamo difendere. |
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| Non è possibile che io trovi parole adeguate per ringraziare le singole persone, per dare rilievo a episodi veramente commoventi di cui ci avete data notizia. Ma ormai sono noti in tutta Italia . È stato un coro di generosità e di carità, un coro soprattutto di solidarietà. Questo fatto dà, a noi, che siamo responsabili del faticosissimo lavoro di ricostruzione, incoraggiamento, ed è come ossigeno per nuova vita. Vorrei, ma non c’è forse bisogno di dirvelo, raccomandarvi lo stesso solo per il momento in cui si organizzerà la propaganda per il prestito. Anche qui si tratta della costruzione delle case, della rimessa in valore dei terreni e soprattutto del lavoro, ampio e in profondità che bisognerà attuare per garantire finalmente contro simili disastri le nostre terre. Il governo farà tutti gli sforzi organizzativi possibili, ma ha bisogno naturalmente del credito, ha bisogno che lo Stato trovi credito. E, in verità, mi pare che posso osare di chiedere che questo credito venga concesso, così come viene dato, offerto, da tutte le nazioni. Avete seguito senza dubbio i singoli discorsi pronunziati ultimamene all’Assemblea dell’ONU, dove tante nazioni, la enorme maggioranza delle nazioni, anche le più lontane, anche quelle, che appena appena hanno una storia, hanno riconosciuto nell’Italia la patria comune della civiltà. A questo riconoscimento si è aggiunto un atto di solidarietà fattiva. E che vuol dire questo? Vuol dire che ci si riconosce non soltanto come un paese che è fonte di una storia comune, ma anche come un paese che ha un avvenire, che ha ancora una missione nella collaborazione dei popoli liberi e consapevoli del proprio destino. Io mi auguro che nel momento della sventura gli italiani sentano che hanno diritto a questo credito, e che hanno anche il dovere, nel tempo stesso, di provare con la loro unità e con il senso di solidarietà che sono degni di questa posizione che essi vanno riconquistando fra i popoli liberi e civili. |
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| Anzitutto vorremmo sottolineare il carattere particolare di questa questione, al cui riguardo l’opinione pubblica italiana, e di conseguenza il governo, sono estremamente sensibili. In questo senso anche il falso allarme causato recentemente da certe parole del generale Airey (e siamo molto lieti di riconoscere che il significato vero delle sue parole era del tutto differente rispetto alla prima impressione che ne abbiamo ricevuto) in fondo non è stato così negativo. Ci sono due aspetti del problema di Trieste. Il primo è connesso col futuro del Territorio Libero, il secondo con certi recenti avvenimenti a Trieste. Il primo aspetto è naturalmente di gran lunga il più importante. La posizione del governo italiano è invariata. Si fonda sulla dichiarazione delle Tre Potenze, cioè sul riconoscimento da parte delle tre grandi potenze alleate del carattere italiano di tutto il Territorio Libero. Questa è l’unica base [punto di partenza] per una soluzione negoziata in accordo con la Jugoslavia, se e quando il governo di Belgrado sarà pronto ad accettare questo principio. La nostra posizione non è né chiusa al compromesso né negativa nei confronti della Jugoslavia. Tutta la storia degli ultimi due anni lo prova, una storia di costante miglioramento e sviluppo delle relazioni politiche e economiche con il nostro vicino orientale. Ora ci stiamo avvicinando alla conferenza dei Quattro Grandi [sappiamo che i Russi, nell’incontro dei supplenti che si svolge ora a Parigi ancora non hanno sollevato la connessione fra Trieste e il trattato austriaco] . Sappiamo anche che le potenze firmatarie della dichiarazione tripartita hanno convenuto che la connessione non deve essere ammessa. Ma se, nonostante tutti gli sforzi, si dovesse discutere il problema di Trieste, ci attendiamo che il governo di Sua Maestà, assieme al governo americano e a quello francese, difenda il suo punto di vista, che è anche il nostro. Perché in un certo senso questa è proprio l’occasione prevista dalla dichiarazione del 20 marzo 1948. E, naturalmente, se ci fosse una discussione sul tema, ci attendiamo che ci venga chiesto di prendervi parte. Quanto ai recenti incidenti a Trieste non siamo propensi a sovrastimarli. Alcune misure prese dal Governo Militare Alleato (ricorderemo in particolare la bandiera sulle navi commerciali, la nuova insegna per i tabaccai, il marchio «made in Trieste») hanno causato localmente qualche preoccupazione. C’è una pratica spiegazione per ognuno di essi. Ma, in vista dello scompiglio che hanno generato, erano evidentemente inopportuni. La nostra impressione è che, pur essendo fuori dubbio la buona fede del generale Airey e del suo collega americano, essi siano stati portati sulla cattiva strada da alcuni elementi locali, riguardo all’aspetto politico e alle ripercussioni delle misure suggerite. Penso ci sia solo un modo per evitare simili vicende. Dovremmo consultarci a vicenda, localmente a Trieste o attraverso le nostre ambasciate a Roma, ogniqualvolta sia prevista una di queste misure. Contemporaneamente, si dovrebbero emanare delle istruzioni per il Governo Militare Alleato che chiariscano definitivamente che le leggi italiane continuano a essere applicate nel Territorio Libero. Questo è stato autorevolmente riaffermato dal Sig. Kenneth Younger che in risposta a una questione alla Camera dei Comuni lo scorso 24 gennaio ha dichiarato: «dato che non è stato nominato alcun governatore per il Territorio Libero, l’annesso del Trattato di pace che contiene questa clausola non è entrato in vigore. D’altro canto, il Trattato di pace dichiara altrove che nel periodo di interim devono restare in vigore le leggi esistenti fino a che non siano sospese o revocate dal governatore. Quindi l’italiano continua a essere la sola lingua ufficiale nella zona A ma accordi speciali sono stati presi dal Governo Militare Alleato per venire incontro ai bisogni dei quattro comuni dove prevale lo sloveno». Questo implica altresì che, indipendentemente dalla questione della sovranità su Trieste, la possibilità di istituire una speciale Corte di Cassazione per la zona A sarebbe ovviamente contraria a questo punto di vista. |
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| […] Il Presidente De Gasperi dice che non si tratta di forzare una soluzione ma soltanto di stabilire il punto di partenza per la ricerca di tale soluzione. Detto punto di partenza non può essere che la Dichiarazione delle tre Potenze. Il Governo italiano è pronto a cercare un accordo con la Jugoslavia ma prima di iniziare le trattative deve sapere se la Gran Bretagna mantiene la Dichiarazione in questione come hanno già dichiarato da parte loro gli Stati Uniti e la Francia. Altrimenti la soluzione sarebbe molto più difficile. È vero che le circostanze sono mutate dal 20 marzo 1948, ma questo non scusa una differenza di linea politica; i dati di fatto obiettivi rimangono gli stessi. La creazione del TLT fu un errore, commesso alla Conferenza della Pace per mostrarsi conciliante con l’URSS. Tre linee erano state allora proposte. Perfino la linea inglese includeva Pola. La posizione italiana ha da allora progressivamente indietreggiato per quanto riguarda i confini territoriali. Pola e l’Istria sono già state abbandonate. Dobbiamo abbandonare il poco che ci è rimasto? Se il governo italiano, dopo essere entrato a far parte del NATO, deve ammettere di aver perduto le posizioni preesistenti, esso non sarebbe in grado di presentarsi al Paese. È importante prendere in considerazione il lato psicologico italiano della questione. È impossibile per me ritornare a Roma e dire che la questione è adesso peggiore di prima. […] Il presidente De Gasperi dice che egli riuscì vittorioso nelle elezioni perché poté citare la Dichiarazione tripartita. I comunisti sostengono che si è trattato solo di un trucco elettorale. Se è vero che le circostanze sono cambiate per la Jugoslavia dopo il 20 marzo 1948, è altrettanto vero che sono cambiate per l’Italia, in quanto che ora l’Italia è membro del Patto Atlantico. Volete forse dare all’Italia minor peso che alla Jugoslavia? È possibile pretendere che gli italiani combattano nel NATO come alleati se la Dichiarazione viene ripudiata? Non si tratta di forzare una soluzione ma di riconfermare la Dichiarazione tripartita ora che la Russia ha messo la questione sul tappeto. Io ero a Santa Margherita e posso assicurarvi di quanto la Francia ha detto; quanto all’America la sua posizione è che essa non insisterebbe affinché gli italiani si basassero sulla Dichiarazione. E siamo d’accordo su questo punto. Ma non ci chiedete di rinunziare alla promessa di tre anni fa. Per guadagnare Tito volete perdere l’Italia? Credete di poterci avere amici se ritirate la vostra promessa? […] Il presidente De Gasperi chiede il testo della Dichiarazione tripartita. Nell’attesa, propone che si passi a discutere il secondo punto ossia il funzionamento dell’amministrazione militare britannica di Trieste e i suoi rapporti con le autorità italiane. […] Il presidente De Gasperi dice che sarebbe meglio se consultazioni costanti potessero aver luogo fra autorità inglesi e italiane a Trieste prima che il Governo Militare prenda provvedimenti suscettibili di dar origine a contestazioni e malintesi. […] Il presidente De Gasperi chiede come gli italiani possano restare tranquilli dati i continui soprusi verificantisi nella zona B. Cosa possiamo fare insieme per alleviare la tragica situazione di quella zona? Vi sono nella zona A 25mila profughi provenienti dalla zona B. Non potrebbe il governo britannico fare qualcosa per convincere il governo jugoslavo a prendere un atteggiamento più umano nei confronti di quella popolazione? È un peccato che non esista alcun testimone imparziale. Sarebbe di gran giovamento se una missione americana di assistenza Marshall potesse esistere nella zona B. Si potrebbe mandare colà qualche osservatore neutrale? […] Il presidente De Gasperi dichiara che non intende sollevare formalmente la questione del Trattato di Pace con l’Italia. Ma c’è la possibilità che le conversazioni di Parigi conducano all’esame della posizione dell’Italia ai termini dell’accordo di Potsdam secondo i quali all’Italia era riconosciuto il diritto di diventare membro delle Nazioni Unite dal momento che aveva instaurato un governo democratico antifascista. L’ammissione alle Nazioni Unite era l’unico compenso dato all’Italia in cambio delle spiacevoli clausole del trattato. |
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| […] Il presidente del Consiglio afferma che devono essere sviluppate le attività d’ordine economico nel Consiglio d’Europa. […] Il presidente del Consiglio dice che l’internazionalismo è una forza in Europa e che esso non deve subire una delusione a Strasburgo. Egli sottolinea l’importanza di sviluppare le attività economiche del Consiglio d’Europa. Egli suggerisce che le proposte di notevole importanza tendenti alla cooperazione economica internazionale, quali i piani Stikker , Pella e Petsche , siano discussi all’Assemblea . Nella loro forma iniziale tali piani erano più materia di opinione che di politica e nessun danno ne deriverebbe se l’Assemblea li discutesse. […] Il presidente del Consiglio dice che questo [il problema del comunismo] è un problema importante per il Governo italiano data la forza del partito comunista in Italia; egli dice che sono state discusse con i francesi delle comuni misure per combattere il comunismo. |
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| Ringrazio il presidente per le sue gentili parole all’indirizzo dell’Italia e mio. Sarò lieto di parlarvi dell’Italia. Sarò breve il più possibile. Le cose che dirò non vi saranno forse nuove, ma vi potranno apparire sotto un nuovo aspetto, provenendo da uno che è al centro dell’attività politica italiana. Quali sono gli elementi permanenti o contingenti che condizionano la politica generale italiana di oggi? Vi è, anzitutto un fondamento psicologico. La storia e la nostra secolare letteratura e cultura hanno creato, come in altri paesi, una forte coscienza nazionale. Questa può avere ecceduto sotto la spinta del nazionalismo fascista, ma il suo fondamento vitale e permanente si è sempre frammisto al senso dell’universale, derivante, per alcuni, dal cristianesimo, per altri dalla dottrina del Mazzini e per altri ancora dal socialismo romantico. In questo senso l’Italia non è mai stata una isola. Pertanto, la democrazia in Italia si evolve verso un sentimento nazionale positivo nell’ambito di un’ampia concezione della cooperazione internazionale. Prendete ad esempio queste due tendenze: da una parte un alto grado di sensibilità per la questione di Trieste e dall’altra il disinteressato servizio in favore delle Nazioni Unite in Somalia (e ciò malgrado l’amara perdita delle colonie). Ne consegue che anche la volontà di ricostruzione del paese non è soltanto un sentimento nazionale egoista. È anche il risultato di una universale concezione della civiltà cristiana: per cristiano intendo il lievito evangelico che ha modellato e spiritualizzato le antiche civiltà. Ma vi è anche una particolare psicologia del dopoguerra in Italia. L’Italiano, come sapete, è profondamente individualista. È difficile trovare il tipo medio dell’italiano. Il suo individualismo qualche volta lo conduce a ritenersi persino esonerato da obblighi disciplinari. Contro questa tendenza nazionale, il fascismo tentò di imporre una disciplina tirannica che, com’era ovvio, fu subito odiata. L’ultima fase della guerra fu una rivolta contro lo Stato. Secondo la maggioranza, questa fu contro lo Stato fascista; altri invece la considerarono una rivolta contro lo Stato borghese. Così, la guerra ci portò la liberazione. Ma nello stesso tempo essa fatalmente generò, certamente contro le intenzioni dei liberatori, un potenziale esplosivo e rivoluzionario: il comunismo. Qual è ora la situazione interna? Fino al 1947 eravamo un paese conquistato, in attesa di giudizio da parte delle quattro potenze vittoriose. Avevamo fatto il nostro laborioso cammino – «guadagnandoci il prezzo del pedaggio» per ripetere la frase del Sig. Churchill – verso le capitali del mondo per difendere la causa di una nuova Italia democratica, meritevole di fiducia. Gli Alleati occidentali ci degnarono di qualche attenzione. La Russia (malgrado la presenza di Togliatti nel Gabinetto del tempo) fu la più dura. Noi abbiamo pagato, con infallibile fiducia nella giustizia internazionale e nelle Nazioni Unite. Abbiamo scontato gli errori commessi, in parte da noi, in parte dagli Alleati. Abbiamo superato il collasso principalmente con l’aiuto degli Stati Uniti. Nel 1948, dopo la costituzione del Cominform (con la sua speciale sezione per la Francia e per l’Italia istituita nel 1947) e il colpo di Stato in Cecoslovacchia, ingaggiammo la battaglia per le elezioni. La lotta fu dura. La stessa democrazia fu in gioco. Chiamammo a raccolta tutte le forze democratiche, delle quali la più significativa fu costituita dal gruppo socialista capeggiato dal mio amico Saragat . Fu una battaglia per la civiltà occidentale, ma non fu combattuta però in favore delle forze reazionarie, perché il programma democristiano ha dato l’avvio a molte riforme sociali. Vi ho fatto una breve esposizione degli elementi morali e politici ai quali è legata la nostra politica odierna. Per completare vorrei aggiungere poche parole sui fattori economici. Le principali caratteristiche del sistema economico italiano sono universalmente note. Eccesso di popolazione, mancanza di materie prime, basso reddito individuale. La popolazione – attualmente più di 46 milioni – aumenta in ragione di 450.000 unità all’anno, mentre l’emigrazione è diminuita da una media di mezzo milione all’anno avanti la prima guerra mondiale a quasi nulla negli ultimi dieci anni. Si è verificato ora un aumento, ma soltanto nella modesta cifra di 150.000 unità nello scorso anno. La scarsa emigrazione, la riconversione industriale ed economica postbellica e l’aumentato numero delle donne lavoratrici hanno contribuito ad elevare la cifra dei disoccupati, portando il numero delle persone registrate negli uffici di collocamento a due milioni. L’assimilazione della mano d’opera disoccupata è uno dei maggiori problemi italiani odierni perché il nostro sistema produttivo deve, come fa, assorbire già 250.000 nuove unità annualmente. Vi è poi la nostra povertà di materia prime: zolfo e mercurio sono le uniche materie prime prodotte in quantità ragionevole. Il resto deve essere importato. Malgrado ciò la nostra capacità produttiva si è sviluppata tanto nell’industria che nell’agricoltura. I prodotti agricoli di generale interesse, quali la frutta, la verdura, il riso e la canapa sono stati specialmente potenziati in vista della richiesta estera; la produzione di energia elettrica è in aumento. Lo scorso anno l’Italia ha prodotto 24 milioni e mezzo di kilowattore, che rappresentano l’8% in più della produzione del 1948 e il 58% in più della produzione anteguerra. La produzione del metano – quasi 500 milioni di metri cubi – è più che raddoppiata. La forma dell’intervento statale nell’economia italiana è un punto di particolare interesse. L’intervento statale si manifesta tanto sotto forma di amministrazione diretta, come nel caso delle ferrovie, della rete delle strade statali, (arterie principali), dei sevizi postali e telegrafici, dei monopoli di Stato (sale, tabacchi, fiammiferi); oppure tramite il possesso di azioni industriali da parte dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) (questa è una forma di controllo indiretto), i cui amministratori principali sono designati dallo Stato. Le industrie di cui l’Istituto possiede le azioni rappresentano un’aliquota importante della capacità produttiva del paese. Desidero al riguardo prospettarvi delle cifre: Costruzioni navali (controllate dall’IRI) – 80% della capacità produttiva nazionale; Compagnie telefoniche (controllate dall’IRI) – 57% dei telefoni in funzione; Industria pesante (controllate dall’IRI) – 43% della produzione di acciaio, ghisa e lamiera di ferro; Banche (controllate dall’IRI) – Le banche dell’IRI posseggono il 25% dei depositi bancari; Marina mercantile (controllata dall’IRI) – 90% del tonnellaggio lordo; Industrie meccaniche (controllate dall’IRI) – Le percentuali in questo campo variano dal 25%(costruzioni ferroviarie) al 10% (fabbriche di motori). Inoltre l’intervento statale è assicurato mediante azioni possedute in altre industrie, come raffinerie di petrolio (AGIP), ferro (Cogne) e carbone (Sulcis in Sardegna). Tali compagnie sono dirette da Consigli di Amministrazione in parte nominati dallo Stato. L’IRI ci è stato in parte tramandato dai tempi dell’anteguerra. Dobbiamo ammettere che l’urgente bisogno di aumentare la produzione in alcuni settori e la crisi in altri (per esempio le industrie per le costruzioni navali e meccaniche) ci ha sinora impedito di riorganizzare il sistema su una base uniforme. Pertanto non abbiamo avuto la possibilità di accertare se questa forma di proprietà, controllo e impresa privata dello Stato possa essere considerata come una forma di intervento statale definitivo ed efficace. È stato designato un ministro per studiare e predisporre una soluzione organica. L’intervento statale comunque, particolarmente in relazione all’ERP, si sta facendo vieppiù sentire tanto nei riguardi della politica direttiva che di quella finanziaria. Ora, Signori, tutto ciò, unitamente alla riforma agraria, ai provvedimenti per le aree depresse, agli aumentati pubblici investimenti onde risolvere il problema della disoccupazione, è stato il compito del mio attuale Governo che iniziò la sua attività circa un anno fa. Durante questo periodo abbiamo cominciato ad attuare il progetto di riforma agraria per 700.000 ettari (circa 1.700.000 jugeri), i quali costituiscono una parte del progetto generale per 1.500.000 ettari. Il Parlamento ha approvato il nostro piano decennale per lo sviluppo economico del Mezzogiorno, comprendente la creazione di uno speciale istituto (la Cassa per il Mezzogiorno) che ha il compito di amministrare le spese di 1200 miliardi di lire (circa 706 milioni di sterline). Desidero aggiungere ancora una parola sulla riforma agraria: quali sono i risultati raggiunti sinora? Il Parlamento ha approvato la nostra prima legge di riforma fondiaria per un’area di 700.000 ettari (circa 1.700.000 jugeri). L’entrata in vigore di detta legge ha avuto luogo un anno fa. Abbiamo sinora espropriato circa settantamila ettari, cioè più di 192.000 jugeri. Di questi, circa i due quinti (28.000 ettari, cioè 70.000 jugeri) sono stati già distribuiti ai contadini in un totale di 19 Comuni. Ciò ha comportato lo spezzettamento di tre dei più grandi latifondi dell’Italia meridionale. Desidero far rilevare che la riforma agraria in Italia non è soltanto una questione di ridistribuzione della proprietà. Essa avrà effetti sociali ed economici di vasta portata, in quanto comprende la bonifica fondiaria, l’aumentata produzione e di conseguenza una maggiore richiesta di mano d’opera. Con l’aiuto dell’ERP noi abbiamo realizzato parte del programma, provvedendo anche alla rinnovazione degli impianti idraulici. Gli investimenti statali in questi ultimi due anni sono stati raddoppiati. Poi è avvenuta l’aggressione in Corea. Questa ci ha costretti ad armarci ed a prendere misure per la difesa interna e civile, il che ha comportato un immenso sforzo per il Paese. Le nostre spese militari ordinarie per il 1950-51 furono valutate a 500.000.000 di dollari, pari al 20% delle spese statali. Oltre a queste spese ordinarie il Parlamento ha approvato la spesa straordinaria di 250 miliardi di lire (circa 400 milioni di dollari). Ciò significa un totale di 900 milioni di dollari, pari al 36% delle spese totali dello Stato, e all’8% del reddito nazionale. Lo sforzo italiano può essere misurato con una analisi comparativa del nostro reddito pro capite. Il nostro reddito medio pro capite è di circa 260 dollari. Ciò corrisponde a circa la metà del reddito francese pro-capite, a un quarto di quello inglese, a un settimo di quello del cittadino americano. Netto di tasse, il reddito medio del cittadino italiano è di circa 180 dollari contro 1200 dollari del cittadino americano. Siamo tutti convinti che la guerra non risolve i problemi. Ma il sistema della difesa atlantica è necessario se l’Europa democratica deve sopravvivere. In ordine d’importanza la difesa sociale viene prima, ma questa non può essere attuata senza la libertà e l’indipendenza. Né essa può essere attuata senza la cooperazione internazionale. Da qui l’enorme importanza della collaborazione europea. Quale sarebbe il destino di un perfetto sistema di giustizia sociale in Gran Bretagna, se in Italia (o in Francia) la democrazia dovesse soccombere perché i suoi problemi non possono essere risolti (come la sovrapopolazione in Italia) e se l’infezione si propagasse sul continente e oltre oceano? Lo stesso può essere detto per la Germania. So che vi sono obiezioni in proposito. Differenti livelli di vita, diversi costi di produzione, differenti condizioni della mano d’opera. Sono d’accordo che dobbiamo procedere per gradi, con occhio realistico. Sono d’accordo che «il piede a terra» è in generale un principio sano. Ma è anche vero che fino a quando noi non solleveremo un piede da terra non faremo alcun passo avanti. Gli uomini di Stato europei ed americani, però, riconoscono oggi che la fratellanza in armi non è sufficiente di per se stessa. Essa deve comprendere una solidarietà totale se la vittoria deve essere conseguita, non tanto sul campo quanto attraverso le nostre libere istituzioni e la giustizia sociale. |
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| Signor Primo Ministro, Signor Ministro degli Esteri, Signori, Abbiamo lavorato insieme per tre giorni, e sento – come spero che anche voi sentiate – che il nostro lavoro è stato assai proficuo. I nostri incontri hanno, in primo luogo, servito a porre in rilievo che l’«incidente» – come lo definì il Primo Ministro – che avvenne nei nostri rapporti è chiuso. Essi segnano la conclusione di un periodo; e l’ospitalità, la cordialità e le parole sincere dei nostri ospiti dimostrano che abbiamo ormai ripreso i nostri rapporti secondo l’antica tradizione. In secondo luogo, abbiamo discusso di vari argomenti. Non abbiamo condotto un negoziato vero e proprio, ma abbiamo parlato di problemi che ci interessano. E vorrei aggiungere che non si tratta di un interesse egoistico esclusivo per noi, perché sono problemi che riguardano noi ed altre nazioni democratiche sia nel quadro del Trattato nordatlantico sia – sebbene in diversa misura, secondo la politica e la posizione di ognuno – nel quadro della unità europea. Abbiamo parlato con franchezza e da amici; abbiamo espresso le nostre vedute, spiegandone le ragioni; il che significa che quando diciamo d’esser stati d’accordo – e lo abbiamo detto – sappiamo d’esser sinceri. Vi siamo grati di aver confermato il vostro atteggiamento di principio sulla questione di Trieste. Voi sapete che conveniamo con voi nel desiderio di migliorare e render più fecondi i nostri rapporti con la Jugoslavia, rapporti che non mancheranno di migliorare, purché le condizioni dei nostri fratelli sulla frontiera migliorino anch’esse. Ed ora ci separiamo, ma non abbiamo terminato il nostro compito. Continueremo a lavorare insieme nello spirito amichevole di questi giorni; a lavorare instancabilmente insieme agli altri paesi che condividono i nostri ideali, per assicurare la democrazia e la giustizia sociale, la libertà con la tolleranza, equità per gli individui come per le nazioni, e la pace con la sicurezza. Compito complesso per il quale occorrerà lo sforzo di ciascuno, la piena cooperazione di tutti e l’aiuto di Dio. Desidero aggiunger ancora una parola in nome mio e di coloro che mi accompagnano onde esprimere il nostro sentito riconoscimento per la vostra calorosa accoglienza, che tanto più apprezziamo in quanto sappiamo come siate impegnati negli affari di Governo e in Parlamento. Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito a rendere interessante il nostro soggiorno, e spero di tornare un’altra volta con più agio a vedere meglio la vostra grande città, culla della democrazia moderna, e, al di sopra di ogni discussione di forma e struttura, le realizzazioni del Vostro governo e del Vostro popolo. |
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| Questo incontro è una prova che, quando esiste un vivo senso di buona volontà e di solidarietà, si possono superare non soltanto i contrasti nati dai recenti avvenimenti, ma anche le differenze naturali di temperamento e di tradizione storica. Queste ultime sono assai minori fra i francesi e noi, e perciò non fa meraviglia la rapidità della comprensione reciproca raggiunta a Santa Margherita. Si consideri tuttavia che si può giungere con spirito di larghezza e di equanimità, come si è giunti stamattina, a confrontare utilmente il nostro punto di vista continentale sull’unità europea come quello così profondamente insulare degli inglesi. Con questa dialettica non solo non si sono approfondite le divergenze ma anzi ci siamo avvicinati ad una reciproca comprensione e direi alla capacità di superare tali divergenze, coordinandole in una unità che significa: la cooperazione internazionale, ma in particolare quella europea è veramente una necessità vitale. L’arte sarà quella di renderla efficiente e attuale, consentendo agli Stati partecipanti una diversa gradualità e anche una diversa intensità di rapporti fra il mondo inglese e quello europeo occidentale. Gli inglesi hanno convenuto che sarebbe una sventura per la stessa idea della collaborazione internazionale lasciar cadere il Consiglio di Europa che, comunque nato e comunque imperfetto, rappresenta la forma più naturale immediata e visiva di questa unità. Ma qui a Londra tutti e due gli interlocutori hanno ammesso che la cooperazione internazionale va ricercata con due mezzi paralleli: quello dell’organizzazione di Strasburgo e l’altro, più tradizionale ma sempre indispensabile, degli incontri tra i governi. Si può dire che questo incontro di Londra accanto ad altri vantaggi che riguardano i rapporti italojugoslavi, potrà avere quello più ampio di favorire la solidarietà europea. È in questo senso che oggi, brindando alla colazione del primo ministro, ho detto la mia impressione che i ministri inglesi e noi abbiamo voltato una nuova pagina, augurando che questo lavoro possa progredire e diventare costante nel metodo ed efficace nei risultati. |
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| Caro Gallarati, desidero farti pervenire queste brevi espressioni di riconoscenza e di apprezzamento del lavoro svolto da te e dai tuoi collaboratori in occasione della recente visita a Londra. So quanta mole di attività preliminare – la più gravosa e la meno palese – sia necessaria in queste circostanze: e so quanto la tua opera sia stata una delle premesse indispensabili del buon esito della nostra visita. Buon esito che, come ci siamo più volte augurati con gli amici inglesi, deve rappresentare l’inizio di una collaborazione sincera e costante; e, in quanto proficua per gli interessi nazionali, prezioso contributo alla saldezza della comunità atlantica e democratica. Vorrei poi rinnovare un particolare ringraziamento per le premure tue e della Duchessa Lella e per la vostra ospitalità, sempre, anche nel succedersi vertiginoso dell’orario inesorabile e della ufficialità, gentile e accogliente. |
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| J.J.Servan-Schreiber [JJSS]: Signor Presidente, il numero considerevole di voti andati al blocco comunista-socialista (piuttosto in contrasto rispetto al 1948), è stato una sorpresa?. De Gasperi: Non per me. Per gli altri, sì. Dopo il mio primo discorso a Taranto ho sempre ripetuto: il pericolo comunista è molto maggiore di quanto crediate. Li conosco: sono molto forti. E, questa volta, si sono nascosti in ogni modo per essere meno vulnerabili. Quasi ovunque hanno abbandonato falce e martello per camuffarsi con altri simboli locali: le due torri a Bologna, lo scudo di San Rocco, il vecchio ponte di Taranto. Hanno fatto i camaleonti. Bisognava smascherarli. Hanno perfino abbandonato la maggior parte dei loro slogan per non spaventare la gente. Non parlano che di intenzioni di pace, di diminuire le imposte. Ci sono riusciti: molti borghesi hanno votato per loro. Soprattutto per Nenni, che ha ancora maggiore facilità a camuffarsi. Lui stesso si è un po’ distaccato dai suoi alleati comunisti. Oggi dice perfino che è consacrato alla difesa della patria. Abbraccia il neutralismo. Ecco la nuova invenzione di Togliatti e Nenni. Speculano sul nazionalismo. Ci accusano di essere i servitori dello straniero. Cercano di far rivivere i vecchi istinti a loro profitto. Eppure, Togliatti è obbligato a ripetere di tanto in tanto che la Russia è la superpatria, e che bisogna anzitutto sostenerla e difenderla. Perché? Mi chiedo sempre perché. Questo lo danneggia molto, eppure continua. In fondo, credo che sia come nella Chiesa cattolica, è un dogma. C’è comunque un punto dove la tattica non può entrare, è il dogma. Il Cominform lo obbliga a ripetere questo dogma, quali che siano le conseguenze. Fortunatamente, perché se non ci fosse questo, la gente avrebbe molta meno paura del comunismo. Sarebbe molto più pericoloso, soprattutto in un paese povero. In fondo, dice ai contadini che diventeranno proprietari delle loro terre, agli industriali che continueranno a essere a capo delle loro fabbriche come direttori. Non c’è che la sistematica «linea sovietica» a spaventare la gente. È per questo che Nenni, questa volta, distaccandosene, ha ottenuto dei successi. JJSS: Quali sono le ragioni essenziali dell’influenza e dell’attrattiva che il comunismo conserva?. De Gasperi: Ah! Anzitutto c’è il riarmo. Per noi è una necessità. Ma in una paese così povero è tanto difficile! Guardi, siamo obbligati a dire alla gente: non ci sono soldi per dare lavoro a tutti, ma ne utilizzeremo molti per produrre armi. I comunisti ne approfittano. Poi ci sono la loro organizzazione e la loro disciplina. Notevoli. Non può sapere come sono organizzati, gerarchizzati. È una macchina meravigliosa. Che si indirizza a una clientela concentrata nelle fabbriche, nei cantieri. La borghesia è dispersa. Infine, bisogna dire che il mito dell’URSS è ancora potente. Il mito della pace e del socialismo. Ci si continua a credere. JJSS: Il fatto di essere legati agli Stati Uniti in un’alleanza militare è un handicap per i partiti di governo nella lotta elettorale? De Gasperi: No, sa, è difficile da qui attaccare l’America. È troppo facile spiegare il perché. Si domanda: «Con cosa siete stati nutriti negli ultimi quattro anni?» e si ode ovunque la risposta: «America! America!». Il piano Marshall è ben noto. No, i comunisti non se la prendono con l’America. Se la prendono con noi trattandoci da «servitori». Si lanciano nel nazionalismo e nello sciovinismo. […] JJSS: Se il partito socialista moderato (di Saragat) non avesse partecipato al governo, non avrebbe acquistato maggiore influenza sulla classe operaia? De Gasperi: Non credo. Non è una questione d’essere o non essere al governo. È una questione di organizzazione, di disciplina, di cellule. I comunisti sono i soli che si sanno organizzare così bene. È di là che viene la loro forza politica. D’accordo, Togliatti rientrerebbe domani al governo se glielo proponessi. JJSS: Ponendo quali condizioni? De Gasperi: Nessuna. Senza condizioni. Non chiede che una cosa, rientrare al governo. Se sapesse il lavoro formidabile che hanno fatto quando c’erano. Hanno infiltrato ovunque tutti gli amministrativi. Anche ora, dopo quattro anni, non siamo ancora riusciti a sradicare tutto quello che hanno seminato quando si avvalevano dei posti di comando. Una volta che hanno un ministero, è come la cancrena. È tutto ciò che cercano. JJSS: A suo parere, quali sono le cause reali dello sviluppo del comunismo: economiche o mistiche? De Gasperi: Mistiche soprattutto. La prova è che la carta geografica dell’influenza comunista non segue del tutto quella della miseria. Non sono gli operai peggio pagati che votano comunista, spesso il contrario. Guardi. Durante questa campagna ho voluto anzitutto lottare contro il comunismo usando argomenti economici: innalzamento livello di vita, migliori salari, ecc. Bene, non porta risultati… In fondo la politica è molto più vicina alla poesia che all’economia. JJSS: La legge elettorale, con gli apparentamenti, analoga a quella che ci sarà in Francia la prossima domenica, è uno strumento efficace? De Gasperi: Certo, vede, noi abbiamo avuto una grande vittoria nel riguadagnare la maggior parte dei comuni comunisti. Ma gli apparentamenti, sono anche molto pericolosi. Lo dica per bene in Francia: l’apparentamento addormenta la gente. Fa perdere carattere drammatico alla lotta. Toglie brillantezza ai partiti, altera le convinzioni, uccide l’entusiasmo. Guardi me, sono obbligato a dire o lasciar dire: votate per un socialista o un massone. Evidentemente, si dice che c’è uno scambio, che questi voti si recuperano altrove. Tuttavia, questo toglie un po’ il carattere più profondo ai partiti. Allora, serve molto più vigore e energia nella campagna elettorale. Serve lottare contro l’apatia che l’apparentamento dissemina, lanciare grandi idee, rimetterle in rilievo. Ridare dramma e passione. Evidentemente, bisogna dire: «La patria sopra tutto». È ciò che giustifica l’apparentamento contro i comunisti. Ma allora si ricade sul nazionalismo ed è pericoloso. È ciò che spiega perché i [neofascisti] hanno ricominciato a avere un ruolo. Tutti, alla fine, si servono del nazionalismo. Ritorna molto velocemente. È per questo che bisogna fare l’Unione europea o l’Unione atlantica, serve dare un’altra mistica. E poi, serve farlo molto rapidamente; dopo, sarà troppo tardi. Prenda Adenauer. Lo vedrò qui domani. Cosa gli dirò? Se non si fa l’Europa, se non si distruggono i nazionalismi, questa gente è perduta. Bisogna aiutarla. JJSS: Signor presidente, lei dice che i sacrifici imposti dal riarmo sono una delle ragioni essenziali dell’influenza comunista. Ora, sembra che se la Russia ancora non ha dichiarato guerra sia solo per paura della potenza atomica americana. Allora, in queste condizioni, perché l’Europa deve riarmare? […] De Gasperi: Non è la bomba atomica che ha impedito alla Russia di fare la guerra. Non credo, i russi non hanno fatto la guerra perché non l’hanno voluta fare. Ma può succedere che un giorno lo vorranno, quando si considereranno minacciati direttamente, e non sarà la bomba atomica a fermarli. E poi, c’è soprattutto questo. Guardi, vedo la Russia a un tempo come un impero e come la sede di una fede religiosa. Come impero, essa può ritenere che sia un errore fare la guerra, perché questo costerebbe molto più caro dei vantaggi che potrebbe apportare. Ma come religione, può essere condotta fatalmente a lanciarsi in una guerra, perché una religione non può fissare limiti. Un impero può calcolare, una religione si deve diffondere. Infine, un’altra ragione perché l’Europa riarmi. È per aiutare Stalin . Stalin ha i suoi fanatici, i suoi clericali (se posso dire così) al suo fianco. Lui è un calmo. Ci sono due fazioni. L’argomento che i calmi hanno contro i fanatici al Cremlino è che l’Europa sarebbe un boccone troppo difficile da inghiottire. Quindi, bisogna che noi siamo almeno abbastanza armati perché questo argomento abbia un peso. Il nostro riarmo può essere ciò che farà pendere la bilancia in favore dei calmi, come Stalin, contro i fanatici all’interno del Cremlino. JJSS: Crede che in un paese dove la grande maggioranza della classe operaia è sotto influenza comunista, sia possibile una difesa nazionale in caso di aggressione sovietica? De Gasperi: Sì, le do due ragioni. La prima è che gli operai comunisti sono soprattutto nelle industrie metallurgiche e meccaniche. Ora, in caso di mobilitazione, queste persone sono per la maggior parte richieste specialmente sul posto di lavoro come tecnici e non sono chiamate alle armi. Quindi non rappresentano un rischio per l’esercito. La seconda è che anche nell’esercito, s’intende, ci sono dei comunisti, ma cessano di essere pericolosi una volta in uniforme. A partire dal momento in cui arrivano nell’esercito, sfuggono alla sorveglianza costante dei loro capo-cellula e, poiché la loro convinzione è molto superficiale, dimenticano rapidamente che sono comunisti. Guardi, spesso assisto a delle ispezioni, in una città o in un’altra. Domando ai generali «Allora, i comunisti?». Mi dicono: «No, no, va bene». Poi, abbiamo truppe eccellenti, al di sopra di ogni sospetto, come i carabinieri o gli alpini. Questi sono un nucleo inattaccabile. JJSS: Signor presidente, dato che l’interesse dei russi è di impegnarci inmultiple guerre limitate (come la Corea, l’Indocina, ecc.), per imporci sacrifici crescenti senza che questo costi nulla all’URSS, non dovremmo rifiutarci di giocarea questo gioco e utilizzare il nostro solo atout attuale, che è la bomba atomica? De Gasperi: Mai. In nessun caso deve venire da noi il gesto che trasformerebbe delle guerre locali in una guerra generale. È meglio continuare così. JJSS: Perché l’Italia non ha inviato truppe in Corea? De Gasperi: Che domanda! Perché non siamo ammessi all’ONU. Lei mi vede andare a domandare al popolo italiano di accettare tutti gli inconvenienti dell’ONU senza averne alcun vantaggio? […] JJSS: C’è un problema che ha cominciato a porsi. Il Patto atlantico è stato richiesto, in origine, dall’Europa per assicurarsi che in caso fosse attaccata, l’America sarebbe scattata automaticamente. Ma ora c’è un altro aspetto. È molto possibile che un giorno l’America sia attaccata direttamente da una sorta di Pearl-Harbour atomica, ma che l’Europa al contrario sia salvaguardata se non interviene. Qual sarebbe allora, secondo lei, il dovere di un uomo di Stato europeo: cercare di risparmiare la guerra al proprio paese o entrare in guerra al fianco dell’America? Il presidente mi guarda stupito, toglie gli occhiali, si passa la mano sulla fronte e alza qualche istante gli occhi verso il soffitto. De Gasperi: Crede che sia possibile? Non ci ho mai pensato. Anche Togliatti non ne ha mai parlato. Lei vede un’America spazzata via in una notte, i grattacieli demoliti e le fabbriche ferme. Lei è un romantico. JJSS: No. È semplicemente possibile che la guerra non cominci con un attacco terrestre all’Europa, ma con una gigantesca Pearl-Harbour. De Gasperi: Ma i russi non hanno così tante bombe atomiche, no? JJSS: Forse non ancora. Ma presto. Che farebbe in questo caso? De Gasperi: Credo che sia molto chiaro. Il patto atlantico delimita un’area di solidarietà. Se l’America viene attaccata, noi dobbiamo fare la guerra. Oppure la convenzione non ha più senso. D’altro canto, se l’America fosse battuta, noi saremmo perduti, tanto più [è necessario] difendersi il prima possibile in battaglia. Noti che questo vale per i limiti del patto Atlantico. Non è la stessa cosa per la Corea, la Turchia, il Medio Oriente, la Jugoslavia, ecc. Solo, all’interno del patto Atlantico. Ma, veramente, la trovo un po’ troppo cartesiano. Il presidente guarda i suoi occhiali. I colori diventano blu scuro e bruno sui muri di Roma. Il conte Sforza l’attende in anticamera. Mi dice: «Sta a me farle delle domande. È vero che la Francia è neutralista?» JJSS: Lei cosa crede? De Gasperi: Non credo niente. Ma quello che so, lo so attraverso i vostri ministri o il vostro presidente del consiglio. Ma come stanno veramente le cose? […] |
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| Ho conosciuto Adenauer prima ma l’ho riveduto ora, dopo trent’anni, e quindi vedo segnate sul suo volto tutte le esperienze di un passato laborioso che ha sviluppato la sua personalità. Innegabilmente Adenauer è uno degli uomini di Stato più in vista, che si trova in una posizione tra le più difficili e che dimostra una chiaroveggenza e, soprattutto, una coscienza della sua missione di ricostruzione del suo Paese e dell’Europa che ci fa piacere: tutta una visione diversa dalle impressioni che si potrebbero avere pensando al recente passato della Germania, una visione di collaborazione europea in senso democratico, in senso di forze libere, in senso di giustizia fra le Nazioni e di eguaglianza di diritti fra gli uomini e le classi. |
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| Signor Cancelliere, La ringrazio a nome del popolo italiano, del Governo e mio personale per questa visita che Vostra Eccellenza ha voluto fare all’Italia. Codesto incontro ha confermato la nostra fiducia nel vostro spirito di pace, nel vostro leale proposito di ricostruire la nuova Germania democratica entro il quadro di un’Europa unita e consapevole dei suoi doveri verso la civiltà e il libero regime dei popoli. L’Italia ha seguito col più profondo interesse i vostri sforzi che coincidono con l’ideale del nostro Paese verso la creazione di una nuova Europa. Noi auspichiamo che questi sforzi, i quali trovano lo stesso anelito anche in Francia e negli altri Paesi dell’Occidente, portino ad una sempre più stretta collaborazione, nell’interesse della democrazia e della pace. Considero pertanto la vostra visita, Signor Cancelliere, come un atto di fede nei destini dell’Europa e un impegno di operare sempre più intensamente per la pace, e in collaborazione anche col libero popolo della America per la sicurezza dell’Europa. A tale fede e tali impegni partecipa anche il popolo italiano che – auspicando sempre migliori e più fiduciose le relazioni tra i nostri due Paesi – intende che esse diventino uno stabile elemento della solidarietà europea. Levo il bicchiere, signor Cancelliere, alle pacifiche fortune della Repubblica federale germanica, alla salute del suo illustre Presidente e alla vostra prosperità personale. |
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| Mio caro Ambasciatore, mi riferisco alla lettera del Ministro Sforza dell’11 aprile u.s. n. 44/05008/256 e alla Sua cortese risposta del 23 aprile relativa agli impianti ed attrezzature siderurgici compresi nel piano approvato dall’O.E.C.E. che l’industria italiana ha commesso a diverse fabbriche degli Stati Uniti. Con dolore ho appreso da un recente rapporto dell’Ambasciatore Tarchiani che nonostante i ripetuti passi dell’E.C.A. presso la N.P.A. non è stato ancora possibile ottenere gli ordini di priorità per tali ordinazioni italiane. È mio dovere di amicizia e di lealtà farLe presente, caro Ambasciatore, che in simili condizioni mi diverrebbe estremamente difficile portare il Piano Schuman alla ratifica del Parlamento italiano, poiché tutta la nostra azione in tale questione e il nostro atteggiamento finale sono stati basati sulla premessa tecnica che il Piano di rammodernamento della siderurgia italiana potesse svolgersi nei tempi e nei modi previsti. Mi rivolgo alla Sua amicizia con la speranza che un Suo personale intervento ai più alti livelli possa ancora ottenere dalla N.P.A. i D.O. necessari per l’esecuzione e la consegna delle attrezzature siderurgiche italiane. Le aggiungo anche per Sua memoria che i competenti organismi della N.A.T.O. si sono più volte pronunciati a favore dell’esecuzione di tale programma che è indispensabile al nostro sforzo di riarmo. Grato per quanto vorrà fare, La saluto con viva cordialità. |
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| Caro Sforza, vedo i giornali che riproducono una tua intervista radiofonica sulla questione del Trattato. Non so se l’intervista sia esatta. Comunque mi pare una disavventura che proprio quando ci sforziamo di dimostrare che miriamo alla abolizione del Trattato, per ragioni morali di dignità nazionale, ti mettano in bocca delle frasi che accentuano le ragioni militari; le quali sono naturalmente anche esse connesse alle nostre rivendicazioni di indipendenza ma devono essere e apparire una conseguenza non una motivazione della iniziativa. Ti dissi ieri alcune perplessità intorno allo strumento sostitutivo. Ma a parte questo mi pare che l’argomento vada più approfondito e sarà bene parlarne nel nostro prossimo consiglio. |
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| 1. Come cattolico, crede che sarà mai possibile per le democrazie occidentali vivere pacificamente accanto al comunismo sovietico? 2. Quali condizioni devono essere soddisfatte prima che le democrazie occidentali possano cominciare a ridurre la loro pesante spesa per gli armamenti? 3. L’Italia ha il più grande partito comunista nell’Europa occidentale. I critici dicono che questo è dovuto all’incapacità dei governi del dopoguerra di diminuire la distanza fra ricchi e poveri. È d’accordo? Direbbe, ad esempio, che gli aiuti del piano Marshall sono stati distribuiti equamente? 4. A causa dei suoi problemi di popolazione, l’Italia considera ancora l’espansione coloniale come condizione necessaria per il benessere futuro? Se così è, come pensa di ottenerla in modo pacifico? 5. Molte persone sono preoccupate della rinascita del fascismo in Europa. Se concorda sul fatto che questa è una possibile fonte di pericolo, come pensa che possa essere efficacemente contrastata? 1. Come cattolico, crede che sarà mai possibile per le democrazie occidentali vivere pacificamente accanto al comunismo sovietico? La tolleranza è sempre stata una prerogativa della democrazia. Nel passato la democrazia è stata troppo tollerante. La regola del «vivi e lascia vivere» è stata applicata troppo liberalmente rispetto ai nostri vicini estremisti, che certamente non ci lasciano vivere quando hanno una possibilità. Il comunismo è molto differente: insegnamenti e prassi del comunismo parlano contro la possibilità di coesistenza. Alla fine, ci deve essere assorbimento o distruzione della democrazia, o del «capitalismo» come dicono loro. Nel passato quando la tolleranza andava fianco a fianco con la debolezza, le democrazie hanno cercato guai. La coesistenza dei due sistemi era un problema, perché era forte la tentazione di ribaltare un sistema debole. Le cose però si sono evolute e evolvono. Le democrazie occidentali si sono accorte dei pericoli che le circondano. Alla fine siamo stati costretti a organizzare un sistema di difesa e a riarmare. Stiamo costituendo il migliore deterrente contro le rivoluzioni e la migliore assicurazione contro la guerra. La democrazia sarà al sicuro. La questione che rimane è: il comunismo può prosperare senza uno sfogo? 2. Quali condizioni devono essere soddisfatte prima che le democrazie occidentali possano cominciare a ridurre la loro pesante spesa per gli armamenti? Il completamento del nostro sistema di sicurezza collettiva. Quando questo è assicurato possiamo volgere tutti i nostri sforzi a un altro elemento indispensabile nella nostra lotta per la democrazia e la libertà: l’ottenimento della giustizia sociale a casa nostra. Questo obiettivo è di primaria importanza. Perché quale sarebbe il risultato se fossimo armati per difenderci sul campo ma se non fossimo capaci di raccogliere la sfida del comunismo sulle questioni sociali? Se la nostra lotta contro miseria e disoccupazione fosse perduta? A che servirebbe un esercito di soldati eccellenti se ci fosse un altro esercito di disoccupati? E questo mi conduce alla terza domanda. 3. L’Italia ha il più grande partito comunista nell’Europa occidentale. I critici dicono che questo è dovuto all’incapacità dei governi del dopoguerra di diminuire la distanza fra ricchi e poveri. È d’accordo? Direbbe, ad esempio, che gli aiuti del piano Marshall sono stati distribuiti equamente? Subito dopo la guerra la preoccupazione primaria dei nostri governi è stata quella di combattere la miseria e il basso livello di vita e, con esse, il comunismo. Riforma agraria, sviluppo dell’area depressa al sud, aiuti contro la disoccupazione: questi sono stati i problemi principali che abbiamo risolto. Gli aiuti del piano Marshall sono stati di enorme importanza per noi ma non sono stati sufficienti per contrastare l’effetto di un aumento di popolazione di 400 mila all’anno e l’handicap iniziale di un milione e tre quarti di disoccupati. Questi sono i problemi strutturali dell’Italia che non hanno nulla a che fare con le devastazioni della guerra, che da sole costituiscono un problema enorme per qualsiasi governo. Deve ricordare che abbiamo poche materie prime, che ne dobbiamo importare. A questo si è aggiunto lo sforzo per il riarmo, così la fatica è stata, come ho spiegato, doppia. Se considera che il reddito medio pro capite italiano è estremamente basso (solo un quarto del reddito di un cittadino britannico medio) capirà come ogni ulteriore carico per il contribuente significhi tagliare l’offerta in beni essenziali. Significherebbe abbassare pericolosamente lo standard di vita, non solo una riduzione nei beni di cui uno può tranquillamente fare a meno. Prima della guerra l’emigrazione ci ha aiutato enormemente. Ha eliminato il nostro surplus di popolazione. C’era un flusso in media di 400mila emigranti quando la popolazione italiana era di appena 35 milioni. Ora siamo 45 milioni e spediamo all’estero ogni anno meno di 100 mila emigranti. Il recente accordo con il governo australiano cui il governo britannico si è tanto interessato, cogliendone l’importanza, è un incoraggiante passo avanti. Credo che tutti dobbiamo capire che se noi democrazie dobbiamo cooperare, la cooperazione deve coprire anche l’ambito del lavoro. Il lavoro in eccesso in certe aree deve trovare uno sfogo dove la forza lavoro è scarsa. Dobbiamo capire che se bisogna togliere tariffe e barriere, questo deve valere non solo per i beni ma anche per la manodopera. Se non lo capiamo, non raggiungeremo mai in Europa un utile lavoro di squadra. Sono d’accordo che le cose debbano essere fatte per gradi, ma dobbiamo iniziare. 5. Molte persone sono preoccupate della rinascita del fascismo in Europa. Se concorda sul fatto che questa è una possibile fonte di pericolo, come pensa che possa essere efficacemente contrastata? Non bisogna sovrastimare l’importanza del fascismo come movimento, ma bisogna tenerne conto. È un ricorso agli estremi proprio come il comunismo. La dittatura attira coloro che sono insoddisfatti e che sono in cerca di qualcosa di migliore. Nel caso della gioventù è a volte una questione di ideali o ideali delusi. Dobbiamo dimostrare che la democrazia può offrire ideali migliori e più solidi, anche se non così rumorosi e plateali, ma dobbiamo dimostrare che democrazia significa cooperazione internazionale – non solo parole ma anche fatti – e quindi implica una soluzione dei problemi più completa rispetto alla dittatura e alla sua autarchia. Questo ci porta ancora all’aspetto economico. Le darò un esempio: il sistema di difesa comune che abbiamo messo in piedi ora significa lavoro per le nostre industrie e i nostri cantieri navali. Perché non si fanno questi ordini? Risolverebbero molti problemi in Italia dove fabbriche e cantieri navali sono inattivi e i lavoratori sono disoccupati mentre [in] altri paesi c’è occupazione anche per le donne. Lavoratori e fabbriche inoperosi significano scontento nelle file dell’estrema sinistra o dell’estrema destra. Questo è solo un esempio, ma vorrei mettere in chiaro questa verità: oggi i problemi di ogni paese sono i problemi di tutti gli altri. È un errore credere che si possa evitare la contaminazione attraverso l’isolamento. Per evitare la contaminazione dobbiamo unirci per risolvere assieme questi problemi. In altre parole l’unità d’Europa non è più, come forse è stata, soggetto per piacevoli speculazioni. Non è un lusso, ma una necessità urgente. Concordo sul fatto che noi in Italia siamo i principali sostenitori dell’idea perché ne sentiamo maggiore necessità ma è solo questione di tempo. Gradualmente, tutti sentiremo la necessità con la stessa intensità. I vostri statisti in Gran Bretagna e quelli sul continente ne sono convinti: differiscono solo su tempi e procedure. Ma quando avremo scoperto i mezzi più consoni, noi europei saremo nella posizione di rendere ancora un altro servizio alle cause a cui abbiamo sacrificato già tanto, pace, sicurezza e giustizia sociale. |
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| 101951-1955
| Caro Gallarati Scotti, mi sembra molto pericoloso addentrarsi sino da ora nello stabilire un ordine di priorità per le questioni da esaminarsi nel cosidetto «secondo tempo» della revisione. E mi sembra ancor meno conveniente per noi il prestarsi a far inserire come primo argomento la questione più difficile. Ciò equivarrebbe a rimandare il tutto alle calende greche. La questione di Trieste è fra tutte la più delicata, e appunto per questo non si può né stabilire a priori il preciso momento della sua trattazione, né subordinare alla sua soluzione quella di altre questioni che apparissero, e in realtà sono, più facili. La questione del TLT è bensì compresa nel quadro della revisione del Trattato, ma deve essere considerata alla luce della nostra partecipazione alla politica atlantica e a questa coordinata. Né va dimenticato che i destini della nuova democrazia italiana sono per molta parte collegati con questa questione. |
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| Sulla dichiarazione abbozzata da Schuman, Quaroni mi manda un dispaccio personale da Vichy 18, arrivato qui ieri. Egli dice di averne avuta copia confidenziale dal capogabinetto di Schumann e di aver proposta qualche correzione. Non ha ottenuto però che si escluda la «riserva dei diritti di terzi», perché, disse il capogabinetto, si incontrerebbero obiezioni circa le riparazioni da parte di Jugoslavia, Grecia e Etiopia. Schumann avrebbe poi fatto sapere di temere che inglesi condizionerebbero loro adesione all’impegno di accordarsi [con] noi nella questione di Trieste; ma che egli resisterebbe a tale condizionamento. Spero che gli uffici esaminino rapidamente e a fondo le conseguenze, i limiti, il tenore più o meno accettabile dell’abbozzo. Si voglia sentire anzitutto il parere del Conte Sforza. Mia prima impressione: la dichiarazione si propone «di risolvere i problemi posti dal Trattato»: proposito ottimo ma forse troppo impegnativo, se si confrontano con esso le clausole più particolari che seguono. Nel secondo comma trovo anacronistica la parafrasi della formula di Potsdam; si dovrebbe dire che l’Italia, conforme alle sue idee e istituzioni democratiche… ha apportato alla lotta dei popoli liberi tutta la sua solidarietà. Nel quarto comma la riserva dei diritti acquisiti è troppo dura e illimitata: se trattasi veramente di riparazioni, conviene specificarlo. Ma riparazioni non sono né restrizioni né discriminazioni. Che cosa vorrebbe dire poi in concreto «sforzarsi di permettere»? E ancora: al quarto comma si dice «per ciò che le riguarda», anche questa limitazione mi pare renda vana la dichiarazione, perché i tre lasciano la responsabilità di una eventuale violazione del Trattato all’Italia. Ammetto che si è fatto un certo sforzo, ma converrà studiare bene e a tempo ogni lato e ogni possibilità di interpretazione. Non vedo come gli inglesi si potrebbero porre condizioni circa il T.L. O le questioni territoriali sono totalmente escluse – ed è già questo per noi dura cosa – ovvero sono tra i «problemi posti dal Trattato» o infine sono «fra i diritti acquisiti da terzi». Su ciò bisogna avere chiarezza. Quando si parla di terzi non può trattarsi per firmatari del Trattato, né soprattutto dei tre. Il problema, posto dal Trattato e rimasto insoluto, è veramente quello del T.L. e i terzi veri sarebbero l’ONU; ma qui, deferendo all’ONU, si corre il rischio di annullare la Tripartita. Mi pare che il minimo che si possa chiedere è che nella presente dichiarazione non si annulli né implicitamente né surrettiziamente la Tripartita. Non oso far proposte in questo momento; ma forse si potrebbe inserire al comma 1 oltre «lo sviluppo armonico della cooperazione ecc.»: «e delle dichiarazioni che le esperienze fatte finora dell’applicazione del Trattato hanno suggerite». Meglio se si può specificare ancora. Questo è un minimo, parmi. Per il sottosegretario Taviani: Ho parlato con Lombardo che accetterebbe e arriverà in un paio di giorni da te. Però prima del 20/9 non sarebbe disponibile. Naturalmente ho riservata l’approvazione al Consiglio dei Ministri. Per l’on. Taviani: Sulle questioni principali in corso possibilmente sentire il parere di Sforza. Come potremo rendere evidente in America, specie in qualche riunione italiana, il problema del T.L.? Se potessimo riprodurre su lastra le tre linee e poi la cartina del T.L.? |
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| I. Ambrosini rileva importanza clausole economiche (a.78-83) Soc. anonime Straniero con solo fronte d’azione. Nessun termine fissato. Continuano rinuncie. Non c’è termine di scadenza. Una riserva gen[erale] dei diritti di terzi (privati) ci conduce all’infinito. Bisogna chiarire e precisare una richiesta. II. La «questione morale» non ha importanza le clausole territoriali non si possono citare. Chiedere anche al Tesoro. III. Idea della cattedra arabica in Palermo. Trattato. Sovranità Trattato art. 27 […] Allegato 7 art I fino all’entrata in vigore del Governatore. Com militare in base occupazione (…) inoltre art 10 leggi e reg. esistenti in vigore fino revoca Governatore. Allegato 6 art 14 eserciz. potere giudiziario, eccede i poteri del GMA. […] La volontà degli alleati, il principio dell’annessione del TLT all’Italia 2) che nella zona B fosse eliminata ogni attività persecutoria contro gli italiani. Il mantenimento di queste due premesse avrebbe preparato la possibilità di conversare con oggettiva spassionatezza su tutto il complesso delle nostre relazioni con i nostri vicini jugoslavi coi quali nell’interesse nostro, della pace e della sicurezza di tutti, è sempre augurabile una distensione. Non c’è bisogno di ricordare che la dichiaraz tripartita fa […]. Ora sarebbe esagerato il dire che sia accaduto alcunché di irreparabile benché sistematiche inadempienze hanno effetti disastrosi, su cui non voglio insistere. Spiegare N. 8 e non avere tutti i controlli sui porti, altrimenti le dogane sono perdute. N. 9 anticipare N. 10. |
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| Signor Ambasciatore, come sa V.E., gli impegni dello scorso mese di agosto furono di tale natura da impedirmi di ricevere personalmente, secondo il mio desiderio, una rappresentanza della comitiva della Bund Deutscher Jugend, in occasione del suo viaggio in Italia. Ma ho apprezzato moltissimo l’album che i giovani hanno voluto dedicarmi, con la documentazione dell’attività da essi svolta a favore delle libertà democratiche. Rivolgo ora una viva preghiera all’E.V. perché voglia rendersi cortese interprete dei miei ringraziamenti presso la Lega della Gioventù Tedesca. Mi è gradito di poterLe rinnovare, Signor Ambasciatore, i sensi della mia alta stima. |
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| Per venire a Parigi, – ha dichiarato il presidente uscendo dal Palazzo Matignon – sono passato da Santa Margherita. Sono venuto quindi, con lo spirito di quella conferenza che è la base dei rapporti tra le due Nazioni ed i due Governi. Abbiamo parlato della situazione politica generale, dell’esercito europeo, e della organizzazione della difesa nella quale le soluzioni sono comuni e parallele. Abbiamo anche parlato di Trieste – ha concluso l’on. De Gasperi – ma su questo punto, è noto come la Francia e l’Italia, abbiano vedute identiche. De Gasperi, alle insistenti domande dei rappresentanti della stampa, ha risposto sottolineando la cordialità del colloquio da lui avuto con il Primo Ministro francese, ed ha quindi espresso la speranza di ottenere la revisione del trattato di pace a Ottawa o nella successiva conferenza di Roma. Interrogato sui problemi interni italiani, l’on. De Gasperi ha dichiarato che il più importante e il più urgente è quello della disoccupazione, aggiungendo: L’Italia ha circa due milioni di disoccupati e la sua popolazione aumenta ogni anno di 400.000 unità. Nonostante le riforme e il programma di lavori pubblici è quasi impossibile che l’Italia risolva da sola il problema della disoccupazione. Che si passino più commesse alla nostra industria, che ci si diano maggiori possibilità di emigrazione e noi saremo salvi, meglio ancora che con l’assistenza del Piano Marshall. |
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| In attesa di stringere fraternamente la mano agli amici d’America, rispondo con piacere all’invito rivoltomi dal Progresso Italo-Americano di far giungere loro questo anticipato saluto. Oltre ai tradizionali vincoli che sempre furono nostri, oggi più che mai ci unisce un alto ideale: lavorare insieme per difendere la pace e quelle libertà democratiche senza le quali ogni civiltà e tradizione di storia o sentimenti sono destinati ad inaridire. |
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| In occasione delle sue dimissioni desidero esprimerle l’ammirazione e la gratitudine del governo e del popolo italiano per il suo eccezionale contributo come uomo di stato per il ristabilimento della democrazia, in particolare attraverso gli aiuti del piano Marshall al mio paese e alle altre nazioni libere d’Europa e per il la sua recente azione nell’organizzazione della sicurezza collettiva. |
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| Signore e Signori. Grazie, Sig. Aldrich , per le gentili parole. È davvero incoraggiante in tempi come questi sapere di avere il sostegno degli amici. L’ultima volta che sono stato in questa meravigliosa città – più di quattro anni fa – ho avuto l’onore di essere vostro ospite . Allora abbiamo parlato insieme dei nostri problemi e dell’urgenza di individuare delle soluzioni. Da allora abbiamo tutti lavorato sodo e abbiamo anche raggiunto molti risultati. Eppure, dobbiamo essere franchi. Guardandoci intorno oggi, vediamo che di fronte a noi ci sono dei problemi ancora maggiori e che l’urgenza di risolverli è cresciuta. Ma anche un’altra cosa è cresciuta: mi riferisco alla stretta amicizia e collaborazione fra i nostri due paesi, che ci ha reso possibile andare tanto avanti. Il sostegno americano è stato di primaria importanza in questi anni nell’aiutarci a ristabilire saldamente la democrazia e a rafforzare la nostra economia. Ora questa economia desidera restituire la collaborazione. Per collaborare deve funzionare e per funzionare deve essere vitale. Desideriamo contribuire a organizzare la sicurezza per il nostro modo di vivere, un miglior livello di vita e maggiore libertà con tutta la capacità e la forza lavoro che giace improduttiva e attende un’opportunità. La nostra motivazione e l’importanza del compito che ci spetta, signori, sono tali da assicurare la più piena collaborazione fra noi tutti. |
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| Migliaia di rappresentanti italo americani di New York ed altre città America interpretando pensiero questa nazione hanno tributato questa sera grandiosa manifestazione al destino italiano del territorio Trieste e riaffermato di fronte a voi e per mio mezzo l’impegno di azione costante presso autorità e opinione pubblica per sicuro ritorno alla patria. |
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| Da tanto desideravo visitare il Canada e ora sono felice di trovarmi finalmente qui. È una favorevole coincidenza che la mia prima visita al vostro grande e bel paese abbia luogo in occasione di una riunione del Consiglio Atlantico. Questo mi dà l’opportunità di incontrare per la prima volta il popolo canadese, tanto ricco di energie di lavoro e tanto legato alla tradizione cristiana e agli ideali di pace e di collaborazione internazionale, nel momento in cui accoglie sul proprio suolo la grande organizzazione di Nazioni dedite alla causa della libertà e della democrazia per il progresso materiale e morale dei popoli. |
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| 101951-1955
| Results of our recent elections. Administrative elections show stability in the numbers of communists, slight increase in the extreme right. Forced idleness of shipyards and reduction of work in factories bring to unemployment landowners are against landreform national elements in the right . Si lagnano della situazione anomala del Trattato di pace, accusano gli alleati di governare la zona A del Territorio Libero, come se dovesse rimanere uno stato a sé e di tollerare, contro la loro convinzione e la loro solenne dichiarazione che Tito compia la cacciata degli italiani dalla zona B e annetta la zona B colle sue città italiane alla Jugoslavia. Il riarmo non ha migliorato la situazione industriale, perché il problema delle commesse non è stato risolto, le materie prime sono divenute scarse, i prezzi sono aumentati, la politica anti inflazionista colla restrizione del debito aumenta la disoccupazione. Una campagna vivacissima ci accusa di preparare una guerra offensiva, perché s’istituiscono comandi e basi navali e si specula sopra l’orrore della guerra, naturale in un paese che fu sì largamente colpito. È qui da dire che questa campagna fa breccia in tutti i paesi d’Europa, perché noi manchiamo di una contropropaganda bene organizzata e comune a tutti gli Europei. Bisogna assolutamente insistere perché si organizzi una campagna psicologica che dimostri che il PA vuole creare soprattutto la resistenza della democrazia europea e unirla in uno sforzo ricostruttivo, che il riarmo è un mezzo, non un fine a sé stesso, che se l’Unione Sovietica non si opporrà a questa ricostruzione politico-economica delle nazioni libere, la convivenza sarà possibile e che l’America aiuta tale sforzo non per imperialismo proprio, ma per mettere in grado l’Europa di difendersi da sé e di garantire il proprio sviluppo. L’interpretazione fatta a Ottawa dell’art. 2 sarà un magnifico argomento di propaganda; come il manifesto dell’OECE sulla possibilità di fare il riarmo e di sviluppare gl’investimenti civili, aumentando la percentuale della produzione sono argomenti che devono essere dibattuti nel PA, nel Consiglio europeo e nei singoli parlamenti. Bisogna che questa politica nuova si faccia e s’intensifichi subito. Avremo le elezioni generali politiche entro 18 mesi. Più urgente è l’intervento in Germania. Se cade la coalizione Adenauer, è quasi escluso di arrivare ad una politica ricostruttiva. Ho questo messaggio da comunicarvi. Quanto più andiamo avanti, si affaccia la minaccia del rinascente nazionalismo. Non credo che con la forza si possa contenere nemmeno in Germania, ma è consigliabile appoggiare i partiti democratici soddisfacendo i loro postulati costituzionali entro certi limiti, come state facendo, ma non attardatevi e non lasciate credere che fate tutto questo solo per il riarmo. Per riguardo ai francesi si è perduta una buona occasione di opporre alla politica di rappresaglia russa una politica che presuppone una certa fiducia nello sviluppo della democrazia. |
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| 101951-1955
| Voi in America avete commentato i risultati delle nostre recenti elezioni. Questi risultati (questo è stato il caso in Italia e anche in Francia) dimostrano stabilità nelle percentuali della opposizione comunista e un lieve incremento nell’estrema destra. In altre parole, tradotto in termini economici, questo dimostra che nonostante tutti i vostri aiuti e l’intensa azione da parte del governo non abbiamo pienamente soddisfatto i bisogni economici del paese. L’inattività forzata di cantieri e fabbriche con la conseguente disoccupazione causa scontento: a) Scontento dei lavoratori che restano comunisti, b)Scontento dei proprietari (grandi capitali, esponenti della finanza e dell’industria) che si spostano a destra. Molti elementi della destra e dell’estrema destra non sarebbero contrari al Trattato atlantico, ma accusano il governo di debolezza perché non negozia la sua partecipazione al Trattato e perché dà il proprio assenso troppo facilmente a ogni richiesta fatta dalle potenze atlantiche. La propaganda in questo senso è particolarmente efficace dove ci sono disoccupazione e inattività degli impianti industriali. L’obiezione è: perché il governo non ottiene commesse militari? Perché non ottiene lavoro per compensare i sacrifici imposti alla nazione dal trattato? Perché continuiamo ad avere disoccupati, mentre in Gran Bretagna vengono assunti lavoratori donne e bambini perché non c’è più forza lavoro sul mercato? Quindi la solidarietà atlantica è solo a parole – dicono – mentre l’industria italiana rimane soffocata e non riesce a risollevarsi (competizione internazionale). Voi capite che questo significa che il governo deve fare uno sforzo maggiore per sostenere queste industrie e questi disoccupati; questo sforzo potrebbe invece essere concentrato sul riarmo. Commesse militari dei paesi NATO sponsorizzati dagli Stati Uniti allevierebbero grandemente la situazione. Utilizzerebbero capacità non produttive nel nostro paese, allevierebbero la tensione politica e metterebbero i nostri strumenti tecnici e il nostro lavoro qualificato a disposizione della sicurezza collettiva. |
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| 101951-1955
| Eccellenze, reverendi padri, perdonatemi se non osservo l’usanza tradizionale di ringraziarvi del grande onore che mi è stato fatto con l’attribuzione di un grado accademico da parte della vostra Università. Non mi crediate un ingrato. Sono molto riconoscente, senza dubbio, ma più che di riconoscenza si tratta di gioia. Perché so bene che con questa attribuzione voi avete voluto rendere omaggio al mio Paese. Noi uomini passiamo presto, e lo si pensa di sovente quando si comincia a percepire che gli anni passati sono più numerosi di quelli che verranno. Dio solo sa che grado accademico ci sarà accordato alla fine dei nostri giorni, ma senza dubbio non sarà un «Honoris causa». Gli uomini scompaiono, ma i popoli e i Paesi restano. Ognuno di noi, nel corso della propria vita, esercita con le sue opere un’influenza, più o meno cosciente, su questi popoli e su questo Paese. Quando ci si lamenta degli avvenimenti e dei costumi dei nostri giorni bisognerebbe pensare più spesso che spetta a noi, a ciascuno di noi, preparare un avvenire migliore. È soltanto col nostro esempio e con l’applicazione quotidiana dei principi morali cristiani che noi possiamo lasciare delle tracce utili a coloro che ci seguono. Non è questione di destra o sinistra. Se non si crede e se non si cerca di applicare i principi della nostra fede, è inutile combattere perché la battaglia sarà persa prima di essersi impegnati. Ci serve almeno altrettanta fede rispetto a quella che hanno i nemici della nostra civiltà, perché spero per loro che la maggior parte siano in buona fede. Mi domando se la gente pensi a tutto questo. Non è questione di vincere o perdere una battaglia nel senso storico del termine. Oggi si tratta di sparire completamente nell’onda o di reggere il colpo. La preparazione materiale non è sufficiente se ci manca quella spirituale. Ecco perché un’istituzione come la vostra è preziosa per l’avvenire della nostra civiltà, perché la formazione culturale dei giovani non è sufficiente se si lasciano da parte i valori morali e spirituali. I principi che vi ispirano sono gli stessi che cerchiamo di seguire e di far seguire nel nostro Paese, il Paese che voi avete voluto onorare oggi e a cui vi uniscono tanti legami ideali Sono ben differenti questi due Paesi, Canada e Italia, ma spiritualmente sono molto vicini l’uno all’altro. Le Alpi sono molto giovani dal punto di vista geologico, mentre la terra di San Lorenzo è fra le più antiche del mondo. Pure l’età di Roma e Ottawa non è la stessa. Non pensate, reverendi padri, che poiché gli ideali sono gli stessi quando si crede negli stessi valori spirituali e morali, questo giovane Canada pieno di energie e risorse e questa vecchia Italia che ha visto tanta storia e ha provato tante sofferenze ma non ha mai perduto la sua fede potrebbero divenire amici sempre più sinceri e trarre entrambe profitto da questa amicizia? Questo è ciò che auguro ai nostri due popoli e che spero di veder realizzato. È con questo spirito di fraternità che, ne sono certo, i canadesi hanno accolto gli italiani che si vengono a stabilire da voi non soltanto per guadagnarsi da vivere ma per aiutarvi a sviluppare il Canada di domani che è oggi così pieno di promesse. Audiam quid loquatur in me Dominus Deus quoniam loquatur psalem in plebem suam Ps 84,8. La voce interiore vi sia sempre di aiuto per parlare di pace al popolo che intende. |
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| 101951-1955
| Noi ben sopratutto comprendiamo che nessun popolo può sentirsi forte e sicuro se non riesce ad avere buone relazioni coi vicini; ma la Jugosl[avia] deve ben sapere quali straordinari vantaggi potrà ottenere, se avrà assicurata l’amicizia del democratico popolo italiano. Vi ringrazio in particolare di aver confermato il vostro atteggiamento di principio sulla questione di Trieste, ciò che avete fatto, perché sapete che siamo d’accordo con voi nel proposito di migliorare e rendere feconde le nostre relazioni colla Jugoslavia, miglioramento che sarà sicuro, se migliorate saranno le condizioni dei nostri fratelli sulla frontiera. |
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| 101951-1955
| Quale rappresentante di un paese situato nella zona immediata del pericolo e che, anche se l’aiuto esterno potesse rimediare in parte alle debolezze della sua struttura economica troverebbe comunque dei limiti artificialmente creati dalle restrizioni del trattato di pace, sono naturalmente disposto più di altri ad ammettere l’insufficienza dei mezzi di difesa dell’Europa occidentale rispetto ai programmi previsti come necessari dagli esperti. Vorrei anche sottolineare, attraverso la testimonianza diretta di quanto successo nel mio paese, il significato delle dichiarazioni rese dal Sig. Acheson riguardo al grande successo della politica di assistenza statunitense in Europa. Infatti attraverso la collaborazione dei paesi liberi il Patto atlantico, come il piano Marshall, ha avuto il risultato di sollecitare, incoraggiare, rendere possibile la resistenza sul fronte interno, e di stabilire un fronte difensivo della democrazia. Senza questo atto di solidarietà, soprattutto da parte del continente americano, la prima linea del fronte anticomunista in Europa sarebbe già stata spezzata senza che fosse possibile opporre alcuna resistenza. Siamo quindi davanti a un successo preliminare di grande importanza. Non è certamente necessario ricordare qui che coloro che hanno formulato l’art. 2 del Patto atlantico avevano ben chiari i due aspetti della minaccia bolscevica: l’invasione armata attraverso le frontiere e il rovesciamento delle libere istituzioni dall’interno. La difesa contro l’aggressione armata è diventata, nel Patto atlantico, una responsabilità condivisa della sicurezza comune, mentre la difesa contro l’erosione interiore resta responsabilità immediata di ogni governo libero; ma il patto prevede che le nazioni associate seguano una politica generale per lo sviluppo della democrazia attraverso la cooperazione internazionale oltre che attraverso uno sforzo comune verso la giustizia sociale. Era chiaro, a chi ha redatto il trattato, che all’impegno comune di una sicurezza garantita dalle forze armate deve corrispondere l’interesse comune di combattere il comunismo alla radice. Per dirla con Truman, il modo migliore per fermare la sovversione istigata dal Cremlino è colpire alla radice l’ingiustizia sociale e il disordine economico. È chiaro che, in questo ambito, il compito principale e la responsabilità diretta sono in capo a ogni governo nazionale. Per quanto concerne il mio governo, tengo a sottolineare che il problema della redistribuzione della ricchezza ha tutt’altro aspetto in un paese dove il reddito annuale pro capite ammonta a 670 dollari e in uno dove è di soli 248 dollari lordi. Inoltre, il pieno impiego pone un problema ben più difficile per un paese che, come l’Italia, ha una crescita annua della popolazione pari a 450mila individui, una domanda nel mercato del lavoro che aumenta ogni anno di 200mila unità e che, infine, non possiede materie prime e deve sempre contare sull’esportazione di manodopera. Il governo italiano non risparmierà gli sforzi per moltiplicare la possibilità di lavoro. Ma non sarebbe forse nell’interesse comune che i disoccupati italiani potessero trovare un’occupazione, foss’anche temporanea, nei paesi dove la manodopera scarseggia, specialmente nel settore della difesa e della produzione militare di cui oggi ci occupiamo? Non sarebbe possibile e desiderabile che i cantieri italiani, che sono attualmente quasi abbandonati, o che le industrie meccaniche, obbligate a congedare i loro operai, lavorassero per i paesi atlantici e dunque per la causa comune? L’offerta di lavoro è certamente più efficace e decisiva dei contributi finanziari, poiché fa aumentare la produzione dei mezzi di difesa, incoraggiando anche gli operai alla resistenza contro la sovversione comunista. Non vorrei attirarmi il rimprovero di parlare solo del mio paese, benché questo rappresenti un settore della difesa comune che non potrebbe essere spezzato senza pericolo per gli altri, né che voi pensiate che pongo delle condizioni riguardo al comune dovere di difesa. Ma l’esperienza storica ci prova che la resistenza del fronte interno è indispensabile per la tenuta del fronte esterno. Mi permetterete in proposito qualche osservazione suggeritami dal comunicato pubblicato alla fine delle conversazioni anglo-franco-americane a Washington. Il comunicato ha infatti menzionato la contraddizione esistente fra certe clausole contenute nel trattato di pace italiano e la posizione dell’Italia fra le nazioni libere. I tre governi guardano con simpatia alla possibilità di eliminare questa contraddizione. Potrebbe esserci migliore occasione di questa, che ci riunisce tutti intorno a questo tavolo, per mettere fine a una discriminazione del tutto ingiustificabile e incompatibile con la piena sovranità dell’Italia e con la sua partecipazione, su un piano di eguaglianza di diritti e doveri, alla comunità atlantica? Credo che voi siate tutti d’accordo sul fatto che le relazioni fra le nazioni alleate e l’Italia potrebbero essere fondate solamente sulla leale collaborazione di noi tutti per la difesa della libertà e della pace, nello spirito della Carta delle Nazioni Unite. È nello stesso spirito che la delegazione italiana ha preso atto con soddisfazione del fatto che le tre potenze occupanti hanno deciso di giungere ad un accordo con il governo federale tedesco su una nuova base contrattuale adatta a salvaguardare in gran parte la sua libertà costituzionale e la sua sovranità nazionale. Mi auguro che i negoziati a tal fine siano avviati al più presto, poiché un’azione ritardata potrebbe essere pericolosa per tutti i nostri paesi. D’altra parte, il Sig. Schuman ha espresso l’augurio – e anzi la certezza – che la conferenza per l’esercito europeo possa terminare i suoi lavori in maniera favorevole e rapida. Il Sig. Morrison ha assicurato l’interesse e la simpatia della Gran Bretagna per i futuri sviluppi tecnici della Conferenza e il Sig. Acheson, a nome degli Stati Uniti, ha dato il suo pieno appoggio all’iniziativa, in considerazione del fatto che essa permette di assicurare alla difesa occidentale il contributo tedesco, che essa costituisce un passo avanti verso la creazione di una comunità europea il più possibile unificata e rafforzata. L’Italia ha dato dal principio la sua adesione all’iniziativa in questione, tenendo soprattutto conto del fatto che un esercito europeo unificato può costituire la base di un’organizzazione federale fra i paesi europei. Abbiamo la ferma intenzione di fare del nostro meglio per cercare di superare le difficoltà di carattere costituzionale, amministrativo e finanziario che, non lo si può negare, si presentano. Bisogna soprattutto trovare una soluzione al problema del bilancio, cioè al problema delle spese comuni che non può essere affrontato senza la disposizione favorevole dei parlamenti nazionali. Ciò che è importante è che, studiando le questioni strutturali, si possa trovare un sistema provvisorio che permetta alla Germania di cominciare a dare da subito il proprio contributo alla difesa comune. La parola d’ordine dei «partigiani della pace» è che «la militarizzazione della Germania costituisce il casus belli». Bisogna contrapporvi l’argomento che se un riarmo massiccio e incontrollato potrebbe creare paura e sospetto, qui si tratta al contrario di salvare una repubblica libera attraverso mezzi difensivi limitati, nel quadro di un esercito europeo. Bisogna sottolineare che mano a mano che questa repubblica si sviluppa e ottiene le sue libertà costituzionali, essa sviluppa anche la possibilità di difenderle col concorso delle sue forze armate. Qualche parola ancora sul problema psicologico, toccato dal Sig. Morrison e da altri. Mi permetterete di ricordare che l’allargamento del Patto atlantico e le integrazioni che si renderanno necessarie, al di là delle formule del patto, per ragioni di opportunità strategica e per l’estensione inevitabile della line di difesa, non fanno che rendere ancora più indispensabile una direttrice costante per la propaganda psicologica e una tattica più efficace e più appropriata per affrontare i problemi dell’opinione pubblica europea. Il tessuto connettivo che riunisce gli stati liberi dell’Europa è il sentimento della libertà politica e l’esperienza comune del regime democratico. Abbiamo propagandato il Patto atlantico in nome della democrazia e continuiamo a farlo confrontandoci con i regimi comunisti al di là della cortina di ferro e fino ad ora non abbiamo potuto fare discriminazioni a favore delle une o delle altre. Desideriamo che una distinzione possa essere fatta, mano a mano che il loro regime si evolve verso principi di tolleranza politica, almeno per i paesi che cominciano ad avvicinarsi all’occidente. Ma queste distinzioni non devono, a mio avviso, essere giustificate solamente da una politica discriminatoria ispirata unicamente all’interesse militare, perché altrimenti correremo il rischio di ricadere nell’illusione nutrita durante la seconda guerra mondiale riguardo all’Unione Sovietica. Che sia ben chiaro che non mi faccio avvocato di una interferenza non dovuta negli affari interni dei differenti paesi. Nondimeno credo che la propaganda del Patto atlantico debba seguire una linea costante di difesa e valorizzazione della democrazia, poiché tale è lo spirito che spinge i popoli liberi dell’Europa ai sacrifici necessari per la difesa e tale deve essere l’idea suggestiva che dobbiamo fare penetrare nello spirito dei popoli satelliti. Non si può negare che le campagne bolsceviche per la pace hanno avuto successo: la nostra propaganda, disordinata e a volte contraddittoria, è riuscita a malapena a preservare i nostri popoli dal contagio epidemico. Bisogna passare all’offensiva nella propaganda, ma questa non si può fondare, in Europa, che sull’idea di libertà e di civiltà e deve essere fatta in base a delle direttive stabilite d’accordo con tutte le forze democratiche, lasciando a ogni paese di trovare l’espressione più conforme al suo spirito nazionale. Questi sono i problemi della tattica politica che ho creduto di dovere mettere in rilievo. Voi sapete, in virtù della vostra profonda esperienza, che tutte le grandi evoluzioni storiche, anche se determinate in una delle loro fasi dalla forza, hanno la loro origine nel dinamismo di un’idea fondamentale. Alcuni di noi pensano che il comunismo – intendo dire la sua espansione in Europa – sia semplicemente conseguenza dell’espansione della società, e che causi soltanto un cambiamento nella struttura sociale. Al contrario, malgrado il suo fondamento economico e le sue origini materialiste, il comunismo è capace di sedurre la gioventù attraverso un abile utilizzo delle idee universali di pace, di giustizia internazionale, di dignità e indipendenza dei popoli. Si pone come promotore di tutte le rivendicazioni, comprese quelle di un nazionalismo esagerato. Sta a noi dimostrare che il bolscevismo, nei problemi del dopoguerra e in quelli della pace, è il nemico di ogni distensione e di ogni compromesso e che, nelle questioni territoriali, siano esse grandi o piccole, la politica sovietica mira a esasperare i conflitti, a escludere sistemazioni eque, a mantenere sanzioni di guerra contro le nazioni che ritrovano l’indipendenza. Perché, infatti, l’Unione Sovietica si oppone ostinatamente all’ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite, quando questa ammissione spetta di diritto al mio paese, ancor più per il suo regime democratico, la sua tradizione di civiltà, il suo contributo alla cultura e al progresso attraverso i secoli? È a voi, rappresentanti di paesi liberi e amici, che chiedo di non piegarvi a questa azione di ostracismo ingiustificabile, che è nel contempo una aperta e iterata violazione del trattato di pace e una condanna morale che nessun membro del Patto atlantico può tollerare. Vi chiedo anche perché l’Unione Sovietica abbia rifiutato, al tempo dei negoziati di pace, di accettare una o l’altra delle differenti linee etniche proposte da Stati Uniti, Regno Unito e Francia come frontiera fra l’Italia e la Jugoslavia e abbia imposto il compromesso del Territorio libero rifiutando ogni soluzione basata su considerazioni etniche che avrebbero eventualmente potuto essere verificate con dei plebisciti. Si tratta di una politica che mira alla discordia fra i popoli e impedisce la collaborazione e la coesistenza pacifica. Vi prego di credere che noi non pratichiamo l’intransigenza per principio. No. Noi insistiamo per creare un vicinato che attraverso la sua struttura razionale possa assicurare la pacifica collaborazione fra due paesi contigui e risolvere così questa questione nell’interesse della difesa occidentale. Ecco un caso in cui ciò che ci ha detto sabato scorso il Sig. Morrison dovrebbe trovare applicazione: cioè che bisogna sostenere la fede delle masse nei principi della morale e della giustizia se si vuole domandare loro di fare degli sforzi pesanti e di sottomettersi a duri sacrifici. Bisogna che alla strategia sovietica che è ancore animata da uno spirito di guerra, la comunità atlantica opponga non soltanto il suo sforzo di organizzazione difensiva ma anche una politica di libertà, di pace, di giustizia sociale e internazionale e, per quanto riguarda il mio continente, di unità europea: ecco gli ideali che rianimeranno gli spiriti nella vecchia Europa, che riscalderanno i cuori dei giovani e creeranno, dietro agli eserciti, il fronte degli uomini liberi. [Versione attribuita da Bartolotta] Sono noti a tutti voi, e non c’è quindi bisogno che io ne faccia qui una dettagliata rassegna i risultati benefici ottenuti finora dal Piano Marshall e dal Patto Atlantico. Basterà che io sottolinei che detti risultati si riassumono nella creazione di un baluardo di difesa della democrazia, nella sicurezza collettiva nei confronti dei pericoli esterni e nella restaurazione morale ed economica all’interno dei singoli Paesi. Vorrei piuttosto richiamare la vostra attenzione sul contenuto dell’articolo 2 del trattato perché mi pare veramente importante, guardando al futuro, sottolineare le prospettive che ci si aprono con la previsione di sviluppi della NATO diversi da quelli militari. Si tratta di costruire una solidarietà atlantica nell’interesse di tutti. Voi tutti comprendete come ciò sia importante per l’Italia che ha gravi problemi sociali ed economici derivanti soprattutto dalle sue caratteristiche strutturali di crescente sovrappopolazione e di scarsità di risorse naturali. Contribuire alla loro soluzione è nello interesse non solo dell’Italia ma anche della comunità atlantica. Ma io vorrei richiamare l’attenzione di voi tutti sulla discriminazione intollerabile creata per l’Italia dal trattato di pace e soprattutto alla riconosciuta necessità di eliminare tale discriminazione che a me pare anche incompatibile con l’attuale posizione dell’Italia fra le nazioni libere. E ai fini del raggiungimento della solidarietà atlantica sono anche molto importanti le recenti decisioni di principio riguardanti la Germania occidentale e il progetto in preparazione per la formazione dell’esercito europeo. Concorrono poi certamente alla solidarietà stessa soluzioni di problemi non strettamente connessi con l’alleanza atlantica e per quanto ci riguarda il problema di Trieste per la cui soluzione l’Italia intende raggiungere pacifici rapporti con la Jugoslavia perché ogni altra soluzione escluderebbe una sincera collaborazione e sarebbe quindi contraria agli interessi della comune difesa. E a questo punto non posso non rilevare tutta l’ingiustizia della esclusione dell’Italia dalle Nazioni Unite, contraria ai precisi impegni contenuti nel trattato di pace. La soluzione di questi problemi può ripeto rinsaldare i vincoli del Patto Atlantico che io ho sempre ritenuto, come ho detto in Parlamento e durante tutti i miei comizi elettorali un patto di pace, non limitatamente tecnico, come mero strumento diplomatico militare ma su un piano più ampio come progressiva realizzazione di una nuova solidarietà civile e politica, di una nuova comunità internazionale basata sulla democrazia e sulla pace sociale. Nel pensiero della delegazione italiana questa interpretazione non è soltanto la più realistica in senso generale, ma quella che meglio risponde alla situazione e agli interessi dei Paesi partecipanti ed in particolare del nostro Paese. Solidarietà europea ed atlantica significa comprensione e collaborazione sul piano economico sociale, comprensione e collaborazione sul piano politico. La situazione economica italiana vista in relazione al problema del riarmo, del quale non ho bisogno di sottolineare l’importanza pur sempre precipua, si può brevemente riassumere nei seguenti dati: la Gran Bretagna ha deciso di spendere oggi per il riarmo circa il 9% del suo reddito nazionale. Detta aliquota tradotta in miliardi italiani, al cambio attuale rappresenta oltre 100 miliardi di lire. La Francia, dal canto suo, impiegando per lo stesso titolo il 10% del reddito nazionale, come è stato già pubblicato, nell’anno prossimo spenderà per il riarmo circa 1200 miliardi di franchi. Se l’Italia dovesse impostare spese per un’analoga quota del proprio reddito nazionale ammontante come è noto a 7000 miliardi circa, dovrebbe spendere dai 600 ai 700 miliardi annui, il che non appare possibile mentre appare più possibile una impostazione di spese per la difesa oscillante fra il 3 o il 4% del reddito nazionale e quindi dovrebbe spendere tra i 210 e i 280 miliardi di lire annualmente. Anche questa cifra è tuttavia notevole soprattutto se si calcola l’attuale aumento agli statali che comporterà un maggior onere di oltre 45 miliardi Per la riforma agraria poi, sono stati stanziati 35 miliardi per l’anno prossimo allo scopo di operare la trasformazione e la bonifica di circa 100 mila ettari. Se si tiene conto della contrazione degli aiuti americani che si valuta per ora, salvo rettifiche, in circa 70 miliardi di lire per l’anno prossimo, ove l’Italia dovesse finanziare il riarmo e provvedere all’aumento agli statali e alle spese per la riforma agraria, si può calcolare che avrebbe bisogno di realizzare un totale di circa 430 miliardi. Se questa cifra dovesse pervenire esclusivamente da fonte interna, il carico fiscale che attualmente oscilla fra il 22% del reddito nazionale dovrebbe salire ad oltre il 30%, quota insostenibile considerando soprattutto che il nostro reddito nazionale è molto basso in confronto agli altri paesi come ad esempio la Francia e l’Inghilterra in cui il cittadino dispone rispettivamente di un reddito pro capite corrispondente al 1,6% e al 2,12 del nostro. Per quel che riguarda la solidarietà e la collaborazione sul piano politico è chiaro che la diplomazia atlantica non può non tener conto di quanto sia giovane la nuova democrazia italiana e di come le difficoltà sul piano internazionale, così come quelle sul piano economico, finirebbero per influire sulla politica interna a tutto vantaggio delle forze antidemocratiche. |
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| I. Situazione internazionale. Scambio d’idee. Rapporto dei 3 su conclusioni di Washington. Citare comunicato, rilevando approccio di pace (cercare il testo). Dichiarazioni De Gasperi. La situazione interna migliora in difesa della democrazia i rapporti fra le Nazioni alleate all’Italia possono essere basati solamente sulla collaborazione leale di noi tutti per la difesa delle libertà e della pace, nello spirito della dichiarazione delle NU. Dichiarazione sulla Germania Parola d’ordine dei partigiani della pace II. Il tessuto connettivo fino 1° comma […] Trieste […] Risoluzione. Tradurre C7 D/24 1,3,4 chiede al comitato militare una valutazione delle forze avverse III. Sviluppi del NATO (Onat? Otan?) Discussione generale. Nomina di un comitato di 5 per studiare i mezzi Belgio, Olanda, Canada, Italia, Norvegia con Spofford Gruppo di lavoro «Dichiarazione sulla Comunità atlantica» «Tutti gli ostacoli che si oppongono a tale cooperazione su un piano d’eguaglianza dovranno essere soppressi» (Pella) Citare traducendo C7-D/18 p1 3° capov. 1° 2 a) b) c) conclusione, ultimo capoverso Militare. Risoluzioni generiche trasmesse al Comitato militare con richiesta di dati e accertamenti Comitato dei 12 equilibratore esame cfr. Sunto Esteri, 1, ultimo capoverso IV. Grecia e Turchia. Unanime la raccomandazione ai governi di invitare la Grecia e la T[urchia]. D’accordo che dovrà sottoporsi alla ratifica dei Parlamenti quando G e T. avranno accolto l’invito necessarie (Testo del memorandum) Modificazioni della formulazione del PA (art.6) Bisogna accertare il momento di presentazione alla Camera del Protocollo o meglio modificazione forse Canali o Zoppi |
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| Non posso aprire questo incontro con i rappresentanti della stampa senza anzitutto rivolgere il mio apprezzamento e gratitudine ai nostri ospiti canadesi e alle autorità di Ottawa. Questa conferenza, come sapete, è la più ampia e la prima di questo genere tenuta dai paesi NATO, e Ottawa ha dimostrato una capacità di organizzazione e ospitalità che eguaglia il ruolo primario che il Canada ha sempre avuto nel promuovere e sviluppare il Trattato del Nord Atlantico. In questo contesto devo specialmente menzionare Mr. St. Laurent e Mr. Pearson , gli illustri e popolari statisti che hanno preso il loro posto fra i padri, se possiamo usare questa analogia storica, del Trattato atlantico. Non potremmo avere miglior simbolo per la nostra attività della torre della pace ai piede della quale i nostri amici canadesi hanno organizzato il nostro incontro. L’incontro di Ottawa è solo iniziato ed è prematuro fare affermazioni sui progressi o i risultati del nostro lavoro. Ciò che possiamo dire è che siamo certi che il mondo libero, la cui attenzione è concentrata su questa capitale, non sarà deluso e che da questa settima sessione del Consiglio atlantico ricaverà ulteriore fiducia per il futuro. Conoscete il nostro compito fin troppo bene. Siamo qui per costruire questa organizzazione, per rafforzare la democrazia, per assicurare la libertà e l’ottenimento della giustizia sociale con metodi democratici. Ma il trattato atlantico non è solo un sistema difensivo nel senso militare. C’è un altro elemento che trova la sua collocazione proprio all’inizio del testo che tutti abbiamo firmato: mi riferisco all’articolo 2 che tratta del rafforzamento delle libere istituzioni che desideriamo difendere promuovendo condizioni di stabilità e di benessere. In altre parole, la democrazia e le sue istituzioni devono essere forti per essere difese; e i nostri sforzi devono essere diretti anche ad aumentare la giustizia sociale, a eliminare le cause di scontento nei nostri paesi così da rendere ognuno più capace e determinato nel difendere la propria patria. Questi problemi, nelle proporzioni in cui essi esistono in Italia, possono essere risolti solo con un piano internazionale. È per questo che attribuisco tanta importanza alla nostra organizzazione atlantica e che sono fermamente convinto che se se c’è uno strumento completo e perfetto per difendere la democrazia deve servire a rafforzare le sue istituzioni e a risolvere i problemi – non solo materiali ma anche morali e politici (Trattato di pace e ONU) – che la minacciano in certi paesi e che possono essere risolti solo con la cooperazione internazionale. Il prossimo incontro del Consiglio si terrà a breve a Roma . Spero di accogliere voi e i miei colleghi del consiglio e sono certo che, in tale occasione, i risultati di questo incontro di Ottawa saranno ampliati. Questi incontri, tenuti sempre più di frequente, rafforzeranno i legami che ci tengono tutti uniti per la difesa comune e per la salvaguardia di una pace duratura. |
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| Il presidente ha iniziato rivolgendo il suo saluto al Governo canadese [ringraziandolo] per l’ospitalità offerta ed esprimendo la sua fiducia che i lavori del Consiglio Atlantico risulteranno proficui per la causa della pace e per una più stretta intesa tra le democrazie. Egli ha altresì detto di confidare che i problemi di interesse italiano troveranno una soluzione nella solidarietà che lega i Paesi del Patto Atlantico. L’attenzione dei giornalisti si è rivolta particolarmente ai problemi più specificamente italiani e rispondendo alle loro domande De Gasperi ha confermato che la revisione del trattato di pace si pone come atto di giustizia inderogabile. Essa deve svolgersi in primo luogo con una dichiarazione generale che ponga fine alla discriminazione operata nei confronti dell’Italia e che abolisca lo spirito del trattato; in secondo luogo attraverso la discussione delle singole clausole del trattato stesso. Il presidente ha detto di aver parlato del problema nel suo intervento di stamane al Consiglio Atlantico ed ha aggiunto che subito dopo Schuman ha dichiarato che a Washington è stato deciso in linea di principio da parte dei tre grandi in favore della revisione ed ha espresso la speranza che tutti gli altri membri del Patto Atlantico diano il loro appoggio all’iniziativa. L’ammissione dell’Italia all’ONU è uno dei principi della revisione, ha detto De Gasperi, non soltanto perché esisteva un impegno specifico al riguardo ma anche come riconoscimento dell’opera democratica svolta dall’Italia. Il presidente del Consiglio italiano ha espresso la fiducia che si potrà superare la opposizione sovietica sulla questione dell’ammissione dell’Italia all’ONU. Riguardo al problema di Trieste De Gasperi ha ribadito che l’Italia desidera risolvere il problema secondo i principi di giustizia e ha affermato che qualsiasi trattativa deve avvenire sulla base della dichiarazione tripartita del 20 marzo 1948. Rispondendo ad un’altra domanda egli ha altresì smentito l’esistenza di qualsiasi connessione tra la revisione del trattato e la questione del Territorio libero di Trieste. A proposito dell’emigrazione ha detto di aver parlato a lungo della questione nel colloquio da lui avuto sabato sera col primo ministro canadese. Il problema si collega con quello generale della situazione economica italiana. Egli ha soggiunto che anche a questo riguardo si potrà far molto se si avrà una effettiva consapevole collaborazione. Il presidente De Gasperi ha così concluso: «Occorre avere coraggio e sentirsi una piccola nazione per diventare una grande nazione e intendo per grande soprattutto l’aspetto morale della nostra civiltà. Questa è la nostra dottrina fondamentale. Difendiamo dovunque e comunque il nostro diritto alla giustizia. Siamo una democrazia giovane in continuo sviluppo: dalle rovine della guerra abbiamo tratto tutte le nostre energie per la ricostruzione. Abbiamo percorso un buon cammino, ma ancora resta da fare». |
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| Noi lavoriamo per la pace. Stiamo creando una organizzazione efficiente che possa anzitutto difenderci dall’aggressione se si verificasse; ma che serva a scoraggiare l’aggressore, ad allontanare il pericolo della guerra, a prevenire il ricorso alla violenza. Noi lavoriamo inoltre a rafforzare le nostre istituzioni democratiche: a sviluppare le nostre democrazie, a migliorare le condizioni del nostro paese, in modo che possiamo essere meglio in grado di difenderlo. Se la democrazia è debole, se vi sono troppi problemi, morali, materiali o sociali, insoluti, essa non può opporre resistenza a chi l’assalta dal di fuori o dall’interno. E infine noi lavoriamo democraticamente. Discutiamo liberamente ciascuno con pieno diritto ed in piena parità di parola e di voto. È in questa comunità atlantica che ciascuno di noi pone i propri problemi, espone quali dovrebbero essere le condizioni migliori perché il suo paese costituisca una garanzia di pace. E se talvolta vi sono divergenze, ciò dimostra non che vi è scissione ma che vi è libertà di dibattere e di appianare con la libera discussione ogni difficoltà. E in questo modo noi serviamo la causa del nostro paese e della pace generale. |
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| Signor Presidente, ho solo un emendamento da proporre, e vorrei fare una dichiarazione generale. Prendo nota del fatto che l’affermazione di principio che corrisponde ai nostri desideri e alle nostre idee è espressa nel primo paragrafo dove si dice: «Esse continueranno a lavorare strettamente insieme per consolidare la comunità nord-atlantica. Tutti gli ostacoli che impediscono tale cooperazione su un piede di uguaglianza dovranno essere eliminati». Prendo nota anche della dichiarazione così completa e soddisfacente del Presidente del comitato sull’interpretazione della frase finale del primo paragrafo della risoluzione, secondo cui il riferimento all’abolizione di tutti gli ostacoli che impediscono la cooperazione su un piede di uguaglianza da parte di tutti i membri della comunità si riferisce anche e particolarmente alla situazione creata dal trattato di cui l’Italia è oggetto. Non insisto sul testo in vista del fatto che la discussione mi ha dato l’esatto senso dello spirito e della sostanza della questione, lo spirito che anima i miei colleghi del Consiglio nordatlantico. |
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| Abbiamo lavorato duramente per la libertà e la sicurezza di milioni di uomini e donne nel mondo. Abbiamo lavorato per la pace. Abbiamo lavorato per allontanare l’aggressione, per prevenire la violenza, per scoraggiare i guerrafondai. Abbiamo discusso su come rafforzare le nostre istituzioni democratiche, come migliorare le condizioni di vita nei nostri paesi per renderli più capaci di difendersi da sé. Se la democrazia è debole, se ci sono troppi problemi, morali, sociali e materiali, irrisolti, essa può opporre solo una debole resistenza all’aggressione dall’interno o dall’esterno. E soprattutto abbiamo lavorato in modo democratico, come uguali. C’è stata libertà di discussione e dibattito. |
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| Conserverò un piacevole ricordo del mio soggiorno in Canada, nonostante non abbia avuto molto tempo per godermi molto di questo bel paese. Ma ho apprezzato molto la possibilità di incontrare i vostri uomini di stato, in particolare il primo ministro Sig. St. Laurent che per il suo spiccato intuito politico è fra i più brillanti leader mondiali di oggi e il Sig. Pearson che ha dimostrato le sue qualità di ministro degli Esteri al Consiglio atlantico. Vorrei ancora dire una parola sulla magnifica ospitalità dei nostri amici canadesi, e dare loro un benvenuto altrettanto caloroso quando verrete a Roma per il prossimo Consiglio. |
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| Caro sindaco, sono particolarmente felice di essere con voi questo pomeriggio e con gli altri illustri rappresentanti della città di Detroit. Qualche mese fa questa città ha celebrato i 250 anni dalla sua fondazione: quanti progressi fatti, quante vittorie ottenute in un periodo comparativamente breve. Oggi, questa città è uno dei più grandi centri della produzione mondiale di automobili che ne fa un grande centro vitale della vita economica del paese intero. La mia visita ufficiale negli Stati Uniti non avrebbe potuto avere, come ho detto poco fa, un inizio più appropriato. So che molti italiani hanno contribuito a questa magnifica evoluzione e ne sono fiero, perché vedo in questa collaborazione fra i nostri due paesi il simbolo di una vera amicizia. Infatti voi avete un nome italiano nella storia del vostro paese: Alfonso Tonti , che era al fianco del capitano Cadillac nel distante, memorabile giorno del 24 luglio 1701. |
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| Gli italiani […] hanno in grande stima i loro amici americani; perché noi ammiriamo il loro amore per la libertà, il loro amore per il lavoro e la loro dirittura. Sono anche felice di visitare Detroit all’inizio del mio viaggio ufficiale negli Stati Uniti perché noi, di solito, associamo il nome di Detroit all’industria americana cioè ai due elementi fondamentali della importantissima funzione dell’America nella organizzazione della sicurezza atlantica. E sarò lietissimo di incontrarmi fra qualche giorno a Washington con il presidente Truman, al quale è assicurato un grande posto nella storia contemporanea per la sua veduta politica, che non ha precedenti nella storia, diretta a salvare la democrazia nel mondo attraverso la ripresa economica e l’organizzazione della sicurezza collettiva. |
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| È un grande piacere essere negli Stati Uniti con i nostri amici americani. Ho iniziato la mia visita ufficiale negli Stati Uniti ieri a Detroit. Questo è significativo perché noi generalmente associamo il nome di Detroit con l’industria e il potere economico americano, e questi sono due elementi essenziali per il ruolo fondamentale dell’America nell’organizzare la sicurezza atlantica. Sono onorato di incontrare un’altra volta il presidente Truman il cui posto nella storia contemporanea è assicurato dalla sua politica, nuova nella storia, di salvare la democrazia mondiale attraverso la ricostruzione economica e l’organizzazione della sicurezza collettiva. Ho già stretto la mano al Sig. Acheson e al Sig. Snyder a Ottawa. Di fatto, abbiamo trascorso più di metà della settimana parlando insieme alla stessa tavola. Continuerò i miei colloqui con loro e i loro colleghi su tutte le questioni di comune interesse, specialmente quelle che riguardano l’America e l’Italia. |
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| Signor Presidente degli Stati Uniti, Signori Presidenti del Congresso, Membri del Congresso, è un alto onore per me parlare in questa Assemblea, in questa grande roccaforte della democrazia mondiale. Le vicissitudini della mia vita mi hanno portato a sperimentare differenti regimi, a sostenere lotte per la libertà e la indipendenza nazionale, ad essere testimone della soppressione del sistema parlamentare democratico ed infine a vedere il trionfo delle nostre libere istituzioni. Il mio passato dà fede perciò alla mia testimonianza, quando affermo che il Congresso americano ha brillato come un fascio di luce negli ultimi quarant’anni ed ha riportato l’umanità meravigliata sul sentiero del progresso democratico. Qui, nei giorni più duri, hanno risonato voci illuminate. Qui, voi membri del Congresso, avete preso le più importanti decisioni per la vittoria e la liberazione. Come democratico, come europeo e come italiano rendo omaggio alla grandezza della vostra missione provvidenziale. Voi avete ammirevolmente e generosamente compiuto questa missione intervenendo nei momenti decisivi con le forze armate della liberazione. Voi avete assolto questo compito, in pace e in guerra incoraggiando la resistenza, rivolgendo appelli alle forze morali, richiamando i popoli alla loro comune eredità di dignità umana e facendo rivivere un sentimento di fratellanza che non conosce ineguaglianze né davanti a Dio né di fronte agli uomini. Quante volte sotto l’oppressione o la tirannia noi abbiamo risollevato i nostri cuori e le nostre speranze meditando quelle parole della Dichiarazione di indipendenza che suonano: «Noi teniamo sempre queste verità come evidenti: che tutti gli uomini sono eguali creati e che ad essi sono stati concessi dal loro Creatore alcuni inalienabili diritti tra cui sono quello alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Con questa verità, con la vostra fede, in quei diritti umani, voi vi siete impegnati ad agire e ad intervenire in Paesi anche lontani dove la libertà era in pericolo. Le azioni dei popoli sono complesse: il bene e il male, l’egoismo e l’altruismo possono di volta in volta determinare il loro corso ma l’idea fondamentale, la forza sottintesa che provvede allo impulso non è che una: il vostro non è imperialismo, non è spirito di conquista. Cosa è, dopo tutto, quel vostro sforzo di organizzare le Nazioni Unite se non uno sforzo per superare i conflitti e la guerra sulla base della eguaglianza e della ragione? E poiché d’altra parte, l’unità non è desiderata ed il dissenso viene alimentato, cos’è il Patto Atlantico se non un altro tentativo di realizzare la solidarietà tra gli uomini di buona volontà nel costruire un nuovo mondo e nel difenderlo se attaccato con la forza delle armi? Ho proprio ora reso omaggio al Milite ignoto, simbolo di tutti coloro che sono morti nelle vostre guerre e nelle nostre. Davanti a quel monumento ho pensato a tutti i vostri e nostri caduti i quali giacciono nei cimiteri d’Italia, ho pensato ai sacrifici che sono stati fatti. Nessuno di quei soldati morti – come dice la superba iscrizione al vostro Soldato Ignoto – è sconosciuto a Dio, «Unknown but to god», e tutti debbono avere il loro posto nei cuori delle nazioni che hanno combattuto e che ancora combattono per il diritto contro l’aggressione. Il popolo italiano sente che questa legge ferrea della solidarietà nella difesa è il prezzo della libertà e della democrazia. Qualora venisse messo alla prova di fronte ad una aggressione, che tutti i tentativi di conciliazione non fossero riusciti ad evitare, il popolo italiano sarebbe deciso a dare il proprio contributo alla comune difesa. Nessuno può credere che uomini liberi come voi siete, uomini che hanno avuto una profonda esperienza, dei mali della guerra, possano cercare la guerra come soluzione dei nostri problemi. Un noto autore inglese nella sua Diplomacy ricorda l’appello rivolto dal re ai Lacedemoni alla conferenza di Sparta di circa 2300 anni fa: «io non ho raggiunto l’età che ho senza aver guadagnato esperienza in molte guerre. Vi sono molti tra voi che hanno la mia stessa età che non commetteranno certamente l’errore di immaginare nella loro ignoranza che la guerra sia desiderabile e che essa porti vantaggi e sicurezza». Noi che abbiamo superato due guerre mondiali sappiamo che dobbiamo evitarne una terza. Signori del Congresso, questa è la nostra volontà come intenzione del presidente Truman, ma è chiaro che non possiamo evitare la guerra se non raggiungiamo un equilibri delle forze. Voglio dire cioè che un riarmo, un ragionevole riarmo, non è in contrasto, ma è anzi una condizione per la ricostruzione dell’Europa sullo stesso piano in cui la ricostruzione economica, secondo quanto si propone il Piano Marshall, mira ad assicurare la difesa della libertà e della democrazia. Nel sopportare tali considerevoli sacrifici a nome del popolo degli Stati Uniti in vista della nostra sopravvivenza economica, il Congresso ha già fatto molto cammino sulla via della difesa. Esso ha vinto la prima battaglia. Non tutti gli obiettivi sono stati raggiunti. È anche vero che senza il vostro contributo l’Europa o almeno quella parte di essa compresa nella linea anticomunista, sarebbe già crollata. Mi rendo pienamente conto dei gravi sacrifici compiuti dai vostri compatrioti ma il presidente Truman ha giustamente detto che il miglior mezzo per fermare il sovvertimento operato dal Cremlino consiste nel puntare contro i mali della ingiustizia sociale e del disordine economico. Noi in Italia, in una terra di pochi mezzi ma di molte tradizioni, abbiamo percorso molta strada verso la ricostruzione e verso la giustizia sociale. L’ordine pubblico è stato restaurato ed il livello del potere di acquisto è stato strenuamente difeso. Questi due risultati sono stati un requisito indispensabile per qualsiasi sviluppo, poiché nessuna riforma sociale, nessun ambizioso programma di lavori pubblici può essere attuato con successo se il Governo è incapace di proteggere le istituzioni contro i tentativi rivoluzionari e se il Paese non ha fiducia nel valore della propria moneta. Dopo una tremenda inflazione che ha abbassato il valore della lira ad un cinquantesimo rispetto a quello di prima della guerra, la stabilità monetaria era essenziale. Entro i limiti imposti da questa necessità fondamentale la ripresa economica è stata avviata con successo. La produzione è del 30% più alta del livello prebellico. Il consumo dei generi elementari [sic!] pro-capite ha toccato di nuovo il livello di prima della guerra. Una vasta riforma sociale è stata progettata e viene gradualmente attuata. Una completa riforma fiscale è stata autorizzata dal Parlamento e sarà applicata prima della fine di quest’anno. Noi ci sforziamo di portare avanti simultaneamente il nostro programma di riforma sociale ed il nostro programma di riarmo. Questo non è facile nel mio Paese. Noi lottiamo per aumentare in Patria la occupazione e per trovare nuovi sbocchi al nostro lavoro all’estero: un arduo compito in un Paese che ha circa due milioni di disoccupati su una popolazione lavorativa di circa 21 milioni. Noi vi chiediamo di assisterci. Noi siamo una nazione che lavora duro e che ha soprattutto necessità di lavoro. Lavoro in Patria, mediante ordinazione per rifornimenti civili e militari, lavoro all’estero attraverso l’impiego temporaneo o permanente della mano d’opera eccedente. I nostri amici americani sono testimoni dell’industriosità del nostro popolo. Tuttavia non vogliamo venire a voi pressati soltanto dalle necessità materiali. Se lo facessimo non meriteremmo la vostra considerazione né la vostraamicizia. Ma come uomini liberi ad uomini liberi noi vogliamo dirvi che vi siamo grati perché chiedendo la revisione del nostro ingiusto trattato di pace, avete riconosciuto che una alleanza effettiva e valida non può esistere senza l’eguaglianza dei diritti e il pieno riconoscimento della indipendenza della sovranità e della dignità nazionale. Nessuno di voi dovrebbe pensare che noi siamo vittime di un gretto nazionalismo. Se noi chiediamo che la questione di Trieste sia definitivamente risolta nell’ambito della dichiarazione anglo-franco-americana del marzo 1948 è perché vogliamo creare un fronte in cui le vecchie difficoltà non esistano più e si possa in tal modo stabilmente e solidamente costruire il baluardo dell’unità europea. L’Europa una volta finalmente unita, vi risolleverà dai vostri sacrifici di uomini e di armi perché potrà pensare da sola alla difesa della pace e della comune libertà. Raccogliendo le inesauste energie delle sue tradizioni morali e civili essa vorrà allora, signori, assumere di nuovo la sua funzione di determinare nel corso del progresso umano l’apporto del suo decisivo contributo. Signor Presidente degli Stati Uniti, Signori Presidenti del Congresso, Signori Membri del Congresso, questa assemblea merita la gratitudine di tutti i popoli liberi. L’Italia attraverso la mia persona rinnova questa espressione di gratitudine e riafferma il suo solenne impegno di collaborazione. Possa Iddio assisterci nel nostro lavoro per la grandezza della nostra libertà. |
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| De Gasperi ha fatto riferimento alla sua conversazione riguardo a Trieste con il segretario Acheson, ad Ottawa. Ha ricordato brevemente la storia dell’area, citando l’indignazione dell’opinione pubblica italiana per l’abbandono di tutte le città italiane, perfino Pola, negli accordi provvisori iniziati a partire dalla linea Morgan. Il primo ministro ha detto che questa questione è tanto importante per il popolo italiano che non sarebbe possibile per il suo governo né per qualsiasi altro governo italiano giungere a un compromesso che non salvasse gli italiani ora residenti nella zona B. Ha evidenziato che 180.000 italiani sono stati trasferiti con il trattato di pace. Il popolo italiano non lo può scordare e non potrebbe accettare la perdita di altri italiani ora che l’Italia è membro del Patto atlantico. Ha detto che non è una questione essenzialmente geografica, ma una questione di popolazione. Psicologicamente, ha paragonato la sua importanza forse a quella di Gibilterra per la Gran Bretagna. Quanto ai negoziati in Jugoslavia, ci sono varie possibilità che rientrano nei margini di una soluzione praticabile. Tutte queste possibilità richiedono che i negoziati partano dalla dichiarazione del 20 marzo. Non ha insistito su una dichiarazione formale di questa posizione, ma Tito deve conoscere questo dato di fatto. In una soluzione etnica l’Italia potrebbe rinunciare alle zone popolate da slavi nella zona B, ma non potrebbe mai rinunciare all’area popolata da italiani. Ha mostrato due carte del Territorio libero e evidenziato su di esse in termini generali cosa aveva in mente. Approssimativamente si tratta di attribuire la metà a nord della zona B alla Jugoslavia, la costa e la metà meridionale all’Italia e una piccola porzione dell’hinterland della zona A alla Jugoslavia. Il primo ministro poi ha parlato dell’amministrazione della zona A. Ha espresso preoccupazione per il fatto che in Italia circola l’impressione che le autorità militari che comandano la zona A stiano abbandonando la politica annunciata dai tre governi della dichiarazione del 20 marzo. Ha evidenziato che dato che le disposizioni del trattato di pace su Trieste sono state dichiarate impraticabili l’unica appropriata base legale per amministrare la zona è la vecchia legislazione italiana. Ha citato la questione della giurisdizione della Corte di Cassazione di Roma e ha detto che l’agitazione nell’opinione pubblica riguardo al rifiuto del GMA di accettare tale giurisdizione è stata maggiore che nel caso di ogni altra questione in discussione. Tornando alla questione di una soluzione italo-jugoslava, il primo ministro ha detto che nel luglio ha cercato di parlare con Tito ma che le conversazioni hanno avuto conclusione negativa. Fortunatamente erano state tenute in segreto, perché altrimenti avrebbero inasprito ulteriormente la questione. Il primo ministro ha detto che riconosce il bisogno di una maggiore enfasi sul riarmo delle nazioni partecipanti al Patto atlantico. Ha detto che per condurre il popolo italiano a questo obiettivo la questione di Trieste è un elemento essenziale del quadro, perché sarebbe impossibile per gli italiani capire che il Patto atlantico non riguarda anche la questione di Trieste. Ha evidenziato che il successo nelle elezioni del 1948 è basato su quella dichiarazione. Tornando all’amministrazione della zona A, il primo ministro ha sottolineato che con l’accordo fra Morgan e Tito dell’11 giugno 1945, che ha stabilito la zona B, si è deciso che l’occupazione militare non deve riguardare l’amministrazione civile. Ha detto che questo è stato violato dal governo jugoslavo che ha immediatamente avviato un programma di comunistizzazione nell’area. Al momento dell’entrata in vigore del trattato di pace con l’Italia, il governo americano e quello britannico hanno enunciato una serie di principi che dovevano essere seguiti dai comandanti delle due zone del Territorio libero di Trieste in attesa della nomina di un governatore. I due governi in particolare avevano sottolineato che i comandanti non avrebbero dovuto fare nulla che confliggesse con le previsioni del trattato di pace. Con la dichiarazione tripartita del 20 marzo è stato introdotto un nuovo approccio al problema di Trieste e sarebbe sembrato logico che l’AMG nella zona A adattasse la sua politica allo spirito della dichiarazione. In altre parole, in attesa della soluzione generale per Trieste, l’AMG avrebbe dovuto permettere alle autorità italiane locali e centrali nella zona A di esercitare la giurisdizione amministrativa ai più alti livelli e altre funzioni. Questa considerazione era infatti contemplata anche dal trattato di pace che nelle parti relative dovevano essere interpretate in senso ampio piuttosto che in senso restrittivo. Sfortunatamente sta accadendo proprio l’opposto. L’AMG estende le proprie funzioni a svantaggio degli uffici italiani e si sta sempre più allargando. Il governo italiano ritiene che l’intera amministrazione dell’AMG dovrebbe essere considerata temporanea e provvisoria come previsto nella dichiarazione del 20 marzo e che la linea del governo alleato dovrebbe mirare al ritorno del Territorio di Trieste all’Italia. In tal caso ritiene che potrebbe trovare una base giuridica riguardo alla legislazione esistente nei territori occupati nelle norme del diritto internazionale generale (Articolo 43 della Convenzione dell’Aia del 1907). In attesa di una soluzione definitiva per il Territorio libero la legge italiana dovrebbe continuare a essere in vigore nel Territorio come previsto dalle norme ordinarie relative all’amministrazione dei territori occupati in tempo di guerra. L’articolo 10 dell’annesso VII del trattato di pace prevede che «leggi e regolamenti esistenti rimangono validi finché revocati o sospesi dal governatore». Dato che il governatore non è mai stato nominato e che il Territorio libero non è mai stato stabilito costituzionalmente, leggi e regolamenti italiani esistenti non possono essere revocati o sospesi dall’attuale amministrazione militare provvisoria. Questo è particolarmente importante nella questione dell’amministrazione della giustizia. Il diritto di appello, diritto fondamentale che spetta a ogni cittadino in ogni paese democratico, non dovrebbe quindi essere negato ai cittadini di Trieste e la competenza della Corte di Cassazione di Roma dovrebbe essere riconosciuta nel Territorio libero. Venendo alla questione delle relazioni italo-jugoslave il primo ministro ha sottolineato che negli anni scorsi sono stati firmati venti o trenta accordi con la Jugoslavia e che di fatto ora dai cinque a sei miliardi e mezzo di lire sono congelati in Jugoslavia. Quanto alla sistemazione territoriale di Trieste [gli italiani] sarebbero pronti a considerare concessioni economiche e accordi come, ad esempio, una zona libera nel porto di Trieste che dovrebbe servire come sbocco naturale per l’hinterland. Tornando ai negoziati fra governo jugoslavo e autorità militari alleate che stabilirono la linea Morgan, si chiede se ora gli alleati non possano negoziare con la Jugoslavia una nuova linea che includa una zona etnica nella zona B occupata dalle autorità militari alleate. […] Il primo ministro desidera evidenziare soprattutto che sarebbe particolarmente pericoloso per l’Italia cominciare colloqui con la Jugoslavia senza la prospettiva di raggiungere una conclusione. Un fallimento peggiorerebbe molto la situazione e metterebbe a rischio la posizione del governo italiano all’interno. Riconosce che è di grande importanza per l’Europa tutta che la Jugoslavia continui ad essere indipendente dall’Unione Sovietica. Quanto alle capacità militari jugoslave, il primo ministro ha detto che il governo italiano è molto interessato alla questione e che la stima del capo di stato maggiore dell’esercito italiano è che gli jugoslavi potrebbero resistere ai satelliti [dell’Unione Sovietica] ritirandosi sulle montagne, ma che non avrebbero avuto speranze di resistenza di fronte a un intervento dell’esercito sovietico. […] Il primo ministro ha aggiunto che la sua opinione pubblica è diversa da quella di Tito, perché lui deve mantenere un pericoloso equilibrio, mentre Tito non ha questo problema. […] Il primo ministro poi ha sottolineato che gli jugoslavi senza dubbio avrebbero parlato di minoranze slave da altre parti d’Italia oltre che nella zona B. Ha evidenziato che l’Italia ha già perso con il trattato circa 180.000 italiani nella penisola istriana. Già sofferta questa perdita, il popolo italiano non è nella condizione di accettare tali rivendicazioni. Così, a meno che le discussioni non siano fin dal principio limitate rischiano di condurre a un fallimento che peggiora piuttosto che migliorare la situazione. La dichiarazione del 20 marzo deve quindi essere il punto di partenza dei colloqui. È essenziale che essi rimangano entro quell’ambito e che comincino discutendo della zona B. Ha riconosciuto che per rendere la soluzione accettabile per la Jugoslavia possono esserci delle concessioni nella zona A e sarebbe disposto a farle come indicato, negli stretti limiti delle sue possibilità. […] Il primo ministro ha insistito che anzitutto bisogna preparare una nuova atmosfera che non comporti menzione alla zona A all’inizio dei negoziati. Ha ripetuto che anche ora tutti gli avvocati in Italia stavano protestando per la questione della Corte di Cassazione nella zona A. Ha sottolineato che nel 1949 a Trieste, di fronte a una folla di 200.000 persone, ha dato la sua parola per sostenere la buona fede di Stati Uniti, Regno Unito e Francia sulla dichiarazione del 20 marzo. Il suo intero governo è impegnato in quell’accordo e egli non potrebbe rinunciarvi con una dichiarazione pubblica. Ha detto che se una soluzione della questione di Trieste dovesse essere imposta all’Italia sulla base di quanto domandato dagli jugoslavi, sarebbe pronto a lasciare il proprio incarico se si trovasse un successore che lo accettasse, ma che non crede che in Italia vi sia nessuno che può ottenere l’appoggio del popolo italiano per una soluzione che lascia degli italiani sotto la sovranità jugoslava. […] |
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| Revisione del trattato di pace italiano […] Il primo ministro ha suggerito di evitare il titolo «Dichiarazione Tripartita» […] Il primo ministro ha detto che con l’inclusione di questi cambiamenti la bozza ora era per lui accettabile. Ha comunque notato che avrebbe preferito che il riferimento ai «diritti di parti terze» nel quinto paragrafo fosse cancellato. […] Il primo ministro ha detto che ciò che importa è la sostanza della nota e non la forma. Ha sottolineato i seguenti punti: (1) deve essere sottolineato il riferimento politico agli uguali diritti dell’Italia con altre nazioni; (2) dovrebbe essere dato un ruolo secondario all’aspetto militare della nota, relativo alla rimozione delle restrizioni in capo all’Italia; (3) le questioni economiche dovrebbero essere coperte, in via procedurale, facendo riferimento alle commissioni di conciliazione per valutare i reclami contro l’Italia. […] Il primo ministro ha chiesto se non sia possibile porre un limite temporale alla presentazione di reclami. […] Il primo ministro ha affermato che è ovvio che Stati Uniti e Italia devono essere d’accordo sulle questioni essenziali, ma ha chiesto perché si dovrebbe lasciare che questioni di procedura ci limitino […] Il primo ministro ha affermato di essere disposto a tralasciare la questione, ma che non vuole che più tardi sorgano incomprensioni Ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite […] Il primo ministro ha affermato che finché l’Italia non sarà alle Nazioni Unite essa subisce un’ulteriore restrizione morale. La compensazione per la firma del trattato di pace era l’ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite. La dichiarazione delle tre potenze sul trattato è auspicabile e necessaria, ma non è in sé sufficiente a risolvere la posizione morale. […] Azione psicologica contro la propaganda totalitaria Il primo ministro ha detto che, come notato a Ottawa, non dovremmo sottovalutare gli sforzi della propaganda comunista, attraverso gruppi come i partigiani della pace. Sono ben organizzati e capaci di enormi invenzioni. Ha affermato che il Festival di Berlino non è stato interamente un fiasco. Nonostante gli ostacoli frapposti, molti giovani italiani si sono recati a Berlino attraverso l’Austria e la Germania e sono tornati a casa pieni di entusiasmo per i discorsi sentiti sulla pace e per la possibilità di incontrare giovani francesi, tedeschi e di altri paesi. L’occidente non ha organizzato manifestazioni come quella di Berlino. L’occidente ha bisogno di qualcosa di positivo per la gioventù del mondo occidentale. Dobbiamo evitare di metterci sulla difensiva e enfatizzare l’aspetto militare della difesa. Dobbiamo invece parlare di ricostruzione, di unità dell’Europa e di democrazia. L’ammissione di Grecia e Turchia alla Nato rende il nostro compito psicologico più difficile. Non possiamo fondarci sulla paura dei russi, specialmente perché essi possono sviare l’attenzione dalla paura, lasciandoci senza alcuna base. Il primo ministro ha suggerito un comitato congiunto nella NATO per coordinare programmi positivi nei paesi membri; ognuno può contribuire e realizzare il programma coordinato adattandolo ai gusti nazionali del proprio paese. È necessario che catturiamo l’entusiasmo dei giovani delle nostre nazioni. Ai concetti di libertà e democrazia deve essere dato un senso positivo e dobbiamo dare anche al Patto atlantico uno scopo positivo piuttosto che solo difensivo. Il primo ministro ha detto per esempio che sarebbe negativo che gli Stati Uniti, parlando della Germania, affermassero che sono disposti a concessioni al governo di Bonn perché hanno bisogno del suo contributo militare. Invece dobbiamo enfatizzare il fatto che di fronte alla minaccia del dominio russo stiamo dando alla Germania il diritto di sviluppo libero e autodifesa; questa sottolineatura è psicologicamente più sicura sia in Francia sia in Germania. Ha sottolineato che in Germania bisogna agire molto rapidamente, perché di qui a tre-quattro mesi potrebbe essere troppo tardi. Il primo ministro ha detto di aver parlato di questo con Schuman e di capirne le difficoltà. Il primo ministro ha ammesso che sarebbe molto difficile stabilire una forza europea di difesa per la questione dei contributi al suo bilancio e per i problemi costituzionali affrontati da ogni paese. Ha comunque sottolineato che l’Italia è in favore dell’esercito europeo perché può aprire la strada a una federazione europea. Ha detto di sapere che il Sig. Acheson è consapevole delle difficoltà poste dall’esercito europeo, ma che se si attende fino a che tutti i problemi saranno risolti non si costituirà mai un esercito europeo. Ha concluso dicendo che bisogna agire entro il prossimo mese e che, per iniziare, il lato militare della CED potrebbe anche essere posto sotto il comando del generale Eisenhower . […] Il primo ministro si è poi rivolto alla grave situazione nel Vicino Oriente e in Africa. Ha affermato che l’Italia appoggia il principio di autonomia per i popoli musulmani entro pochi decenni o anche pochi anni. Ha detto che è importante che questi popoli non pensino che le potenze nella NATO si oppongano ai loro sforzi di autonomia. Ha fatto riferimento alle difficoltà incontrate da britannici e francesi nell’area e ha sottolineato la forza della propaganda comunista nel Vicino Oriente. […] |
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| Il primo ministro ha affermato che questi problemi economici sono solo apparentemente tecnici e invece fondamentalmente politici. Ha fatto riferimento alle affermazioni del presidente di poco prima riguardo all’importanza dell’emigrazione e sottolineato che non si troverà una soluzione se gli Stati Uniti non appoggiano la creazione di un meccanismo internazionale per gli emigranti. Ha affermato che si può dire che la situazione della manodopera in Italia è più importante del problema della bilancia dei pagamenti perché se continua la disoccupazione sarà progressivamente difficile combattere il comunismo. Mentre il Canada, ad esempio, vuole immigrati, gli Stati Uniti no. Ha affermato che l’Italia non può imporre la propria volontà agli Stati Uniti ma se gli Stati Uniti non possono accogliere più immigrati, la situazione sarà a rischio. Ha proposto di fare i seguenti passi: primo, creare un meccanismo internazionale per finanziare e trasferire gli emigranti oltreoceano; secondo, stabilire un gruppo congiunto italo-americano per promuovere l’impiego efficiente di personale tecnico e di manodopera italiana per costruire installazioni militari soprattutto nell’area del Mediterraneo; terzo, appoggiare i piani adottati dalla NATO e dall’OECE per l’emigrazione italiana in Europa per sostenere i programmi di difesa e sviluppare la potenza economica europea. Il primo ministro ha detto che una questione importante è quella di finanziare gli emigranti. In America del Sud sono state fondate imprese per l’emigrazione agricola. Il costo approssimativo per ogni emigrato è di 1.000 $. Gli australiani hanno risolto questo problema concedendo prestiti della National Bank per assistere gli emigranti e 50.000 persone si sono stabilite in Australia in questo modo. Ha suggerito che un meccanismo internazionale potrebbe utilizzare questo tipo di accordi ma ha sottolineato la necessità di aiuti americani. Ha detto che ciò che serve non sono magnifiche risoluzioni prese da gruppi internazionali ma vera azione. In conclusione ha chiesto che il Segretario segua questa questione da vicino in vista della sua estrema importanza politica. […] |
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| […] Il primo ministro ringrazia per l’opportunità di scambiare le idee con il segretario di Stato sia a Ottawa alla riunione del Consiglio atlantico sia a Washington. Rileva l’identità di vedute sul mantenimento della pace e della sicurezza. Fa riferimento alla necessità di un’azione psicologica per dimostrare che l’Organizzazione del Nord Atlantico è più di un’alleanza militare. Dice che ritiene che le politiche italiane in generale siano totalmente concordanti con quelle statunitensi. In questo spirito, ha proseguito il primo ministro, ha parlato con il segretario di Stato della questione di Trieste. Ha detto che non è una questione interna italiana o jugoslava, ma una questione internazionale e un problema comune. È anche questione che riguarda la comunità atlantica; fino a che il problema resta irrisolto, la solidarietà del Patto atlantico non è assicurata. Ha fatto riferimento a due pietre miliari nella storia della questione dalla Seconda guerra mondiale: lo stabilimento della «linea Morgan» nel 1945 e la dichiarazione del 20 marzo 1948 dei governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in favore della restituzione del Territorio libero di Trieste all’Italia. Ha fatto appello al presidente perché usi la sua autorevole influenza in questa questione difficile ma non irrisolvibile. Ha detto che se Tito vuole avvicinarsi alle nazioni occidentali, nell’ambito della dichiarazione delle tre potenze l’Italia potrebbe rinunciare alle comunità slave nella zona B. Se Tito è d’accordo sul discutere la zona B da un punto di vista etnico spera che si raggiunga una soluzione. Il primo ministro ha sottolineato l’importanza politica di questa questione. Ha detto francamente che senza una sua soluzione soddisfacente lui e il suo governo avrebbero difficoltà nell’ottenere in parlamento la prosecuzione del sostegno per uno sforzo di difesa comune, e che dubita vi riuscirebbe qualsiasi altro governo democratico. Non è una questione di partito, ha proseguito, è una questione genuinamente nazionale, popolare. Se l’opinione pubblica in Italia pensasse che gli amici e gli alleati dell’Italia non riescono a salvare Trieste, ci sarebbe una pericolosa ondata di neutralismo. Il primo ministro ha affermato che il risultato delle recenti elezioni in Italia è stato buono ma non esaltante. Ha mostrato la stabilizzazione del voto comunista ma un aumento nel voto per l’estrema destra. Ha detto che la coalizione di governo di partiti democratici che lui guida minaccia di perdere voti a sinistra e a destra. Ha fra l’altro osservato che spera che i partiti liberale e socialdemocratico rientreranno nella coalizione nei prossimi mesi. Il primo ministro ha detto che le prossime elezioni politiche in Italia saranno fra 18 mesi e devono dare una vittoria per la democrazia. In Italia questo significa «americanismo», fondato sull’amicizia e sul sostegno dell’America. È per questo, ha detto il primo ministro, che l’Italia chiede aiuto nella questione di Trieste, anzitutto per la zona A del Territorio libero, nel senso di applicare lealmente la legislazione italiana come previsto nel caso dei territori occupati; e inoltre riguardo all’accordo con Tito sulla zona B, che secondo la dichiarazione del 20 marzo dovrebbe tornare all’Italia, ma per cui l’Italia è disposta a fare delle concessioni. Il primo ministro ha dichiarato che una sistemazione per Trieste deve essere raggiunta o la sua intera lotta contro il comunismo, con l’assistenza americana, non avrà successo. […] Il primo ministro ha ringraziato per le cordiali osservazioni del presidente. Ha dichiarato il proprio desiderio di risolvere la questione che, ha affermato, non è semplicemente una questione italiana ma anche europea. La sua soluzione consoliderebbe la difesa dell’Europa e porterebbe l’Italia in una posizione di leadership morale. Se potrà essere risolta, il problema del comunismo in Italia sarebbe sostanzialmente economico. Il primo ministro ha affermato che curiosamente Trieste è diventata un problema del comunismo. I comunisti del Cominform vogliono che sia stabilito il Territorio libero, ma i comunisti a Trieste sono divisi fra fazione pro-Tito e fazione pro-Cominform. Il primo ministro ha affermato che crede che l’Unione Sovietica voglia mantenere Trieste come un punto di dissenso, e ha ripetuto che deve essere sistemata. Il primo ministro ha detto che capisce che Tito avrà delle difficoltà nel negoziare una sistemazione, e che l’Italia è pronta a fare concessioni. Ha detto che se Tito davvero vuole risolvere il problema, l’Italia è pronta. Ha aggiunto che se i colloqui cominceranno e non avranno soluzione positive, la situazione sarà peggiore che se non fossero mai iniziati. Per questo ha chiesto al presidente di dare una mano, prendendo l’iniziativa di presentare una formula di soluzione. […] Il primo ministro ha chiesto se il segretario pensi che Tito potrebbe essere convinto a avviare negoziati a Roma. […] Il primo ministro ha detto che non è questione di prestigio. Voleva sottolineare nuovamente il pericolo di iniziare negoziati senza un’adeguata preparazione. […] Il primo ministro ha detto che prevede che la stampa comincerà a speculare se si viene a sapere dei negoziati. Per questo vuole trovare un luogo dove si possa mantenere assoluta segretezza sui negoziati. […] Il primo ministro ha detto che è preoccupato per la situazione nella zona A del Territorio libero dove ci sono stati incidenti e incomprensioni sorte da azioni del Governo militare alleato, come i cambiamenti delle insegne dei negozi dei monopoli di stato italiani. Ha detto che questi incidenti e incomprensioni hanno sollevato il sospetto in Italia che il governo militare provvisorio stesse ponendo le basi per stabilire un governo permanente in un libero territorio neutrale. Ha detto di sperare che le autorità britanniche e americane applichino l’esistente legislazione italiana nella zona A, specialmente dato che secondo il trattato di pace solo il governatore, se fosse nominato, potrebbe cambiare le leggi. […] Il primo ministro ha fatto riferimento alla questione del trattato di pace italiano. […] Il primo ministro ha detto che vorrebbe passare alla questione dell’emigrazione italiana. Ha affermato che il governo italiano fa del suo meglio e farà anche di più per combattere la disoccupazione, che è una delle cause principali che alimentano il comunismo. Ha detto che l’Italia da sola non riesce nemmeno ad assorbire i 200.000 lavoratori che ogni anno rappresentano l’incremento della forza lavoro, per non parlare poi di trovare lavoro per i due milioni che sono disoccupati a causa della guerra, dell’impossibilità di emigrare, dell’afflusso dei rifugiati in Italia. Ha detto che il problema può essere risolto solo con misure straordinarie; ad esempio nulla ha prodotto risultati ottimi quanto il programma straordinario per le DP negli Stati Uniti. L’obiettivo del governo italiano è di permettere l’emigrazione di italiani in un certo numero di paesi nei prossimi anni, e spera che fra questi paesi ci siano gli Stati Uniti. Il primo ministro ha espresso l’auspicio che sarà possibile creare organizzazioni internazionali per affrontare il problema, in cui gli Stati Uniti partecipino anche con aiuti finanziari. Ha suggerito che sarebbe possibile utilizzare manodopera italiana in progetti di costruzione militare, specialmente nell’area del Mediterraneo. Spera anche che possano essere disponibili degli aiuti americani per favorire i flussi migratori all’interno dell’Europa, come è avvenuto in alcuni casi con l’assistenza tecnica dell’ECA. […] Il primo ministro ha chiesto se sia possibile accordarsi sull’immigrazione temporanea di lavoratori qualificati italiani negli Stati Uniti. […] Il primo ministro ha ringraziato per aver avuto l’opportunità di discutere con il presidente e che spera gli Stati Uniti possano contribuire alla soluzione della questione della sovrappopolazione. Ha fatto riferimento alle reazioni favorevoli al suo discorso al Congresso del giorno precedente. […] |
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| Il presidente Truman e il presidente del Consiglio De Gasperi si sono incontrati alla Casa Bianca martedì 25 settembre. L’incontro è stato dedicato ad uno scambio di vedute sull’attuale situazione internazionale e sulle questioni di mutuo interesse per l’Italia e gli Stati Uniti. Il presidente e l’on. De Gasperi hanno concordato sull’importanza di continuare gli sforzi comuni dei Paesi liberi, uniti nell’organizzazione del trattato nord-atlantico per la conservazione della pace mondiale. Entrambi hanno riaffermato la convinzione dei rispettivi Governi che le nazioni libere debbono essere forti per garantire il mondo dall’aggressione. Il presidente del Consiglio De Gasperi ha riaffermato che il popolo italiano è deciso pienamente a continuare nei suoi sforzi per la causa comune. Egli ha illustrato la particolare necessità dell’Italia di rafforzare la propria posizione economica come parte del suo generale sforzo difensivo. Il presidente Truman ha assicurato il presidente del Consiglio che gli Stati Uniti come in passato, continueranno ad assistere l’Italia e gli altri alleati per consentire loro di raggiungere la stabilità economica e sociale ed aumentare le loro capacità difensive. Egli ha convenuto col signor De Gasperi che la difesa dell’Europa è vitale per la conservazione del mondo libero. Il signor De Gasperi ha fatto riferimento alle contraddizioni fra lo spirito del trattato di pace italiano e l’attuale posizione dell’Italia, quale membro di parità di condizioni della comunità delle Nazioni libere. Egli ha informato il presidente del legittimo desiderio del popolo italiano che tali contraddizioni siano eliminate. Il presidente del Consiglio ha anche espresso la sua soddisfazione per la possibilità ottenuta di avere in merito uno scambio di idee col segretario di Stato (Dean Acheson) come pure con i ministri degli Esteri inglese e francese. Il presidente ha assicurato l’on. De Gasperi che il governo degli Stati Uniti è deciso che la situazione che egli ha illustrato sia corretta in uno spirito di eguaglianza e di amicizia. Egli ha espresso la fiducia che la considerazione ora data a tale questione sfoci in una soluzione soddisfacente Il presidente del Consiglio ha sottolineato, e il presidente ha riconosciuto, l’importanza che per il popolo italiano ha la questione di Trieste in relazione alla quale la politica dei due Governi è ben nota. La questione è stata presa in piena considerazione. Il signor De Gasperi ha sottolineato al presidente la serietà del problema relativo all’eccesso di popolazione in Italia, e gli ha esposto gli sforzi compiuti dal Governo italiano per risolvere sul pano internazionale i problemi connessi a tale situazione. Il presidente ha assicurato il presidente del Consiglio che gli Stati Uniti si rendono pienamente conto dell’urgenza di raggiungere accordi internazionali che contribuiscano ad alleviare i disagi esistenti nei paesi sovrappopolati come l’Italia e a favorire lo sviluppo di altre zone. Il presidente americano e il presidente del Consiglio italiano hanno espresso la reciproca soddisfazione per questa presa di contatto, che ha consentito di riaffermare l’amicizia e l’identità di vedute delle due Nazioni. Essi hanno sottolineato la determinazione dei rispettivi Governi a lavorare per la pace basata sui principi della Carta delle Nazioni Unite . |
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| Questo è un incontro che mi dà gioia. È come tornare a incontrare dei vecchi amici. In gioventù sono stato giornalista e sapete che ci piacciono – anzi che amiamo – le cose che ci piacevano quando eravamo giovani. Ora sono al governo ma sento di appartenere ancora alla vostra categoria. Forse perché ho la sensazione che in una democrazia il lavoro di giornalista offra più sicurezza di quello in un governo. Ci ho pensato leggendo un’opinione di Thomas Jefferson che una volta disse «se dovessi decidere fra avere un governo senza giornali o giornali senza un governo, sceglierei la seconda ipotesi». Così fatemi parlare come fra colleghi della stampa. Il fatto è che voi, noi e i vostri amici siamo impegnati in un’impresa comune carica di molti pericoli. Ma siamo certi del successo se le dedichiamo la nostra intelligenza e le nostre risorse, con coraggio e immaginazione. In voi, in noi e nei vostri amici, votati alla democrazia, al rispetto e agli alti ideali della civiltà occidentale, c’è un profondo bisogno di pace. Questo desiderio di pace è una delle ragioni principali dell’Organizzazione dell’Atlantico del Nord; è uno dei legami più forti che ci unisce nell’impresa comune. Ci siamo riuniti e costruiamo insieme perché sappiamo che mano a mano che diventiamo più forti le minacce alla pace diventeranno più deboli. Speriamo seriamente e ci attendiamo che il nostro desiderio di pace, appoggiato dalle nostre risorse congiunte, eviterà la guerra. Ma se le nostre speranze e le nostre aspettative non dovessero realizzarsi, saremo pronti ad affrontare e combattere l’aggressione. Il nostro scopo congiunto è chiaro: dobbiamo mobilitare insieme le risorse e rafforzarci il prima possibile per indebolire le minacce alla pace. Come in una famiglia, una coppia o una comunità, tutti abbiamo gli stessi obiettivi fondamentali ma ognuno di noi ha capacità differenti e il nostro contributo alla causa comune deve perciò essere differenti. Cosa può dare l’Italia? Vi chiedo anzitutto di non guardare solo al lato buio della situazione. È vero: ci mancano carbone, petrolio, polvere di ferro e quasi tutte le altre materie prime e siamo tremendamente sovrappopolati rispetto alle nostre risorse. Di fatto, l’esistenza dell’Italia per anni, vista dal solo punto di vista statistico, è sembrata impossibile. Ora prendiamo ad esempio il carbone: nel vostro paese producete più di 550 milioni di tonnellate di carbone di alta qualità all’anno. In Italia produciamo all’anno 1 milione di tonnellate di carbone di bassa qualità. E guardate l’acciaio: voi negli Stati Uniti producete per persona più di 40 volte tanto quello che produciamo noi in Italia. E in diverso grado, ci sono simili differenze nei casi di petrolio, minerale di ferro e altri materiali. L’Italia comunque ha una risorsa importante nell’abilità e nella volontà di lavorare della sua gente. Il popolo italiano ha creato una struttura industriale ragguardevole e moderna. Distrutta dal governo di una dittatura e dalla Guerra che ne è conseguita, nondimeno l’Italia, con il generosissimo aiuto degli Stati Uniti e di altri amici, si è avviata sul lungo e difficile cammino della ricostruzione. La democrazia è stata ristabilita e mantenuta sotto i nuovi e continui assalti di coloro che vorrebbero creare un’altra dittatura, e lo stesso vale per i suoi impianti industriali. Ma con la situazione economica dell’Italia è stato un compito quasi sovrumano soddisfare la richiesta della nostra gente di migliori condizioni di vita. I comunisti naturalmente hanno usato ogni trucco e ogni mezzo per sfruttare la nostra situazione economica ai loro fini. Abbiamo retto alla loro sfida. Abbiamo aumentato la produzione nelle fabbriche e nelle aziende agrarie. Stiamo proseguendo con la riforma agraria e con le altre riforme il più decisamente e velocemente possibile. Voi ci avete aiutato a farlo. Ma dobbiamo combattere contro un altro enorme problema di cui certo siete consapevoli ma che non è mai sottolineato abbastanza: la sovrappopolazione. Non darò altre cifre. Dirò semplicemente che questo problema strutturale è stato affrontato in ogni modo possibile. Capiamo che non si può lasciare niente di intentato per ridurre la disoccupazione in Italia e per migliorare il livello di vita della nostra popolazione. Ma abbiamo troppe persone per le dimensioni del nostro paese e per le risorse disponibili. In passato, una forte immigrazione dall’Italia è stata – lasciatemelo dire – un beneficio non solo per l’Italia ma anche per i suoi amici. Attraverso un movimento di persone libero e senza restrizioni possiamo aiutarci a vicenda e, nel mescolare le nostre civiltà, i nostri modi di vita e i nostri popoli possiamo rendere ancora più possibile lavorare insieme per raggiungere i nostri grandi obiettivi comuni di pace, libertà e sicurezza per i figli dei nostri figli. Inoltre, l’eccesso di popolazione in uno dei paesi del Patto atlantico può divenire un vantaggio per lo sforzo comune. Il popolo degli Stati Uniti sta già producendo a un ritmo impressionante per la difesa e aumenterà i propri impianti per produrre ancora di più. Per assicurare la comune difesa anche l’Italia e i popoli degli altri paesi del Patto atlantico potrebbero produrre di più, dove siano disponibili impianti e forza lavoro. In pratica e selezionando i compiti, possiamo dividere il lavoro con voi. Il problema vero non sono gli aiuti militari o economici per l’Italia e gli altri paesi del Patto atlantico. Il problema è come mobilitare le nostre risorse per i nostri fini comuni nel tempo più breve possibile. Ad esempio, piuttosto che costruire nuovi impianti qui, non produrremmo forse più velocemente i beni utilizzando lavoro e impianti in Italia per la produzione, diciamo, di supporti di precisione per aerei e veicoli militari, materiale elettronico per i radar, carburante per aerei e veicoli militari? C’è anche l’aspetto morale del problema. Intendo dire che un popolo affamato e scontento non può produrre, non può essere efficace per la difesa comune, né resistere alle lusinghe degli estremisti. Molte delle persone nel nostro paese che hanno votato comunista non sono seguaci di Marx e Lenin . Semplicemente sono persone che non hanno abbastanza da mangiare o che non si sentono soddisfatti del loro lavoro e delle loro condizioni di vita. Queste condizioni non devono essere peggiorate, ma migliorate nell’interesse della nostra sicurezza. Il desiderio del popolo italiano di contribuire nella massima misura possibile alla veloce mobilitazione della difesa della Comunità atlantica non può tuttavia essere utilizzata pienamente finché non siano rispettati alcuni requisiti morali. Mi riferisco alle clausole del nostro trattato di pace, restrizioni assurde e obsolete alla dignità di una nazione democratica. Lo stesso si può dire per l’ammissione dell’Italia alle Nazioni Unite. Stiamo cercando di fare tabula rasa dell’amara eredità del passato, in modo da costruire per il futuro e lavorare con fiducia e determinazione. In questo spirito speriamo che la questione di Trieste troverà una soluzione secondo i principi di giustizia e sulla base delle assicurazioni che abbiamo ripetutamente ricevuto. Ho cercato di delineare i problemi che hanno effetti diretti sulla vita del popolo italiano, politicamente ed economicamente. Quando saranno risolti, l’Italia potrà svolgere interamente il proprio ruolo come membro di quell’Europa unita che ha sempre promosso. Molto ancora resta da fare e sarà fatto. Poiché noi siamo uniti e confido che, attraverso la nostra azione comune, pace e libertà saranno assicurate al mondo e alla sua civiltà. |
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| Signor Presidente, I miei più sentiti ringraziamenti per il saluto cordiale e amichevole che sono certo sarà apprezzato nel suo pieno valore da tutto il popolo italiano. L’Italia è ben consapevole del suo debito di gratitudine ed è orgogliosa di essere con il popolo degli Stati Uniti in questo comune sforzo di difendere i valori spirituali che sono il patrimonio comune della civiltà occidentale. È quindi un grande piacere per me rinnovarle, signor Presidente, in nome di tutti gli italiani, i sentimenti della più grande gratitudine per la generosa assistenza morale e materiale dataci. Mi permetta inoltre di esprimere la certezza che la collaborazione fra i nostri due paesi continuerà a svilupparsi nel comune interesse, per assicurare a tutte le nazioni libere un futuro di ordine, benessere, pace. Promuovere questo sviluppo è lo scopo della mia visita in questo paese: non ho dubbi che, con l’aiuto suo e dei suoi collaboratori questo scopo sarà raggiunto. È con quest’animo che alzo il calice e bevo alla sua salute, Sig. Presidente, a quella della sua famiglia e alla prosperità del popolo americano. |
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| Il Sig. De Gasperi ha aperto la discussione dichiarando che la frase relativa a Trieste secondo cui una sistemazione «dovrebbe tenere conto» delle aspirazioni italiane era per lui inaccettabile. Ha detto che tale affermazione era troppo debole e che dal punto di vista della sua situazione di politica interna gli era impossibile accettare una terminologia di questa natura per rappresentare la posizione da lui presa a Washington. Ha chiesto se il «dovrebbe» non possa diventare un «deve» o se la frase possa essere cambiata in altro modo. […] Il Sig. De Gasperi ha affermato che per lui si tratta di un problema tattico quello di ottenere una formulazione che sia capita dal popolo italiano. Non può accettare nulla che possa indicare che la dichiarazione del marzo 1948 non è più la politica alleata. Dopo ulteriori discussioni il Sig. De Gasperi ha accettato la versione corretta che appare nel comunicato finale. Nel concordare con tale formulazione ha detto di dare per scontato che la frase «unione dell’Europa occidentale» in tale accezione si riferisce a un’unione in senso generale e che non implica specificamente l’inclusione della Jugoslavia. […] Come ultimo punto il Sig. De Gasperi ha proposto una nuova frase conclusiva per il comunicato che riteneva avrebbe avuto un maggiore effetto sull’opinione pubblica. […] |
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| Sig. Segretario di Stato, signore e signori, oggi è stata una giornata densa. Molti sono stati i discorsi amichevoli e non vorrei rovinare l’effetto di quanto sentito con un discorso meno eloquente. C’è però stato in particolare un discorso che mi ha toccato nel profondo, e sono convinto abbia fatto lo stesso effetto su tutti coloro che ci sono amici. Mi riferisco al discorso del presidente Truman di fronte alla statue equestri. Sono stato commosso – e non mi dispiace ripeterlo – dal calore, dalla sincerità, dall’enfasi del presidente. Siamo grati per l’importante e autorevole dichiarazione sulle relazioni fra i nostri due paesi, e non meno commossi dalla generosità con cui il presidente Truman ci ha mostrato quanto siano genuini i suoi sentimenti. Noi politici sappiamo quanto la politica induca alla cautela e a volte la cautela limita le nostre espressioni. A volte temiamo le parole per restare sul sicuro. Solo un vero uomo di stato può permettersi di dire ciò che sente e nel contempo essere un grande leader. Nei tre giorni scorsi abbiamo avuto molti colloqui e abbiamo svolto molto lavoro interessante. Abbiamo prodotto testi e comunicati, esaminato dati, confrontato appunti. Ma lascerei da parte tutte queste carte per il momento: direi solo che al di sopra e oltre a tutti questi elementi materiali c’è stata la piena prova di quello spirito di amicizia profondamente radicato a cui le parole scarsamente possono rendere giustizia. Menzionerò ancora la squisita ospitalità dei nostri amici americani, l’efficienza della loro organizzazione e la loro sincerità. Sanno che a loro va la nostra gratitudine. Nel passato ce ne siamo dati prova l’un l’altro. Continueremo a farlo nel nostro interesse e nell’interesse del nostro comune benessere, della nostra sicurezza, della nostra pace. Devo aggiungere una parola di ringraziamento molto speciale per l’impagabile collaborazione del segretario di Stato, il cui senso politico e il cui talento ci sono stati di grande aiuto durante i lavori. Levo il calice al Presidente degli Stati Uniti. |
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| Signori, desidero ringraziarvi per la vostra ospitalità e esprimere il mio apprezzamento alla città di Washington per i tre giorni trascorsi fra voi. Ma voglio aggiungere qualche parola. Abbiamo appena partecipato a una cerimonia semplice ma importante in uno degli angoli più belli della vostra città. Ora, quattro gruppi equestri stanno di fronte al monumento di uno dei massimi rappresentanti della democrazia mondiale. Ne abbiamo parlato e abbiamo detto cosa pensiamo che essi rappresentino. Ora partiamo. Sono trascorsi cinque anni dall’ultima volta che sono stato qui. Né allora né ora sono riuscito a vedere molto di questa meravigliosa città e devo rimandare la visita turistica alla prossima volta. Ma ciò che ho osservato pienamente è il vostro calore, la vostra sincerità nei confronti dei vostri amici e ospiti, la vostra immancabile generosità. Per questo, separandomi da voi, è un piacere sapere di aver lasciato qualcosa dietro di me: qualcosa che viene dal mio paese e che resterà sulle placide rive del vostro fiume vicino a un simbolo della vostra storia che tanto è caro ai vostri cuori. E sarà gratificante sapere che queste cose sono prodotte dai miei concittadini, onesti e lavoratori, che condividono con voi l’amore per il duro e pacifico lavoro. Abbiamo molti legami in comune, ma credo che questo sia uno dei più vitali e importanti: un legame che assicurerà la cooperazione fra i nostri paesi per molto tempo a venire. |
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| Signor Vicesindaco, signore e signori, quattro anni fa sono stato ricevuto qui nel vostro Comune con una cerimonia solenne e festosa che New York ha trasformato in una tradizione. Ancora una volta sono stato accolto con la vostra usuale cordialità e ve ne sono profondamente grato. La vostra grande città mi ha impressionato come ha fatto anche l’ultima volta che sono stato qui. Perché oltre che per i suoi affascinanti palazzi, che questa volta ho avvicinato dall’oceano, New York colpisce i visitatori con l’elemento universale che sembra essere parte della sua natura. Come gli Stati Uniti rappresentano l’esempio più eloquente di come popoli di diverso ceppo possano vivere, svilupparsi e prosperare insieme in un sistema democratico, così New York, la più grande delle loro città, riproduce questa caratteristica del paese nella maniera più impressionante. È forse questo elemento universale ad essere responsabile della vostra apertura mentale come popolo. A Battery Park ho rivisto la statua del mio connazionale, Verrazzano di Firenze, il primo a gettare l’ancora al largo di queste coste. Sono seguiti olandesi e francesi, mentre nella cupola del vostro campidoglio a Washington ho visto l’immagine di un indiano, il primo abitante della vostra terra. Questo meraviglioso miscuglio vi dà, come ho detto, un’apertura mentale e arricchisce il vostro carattere nazionale con tale talento internazionale. Trovo questo particolarmente attrattivo perché mi ricorda molto il carattere di un’altra città, che è la capitale del mio paese: Roma. Anche lì abbiamo questo alto ed antico senso dell’universale, derivato dall’impero e spiritualizzato dalla cristianità. Popoli come i nostri non devono lasciare sterili questi talenti. Lasciateci usare quest’ampia comprensione che ci deriva dalle nostre storie e mettiamola al servizio non solo di noi stessi ma anche di altri. Lasciamo che su di essa si fondi il nostro sforzo di promuovere la comprensione fra tutte le persone, così da condurre alla piena cooperazione fra loro. Con questo intendo piena cooperazione non solo politicamente, ma economicamente e socialmente: cioè coesistenza pacifica, unione economica, libertà di movimento per la forza lavoro. Piena cooperazione – e solo quella – alla fine significa piena occupazione per tutti. L’altro giorno ho avuto la fortuna di ascoltare le calorose parole del presidente Truman al Memorial Bridge a Washington, quando ha parlato delle relazioni fra i nostri due paesi e ha affermato che la cooperazione è l’unico modo di migliorare il nostro standard di vita e di combattere l’aggressione. Sentendolo dar voce alle nostre intenzioni e ai nostri bisogni, ho capito che i cittadini americani sono con noi. Grazie di cuore, signori, per aver confermato, con il vostro generoso e sentito ricevimento, questa mia sensazione. |
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| Eminenza, signore e signori, sono commosso dalle parole di chi ha appena parlato e sono grato di ciò che ho sentito non tanto per la mia persona ma per il tributo pagato al mio paese. Voglio estendere la mia gratitudine a tutti coloro che sono giunti qui stasera perché la loro presenza e questa assemblea imponente sono di per sé un onore per l’Italia e l’amicizia italo-americana. Queste sono parole d’addio, e anche se gli addii spesso non sono gioiosi, questa occasione è causa di soddisfazione. Mi dispiace infatti dover partire ma allo stesso tempo sono impaziente di tornare nel mio paese. E mentre il mio dispiacere deriva non dal fatto di aver terminato un periodo di lavoro estremamente intenso ma di dover abbandonare tanti buoni amici, così la mia voglia di tornare a casa non è dovuta – come suggerito dal vicesindaco oggi a pranzo – all’aspettativa di un periodo di vacanza. Purtroppo, sig. Sharkey , non ne avrò il tempo e dovrò mettermi subito a lavorare. No, sono ansioso di tornare per dire ai miei concittadini ciò che ho visto e fatto in questo paese. Voglio dir loro dei risultati concreti di questa visita, della stima che circonda il mio paese, del pieno riconoscimento delle nostre legittime aspettative da parte del presidente degli Stati Uniti e del segretario di Stato, degli accordi che abbiamo raggiunto. I risultati dei nostri colloqui e incontri a Washington non avrebbero potuto trovare miglior espressione del benvenuto e del tributo di New York. Se la prova della democrazia sta nell’armonia fra decisioni e politiche di un governo e volontà e sentimenti della popolazione, non c’è mai stata miglior prova della democrazia del popolo americano del modo in cui i sentimenti genuini verso di noi si riflettono nell’atteggiamento del vostro presidente, del Congresso e del vostro governo verso il mio paese. Alcuni giorni fa a Washington ho promesso solennemente al Congresso che l’Italia coopererà per il raggiungimento dei nostri obiettivi comuni. Lasciate che vi ripeta qui che il mantenimento della democrazia, con tutto ciò che comporta in benessere e pace, è il nostro obiettivo. Lasciate che ripeta qui davanti a voi che resisteremo fermamente a tutti i tentativi, dall’interno o dall’esterno, di stabilire forme di governo non democratiche nel nostro paese. |
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| Sono lieto di rendere omaggio alla vostra iniziativa e mi auguro che da osservatori possiate presto divenire membri attivi delle Nazioni Unite. Ciò che l’Italia chiede è di collaborare alla preservazione della pace e di rappresentare nella organizzazione gli interessi del Paese. Credo che i giornalisti presenti dovranno ammettere che la presentazione del caso italiano è stata fatta all’opinione pubblica americana nel modo più favorevole e solenne. Lo dimostrano le dichiarazioni di Acheson e dello stesso presidente Truman. Mai l’Italia ha occupato un tale rango fra le nazioni democratiche. Credo che questa volta siamo riusciti a creare una concentrazione di luce, di pensiero e di interessamento sull’Italia. Il presidente Truman non ha solamente riconosciuto le necessità materiali dell’Italia ma anche quelle morali e cioè la sua partecipazione alla ricostruzione e al rinnovamento del mondo. Due impegni di vasta portata sono stati assunti: il primo si riferisce ad un programma internazionale ed efficace per la distribuzione della mano d’opera, il secondo alle commesse per sfruttare al massimo le energie industriali. Abbiamo chiesto solamente lavoro per le nostre fabbriche, per lavorare cioè per la pace, per far lavorare i nostri operai e i nostri contadini. Quanto al problema formale della revisione del Trattato di Pace, a parte le difficoltà per la procedura che dovrà essere seguita, essa è stata riconosciuta come una necessità dai tre Grandi e, soprattutto dagli Stati Uniti, con grande solennità. Il presidente Truman ha fatto nel suo discorso due dichiarazioni particolarmente impegnative. Esse si riferiscono ad un impegno di vasta portata di voler collaborare in un programma internazionale efficace per risolvere il problema della mano d’opera. Gli Stati Uniti hanno sperimentato quello che è il valore dell’emigrazione italiana: spetta a noi impostare un programma di collaborazione con gli Stati Uniti per ottenere dei risultati concreti. Una prima occasione ci sarà offerta dal Congresso di Napoli. Gli Stati Uniti si sono inoltre impegnati a fornirci delle commesse. Il Governo americano provvederà a fare dei passi per sfruttare il più possibile le attività industriali italiane mediante ordinazioni e commesse. Questi due impegni programmatici vanno messi in rilievo come risultati notevoli. I tre Grandi hanno affermato in una solenne dichiarazione che noi abbiamo diritto alla revisione del Trattato di Pace e all’ammissione all’ONU . Il problema consiste oggi nella questione procedurale. Per l’ammissione alle Nazioni Unite si tratta di trovare una procedura per superare il punto morto determinato dal veto sovietico nel Consiglio di Sicurezza e soprattutto di ottenere dai tre Grandi la chiara espressione di una volontà politica di realizzare la promessa contenuta nel nostro Trattato di Pace e di appoggiare la nostra domanda di ammissione alle Nazioni Unite. Quello che noi chiediamo è di collaborare per la protezione della pace e della sicurezza nel mondo. Nemmeno la Russia ha negato il nostro diritto di essere ammessi; essa dovrebbe cogliere questa occasione per contribuire, anche con il suo voto, a rimediare al passato. È un voto che noi esprimiamo con larghezza di speranze. Vorrei rassicurare la stampa che nelle riunioni parallele che si sono svolte con il segretario di Stato, alcuni problemi sono stati impostati, altri condotti a maturità e altri risolti. I colloqui e le riunioni si sono svolti sulla base di una documentazione bilateralmente aggiornata con la collaborazione di tecnici. Tutto questo lavoro sfugge naturalmente al grande pubblico, ma mi affido alla stampa in modo che il popolo italiano abbia la sensazione di essere qui rappresentato in tutte le sue aspirazioni, in tutti i suoi interessi. La prossima Conferenza della Nato , che è stata rinviata di qualche settimana a causa delle elezioni britanniche, ci fornirà l’occasione di includere alcuni dettagli esecutivi rimasti ancora aperti. Abbiamo lavorato molto. È questo un grande promettente inizio di un periodo di collaborazione che è dedicato alla pace costruttiva. Il nostro sforzo generale per la difesa non è che un contributo alla pace e alla sicurezza nazionale. |
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| Al Presidente Truman: «Mentre mi appresto a lasciare gli Stati Uniti, tengo ad esprimerle, Signor Presidente, la mia profonda gratitudine per la sua cordiale accoglienza nonché la mia viva ammirazione per il suo magnifico Paese. Lo sforzo che il popolo americano sta compiendo costituisce la migliore garanzia a favore dell’Occidente e la maggior remora contro l’aggressione. Il popolo italiano è accanto ad esso con la stessa volontà di pace e lo stesso attaccamento ai comuni ideali. La reciproca comprensione dei rispettivi problemi che lei ed io abbiamo constatato nei nostri colloqui rende la tradizionale amicizia fra i nostri due Paesi sempre più intima ed operante. Gradisca, signor Presidente, i miei più fervidi voti per il suo grande Paese e per Lei personalmente». A Barkley : «Prima di lasciare gli Stati Uniti desidero esprimere la mia gratitudine per lei e per l’Alta Assemblea così degnamente presieduta. Il Senato americano per la sua tradizione e la sua opera merita l’ammirazione e la fiducia di tutto il mondo democratico. A nome del popolo e del governo italiano le esprimo e la prego di trasmettere all’Assemblea sinceri e profondi sentimenti di amicizia e di solidarietà e fervidi voti». Ad Acheson: «Le rinnovo i miei sentiti ringraziamenti per le sue cordiali accoglienze e l’efficace contributo da Lei prestato al comune compito durante i nostri prolungati incontri a Washington. Ritorno a Roma con la viva soddisfazione per il lavoro utilmente compiuto e che non mancherà, ne sono certo, di avere i suoi ulteriori sviluppi. Con sincera amicizia ed i più cordiali auguri». A Rayburn «Prima di lasciare gli Stati Uniti tengo a rinnovare l’espressione della mia profonda gratitudine per l’alto onore fattomi dalla Camera dei Rappresentanti e per i sentimenti di amicizia e solidarietà manifestati verso il mio Paese. Alla Camera, una delle più elevate espressioni del sistema democratico, auguro un sempre più proficuo lavoro nell’interesse del popolo americano, della democrazia e della pace». |