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1Building the Italian Republic
101951-1955
Senatore, generale , comandante , dinanzi al vostro nome, alla testa di una schiera di eroi, mi inchino in tutta umiltà e con me si inchinano milioni di italiani. Qui debbono tacere le contese che ci dividono su problemi politici, economici e sociali; qui il nostro orecchio ascolta solo la voce della patria italiana, voce ammonitrice che ci richiama ai valori essenziali della vita nazionale: di questa voce accorata, e penetrante, voi siete, di diritto, gli interpreti più autorevoli, voi che partecipaste al Corpo italiano di liberazione o dei gruppi di combattimento, voi volontari della libertà, voi che affrontaste tormenti e sacrifici inauditi, voi rappresentanti delle famiglie dei caduti, ricordate il grande sacrificio di Caulonia , voi rappresentanti delle vittime dei campi di concentramento, di tutti coloro che hanno sofferto e sono caduti per tener fede al giuramento una volta prestato. Generale, ricordando questo altissimo principio morale della fedeltà e dell’onore che vincola ogni combattente al suo capo e, per mezzo del capo alla patria, voi avete il diritto di rivendicare non solo i gloriosi esempi vostri e dei vostri commilitoni che nel momento della decisione agirono nel senso del dovere, ma voi avete anche il diritto di richiamare alla mente di tutti gli italiani, la legge unica, suprema e fondamentale della disciplina interiore che sola garantisce l’unità e la salvezza della patria. Solo chi nella solidarietà nazionale subordina le proprie opinioni, la propria libertà nazionale alla libertà di tutti, combatte veramente per l’indipendenza e la libertà della nazione. Noi non vogliamo, e voi certo non volete, sedere al tribunale per giudicare i singoli casi di coscienza di ciascuna persona, ma voi avete il diritto e la missione gloriosa di difendere ed inculcare l’insegnamento e la validità del principio di giustizia, della norma di condotta. Che cosa sarebbe la libertà senza il costume e qual è il costume del combattente se non l’onore? La nazione che si perde a discutere tale legge, tale legge naturale, minaccia di entrare in crisi e rischia di perdere la sua molla vitale. Perciò, comandante, il nostro richiamo è la voce della patria che suscita e chiama a raccolta le energie morali di tutti i cittadini. È dall’alto di questa convinzione che voi avete il diritto di discriminare tra i valori della Resistenza, di rifiutare, cioè, le scorie faziose cresciute, poi, intorno alla massa nucleare spontanea della quale voi avete il diritto e la missione di rivendicare la nobiltà e la purezza. A ragione noi leviamo in alto, al di sopra di questa assemblea, la figura eroica del martire capitano De Gregori , combattente su due fronti, eroe che ebbe un solo ardore: l’Italia, la sua libertà, la libertà della patria all’interesse e l’indipendenza della patria fra le nazioni. Vi ringrazio per questa evocazione e per le vostre parole d’incoraggiamento. Non io, forse, sono destinato a raccogliere, che breve ormai è lo spazio di tempo che mi resta per operare, ma le raccoglieranno i giovani che una certa propaganda tenta di condurre per vie che hanno diverso punto di partenza, ma che fatalmente conducono entrambe, qualunque sia la buona intenzione e la volontà di chi li guida, alla perdita dell’unità nazionale e, fatalmente, alla perdita della sua libertà nelle sue istituzioni e nei suoi rapporti col mondo. La vostra voce, generale, risuona conferma delle esperienze internazionali che ho potuto fare in questi anni di storia recente? Fuori, anche per la malevolenza di avversari o di falsi amici, ma anche per colpa nostra, soffriamo ancora l’eco dei passati errori; in Europa e nel mondo, pur nel riconoscimento dei progressi di consolidamento fatti negli ultimi anni, – riconoscimento che non manca mai – c’è ancora chi dubita dell’avvenire di questa nostra Italia rinnovellata, perché – si dice – è troppo straziata dalle interne passioni. C’è ancora chi pensa che le nostre istituzioni democratiche, squassate dalla violenza dei sovvertitori e sotto l’incubo dei fantasmi del passato che vogliono tornare, o per una sciagurata dispersione delle forze costruttive diventino preda di nuove convulsioni e la paralisi interna renda di nuovo vuoti quei seggi che abbiamo faticosamente conquistati nei consessi internazionali. C’è chi pensa e, forse c’è chi opera, ma Iddio che ha protetto la nostra patria in disastri più grandi, disperda il tristo vaticinio; Iddio, che ha fatto sorgere nel vostro cuore l’impegno eroico di cui portate le insegne e ci ha salvati e redenti per il sacrificio dei combattenti e delle vittime della guerra, per la forza del vostro animo e del vostro braccio, susciti, oggi ancora, a mezzo dell’esempio dei vostri Martiri e l’incitamento della vostra fraterna parola, il sentimento dell’unità di tutte le forze libere, di tutti gli italiani che, superando il passato, puntino risolutamente e concordemente verso l’Italia di domani.
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L’On. De Gasperi ha detto – contro le affermazioni degli autori di opposizione – di non essere venuto in Lucania per vantarsi di quanto è stato fatto, né per chiedere plausi o adesioni, bensì per affermare che molto di più deve essere fatto, perché le popolazioni meridionali, e quelle lucane in particolare, meritano molto di più. Perché questo popolo è stato per tanti anni trascurato e merita un trattamento privilegiato di fronte a quello d’altre regioni. Ma occorre tener presente che le possibilità sono limitate: non si può rimediare in pochissimi anni a tutta l’incuria e a tutto l’abbandono di oltre mezzo secolo. Riferendosi ad alcuni manifesti dell’opposizione, affissi a Matera, secondo cui «dopo cinque anni di governo De Gasperi, basta», l’oratore ha osservato che per l’attuazione del programma stabilito non bastano cinque anni, ma ne saranno necessari altri, data la complessità dei problemi da risolvere. Il presidente del Consiglio si è richiamato alle cifre fornite dal ministro Campilli ed ha reso omaggio a coloro che hanno collaborato e lavorato per la rinascita del Mezzogiorno. Egli ha spiegato come si è giunti all’impostazione, alla preparazione, alla applicazione delle leggi; la loro approvazione non è sempre facile, né può essere sempre rapida, soprattutto perché si tratta di mettere in moto la macchina statale, in settori spesso diversi, con compiti talvolta nuovi per i funzionari preposti alla loro attuazione. La Cassa del Mezzogiorno è stata concepita specialmente al fine di meglio coordinare tutte le attività che presiedono alla ricostruzione del Meridione. L’oratore ha osservato che gli aiuti americani hanno contribuito alla risoluzione di molti problemi. Di fronte all’accusa di servilismo che ci si muove, dobbiamo affermare che non la cosiddetta «alternativa» di Nenni, non la neutralità, possono aiutarci a risolvere le nostre questioni. Il sistema dell’isolamento e dell’autarchia ci ha portato al disastro di una guerra spaventosa. Non si può abbandonare la collaborazione politica internazionale, se non rinunciando ad una cooperazione soprattutto finanziaria ed economica. Né ci si può accusare di servilismo. Noi parliamo dignitosamente, da pari a pari, ma siamo riconoscenti. Sappiamo dove sono i nostri fratelli, non vogliamo abbandonare questa solidarietà, né nei momenti buoni, né nei momenti tristi. Ora, siamo nel momento buono, e speriamo che esso duri, che cioè la pace duri: e la pace durerà se saremo solidali, se ci sarà l’unità di tutte le forze. Richiamandosi ad una frase del ministro Campilli, secondo cui le popolazioni meridionali hanno superato la loro diffidenza verso il governo, e verso Roma in generale, l’on. De Gasperi ha osservato di essere consapevole di ciò per l’entusiasmo dei lucani, per il loro sguardo spontaneamente fiducioso. Voi avete fiducia nelle nostre parole, nei nostri atti ed avete ragione, perché per la prima volta la crosta della diffidenza è rotta. Il governo compirà tutti gli sforzi, come già sta facendo, ma esso avrà bisogno della comprensione e della fiducia dei meridionali. Voi non potete essere l’oggetto passivo della collaborazione fra popolo e governo, ma dovete essere il popolo che lavora, che consiglia, che aiuta: voi dovete essere il fattore principale della vostra rinascita. Domani sarà fatto ancora di più, ma occorre che le popolazioni meridionali abbiano coscienza della propria forza. Voi dovete essere certi di voi stessi, come lo sono io. Ma io non sono altrettanto sicuro delle classi dirigenti locali: esse hanno ora il dovere di rimediare ai mancati interventi del passato, ed è inutile che cerchino di sottrarsi alle proprie responsabilità dietro la figura della Monarchia o della Repubblica. Qui non si tratta di Monarchia o di Repubblica, si tratta del popolo italiano, della democrazia. Si tratta soprattutto della base dell’edificio: e la base è l’economia. Abbiamo oggi bisogno di concentrare tutti i nostri sforzi sul problema della rinascita del Mezzogiorno: e coloro che tentano di distruggere questa nostra costruzione, che cercano di diminuire e dividere questi nostri sforzi,tradiscono la causa del Mezzogiorno, che finalmente è stata fatta sua da un governo, anzi non dal governo, il quale la può passare, ma dal regime della democrazia italiana. Il presidente del Consiglio ha richiamato le iniziative di Zanardelli e le leggi del 1904 e del 1908 per il Mezzogiorno ed ha rilevato che la guerra del 1914-1918, come tutte le guerre, ha arrestato l’attuazione degli impegni assunti. Poi, il fascismo non continuò l’esecuzione degli atti indispensabili per la ripresa del Mezzogiorno. Ora proprio nel Meridione dovrebbe forse manifestarsi il riconoscimento di ciò che il governo democratico sta facendo per la sua rinascita? Perché non solo dall’estrema sinistra, ma anche dall’estrema destra si tenta di rallentare lo sforzo di ricostruzione, di rinascita: questo è un tradimento, e chi lo compie ne dovrà pagare le conseguenze. Il presidente del Consiglio ha accennato al problema della tradizionale sfiducia del Meridione nei confronti del governo centrale, ed ha citato un noto libro che esprime verso la conclusione, in tono disperato e pessimistico, il contrasto fondamentale tra campagna e città; fra le città dove sono ritirati i rappresentanti delle classi abbienti e la campagna dove immiseriscono i poveri contadini. «Campagna e città – diceva lo scrittore – civiltà pre-cristiana e civiltà non più cristiana stanno di fronte. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e tiranna» . Il contrasto insuperabile fra la classe colta e la classe povera voleva esprimersi forse, secondo lo scrittore, nel senso che non ci sarebbe rimedio, finché Roma governerà, e avrà cioè nelle mani i fili della ricostruzione, e in genere dell’economia. Ma questa visione disperata, in realtà, non trova rispondenza nella situazione attuale. L’on. De Gasperi ha rievocato quanto è stato fatto dal governo per il Meridione, ed ha soggiunto che il problema, nel suo complesso, non può essere risolto senza la cooperazione di tutte le forze attive. Si deve fare ciò che non è stato fatto nel corso dei secoli: ora si è cominciato, il programma c’è, e si tratta di portarlo a termine, ma ciò è impossibile senza un governo stabile. Noi non abbiamo formulato e non formuliamo promesse mirabolanti: esse sono inventate dai nostri avversari, i quali vogliono poter poi dire che noi non le manteniamo. Noi non promettiamo cose di cui non prevediamo la soluzione. Ma attenzione, come se il governo non sarà stabile non vi sarà possibilità di procedere nell’opera della rinascita, così se la pace fosse in pericolo tutta la nostra ricostruzione sarebbe ugualmente in pericolo. È ridicola l’accusa che ci si muove di cercare la guerra. La nostra politica, l’alleanza con le nazioni libere e democratiche vogliono dire la ricerca della pace, il rafforzamento della democrazia. È il popolo che ha la parola, è il popolo che decide. E sappiano i signori che essi hanno il dovere di mettersi alla testa del popolo, di essere a guida del progresso sociale; non c’è altra soluzione, se si vuole salvare la democrazia e la libertà; se si vuole cioè salvare il popolo. Roma è la patria italiana; e da Roma irradia la fraternità cristiana; e il cristianesimo è solidarietà sociale, è libertà, rappresenta il progresso. Democrazia vuol dire popolo, cristiana vuol dire sentimento di giustizia sociale.
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1,953
1Building the Italian Republic
101951-1955
Non faccio appello alla fantasia o al sentimento, ma alla ragione. Contro le affermazioni di un giornale di estrema destra , egli ha precisato di non essere venuto ad Avellino per guarire il Sud dei suoi sentimenti, perché egli rispetta tutti i sentimenti onesti e leali. De Gasperi non vuole avere sempre ragione, ha ragione soltanto quando le sue idee e i suoi propositi corrispondono alla realtà delle impostazioni e dei risultati. Si tratta, in queste elezioni, di dare un giudizio e di decidere sullo sviluppo della vita del paese. Ora in questa campagna elettorale per il rinnovo delle Camere si vuole inserire per forza un altro elemento di divisione: la questione della forma dello Stato. Che alla testa dello Stato sia un principe o un presidente eletto, è forse questo il problema principale e più urgente che bisogna risolvere assolutamente oggi o a breve scadenza? È forse un postulato della coscienza storica del paese rivedere nel 1953 quello che è stato fatto nel 1946 anche a costo di nuove divisioni, di nuove convulsioni? L’on. De Gasperi a questo punto ha rievocato le circostanze storiche che nel 1946 condussero alla soluzione del problema istituzionale. L’idea del referendum nacque in nome ed in difesa della libertà e dei sentimenti del popolo. I socialisti e i comunisti insistevano perché il problema della Monarchia o della Repubblica fosse risolto dall’Assemblea costituente; noi dicemmo di no, dicemmo che occorreva fare appello al popolo, e poiché continuavano a insistere, noi sostenemmo che esistevano un principio ed un secondo metodo secondo i quali la maggioranza impone le sue decisioni alla minoranza e che occorreva che tale principio fosse accolto come norma di condotta ed anche come metodo di pacificazione. Così si giunse al referendum dopo lunghe discussioni e con una legge approvata da un Consiglio dei ministri del quale facevano parte monarchici e repubblicani. La legge fu firmata dal luogotenente: fu insomma un patto fra principio e popolo, un patto tra i diversi partiti. I risultati del referendum furono proclamati dalla suprema Corte di Cassazione il 10 giugno 1946 e furono per oltre 12 milioni in favore della Repubblica e per oltre 10 milioni in favore della Monarchia. Evidentemente c’è una fortissima minoranza che desiderava la Monarchia. Ma se c’è un principio che consente agli uomini di andare avanti insieme, quale è esso se non il principio del rispetto della maggioranza espressa dal voto? Ora si possono certo ammettere sentimenti verso l’istituto monarchico, ma non è certamente di estrema urgenza di riproporre la questione, riaprire le contese e i contrasti, ritornare in queste elezioni parlamentari alla battaglia di prima. Io parlo a tutti coloro che hanno un pensiero proprio e non seguono una disciplina di partito. Bisogna esaminare se risollevare la questione istituzionale è utile, se può portare dei danni o dei vantaggi alla nazione e al popolo, poiché la questione fondamentale è l’interesse del popolo ed io sono persuaso che anche l’ex re non ritenga che il sentimento monarchico sia materializzato nei partiti politici. Dicendo questo io non riporto una mia idea campata in aria, ma ripeto le parole che Umberto, il 1° novembre 1944 disse a un grande giornalista del New York Times: «il luogotenente generale non ritiene che il sentimento monarchico dovrebbe materializzarsi in un partito politico. Egli considera la propria posizione al di sopra dei partiti politici e non desidera che monarchici e repubblicani battaglino» . Debbo ritenere che, se Umberto non lo desiderava allora, anche oggi non ritenga utile per la patria che questa battaglia sia riaperta. E lo stesso Umberto, riprendendo una idea che era nostra, affermò: «la forma di governo non altera il problema della democrazia». La questione fondamentale è infatti la questione del governo di popolo. È il governo nominato dal popolo, si o no? È un governo che fa l’interesse del popolo? Questa è la questione fondamentale, l’altra è una questione secondaria, contingente. C’è poi qualcuno che afferma che è urgente richiamare la Monarchia per consolidare la pace, per evitare la guerra. Magari l’esperienza storica ci desse questa tranquillità, questa sicurezza. Secondo lo Statuto, era il re che decideva della guerra o della pace. Con la nuova Costituzione repubblicana, è il Parlamento che decide della guerra e della pace. Ma anche allora, nel 1940, è proprio vero che decise il re? Io voglio essere più giusto e misericordioso verso la responsabilità di Vittorio Emanuele III e debbo dire che, se è vero che formalmente la dichiarazione di guerra portava la firma del re, è vero però che il re fece disgraziatamente la volontà del fascismo [e] del governo che lo rappresentava. Il 23 agosto 1939, Roosvelt sorrideva al re, in un messaggio: «è convinzione mia e del popolo americano che vostra Maestà possa grandemente influire nell’evitare lo scoppio di una guerra. Una guerra mondiale causerebbe sofferenze a tutte le nazioni sia belligeranti che neutrali, sia vincitrici che vinte e porterebbe certamente devastazioni». Il re poteva dire una parola, ma non la disse, e la storia lo ha giudicato. La poteva dire o non la poteva dire questa parola? Non è in questo momento che noi crudamente siederemo a tribunale, ma diciamo che la esistenza della Monarchia non ha cambiato niente nella questione della pace e della guerra, né ha ritardato la dichiarazione di guerra. Né la Monarchia, come sperano alcuni signori più o meno «scorporati» proteggerebbe gli interessi di coloro che stanno bene, di coloro che hanno proprietà. La Monarchia non può proteggere una sola classe: se lo facesse si metterebbe contro gli interessi del popolo. La Monarchia segue la evoluzione sociale. E così quando Umberto nella già citata intervista disse che la «Monarchia, al pari di tutte le istituzioni politiche d’Europa post-bellica, si muoverà verso sinistra» , io non mi scandalizzai davvero in quanto compresi che sinistra voleva dire un movimento di progresso [e] di riforma. Ma mi mette assai in sospetto, invece, questa specie di tacito compromesso di non aggressione che esiste tra le forze di estrema destra e di estrema sinistra. Si ripete un vecchio giuoco ed io voglio ammonire i monarchici di non dimenticare ciò che avvenne nel 1943, quando il re rifiutò di aderire alla richiesta degli anglo-americani di lasciare il posto al suo erede dichiarando che i comunisti appoggiavano tale soluzione. Anche oggi i monarchici credono che i comunisti li appoggino. Forse è così e credono che domani i comunisti sarebbero avversari teneri. L’on. De Gasperi ha citato l’ex segretario di Stato americano Cordall Hull, il quale in quell’epoca disse, riferendosi alle dichiarazioni del re: «oggi i monarchici quasi in ringraziamento, appoggiano in questa lotta i comunisti che ancora una volta, come allora, danno a vedere di voler salvare Costituzione e democrazia, ma intendono invece disintegrare l’una e l’altra». Qual è dunque, la vera questione per la quale bisogna battersi? La vera questione che ha la precedenza assoluta è la seguente: non si tratta di restaurare la forma di regime, non si tratta di sapere che cosa il capo dello Stato debba portare sulla testa, ma si tratta di instaurare nella sua essenza il regime, cioè il governo del popolo. Ciò significa ad esempio attrarre nell’orbita della ricostruzione attiva le classi popolari del Mezzogiorno. Questo è il problema di oggi ed esige la concentrazione di tutti gli sforzi, la continuità della direttiva. A questo punto l’on. De Gasperi ha ricordato come nel 1950, impostandosi il piano per la Cassa del Mezzogiorno egli disse come non sarebbe bastato il denaro se non ci fosse stata anche la collaborazione intima, profonda ed efficace delle popolazioni meridionali. Noi non pretendiamo che alcuno rinneghi i propri sentimenti, ma abbiamo il diritto di chiedere che, operando politicamente sul terreno costituzionale, ciascuno senta il dovere di concentrare i propri sforzi nella redenzione e nella elevazione del popolo meridionale, che fu tanto trascurato e che meritava un tale sforzo, che deve essere anche difeso contro i pericoli che lo insidiano: il pericolo del comunismo disgregatore e quello di altri movimenti disgregatori. Nessuno trova che sia decisivo nella politica economica e sociale in Italia se al Quirinale sieda un uomo per diritto ereditario o per elezione. Tutti i problemi della evoluzione economica, della giustizia sociale, del regime politico stesso, tutto ciò sfugge al capo dello Stato il quale firma e promulga la legge. Ma le leggi le fa il Parlamento eletto dal popolo; dunque è il popolo che governa. Non solo non è urgente, non solo non c’è alcuna scadenza per il problema monarchico, non solo esso non è necessario, ma è dannoso per la stessa unità del paese e in specie delle forze democratiche, deviato pericolosamente dalla lotta anticomunista. Non vedete le speranze di Togliatti e di Nenni? Nenni è venuto fuori con l’«alternativa» e Togliatti riprende l’attacco comunista. E tutti e due sorridono pensando che Lauro fa da battistrada al comunismo. Ecco un esempio: i monarchici, cioè Lauro, dichiarano che bisogna fare ogni sforzo per impedire che i partiti di centro superino il 50 per cento dei voti, perché essi vogliono che il Parlamento non abbia una maggioranza stabile e quindi un governo solido. Ma il non esserci un governo solido vorrebbe dire non avere governo affatto, perché se i partiti di centro non superassero il 50 per cento non sarebbe possibile fare un governo né a sinistra né a destra, a meno che non vogliamo dare lo spettacolo, che sarebbe veramente oltraggioso oltre che inumano, di vedere l’estrema sinistra unita alla estrema destra. A questo punto il presidente del Consiglio richiamandosi all’accusa che fa anche l’estrema destra alla cosiddetta «legge truffa» nonché al modo in cui è stata eletta l’amministrazione comunale di Avellino (cioè, i partiti collegati di estrema destra, conseguendo il 32 per cento dei voti, cioè la maggioranza relativa, hanno ottenuto il 66 per cento dei seggi) ha domandato ironicamente perché questi avversari della cosiddetta «legge truffa» non si dimisero, allora. Ecco qui come in altre città sono stati eletti con una legge consimile. L’on. De Gasperi si è poi chiesto perché proprio nel Mezzogiorno si svolga un violento attacco contro il centro democratico e contro il governo. Questo attacco non è condotto sulla questione monarchica, non è prodotto mediante una critica su determinati punti o metodi, non ammette neppure che qualcosa sia stato fatto (ed ammetterlo sarebbe un buona tattica per i monarchici); ma questi signori si stanno facendo concorrenza fra loro nella calunnia più schifosa specialmente contro di me, negando a noi il patriottismo verace e sostanziale del nostro lavoro insultando l’onore della nostra bandiera e della nostra vita. Secondo i loro giornali, niente abbiamo fatto, niente di buono; oppure si ammette che quel che è stato fatto è stato fatto male. Ma è proprio nel Mezzogiorno che si sente questa accusa. Dove eravate voi mentre noi concentravamo tutti i nostri sforzi per il piano del Mezzogiorno, per la rinascita di queste terre abbandonate? Eravate in alto mare a fare quattrini . L’on. De Gasperi ha ricordato che, all’atto della impostazione del piano, ed anche recentemente, egli ha avuto rilievi da parte di settentrionali, perché il governo «impiega troppo denaro nel Sud». Io ho risposto: «voi settentrionali riceverete in cambio grandi vantaggi perché il mercato si espande con lo sviluppo nel Meridione». L’on. De Gasperi ha ricordato che in due anni la Cassa del Mezzogiorno ha approvato – al 31 marzo 1953 – lavori per complessivi 241 miliardi: sono lavori già appaltati, in corso di esecuzione. Non si può fare tutto in un momento, non abbiamo la bacchetta magica ma, come vedete, si sta lavorando. Il concetto di quest’opera è ispirato ad una esigenza di giustizia mondiale, di equa distribuzione dei beni, non a odio di classe. Dove c’era, infatti, il pericolo di diminuire la produzione, spezzando la proprietà, l’unità è stata rispettata; in tali casi i proprietari si sono assunti il compito di dimostrare che le eccezioni allo scorporo devono servire di esempio per lo sviluppo futuro dell’agricoltura. L’on. De Gasperi, richiamandosi a questo punto a certe malevole accuse di avversari, ha rievocato due recenti casi di cui egli ha sentito tutta la fierezza italiana dell’opera ricostruttiva: in una riunione internazionale, infatti, ha sentito un delegato olandese dire a un collega francese che se la Francia seguisse una politica finanziaria accorta come quella dell’Italia, la Francia avrebbe una moneta salda come la lira italiana. Un altro episodio è rappresentato dalla decisione degli americani di inviare tecnici della Università di Harvard a studiare loro che pure hanno realizzato grandiose opere come quella della bonifica del Tennesse, le grandi dighe, la bonifica e le trasformazioni fondiarie delle zone del Bradano e dell’Agri, che interessano 587 mila ettari. L’oratore ha quindi citato alcuni dati fondamentali dell’opera per la rinascita del Mezzogiorno. Del piano decennale di 1.280 miliardi, 390 miliardi sono destinati ad opere di bonifica, 100 per la sistemazione montana, 280 per la riforma agraria, 110 per gli acquedotti, 90 per opere stabili, 30 per il turismo. In base alla legge supplementare del 1952, si sono aggiunti 75 miliardi per la rete ferroviaria, 140 per l’agricoltura e 50 per gli acquedotti. Di tutta questa spesa, il 70 per cento va all’agricoltura, della quale nel Mezzogiorno vive il 52 per cento della popolazione. La Cassa porterà l’acqua in tutti i Comuni; essa contempla la costruzione di 2.200 chilometri di nuove strade, la bonifica di 360 mila ettari di terreno, la costruzione di 158 borgate rurali e di 50 mila case coloniche con 2.800 centri aziendali: 125 mila operai lavorano per la Cassa del Mezzogiorno in 16 mila cantieri. La grande opera che stiamo completando e che è frutto di tenacia, di volontà, di sforzo finanziario e di cooperazione è in pericolo se il governo non ha dietro di sé una stabile maggioranza. E voi del Mezzogiorno, comunque la pensiate, non potete assumervi la responsabilità di interrompere questa azione. L’on. De Gasperi ha ricordato che alcune iniziative del passato come le leggi Zanardelli furono interrotte per causa della prima guerra mondiale. Questa volta l’interruzione potrebbe venire da una guerra interna, da una guerra civile, guerra provocata, impedendo una maggioranza stabile, da gente che non serve una Monarchia, ma si serve della Monarchia. Ci si accusa anche di essere uomini deboli che non hanno coscienza della dignità della nazione. La verità è che non facciamo spacconate. Noi abbiamo ricostruito l’esercito, il nostro glorioso esercito; abbiamo ricostruito le forze dell’ordine. E i signori monarchici non pretendano ora di salvare l’Italia dal comunismo. Siamo stati noi a salvare l’Italia dal comunismo. Abbiamo coscienza e fiducia nell’avvenire della patria, ma siamo anche consapevoli delle limitazioni costituite dalla mancanza di materie prime ed è perciò che portiamo avanti le ricerche di energia endogena anche nel Mezzogiorno. Proprio ad Avellino Mussolini il 30 maggio del 1936 pronunciò il discorso in cui parlava degli otto milioni di baionette che mai avemmo e del «tirare diritto» contro tutti . Ma il tirare diritto, il voler fare da sé hanno portato al conflitto contro tutti, al disastro. Noi non vogliamo rifare questa esperienza. Noi lavoriamo per la pace, per l’Italia rinnovata e forte nella collaborazione internazionale.
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Accettando l’insistente invito dei veneti di parlare in una riunione regionale, non intendevo darvi qui appuntamento per una celebrazione commemorativa del grande fatto d’armi che da Vittorio Veneto prende il nome; a ben altri che hanno combattuto e vinto spetterebbe la parola per trarre insegnamenti ed infondere incoraggiamento. Io, liberato e non liberatore, non ho sacrifici cruenti da vantare, né gesta militari da rivendicare, onde il mio primo sentimento è di inchinarmi qui riverente innanzi alla gloriosa memoria dei caduti e dei combattenti ed attingere forza e ispirazione per le opere di domani e per la ricostruzione della patria. Il presidente del Consiglio ha reso omaggio al generale De Castiglione , all’amm. Sansonetti , al generale di Squadra aerea Rampolli ed al generale dei carabinieri Cerica , che sono presenti alla manifestazione. Vittorio Veneto fu un grande incommensurabile sforzo difensivo per liberare il suolo della patria invasa, la integrazione dinamica della memorabile decisiva battaglia sul Piave ove la invasione nemica fu arrestata ed infranta; onde questi gloriosi eventi si inseriscono non nella storia della conquista imperiale, ma tra i fasti della patria difesa e liberata. Oggi ancora a questa finalità è rivolto il nostro sforzo per il riarmo ed a tal fine l’Italia si è inquadrata nel Patto atlantico ed in questi limiti difensivi si mantiene il nostro impegno, la nostra alleanza. Non abbiamo il Ministero della Guerra, ma il Ministero della Difesa. Provvediamo a mantenere e se occorre imporre la pace, non a preparare la guerra. Le dieci Divisioni di fanteria, le tre Divisioni di corazzate, le cinque Brigate alpine non minacciano nessuno, ma sono là a copertura della patria, quando la patria si dovesse ancora difendere. Mirabile è stato in questi anni di ricostruzione lo sforzo per ricostruire dalle macerie l’esercito, la marina, l’aviazione. So bene che il nucleo così vigorosamente rinnovato ha bisogno di continui perfezionamenti e che il nostro bilancio, doverosamente gravato di spese sociali, non offre tutto quello di cui le Forze Armate avrebbero bisogno; ma è stato, anche in sede internazionale, riconosciuto che l’Italia ha fatto un grande sforzo per conciliare le esigenze della difesa con la necessità di una politica economica sana e risparmiatrice, sforzo che doveva essere continuato nella stessa direzione, perché una economia consistente è la base necessaria della nostra struttura sociale. Ma entro questi limiti ogni cura dovrà rivolgersi alle Forze Armate: i nostri soldati debbono avere le armi moderne con cui si battono ormai tutti gli eserciti ed i mezzi meccanici e tecnici che sono requisiti indispensabili. Mi è grato inviare da qui un pensiero di omaggio a tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldati del nostro Esercito, della nostra rinnovata Marina, della nostra Aviazione ed elogiarli per lo spirito di consapevole disciplina e di patriottico attaccamento che essi dimostrano nella loro attività, nelle formazioni, nei centri di addestramento, nelle scuole militari, nelle basi aeree e navali, sul mare e nell’aria. In base al progetto di legge, già approvato dal Consiglio dei ministri, i sottufficiali avranno uno stabile rapporto di impiego che offrirà loro garanzie di ordine morale e materiale; e agli ufficiali con le nuove leggi sull’avanzamento si tende a dare fiducia e sicurezza per tutti, sproni ai migliori. Opera di rinnovazione questa, dovuta alla capacità organizzativa dei capi, raccolti intorno alla intelligente passione del loro ministro che alla testa di questa opera rappresenta le cure, le preoccupazioni, i provvedimenti del governo democratico, il quale, pur nelle urgenze della ripresa economica e nell’aumento delle spese sociali sente la necessità di sviluppare e potenziare i nostri mezzi di difesa. A loro vada uno speciale pensiero di gratitudine anche e soprattutto per l’unità di spirito che domina nelle forze armate, in quanto una cosa sola vi si richiede: che sia rispettato il giuramento alle Istituzioni, che tutti siamo concordi e compatti attorno al Tricolore, che rappresenta la continuità dello Stato e della nazione. Oggi che le Forze Armate sono di nuovo in piedi, si sentono da certi avversari parole di riconoscimento; ma c’è chi dice che non bisognava accettare il concorso dell’America e in genere degli Alleati atlantici ed altri che ammettono bensì un riarmo, ma il riarmo di neutralità. Voi sapete che una divisione corazzata – composta di 250 carri armati, 100 cannoni semoventi, 400 autoblinde, 1.500 automezzi, 700 mitragliatrici, 1.200 armi automatiche e anticarro, 500 stazioni radio – costa circa 100 miliardi e 10 miliardi all’anno per manutenzione. Mai avremmo potuto fare tutto questo da soli, con il nostro bilancio. Tutto ciò vale anche per quanto riguarda l’armamento della Marina e della Aviazione. L’aiuto degli Alleati era indispensabile. Dovevamo forse starcene con le mani in mano, rinunciare a ristabilire le forze armate? Dovevamo forse mandare i nostri soldati muniti semplicemente di un esemplare di quei leggendari otto milioni di baionette che mai ci furono? Il presidente del Consiglio ha ribadito gli argomenti che rendono inattuabile una nostra posizione di neutralità. Egli ha ricordato come lo stesso Stalin, a Nenni che gli parlava di neutralità italiana garantita dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, disse che l’Italia è un paese di dimensioni materiali e morali tali da rendere impossibile per essa la neutralità. Quanto, poi, ai patti di non aggressione ai quali allude l’on. Nenni, il presidente del Consiglio ha rilevato che furono gli stessi carri armati sovietici a passarci sopra. Rispondendo alle pretese smentite circa la documentazione data in precedenti discorsi a proposito dell’atteggiamento dell’Unione Sovietica verso l’Italia dopo la guerra, l’on. Nenni ha riconfermato energicamente la sua azione per ottenere dal governo di Mosca una posizione più equa circa il nostro trattato di pace ed ha citato una lettera inviata da lui all’ambasciatore a Mosca, Quaroni, il 31 agosto 1945. In tale lettera, a proposito dell’esproprio di Villa Abamelek, egli scriveva tra l’altro: «questo è dunque un gesto che vuole e deve essere inteso come esclusivamente politico; che deve cioè essere inquadrato in quelle che sono le direttive generali della politica italiana verso la Russia. L’autorizzo a dichiarare a codesto governo che una volta risolto onestamente il problema della pace (e le dico a parte che cosa noi intendiamo per soluzione onesta) l’Italia vuole soprattutto vivere in pace. È assolutamente estraneo al nostro pensiero il proposito di subordinare in qualche modo a pregiudiziali anti-comuniste la nostra politica verso la Russia, del cui peso economico, militare, politico, ci rendiamo perfettamente conto. Ciò significa che non intendiamo affatto di essere o di servire da eventuale antemurale offensivo contro il mondo slavo in genere, contro la Russia sovietica in particolare». Queste dichiarazioni ebbero conferma in quanto dissi, in un convegno del mio partito, il 25 agosto del 1945, e cioè: «invano, come ministro degli Esteri, ho cercato ogni possibile contatto con l’attuale governo di Belgrado e ho chiesto anche i buoni uffici della Russia. Gli italiani sarebbero felici se nella Venezia Giulia fosse possibile una linea che dividesse nettamente ed etnicamente italiani e slavi; ma, poiché non è possibile, bisogna pur pensare ad accordi di compromesso che non ledano gli interessi essenziali delle due parti e ne assicurino la collaborazione per un migliore avvenire. Però, noi non pensiamo a una frontiera-sbarramento, ma a una frontiera-ponte; a un ponte sull’Adriatico fra la civiltà occidentale e orientale» . Questo linguaggio, usato nel 1945, alla vigilia della Conferenza della pace, quando tutti erano contro di noi, quando ancora non era scoppiata la tensione tra Occidente e Oriente, può oggi apparire anacronistico e piuttosto ingenuo; ma allora era uno sforzo sincero di vincere le avversioni che da ogni parte stringevano, come d’assedio, questa povera Italia e soprattutto di convincere la Russia che l’Italia non era pregiudizialmente, cioè per ragioni ideologiche, ostile. Ciò che ha portato al contrasto con l’Unione Sovietica è stata la questione di Trieste e della Venezia Giulia; anche qui il problema appariva fin dall’inizio compromesso per il fatto che l’atteggiamento dell’Unione Sovietica si fondava sulla promessa di Mosca a Belgrado di cedere alla Jugoslavia tutta l’Istria, la Venezia Giulia e Trieste. Il presidente del Consiglio ha detto che un altro esempio dell’atteggiamento dell’Unione Sovietica è il seguente. Quando l’Italia fu costretta a firmare il trattato di pace, perché altrimenti non avrebbe riavuto l’indipendenza, il nostro governo l’11 febbraio inviò a tutti i firmatari una protesta nella quale era detto tra l’altro: «il governo italiano mancherebbe all’onore – il patrimonio che gli è più caro – se non avvertisse gli Alleati che il trattato peggiora ancora nelle sue clausole territoriali, economiche, coloniali e militari quella atmosfera di soffocazione demografica che pesava tragicamente sul popolo italiano e che fu in parte all’origine di tanti mali per noi e per gli altri. Il governo italiano stima che è interesse diretto delle grandi democrazie rivedere, per il bene generale, le loro relazioni con il problema italiano che è un aspetto essenziale del problema del riassetto mondiale». Ebbene a tale nota molti governi non risposero, ma l’Unione Sovietica rispose e disse, in una nota, che «il Ministero degli Affari Esteri dell’Unione Sovietica per incarico del governo sovietico, dichiarava che esso non poteva essere d’accordo con la valutazione del trattato di pace con l’Italia data dal governo italiano e doveva respingere l’accusa di iniquità per l’Italia del trattato di pace contenuta nella suddetta nota». Quanto alle interpretazioni delle Izvestia ripresa dai giornali comunisti, secondo la quale l’Unione Sovietica era disposta a lasciare le colonie all’Italia, contro l’atteggiamento degli Occidentali, l’on. De Gasperi ha risposto citando quanto Stalin disse a Tito in una riunione svoltasi al Cremlino il 10 febbraio 1948 e riferita in un recente libro da Dedijer . Stalin disse: «gli imperatori, quando non riuscivano a mettersi d’accordo per la divisione delle spoglie, usavano dare il territorio conteso al signore feudale in un determinato momento. Questo signore feudale era di solito uno straniero, cosicché gli imperatori lo rovesciavano con tanta maggiore facilità quando si rendeva noioso». L’on. De Gasperi ha anche ricordato come l’Unione Sovietica chiese invano che Gran Bretagna, Stati Uniti e l’URSS amministrassero ciascuno una colonia. La Russia preferiva la Tripolitania. Egli ha ricordato la lotta dell’Unione Sovietica, dopo il trattato di pace, contro il Piano Marshall, le agitazioni del Cominform, la lotta contro il Piano Schuman, contro il Patto atlantico, contro l’Unione europea. Dove avremmo potuto trovare un punto di contatto? Forse trattando con quelle che Stalin definì le colonne d’assalto italiane del comunismo internazionale per la conquista del potere? Avremmo dunque dovuto trattare con la quinta colonna che abbiamo in patria? Noi apparteniamo al mondo libero. Siamo anticomunisti, alleati dell’America, complementari dei paesi di oltre Oceano per materie prime ed importazione di generi indispensabili. Tuttavia, rapporti più corretti sarebbero stati possibili se i nostri postulati nazionali non avessero incontrata tanta incomprensione e resistenza. Ora mi domandano con aria di diffidenza: sei per Churchill? Il discorso di Churchill è composto di due parti. In una parte egli esprime l’opinione che bisogna rompere il ghiaccio e stabilire contatti – riunioni piuttosto ristrette – e la speranza che tali contatti siano utili, fecondi, nella seconda parte rileva però la necessità della solidarietà atlantica, esalta l’Unione europea e patrocina la continuità dello sforzo difensivo. Comunque, il suo suggerimento dei contatti non aveva niente da fare con la proposta del Congresso dei «Partigiani della Pace» ed i signori partigiani che telegrafarono a Churchill, come fosse uno di loro, non ebbero nemmeno risposta; ma soprattutto non è esatto che il discorso volesse dire tendenza a dissociarsi dalle alleanze e neutralizzarsi. Niente, dunque, posizioni analoghe a quelle della cosiddetta alternativa socialista. Mi pare di aver colpito nel segno quando ho detto e ripeto: la questione di prendere contatti oggi o domani, in questa o in quella forma è opinabile, secondo le informazioni e impressioni che si possono avere. Se si conferma che Malenkov vuol trattare sul serio, tanto meglio! Ma l’importante è che lo schieramento atlantico agisca d’accordo e si concerti sul modo di procedere e che nel contempo la solidarietà non venga meno. La prova se la mossa sovietica corrisponda o meno a buona volontà, consiste nell’accertare se gli sforzi distensivi mirano a dividere o persuadere il mondo occidentale. Perciò saluto l’idea dell’incontro delle Bermude , tanto più che si tratta di un convegno preliminare tra Potenze che hanno responsabilità intercontinentali; cioè che sono direttamente interessate nella situazione sia in Occidente che in Oriente, in Europa, in Asia e in Africa. Mi è stato ufficialmente comunicato che il governo italiano sarà tenuto informato che sarà consultato in tutto ciò che lo può riguardare e interessare. Suppongo che a un dato momento ciò possa e debba avvenire anche per altri Stati. Noi non siamo difatti più nella situazione dell’immediato dopoguerra, per quanto riguarda i trattati di pace. Le potenze occupanti, o vincitrici, hanno quasi ovunque regolato le loro partite con i vinti, altre le stanno regolando. Nel Consiglio della NATO siedono 14 nazioni, nella Unione europea sei e la solidarietà dei due gruppi ha trovato le proprie formule giuridiche impegnative. Penso, quindi, che sia naturale che si incomincino a intendere gli uomini saggi ed esperti che parteciparono ai vecchi negoziati, poi interrotti; ma che poi, esaminate le prospettive, debbono essere consultati tutti coloro che sono direttamente o indirettamente interessati alla soluzione dei problemi da affrontare. Pessimo contributo alla distensione è la campagna odiosa che i sovietici e i satelliti continuano contro gli uomini dell’Occidente. Ecco una prova di queste accuse infami: Radio Praga il 22 maggio ha detto che «De Gasperi è veramente un uomo che fa vergogna all’Italia» e lo chiama «un fallito che vende il paese allo straniero, un provocatore che disonora l’Italia»; e tutto in base a una notizia inventata e falsa secondo cui l’ambasciatore Brosio sarebbe stato incaricato di opporsi alla proposta di Churchill. Quella radio concludeva: «De Gasperi al potere significa guerra, significa fascismo». Vi sono poi altre accuse, ad esempio, gli eredi autorizzati del fascismo, come l’on. Almirante, mi accusano di aver venduto l’Italia all’America e a Tito per aver scritto il 22 agosto 1945 all’allora segretario di Stato americano Byrnes, presidente della Conferenza della pace, che la linea Wilson sarebbe stata una base per la nuova sistemazione al confine orientale . L’on. De Gasperi ha detto: certo che ho scritto così e magari avessero accettato; avremmo salvato tutta l’Italia, oltre a Trieste, e per Fiume e Zara erano previste speciali autonomie. Quale era di fronte alla nostra tesi quella jugoslava? Le pretese titine arrivavano fino a Natisone; dunque ben dentro il territorio nazionale. In uno dei suoi recenti discorsi Tito ha detto: «noi abbiamo conquistato Trieste nel 1945. Abbiamo considerato che Trieste appartiene alla Jugoslavia senza badare alla circostanza che a Trieste c’è una maggioranza di italiani». Egli considerava Trieste già acquisita alla Jugoslavia dopo la sconfitta fascista; ed è toccato dunque a noi il compito di riprenderla per l’Italia. Tito afferma ancora: i nostri Alleati occidentali hanno voluto altrimenti. Noi non potevamo ottenere Trieste per la Jugoslavia. Gli Alleati occidentali hanno dunque appoggiato le giuste ragioni dell’Italia e la Jugoslavia e la Russia non sono riuscite a fare assegnare Trieste alla Jugoslavia. La tesi italiana ha dunque prevalso. Tito ci dà dunque atto della verità dei fatti che fascisti e comunisti negano: che l’italianità di Trieste era in causa, che noi l’abbiamo salvata con l’appoggio degli Alleati occidentali, che sono falliti gli sforzi dei russi e degli jugoslavi per farla assegnare alla Jugoslavia. Il presidente del Consiglio ha quindi ricapitolato la questione di Trieste: sarà sufficiente ricordare che le vicende della questione prendono inizio dallo stato di fatto creatosi al termine della seconda guerra mondiale, quando l’Italia si trovò di fronte, da un lato, alla materiale occupazione della Venezia Giulia da parte degli slavi, dall’altro lato, all’impegno formale assunto dall’Unione Sovietica nei riguardi di Tito di ottenere l’attribuzione integrale di quella regione ed eventualmente anche di una parte del territorio delle vecchie provincie italiane al suo alleato. In questa situazione che a tutti parve disperata il governo italiano si trovò dunque a difendere al tavolo della pace i confini orientali del paese. Se, nonostante gli sforzi delle tre delegazioni occidentali non si riuscì a superare l’intransigente voto di Mosca al ritorno di Trieste alla madre patria, tuttavia il progetto di Territorio libero ebbe almeno il merito di impedire che essa venisse fin d’allora consegnata irrimediabilmente alla Jugoslavia. Se dagli Alleati fu commesso in quel momento l’errore di utilizzare una sola delle parti in causa ad amministrare provvisoriamente una parte del territorio, causa principale delle difficoltà successive, sta di fatto che l’infelice soluzione provvisoria adottata per Trieste ha avuto se non altro il vantaggio di far rinviare nel tempo senza irrimediabilmente comprometterla, la soluzione del problema. In questo quadro va posta la dichiarazione delle tre potenze del 20 marzo 1948 che, nel riconoscere il carattere prevalentemente italiano del territorio, ha condannato definitivamente l’ibrido compromesso di Parigi ed ha aperto la via al ritorno di Trieste all’Italia. E questa Italia democratica che io rappresento ha salvato Trieste con la sua tenacia, con la sua azione diplomatica, con la sua posizione morale. Oggi Trieste è fuori discussione. Nessun altro può pensare di avere Trieste. Oggi non è più l’avvenire di Trieste che ci preoccupa, questo avvenire è assicurato. Quello per cui ci battiamo è una equa soluzione dell’intero problema e per quanto esso possa apparire difficile, non è ancora insolubile. Se abbiamo insistito sulla linea etnica è perché essa rappresenta il modo migliore per ristabilire i buoni rapporti in Adriatico ed instaurare una politica di buon vicinato che è altrettanto utile alla Jugoslavia quanto all’Italia. Amici veneti, dinanzi ai discorsi del maresciallo, che ci pervengono talvolta in un tono inammissibile, tale altra in edizione incerta e passibile di rettifiche successive, ho il dovere di frenare la mia personale reazione. Non è la persona mia in causa, ma la sorte di migliaia di italiani e l’ansia di 47 milioni di fratelli per il loro destino. Se giova il tacere, il mordersi le labbra, lo farò attendendo ancora con fede sicura l’ora della ragionevolezza e della resipiscenza. Il tempo lavora per la necessità di un’intesa. Il peso dell’Italia democratica sulla bilancia dal mondo cresce e si farà valere. Noi nella solidarietà mondiale, oltre la libertà, non cerchiamo altro che quel minimo di giustizia riparatrice che ci fu solennemente e ripetutamente promessa. Non si commetta l’errore di credere che si tratta di un espediente elettorale. La questione del Territorio libero supera la contesa elettorale, questa e qualsiasi altra e lo stesso governo, questo e qualsiasi altro; tale questione si chiama pace adriatica, si chiama intesa fra due popoli, decisione su uno spartiacque fra occidente ed oriente. Quando a Parigi risolvemmo il problema dell’Alto Adige, si celebrò questo accordo come parte di una ricostruzione pacifica dell’Europa. Un pacifico accordo sulla frontiera occidentale non sarà solo il ponte fra Italia e Jugoslavia, ma diventerà una cerniera se non una parte integrante della nuova Europa. Non è dunque solo per le ragioni proprie che l’Italia ripete le sue insistenze ed i suoi tentativi. Ma anche in servizio di una causa più vasta, di una solidarietà più ampia e profonda. Ormai l’opinione pubblica dell’Occidente lo ha capito. Non è, come si diceva una volta in alcuni paesi dell’occidente, una questione di giardinaggio, è una questione politico-morale. La sua soluzione sarà pietra di paragone per saggiare da una parte la volontà di pace e di pacifica ricostruzione, dall’altra la forza della solidarietà democratica. Coraggio, fratelli dell’altra riva, la nazione si riprende e si irrobustisce, e insiste nel suo sforzo sinché siano raggiunte solidarietà e pacificazione. Italiani, da questo Vittorio Veneto che vide tanto sacrificio della nostra gente nella tappa finale della lotta secolare per l’unità, al di sopra di faziose polemiche, lasciatemi proclamare nel grido di Viva Trieste e di fronte al mondo la volontà unitaria di tutta la nazione e la sua irremovibile certezza di raggiungere presto la meta. Viva Trieste, Viva l’Italia.
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1,953
1Building the Italian Republic
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L’on. De Gasperi ha iniziato ricordando che nel 1944 il luogotenente aveva dato al governo tre direttive, e cioè: 1) cacciare i tedeschi dall’Italia; 2) punire gli italiani che persistessero nel tradimento; 3) ricostruire l’Italia. Questi tre compiti del governo furono assolti negli anni che seguirono, gli italiani contribuirono con il Corpo di Liberazione a cacciare lo straniero dall’Italia. Il governo italiano impose sanzioni contro coloro che aderivano alla Repubblica sociale; infine il governo compì uno sforzo continuo e tenace per la ricostruzione dell’Italia. Più che alla ricostruzione materiale del paese, l’on. De Gasperi ha alluso alla ricostruzione politica e civile dell’Italia. Si trattava di riorganizzare la democrazia in Italia, di salvare l’unità del paese di fronte a certi movimenti separatisti, di rinsaldare l’unità, di garantire l’autonomia alla regione. Si trattava anche di difendere il principio democratico. L’on. De Gasperi ha ricordato a questo punto la «parola d’ordine» enunciata dai socialisti secondo cui tutto il potere politico doveva essere dato ai Comitati di liberazione. La Democrazia cristiana e gli altri partiti democratici si opposero a questo tentativo di sovvertimento. Senza questo atteggiamento della Democrazia cristiana e dei partiti democratici si sarebbe impedito il ritorno delle forme costituzionali tradizionali dello Stato italiano. Questo atteggiamento dei gruppi democratici portò i suoi frutti: si arrivò presto alle prime elezioni amministrative, si creò un organo consultivo, la Consulta nazionale. Quando si dice che noi vogliamo il monopolio del potere, che il nostro partito rappresenta la dittatura, occorre ricordare che quando si creò la Consulta, in accordo con gli altri partiti, accettammo il principio che ciascun gruppo, anche se piccolo, avesse una rappresentanza di 26 deputati. L’on. De Gasperi ha quindi rievocato un episodio: quando cioè l’allora presidente del Consiglio on. Parri accusò la Democrazia cristiana di fare un colpo di Stato: «perché noi – egli ha detto – ci opponemmo alle sue decisioni che ci sembravano contrarie ai princìpi della democrazia». Anche in quell’occasione innanzi alla stampa internazionale, io mi levai e dissi: «il mondo non deve credere che in Italia ci sia un solo partito, un partito di massa, il quale pensi di costituire un potere che abbia altri scopi diversi da quelli delle istituzioni e del funzionamento della democrazia parlamentare». Ricordo queste cose agli avversari in mala fede che ci accusano di voler noi monopolizzare il potere, di essere dei dittatori, noi che in certi momenti critici della evoluzione nazionale avremmo, se avessimo avuto questo infame desiderio, potuto afferrare il potere. Noi non volemmo perché il nostro principio è stato sempre quello di concedere la libertà e garantire la rappresentanza di tutti. Ora i pericoli che ci sono di fronte riguardo al potere politico, alla sua struttura e alla struttura della organizzazione civile dello Stato italiano sono i seguenti: 1) il tentativo di disgregare e decomporre le forze democratiche del centro; 2) l’attacco dell’estrema destra, la quale è tornata sulle sue idee demagogiche della corporazione politica, della gestione socializzata e di tutte quelle altre forme che possono sussistere solo se a base di tutto questo è la dittatura; 3) tendenza a voler sollevare la questione della forma di Stato. Il presidente del Consiglio ha ricordato il suo discorso del 31 agosto a Predazzo , nel quale ammonì i monarchici a non inquadrarsi in un partito di attivismo monarchico, ciò che avrebbe diviso le forze anticomuniste e avrebbe inserito forzatamente nella vita del paese una questione che non avrebbe portato che inquietudine e crisi. Dissi allora: come volete porre la pregiudiziale della forma dello Stato e contemporaneamente poter governare insieme ad un altro partito? Se fosse possibile creare una maggioranza fra Democrazia cristiana e partito monarchico, che cosa avverrebbe? Che governo potremmo mai costituire? Un governo monarchico o repubblicano? Costituiremmo in tal caso un governo senza princìpi, confusionario, un governo nel quale un partito cercherebbe di giocare l’altro, in poche parole un governo che porterebbe confusione entro se stesso e inquietudine nel paese. Il compito principale è di consolidare il sistema democratico-parlamentare e tutte le forze debbono concentrare i loro sforzi in quest’opera. Il nostro programma è: 1) assicurare un governo stabile e [con] un governo stabile non intendo certo dire sempre un governo di De Gasperi e dei suoi amici, ma un governo che abbia un programma e il tempo per attuarlo; 2)assicurare la funzionalità delle Camere, introducendo una riforma del regolamento che non renda possibile il ricorso alla violenza ostruzionistica. Nel ricordare i tristi episodi dell’ostruzionismo il presidente del Consiglio ha rivolto un memore saluto all’on. Ruini, presidente del Senato, nonché un augurale saluto al senatore liberale Sanna Randaccio, che fu relatore della legge elettorale; 3)sviluppare la collaborazione tra Stato e Regione. Stato e Regioni autonome applichino il sistema del decentramento secondo l’ultima legge votata. L’on. De Gasperi ha a questo punto espresso la sua ammirazione e la sua gratitudine al presidente della Regione sarda e ai collaboratori per l’abilità e la tenacia dimostrata nel superare le difficoltà iniziali del primo quadriennio. Questa autonomia ha consentito di seguire opere imponenti di cui sono testimonianza le 1.047 in corso di esecuzione per circa otto miliardi; 4)nella futura Camera si dovranno completare le leggi organiche della Costituzione. A questo proposito l’on. De Gasperi ha rilevato che l’Istituto del referendum va attuato con la massima attenzione, affinché non se ne possa abusare per scopi agitatori o antiparlamentari, ma perché esso costituisca un supremo ricorso al verdetto del popoli in casi gravi ed eccezionali. 5)Altre leggi che il prossimo Parlamento dovrà affrontare sono: a) la legge contro il sabotaggio militare ed economico; occorre cioè mettere a disposizione del magistrato gli strumenti per combattere l’antidemocrazia della violenza e dell’illegalismo e per difendere il prestigio e la legalità degli istituti democratici; b) attuare la riforma della burocrazia. L’on. De Gasperi ha ricordato a questo proposito che già è stata presentata una proposta di legge delega; c) legge sindacale. Se si vuole consolidare la democrazia non è possibile lasciare senza rapporti legalizzati l’esistenza del sindacato entro lo Stato. Lo Stato deve tener conto della vitalità e dei compiti specifici del sindacato, ma il sindacato deve sentirsi obbligato a certe regole di disciplina nazionale. Nel nostro progetto di legge stralcio esistono disposizioni riguardanti la costituzione del sindacato e in genere la regolamentazione dello sciopero. Desidero aggiungere che noi siamo per la pacificazione. Ai signori dell’estrema destra dice che siamo disposti a continuare nella legislazione pacificatrice, cioè a trattare umanamente e italianamente tutti coloro che furono vittime della guerra. Siamo disposti a proseguire in questa azione, ma ad una condizione e cioè che quando si parla di pacificazione non si deve parlare o intendere né giustificazione della condotta seguita, né di confusione di princìpi. Il rapporto di lealtà tra cittadino e Stato è uno ed uno solo: non si può sperare di avere una base solida di organizzazione civile senza che sia da tutti accolto il principio che la legge è uguale per tutti e che il giuramento è sacro e non può essere violato. Il presidente del Consiglio ha anche avvertito che il futuro Parlamento dovrà continuare nella esecuzione della riforma tributaria. Egli ha ricordato che il sistema è già stato introdotto. Non si poteva fare una riforma del sistema delle tasse e delle imposte prima di avere una idea, una immagine chiara del momento e della possibilità dei contribuenti; per questo si è anzitutto introdotta la obbligatorietà della denuncia dei redditi. Tre denuncie sono state già fatte con grande vantaggio del fisco, perché in ogni denuncia è aumentato il reddito dichiarato per molti miliardi. Ora questo ci renderà possibile non solo di continuare nella politica della riduzione delle aliquote o delle esenzioni di [un] gran numero di piccoli contribuenti, ma progressivamente di trasformare tutte le tasse verso una unica tassa di reddito, che abbia un carattere di progressività, cioè di giustizia sociale. Questa grande riforma sarà un’opera che ricostituirà la morale fiscale nello Stato italiano e a questo riguardo va detto che certamente sono stati realizzati progressi, perché l’aumento di coloro che fanno le denuncie dei redditi e lo stesso aumento delle imposte sono stati notevolissimi. L’on. De Gasperi ha quindi accennato alla riforma scolastica e alla legge sui danni di guerra. A proposito di quest’ultima, ha ricordato che la legge è stata già approvata dalla Camera, ma che attende l’esame del Senato: tale esame non potè avvenire a causa dell’ostruzionismo delle estreme. I danni di guerra, dalle rilevazioni finora compiute, ammontano a circa 2.500 miliardi, all’onere relativo si provvederà, secondo la legge, con stanziamenti successivi di diverse decine di miliardi ciascuno. Sarà questo un grande sforzo per la finanza dello Stato, ma anche l’assolvimento di uno dovere dello Stato verso coloro che furono vittime della guerra. Nel rilevare i progressi realizzati nell’agricoltura, il presidente del Consiglio ha reso omaggio all’opera del ministro Segni e del suo successore. Il fatto di essere stati costretti, in questa parte della campagna elettorale, a difenderci da attacchi rabbiosi non significa davvero che noi non abbiamo programmi. Non solo i programmi esistono, ma esistono soprattutto esperienze e volontà di attuarli; esperienza di ministri e di tecnici che hanno studiato a fondo i rispettivi problemi. L’on. De Gasperi ha detto che esiste un piano per il miglioramento della viabilità che prevede la costruzione di strade nuove, il riattamento e l’allargamento della rete in tutta Italia. Questo piano, approvato dai tecnici dell’ANAS e in parte dal Ministero dei Lavori Pubblici e dalla Cassa del Mezzogiorno, prevede la spesa di 865 miliardi in dodici anni; nei primi cinque anni, metà di questo piano dovrà essere attuato. Per le acque esiste la legge per la regolamentazione dei grandi fiumi, in undici esercizi si spenderanno cento miliardi, di cui 17 già stanziati. Ciò anche perché i grandi fiumi non facciano più scherzi come quello che ultimamente ha fatto il Po. Per gli acquedotti è stato constatato che su 7.802 Comuni, il 30 per cento ne sono sprovvisti. Ora, il programma per le zone depresse del Centro Nord, il programma della Cassa per il Meridione, il programma dei Lavori pubblici consentiranno, per mezzo di contributi annui in circa dieci anni, di dare ad ogni Comune il suo acquedotto. Per la terra si tratta di realizzare un aumento della superficie coltivata, attraverso bonifiche, irrigazioni e trasformazione fondiaria: nonché l’aumento della produzione unitaria nelle zone intensive con il perfezionamento soprattutto dei mezzi meccanici. In cinque anni si dovrebbe aumentare la produzione del 15 per cento, maggiorando cioè il reddito di circa 30 miliardi netti annui. La legge sulla montagna comprende la difesa idraulico-forestale dei bacini montani e prevede un sostanziale potenziamento produttivo. Il programma irriguo interessa 80 mila ettari nel Centro-Nord e 185 mila nel Mezzogiorno e isole (fiumi Volturno, Acri, Trigno, Fortore, Simeto, Flumendosa). E poi c’è il programma di costruzione di case conseguente alla riforma agraria: 50 mila case e 100 borgate rurali. Infine esiste un programma di meccanizzazione dell’agricoltura; nel 1936 avevamo in Italia 32 mila trattori, nel 1956 se ne dovrebbero avere 150 mila; in quest’anno ne abbiamo già 81 mila. Quanto all’industria si dovrà avere in complesso un aumento della produzione del 40 per cento nei prossimi 5 anni. Si dovrà intensificare soprattutto lo sviluppo della piccola industria. Esiste anche un piano per l’incremento delle fonti di energia elettrica e termale, che dovrà portare ad un aumento complessivo del 43 per cento. È previsto inoltre un aumento del 350 per cento nella produzione del metano, che è una nostra nuova risorsa sviluppatasi in modo tale negli ultimi anni che, si può dire, sarà una delle principali fonti di energia in Italia. Tutto ciò rappresenta una spinta all’aumento della produzione e dei consumi e facilitano lo sforzo che sarà proseguito nella lotta contro la disoccupazione. Quanto alle case, l’anno scorso sono stati costruiti 700 mila vani circa. Noi continueremo su questa misura. Gli avversari domandano se si può credere a questi programmi. Ebbene, bisogna credere quando ci sono le prove di ciò che è stato fatto nel presente e nel recente passato. Ad esempio in Sardegna fino al 30 aprile 1953 sono stati approvati 2.224 progetti di opere pubbliche per un importo di 44 miliardi; di dette opere ne sono state appaltate 2.187 per 32 miliardi, nella sola provincia di Cagliari. Fino al 30 aprile 1953 sono stati approvati 1.290 progetti di opere pubbliche. In attuazione del programma settennale dell’INA-Casa in Sardegna si prevede una spesa di 7 miliardi 240 milioni; in provincia di Cagliari è prevista una spesa di 4 miliardi e 725 milioni. Questi sono fatti, queste sono le prove della nostra capacità di costruzione, della nostra volontà di attuazione. Possiamo pertanto dire: credete nelle nostre parole; siamo uomini che studiano a fondo i problemi, che intendono i bisogni, che sono in grado di agire. Vi sono però tre condizioni per l’attuazione di questo grande programma economico, sociale e politico. Tali condizioni devono essere soddisfatte: 1) Governo stabile; questo vuol dire un governo che non cambi ogni quindici giorni, come avviene in atri paesi, anche democratici, la cui instabilità è una conseguenza proprio di quelle condizioni che noi, con la legge di riforma elettorale, vogliamo evitare. Non si può avere un centro debole e delle ali, pur l’una contro l’altra, ma che messe insieme possono essere così forti da impedire al centro di lavorare, mentre esse stesse, insieme, non possono lavorare. Dicono i signori del Msi: siamo noi qui a sostenere che impediremo ai fascisti di tornare al potere. Ma in realtà colui che è vittima della minaccia di queste due parti è il popolo italiano. Il popolo italiano deve essere forte [e] unito per impedire tanto l’attacco della sinistra quanto l’attacco della destra. 2)Solidità della moneta. Girando il mondo si ha in questo momento un senso di orgoglio perché, a differenza di altri paesi più ricchi di noi, la nostra liretta è contenuta e solida; ciò per la scrupolosa amministrazione del governo. Non vengano i nostri avversari a parlare di forchette e di corruzioni: queste sono armi di denigratori, di corsari che non pagano di persona tra i quali c’è gente di cui preferiamo non occuparci, perché se andassimo a ricercare nella loro fedina penale, altro che forchette ci troveremo. 3)Pace: questa è la più importante condizione. Bisogna che continui questo stato di pace; e davvero è ironico che proprio noi siamo tacciati come il partito della guerra, noi che vogliamo soltanto difendere la pace, che cerchiamo nel Patto atlantico le ragioni di questa difesa. Noi agiamo per la sicurezza dei paesi democratici; per impedire che aumenti il pericolo della guerra, per consolidare la pace, perché la pace ci è necessaria: necessaria per attuare i nostri programmi, per salvare la democrazia, per la sicurezza del nostro popolo e perché i problemi dell’Europa siano risolti. Noi faremo ogni sforzo sincero che possa condurre alla pace. Non ci dicano che dovevamo accogliere la neutralità, perché la neutralità vorrebbe dire abbandono, isolamento. E invece noi siamo insieme con altre tredici nazioni nel Patto atlantico, siamo insieme con altre cinque Nazioni nell’Unione europea e abbiamo rapporti di amicizia con l’America. Riferendosi alle dichiarazioni fatte a Milano dall’ambasciatore americano Luce, l’on. De Gasperi ha detto che esse suonano [di] cordiale amicizia e sono sincere perché vengono dal rappresentante di un popolo democratico, di un popolo libero, di un grande popolo, il quale ha assorbito in sé anche una parte della civiltà italiana, perché milioni di italiani hanno lavorato e lavorano ancora. E noi siamo in grado di dimostrare che non si tratta davvero solo di promesse: d’ora innanzi più che di aiuto diretto si avrà dall’America un aiuto indiretto. L’on. De Gasperi ha ricordato che già nel suo viaggio negli Stati Uniti nel 1951 disse al presidente Truman che se almeno 200 mila lavoratori italiani avessero potuto andare per un certo tempo a lavorare in America l’Italia avrebbe rinunciato agli aiuti. È questo il principio della libertà di circolazione del lavoro a cui l’Italia tiene soprattutto insieme al principio della libera circolazione delle merci. E noi possiamo accettare con grandi speranze l’affermazione dell’ambasciatore che in America si fa strada questa obiezione al Congresso: come volete voi fare una politica di fraternità, di amicizia con gli altri popoli, se voi stessi stabilite tariffe commerciali protettive rendendo difficile la importazione da parte dei paesi d’Europa! Noi abbiamo bisogno soprattutto della libertà di esportare prodotti e principalmente lavoro. Ed è perciò che ho provato molto piacere per le dichiarazioni fatte in merito alla integrazione economica dal presidente Eisenhower. Ebbene che cosa facciamo noi in Europa, se non muoverci verso la libertà di commercio? È proprio questo che noi cerchiamo quando lavoriamo per la costruzione dell’Unione europea. No, onorevole Nenni, non è come voi dite che noi siamo così fervidi per questa grande idea europea perché l’occasione, la causa occasionale è il riarmo della Germania occidentale. No, noi profittiamo di questa causa occasionale per agganciare alla comunità dell’esercito e a quella del carbone e dell’acciaio una comunità economica, una comunità di lavoro. Amici sardi, io so che voi avete un grande problema nella vostra regione; avete il piano di sviluppo economico, avete il problema della Carbosarda. Per la Carbosarda ci troviamo di fronte a difficoltà non ancora superate. Ma non perdetevi d’animo; le supereremo se saremo uniti, se saremo animati da buona volontà. La nostra forza sarà la fede nel risorgimento del nostro paese, la fede nell’avvenire della Sardegna. Amici, noi siamo costruttori; costruttori non solo di ponti, di ferrovie, di strade; abbiamo costruito il sistema democratico in Italia e lo vogliamo consolidare. Abbiamo costruito le autonomie regionali e le vogliamo sviluppare, costruiremo domani accanto all’Italia anche l’Europa.
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Appello rivolto agli elettori siciliani perché non disperdano il proprio voto a vantaggio delle liste monarchiche e missine: ciò – asserisce il presidente del Consiglio – equivarrebbe a sottrarre la maggioranza necessaria allo schieramento «centrista» per assicurare la governabilità e rafforzare le istituzioni democratiche. Il paese non si deve dividere nella decisiva battaglia elettorale su una questione di forma (Monarchia o Repubblica), ma unire intorno ad un fine sostanziale: difendere il libero regime basato sulla giustizia sociale. Il periodo di distensione, aperto con la morte di Stalin, non si è infatti ancora perfezionato per il perdurare del conflitto coreano e per alcune irrisolte questioni dei trattati di pace. Si attribuisce poi il merito di avere impedito «l’operazione balcanica» di costituire, anche in Italia, una «quinta colonna» del comunismo sovietico. Amici miei, cari palermitani e siciliani; veramente non solo non diminuiti, ma siete molto aumentati e non soltanto è cresciuto il vostro numero che le piazze e le vie adiacenti non possono contenere, ma è cresciuto il vostro entusiasmo, la vostra convinzione e la vostra fedeltà. Allora, amici miei, io potrei chiudere il mio discorso prima di cominciarlo. (Interruzione per il solito scherzo dei topi). Il solito scherzo! Amici, ogni volta che qui si è tenuto un comizio, c’è stato lo stesso tentativo puerile. Conservate la calma, continuiamo il discorso. Vi ricordate il 14 aprile 1948? Io sono venuto qui a parlarvi per la prima volta in Sicilia, per la prima volta come ministro, perché già nel 1924, durante il periodo fascista, ero venuto qui a parlarvi assieme a tanti oratori dell’opposizione. Allora eravamo una minoranza che combatteva per la libertà. Nel ’48 la libertà l’abbiamo conquistata e consolidata. Venni allora a dirvi: «siciliani, voi avete inaugurato un lavoro proprio autonomo di ricostruzione e di ricostruzione dell’isola. Siciliani, voi darete l’esempio a tutto il Mezzogiorno, perché il Mezzogiorno ha bisogno di esempio, ha bisogno di incoraggiamento, ha bisogno di unità, ha bisogno di ottimismo, di operare, di riprendere, di rifare il tempo perduto nei secoli» ; e voi avete mantenuto la parola e nel 27 maggio ’51 venivo qui un’altra volta a felicitarmi con la vostra amministrazione regionale, con la Regione, per il lavoro fatto insieme. Ricordo che già allora entrava in azione la Cassa del Mezzogiorno il cui preventivo per il decennio (allora si pensava a dieci anni, oggi siamo arrivati a dodici) importava già 225 miliardi di lavori pubblici. In quel discorso, poiché gli argomenti sono sempre gli stessi, abbiamo parlato di pace, di guerra, perché la minaccia comunista era che noi preparavamo la guerra, che bisognava organizzarsi nel Partito comunista e, in genere, nell’estremismo di sinistra, contro il tentativo da parte nostra di organizzare una guerra. Ed allora io rispondevo che il Patto atlantico, che avevamo concluso in quel momento, lasciava libero il governo italiano ed il Parlamento italiano di dissociarsi, se il patto per ipotesi assurda avesse servito per attaccare. Il Patto atlantico è semplicemente patto di difesa, non di offesa. Se domani del Patto atlantico si dovesse abusare per attaccare, noi, in base al testo stesso dell’impegno, avremo la piena libertà e lealtà di dissociarci e di separarci. Ci rivedemmo un’altra volta l’anno dopo: 11 maggio 1952 . Allora si parlò ancora di pace; ma questa volta io avevo un argomento in più. Stalin aveva appena detto che da due anni la pace aveva fatto notevoli progressi, che era più vicina la sicurezza. Si andava assicurando ormai lo stato di pace. Perché? La ragione era chiara, lampante; perché si era costituita l’organizzazione difensiva dell’Occidente. Tutti gli Stati liberi si erano messi d’accordo, avevano creato un vallo di difesa, avevano con ciò reso pericoloso qualsiasi attacco, e peggio, se al di là, semmai, ci fosse stato qualcuno che avesse avuto tendenze alla guerra, questo pericolo veniva allontanato per la forza stessa della sicurezza e della difesa organizzata. Ebbene oggi, amici miei, quando ritornate a casa, alle vostre famiglie, alle vostre donne potete dire, in buona coscienza, che la pace ha fatto ulteriori progressi, potete dire che il pericolo della guerra è allontanato. Ma se vi domandano se tutto questo è frutto dei discorsi di Li Causi o dei discorsi di qualsiasi arruffa-popoli, dovrete rispondere che questo è frutto dell’organizzazione della difesa, della solidarietà occidentale di popoli liberi. Oggi ormai da ciascuna parte si deve sentire che un conflitto sarebbe un terribile suicidio, un terribile pericolo e perciò la pace è più vicina, la pace è più consolidata. Oggi, morto Stalin, di cui prima si diceva che fosse l’uomo che garantiva la pace, oggi, invece, morto Stalin, si dice che dopo la sua morte è più vicina perché gli uomini che gli hanno succeduto nel governo credono più facilmente alla composizione pacifica dei problemi che sono ancora aperti; e perciò siamo in periodo cosiddetto di distensione. Però, badate bene, le chiacchiere sono chiacchiere e i fatti sono fatti. Perché si possa dire che il pericolo è scongiurato e che si è trovata la strada per andar d’accordo bisogna: 1) smettere di sparare in Corea (ed invece ancora ieri si combatteva); 2) cessare la guerra, laddove divampa e l’armistizio non è ancora concluso; 3) risolvere i problemi di quei paesi d’Europa che non hanno ancora avuto trattati di pace. C’è la povera Austria che è ancora occupata da quattro potenze; uno Stato che esiste sulla carta, ma che ancora non ha sovranità. Ci sono delle questioni grosse che dividono ancora la nuova Germania dalla Polonia e dalla Russia e sono problemi appena abbozzati in compromessi provvisori nei due famosi Congressi della pace: conferenza di pace di Potsdam e di Yalta. Sono problemi aperti che bisogna risolvere. Ci sono problemi anche più piccoli, per la loro dimensione, ma grandi per gli effetti di sentimento e per l’effetto politico-spirituale; problemi come quello della nostra Trieste e del Territorio libero. Durante la campagna elettorale si è andati ancora cianciando con le parole: «sapete come risolveremo il problema? Tirandoci da parte; facendo i neutrali, non stando né a destra né a sinistra; né con l’America, né con la Russia, né con l’Inghilterra». E questa sarebbe la tattica consigliata dall’on. Nenni su tutte le piazze. Ma neutralità in questo senso vuol dire abbandono, isolamento; vuol dire rinuncia a qualsiasi alleanza e solidarietà con l’America, con gli Stati liberi. Una neutralità sarebbe possibile se avessimo tanto denaro e tante risorse economiche da crearci noi un esercito con le nostre forze, con la nostra difesa. Il giorno 2 giugno avremo per tutte le piazze, e principalmente a Roma, la rivista dell’esercito. Vedremo il trionfo di queste divisioni, ma ammireremo le armi moderne, le armi meccaniche. Ma amici, queste armi meccaniche costano. Una sola divisione corazzata costa 100 miliardi ed il mantenimento di una tale divisione, una volta attrezzata, costa 10 miliardi annui. Come volete che faccia il povero bilancio dello Stato italiano a tenere assieme 10, 11, 12, 13 divisioni quante sono necessarie per la difesa, non per l’offesa, del nostro confine orientale? Noi, senza l’America, non avremmo potuto assolutamente rimettere in piedi il nostro esercito ed avremmo dovuto mandare i soldati a combattere con quei famosi 8 milioni di baionette che poi non c’erano. Lo so: qui a Palermo (non so se su questa piazza o altrove) l’on. comunista Terracini mi ha lanciato l’offesa: «servitori dell’America». Servitore no, ma se dovessi essere servitore, meglio dell’America che della Russia. Questo è certo. Ma servitore no. Questa America, che ci ha rinnovato anche quest’anno il suo aiuto economico per il nostro bilancio, quest’America che ci ha dato degli aiuti per la Cassa del Mezzogiorno, dunque per la rinascita del Mezzogiorno, per altri lavori che avete anche recentemente qui inaugurati, questa America che ci ha aiutati e sollevati; questa America che alberga ed ospita tanti numerosi fratelli siciliani, italiani del Mezzogiorno, non è una tiranna, non è una dominatrice che abbia bisogno di noi; non è una signora la quale cerchi servitori, schiavi, ma una nazione democratica che vuole dei fratelli liberi. E noi l’accettiamo questo supporto di libertà e di fratellanza. L’altro giorno l’ambasciatrice degli Stati Uniti, in un discorso tenuto alla Camera di commercio italo-americana di Milano, ha rinnovato la dichiarazione del presidente Eisenhower riguardante l’aumento della quota di emigrazione ed, in genere, ha messo innanzi la probabilità che in America si faccia largo questo pensiero che invece di distribuire denaro, di sovvenzionare i singoli bilanci dei singoli Stati, invece si aiutino questi Stati, lasciando importare merce attraverso il commercio. Ed è quello che vogliamo noi: il commercio libero e la libera entrata degli uomini del lavoro, delle braccia. Non è un atto servile il nostro, non è che noi stiamo con la mano tesa, domandando l’elemosina. L’ultima volta che fui a Washington innanzi al presidente degli Stati Uniti, dissi: «presidente, ci permetta che entrino 200-250 mila lavoratori per anno, per due anni a lavorare negli Stati Uniti e noi rinunciamo a qualsiasi aiuto economico» . Dice Terracini che io da una parte sono servitore dell’America e aggiunge che sono mosso da un odio bestiale (parole tali e quali) contro la Russia. Non è vero e l’ho dimostrato durante questa campagna elettorale e in altri discorsi con documenti irrefragabili: ho dimostrato che nel 1945, quando mi sono incamminato per quel calvario… del trattato di pace, ho mirato soprattutto ai buoni rapporti con tutti, con tutti gli Stati, anche con la Russia, ed ho detto ai ministri russi: «non crediate perché voi siete comunisti che noi vi odiamo, che siamo contro il vostro Stato perché è uno Stato bolscevico». Non è per questo. Se la Russia considererà con benevolenza i nostri postulati e ci aiuterà a risolvere le nostre questioni nel trattato di pace, è certo che noi anche verso di lei avremo un atteggiamento amichevole. Questo l’abbiamo detto, lo abbiamo ripetutamente scritto, lo abbiamo anche stampato. La vera ragione per cui non fu possibile andare d’accordo è questa: la Russia, oltre che essere comunista, è anche la potenza madre di tutti gli Stati slavi ed ha voluto proteggere fino all’ultimo la Jugoslavia nelle sue pretese contro le giuste richieste dell’Italia. Ecco perché c’è stato l’urto tra i due Stati, ecco perché non potemmo essere entusiasti della Russia, la quale ha preteso da noi tutta la quota della flotta che ci era stata imposta e tutta la quota di riparazioni di cui al trattato ed è stata dura, tutte le volte che ha dovuto rispondere alle nostre richieste. Le ho dimostrate, queste cose, sono documenti storici e l’ho dimostrato ai signori nostri comunisti che difendono l’URSS a qualunque costo. È dimostrato, così, che sono essi che vengono meno alla solidarietà nazionale, non noi che facciamo della nostra ideologia anticomunista la tattica realizzatrice della nostra patria. La vera ragione dell’avversione contro di me espressa in forma così aspra dalle labbra giuridiche dell’on. Terracini, con espressioni proprie da vecchio testamento, è un’altra. Egli dice di me che io parlo con cinismo brutale, che sporco ogni cosa che tocco, che non ho ideali. Tutto questo è una serqua di ingiurie che non ha fondamento. La verità è che sono contro di me e se hanno da rimproverarmi qualche cosa è solo il mio titolo di merito, quello cioè di avere impedito, silurato l’operazione balcanica che volevano fare anche in Italia, la conquista della quinta colonna. Ho scoperto, prima, ho impedito poi, con forza, nel momento critico, il tentativo della dittatura bolscevica. Mi ringrazino i signori comunisti che l’ho impedito perché se non l’avessi impedito avrebbero sulla coscienza la libertà dell’Italia, la libertà di questo paese. La vostra, la loro stessa libertà perché su queste piazze, invece che queste lampade, ci sarebbero rizzate le forche come a Praga. E non eravamo lontani quando sentivamo i discorsi dell’on. Li Causi il quale, infiammato dall’attacco dei nord-coreani in Corea, diceva: «anche il popolo siciliano deve seguire questo esempio, appoggiato dalle forze russe». E per questo mi dipingono come un tiranno. Io avrei costituito un regime non una democrazia, un regime come il regime fascista ed io mi farei ludibrio tanto della Monarchia che della Repubblica; io avrei detto che per me tanto la Monarchia quanto la Repubblica sono un trastullo. La sola passione che domina in me, dicono, è quella del dominio, mentre egli, Terracini, il capo della comunisteria, non credo che sia un’offesa, è una risposta a quelli che mi dicono che sono il capo della democristianeria, disse queste parole aggiungendo: «spero che ci siano dei monarchici presenti – disse Terracini –. Riconosco che la Monarchia e la Repubblica sono due momenti della storia della civiltà». Che novità! Che scoperta! Che degnazione… riconoscere che la Monarchia e la Repubblica sono due momenti nello sviluppo storico! Ma in realtà queste parole erano dette per dimostrare ai monarchici che questi comunisti, poi, non sono una cosa così paurosa, che in fondo rispettano tutti, compresa la Monarchia. Io, invece, sarei un cinico, perché ad Avellino avrei detto che la questione della Monarchia o della Repubblica non è una questione di sostanza, che è una questione di forma. È come discutere se un uomo ha sulla testa un cappello di paglia o di feltro. Ma la questione del cappello non è sostanziale per conoscere un uomo e così è nello Stato, così è nella struttura sociale. Quello che importa è vedere se esista un regime libero, se è organizzato come regime di giustizia, se ha la tendenza alla giustizia sociale, se gli strati popolari hanno la possibilità di farsi valere e di governare. Questa è la sostanza. La forma è se uno Stato è Repubblica o Monarchia. Allora, dicevo io, poiché si tratta soprattutto della sostanza delle cose, credete che sia necessario dividerci sopra una questione di forma? Credete che sia utile che noi ci dividiamo e votiamo per un Partito monarchico, quando, pur avendo sentimenti, magari monarchici, sappiamo che la questione principale è di salvaguardare, di consolidare il regime libero, il regime democratico? Parlo specialmente a voi del Mezzogiorno, dove abbiamo un programma di rinascita che mai, badate bene, in nessun tempo e con nessun partito, mai abbiamo avuto un programma di rinascita che importa e che impegna ormai tutto lo Stato nord e sud, per 100 miliardi per 12 anni. Di questi, una buona scorta tocca alla Sicilia, tutto questo riguarda ogni settore economico, tutto questo, però, deve essere alimentato con tenacia, con unità, con concordia, con una certa linea permanente (perché, badate, anche nel passato, vi sono stati dei programmi lanciati nel 1902 da Zanardelli , poi rimasti lettera morta o applicati a metà, o interrotti durante la guerra). Per far ciò abbiamo bisogno di pace e di continuità; abbiamo bisogno di concordia. Qui non c’entra né la Monarchia né la Repubblica, qui c’entra la necessità del popolo; prima il popolo bisogna salvare! La realtà è che in Italia c’è una vita nuova. Politicamente la democrazia di centro vuole la libertà e l’ordine come ha detto l’on. Alessi; il popolo ha la sua rappresentanza nella Regione; la riforma agraria viene applicata, i lavori pubblici si sviluppano. Ogni ministero, a cominciare da quello diretto dal nostro on. Aldisio , ha fatto i suoi piani. C’è per tutti necessità di un certo esperimento; c’è per tutte le professioni e per tutte le occupazioni necessità di esperimento. L’esperimento non si improvvisa. Quando un ministro ha organizzato bene il suo lavoro, conosce bene i suoi funzionari, ha studiato bene i suoi problemi, è in grado di fare un programma per l’azione di domani. Ed allora tutto il programma diventa esecutivo, capace di essere eseguito. Così abbiamo il programma delle strade, abbiamo il programma dei fiumi, abbiamo il programma degli acquedotti, delle bonifiche, delle irrigazioni, delle forze endogene. Sappiamo che cosa vogliamo e dove dobbiamo arrivare. Abbiamo la meta chiara: entro cinque anni la barca con la spinta, deve arrivare fin là. Ecco la necessità della chiarezza della meta e dello sforzo concorde e continuo per arrivare. Non bisogna che ogni cinque minuti si cambino i pilastri. Badate bene, non dico che il metodo consigliabile sia quello dove i ministri dal banco del governo vanno in prigione e quelli della prigione vanno a fare i ministri. Ma neanche il sistema francese dove vanno dalla buvette al banco del governo ogni quindici giorni. Anche questo non va. Occorre continuità di lavoro; non dico che debbano restare sempre le stesse persone, non sempre noi. Gli uomini che seguiranno, continueranno la nostra esperienza, continueranno ed applicheranno le nostre conclusioni. Ci sarà una continuità di lavoro; questo vuol dire governo stabile, governo permanente. E voi sapete come vanno le famiglie: le famiglie vanno bene quando c’è un po’ d’ordine, quando c’è qualcuno che tiene l’ordine e lo tiene continuamente. Se si cambia ogni cinque minuti, non si conclude niente. Così va in agricoltura con un campo, così va in officina, così va nel lavoro in genere. Ma, direte voi, queste sono chiacchiere (voi veramente no, ma qualche avversario lo dice), queste sono chiacchiere, le solite chiacchiere, programmi, ecc. Guardate, io rinuncio alle cifre perché qualcuno mi griderebbe: «bisogna ancora discuterle queste cifre». Io rinuncio a quelle del futuro, a quelle del passato no. Il 10 maggio 1951 annunciavo che erano stati finanziati, cioè c’erano soldi per 24 miliardi di lavori e appalti, cioè assegnati ormai 19 miliardi. Adesso al 30 aprile 1953 sono stati approvati 2.510 progetti di opere pubbliche per un importo di 44 miliardi, soltanto per la Sicilia. E di questi progetti ne sono stati appaltati 2.439 per un importo di 38 miliardi e di questi sono 578 i progetti della provincia di Palermo, per un importo di 6 miliardi 740 milioni ed appaltati 517 per un importo di 5 miliardi e 376 milioni. Queste cifre le posso dire perché corrispondono a fatti ormai garantiti, ad opere che sono in corso di esecuzione. Questa è l’Italia che si rinnova. Questa è l’Italia che rinasce e c’è un candidato del Msi, il signor ambasciatore Anfuso, che è venuto qui a Palermo a dire: questa è l’Italia della vendetta, della persecuzione, della caccia al fascismo. Che vendetta abbiamo mai compiuto, dopo il ’45, nelle prime giornate della Liberazione quando non c’era responsabilità di autorità? Che vendetta a confronto di quello che è avvenuto nel Belgio ed in Francia? Il nostro è stato il trattamento più mite che si poteva usare. Abbiamo avuto nelle procedure straordinarie condannate 5.583 persone per collaborazionismo con i tedeschi ed oggi ve ne sono in carcere soltanto 331 ma per reati comuni, per reati gravi. Abbiamo cercato di introdurre provvedimenti di pianificazione: abbiamo detto anche che hanno combattuto al di là nella Repubblica sociale (non sappiamo se in buona fede o no) ed hanno fatto quello che credevano di fare in quel momento, sono vittime della guerra; bisogna dar loro sovvenzioni e sussidi, dare ai militanti le pensioni, anche a quelli della milizia. Abbiamo presentato due leggi ed è cessata la legge eccezionale che teneva lontani dalle candidature gli uomini che erano irresponsabili dell’amministrazione della politica passata. Ma non debbono interpretare tutto questo come una giustificazione, una riabilitazione, come quasi noi fossimo d’accordo che quel che hanno fatto andava benissimo. No. Il malfatto resta malfatto. Quando un generale manca al suo giuramento, qualunque sia lo stato della sua coscienza, ha mancato al suo dovere e la legge lo punisce. E quando Anfuso dice: «che credete che significhi per noi Graziani? Significa l’Africa, la terra che abbiamo perduto e non un desiderio di lotta», io rispondo: per quel che Graziani ha compiuto in Africa, ha fatto il suo dovere. Gli domandiamo conto di avere dato alla gioventù il cattivo esempio in momenti decisivi, di mancare alla sua parola di soldato verso il re ed il governo legale. È questa la ragione per cui noi possiamo pacificarci personalmente, possiamo essere disposti alle amnistie, a dimenticare, ma non a coonestare né proclamare che mancare al giuramento sia essere dalla parte giusta, come ha fatto Anfuso quando era ambasciatore; ambasciatore del re che ha obbedito viceversa a Mussolini, quando Mussolini si è ribellato; ma se costoro avessero ragione, allora tutti gli altri nella nazione, tutti i generali che hanno obbedito, tutti i soldati che sono morti per il governo legittimo, tutti gli ambasciatori che seguirono il governo a Brindisi e poi su su fino a Roma, tutta la nazione che stette da principio intorno al re e poi intorno alla Repubblica che stette per le leggi; questa avrebbe torto! Noi questa storia rifatta a questo modo, con una audace inversione non possiamo accettarla. Noi sentiamo il dovere, la responsabilità di sollevare questa questione, di affrontarla e di dir chiaro il nostro pensiero: pacificazione sì, unità sì, concordia; ma non ci si chieda di ammettere princìpi cha una volta ammessi costituirebbero veramente la rovina di ogni democrazia. Ci mancherebbe la base sotto i piedi. La base è il rispetto della legge, è la santità del giuramento. Il 24 maggio, qui, Anfuso ha letto un messaggio di Borghese e di Graziani (Borghese è un altro che è mancato al giuramento per il quale è condannato), dove si parla di unità della nazione. Noi accettiamo questo appello all’unità; ma unità vuol dire unione morale; vuol dire un’anima sola nella nazione, vuol dire una fiamma sola che arda per il proprio paese. L’unità nel regime libero sopra i partiti; la legge democratica è uguale per tutti; non un partito privilegiato, che abbia il fez e gli stivaloni che s’imponga con la forza e la violenza di organizzazione militare. Unità, amici miei, ma soprattutto nello sforzo di lavoro comune, di rinascita; unità per un governo che abbia l’appoggio del Parlamento ed abbia autorità di farsi valere, autorità che si ispiri alla morale cristiana; perché senza la morale cristiana è come se in questa immensa piazza si spegnesse di un tratto la luce. Ed allora dite nelle vostre famiglie, ripetete sulle piazze, proclamate dappertutto questo comandamento; non disperdere i voti. I voti dati ai monarchici e ai missini equivalgono a sottrarre al centro le forze necessarie per vincere il socialcomunismo. Amici, so che non rivolgo a voi questo appello invano: votate per la democrazia, per la rinascita della Sicilia e dell’Italia. Sono ormai vecchio, vi ho rivisto oggi per la quarta volta: forse non avrò più occasione di vedere i vostri volti in una massa così enorme attorno a me. Non importa; io non sono che un nome ed un simbolo di una situazione; io rappresento un’idea. Gli uomini passano, l’idea non muore e soprattutto questa non morrà. E sarà la vittoria definitiva.
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Ora che il suo giro elettorale è concluso, potrei chiederle le sue impressioni complessive? È stato un giro faticoso soprattutto in questi ultimi giorni. Ma debbo dire che sono contento di questo mio contatto diretto con il popolo e se ho un rammarico, è quello di aver dovuto tralasciare alcune regioni, che mi sarebbe piaciuto poter visitare di nuovo, se le cure del governo e la ristrettezza del tempo non me l’avessero impedito. Il mio viaggio mi ha rinfrancato; ho potuto misurare la vastità del consenso, se volete, della comprensione di vaste masse popolari per l’azione del governo. Governare è, per un uomo di sentimento, una sofferenza quotidiana. Alle porte del mio ufficio battono quotidianamente le infinite necessità di un popolo di 47 milioni di uomini e donne, alle prese con i primordiali problemi dell’esistenza aggravati dalla naturale povertà del paese, dalle conseguenze di trascuratezze ed errori secolari, dalle devastazioni di ricchezze causate dalla guerra. Ma quando si confronta questa somma di aspirazioni e di bisogno con la limitatezza dei mezzi a nostra disposizione, è impossibile sottrarsi a un senso di sconforto. Si vorrebbe bruciare tutte le tappe sulla via del progresso e della proprietà e ci si accorge che il cammino non può essere che graduale, sempre troppo lento per la nostra febbrile impazienza. Allora viene fatto di chiedersi con trepidazione: si renderà conto il popolo italiano che non è mai per difetto di buona volontà, che non è per insufficienza di capacità che non riusciamo a fare tutto quello che vorremmo fare? Il viaggio elettorale mi ha dimostrato che questa comprensione c’è ed è più grande di quanto si potesse immaginare. Ma allora, presidente, questo significa che lei è sicuro della vittoria elettorale? Non sarebbe di buon gusto contare, alla vigilia di una prova elettorale tanto impegnativa, su una certezza di vittoria così assoluta. Non attribuitemi, vi prego, l’atteggiamento oltracotante di cui si compiacciono spesso i nostri avversari. Attendo però serenamente il responso delle urne, senza paure e senza iattanze. Eppure la sconfitta del centro democratico sarebbe, secondo molti , una iattura grave. E questo concetto ho inteso riaffiorare più volte nei suoi discorsi. Come si può essere indifferenti, allora, di fronte alla prospettiva di un grave rischio che minaccia il nostro paese? Attendere serenamente il responso delle urne non significa essere indifferenti di fronte all’epilogo di quest’aspra competizione. Se fossi indifferente, non avrei partecipato col massimo impegno consentitomi dall’età e dalle occupazioni a questa campagna elettorale. È una partecipazione che mi è stata persino rimproverata. Eppure io avevo il dovere di intervenire, avevo il dovere di essere presente in prima linea nella lotta. Oggi in Italia la situazione è tale, che il governo è forzatamente costretto ad essere in un certo senso giudice e parte al tempo stesso. Perché questo? Perché purtroppo nel nostro paese non esiste oggi alternativa possibile, ossia democratica, all’attuale maggioranza. Se non esistessero, a destra e a sinistra, ingenti masse elettorali che sono fuori della democrazia, sarebbe stato piacevole per il governo mettersi da parte e lasciar decidere il paese senza sollecitare il suo voto. Che avrebbe comportato la sua sconfitta? Nulla di irreparabile: altre forze, con programmi diversi dai nostri, ma ugualmente democratici, si sarebbero alternate a noi per qualche anno. L’esperimento sarebbe stato benefico per tutti, come è nei paesi dove è possibile l’alternarsi di più partiti al potere. Sarebbe stato benefico anche per noi, che avremmo potuto raccogliere le forze nell’esercizio della critica costruttiva e nell’opposizione costituzionale. Ma in Italia la situazione è profondamente diversa. Al di fuori dei partiti del centro democratico non ci sono che partiti di più che dubbia fedeltà alla tradizione della democrazia. Era quindi nostro dovere avvertire il paese, svegliarlo, metterlo in condizione di valutare tutta la gravità del salto nel buio a cui si trovava e si trova esposto. Non è colpa nostra se questa lotta è stata imposta ancora una volta come una scelta tra la democrazia e l’antidemocrazia; tra noi, che per governare chiediamo il mandato di fiducia della maggioranza dei nostri concittadini e ci ritireremo democraticamente quando il mandato ci venisse revocato e coloro che una volta al potere non lo mollerebbero mai più, pretendono di essere depositari esclusivi della volontà della classe lavoratrice e della nazione con la «enne» maiuscola. Ma questo pericolo, secondo alcuni, appare poco probabile, perché né l’estrema destra né l’estrema sinistra possono sperare di conquistare la maggioranza assoluta. Lo credo anch’io. Ma il pericolo sussiste egualmente, anzi è più insidioso appunto perché meno appariscente. Le due attuali minoranze non sono in condizioni di conquistare separatamente la maggioranza; potrebbero però conquistarla congiuntamente. Ma il paradosso sarebbe questo: nel futuro Parlamento non esisterebbe più la maggioranza del 18 aprile, ma non nascerebbe neppure la maggioranza del 7 giugno. Ve lo immaginate voi un governo Togliatti-Nenni-Lauro-De Marsanich? Siamo decisamente nel regno dell’assurdo. Avremmo dunque un Parlamento con tre forti minoranze, capaci di paralizzarsi a vicenda, ma incapaci di esprimere una maggioranza omogenea per offrire una base sicura ad un governo efficiente. Si determinerebbe così una situazione di totale marasma parlamentare, più grave di quella che caratterizzò l’Italia nell’altro dopoguerra e approdò alla marcia su Roma e alla dittatura fascista. È legge fisiologica che un governo debba esistere, che senza un governo nessuno Stato possa vivere. Quindi o il governo lo esprimerà il Parlamento, o il governo lo imporrà al paese qualcuno dal di fuori e contro il Parlamento, magari a conclusione di un periodo più o meno lungo e sanguinoso di guerra civile. Questa diagnosi è confortata dall’atteggiamento delle due estreme, entrambe accanitesi a demolire la maggioranza del 18 aprile, pur sapendo di non poter nulla costruire in sua vece. Ciò significa che tanto le forze di estrema sinistra quanto le forze di estrema destra sperano, dopo aver eliminato le forze democratiche di centro, di risolvere la partita a proprio favore, sul piano della forza. Ma è molto probabile che questa volta la marcia su Roma non la farebbe De Marsanich con l’aiuto di Lauro. Sarebbero i comunisti, i più forti, i più combattivi, i più organizzati a profittare della disgregazione dello schieramento di centro, che è il puntello dello Stato democratico. Eppure molta gente si sente tranquilla contro questo rischio che ritiene escluso dalla situazione internazionale. Lo so. Ma è un’assurdità ritenere che gli americani verrebbero in Italia a costringere con le armi gli italiani a mantenersi sul terreno della democrazia, quando lo avessero volontariamente abbandonato. Si può formulare un’ipotesi simile nel caso di un’aggressione esterna da parte di un altro Stato, come è accaduto in Corea. Ma si può essere certi, al contrario, che una conquista dello Stato italiano da parte comunista con un colpo di Stato tipo marcia su Roma o tipo Praga febbraio 1948 non avrebbe altra conseguenza che quella dell’arretramento dei confini del mondo libero, uno spostamento a Occidente della «cortina di ferro». Tornando al suo giro elettorale, presidente, da quale visita alle città italiane ella ha riportato le impressioni più vive? È difficile dirlo. Mi hanno commosso in modo particolare le accoglienze che mi sono state tributate dalle popolazioni dell’Italia meridionale. Sapevo che proprio queste popolazioni erano state soggette ad un vero martellamento propagandistico, nel tentativo di sollevarle contro il governo. Mi era stato detto che nel Mezzogiorno esisteva una diffusa avversione contro di noi, che qui il comunismo, il monarchismo laurino e il neofascismo avevano trovato un terreno particolarmente propizio. Questo mi aveva sfavorevolmente colpito e impressionato. Mi pareva impossibile che le popolazioni meridionali fossero ostili proprio al primo governo che dall’unità in poi abbia impostato un grande e organico programma per portare le aree depresse del Mezzogiorno e delle isole al livello di prosperità e di civiltà delle zone più evolute dell’Italia settentrionale. Consideravo inconcepibile che in Lucania, in Puglia, in Calabria, in Sicilia, in Sardegna, si preferisse far credito ad esponenti di forze che prodigarono miliardi in imprese coloniali e in dispendiose opere pubbliche in Africa, lasciando nella miseria e nell’abbandono tanta parte dei loro concittadini delle zone più neglette della penisola. Ho potuto constatare che la situazione non è quale mi era stata dipinta. Non so, ripeto, quale sarà il risultato delle elezioni. Ma è certo che larghissimi strati del popolo meridionale hanno dimostrato di saper distinguere tra le menzogne di una propaganda spregiudicata e la realtà dei fatti e di apprezzare una politica di governo che nella redenzione del Mezzogiorno ha messo il suo impegno maggiore. Questo è già di sufficiente conforto per me. Di tutte le cose che sono state dette contro di lei, presidente, durante questa campagna, qual è che l’ha ferita di più? Contro di me le armi dell’oltraggio, della diffamazione, della menzogna sono state questa volta impiegate in misura ben più larga che in altre occasioni. Ma non è questo che mi ha ferito di più. Quello che mi ha qualche volta sdegnato è stata la sistematica negazione di tutto ciò che è stato fatto in questi cinque anni. Si è parlato di «immobilismo» quasi che in questi cinque anni ci fossimo trastullati in chiacchiere inconcludenti. Che degli italiani potessero sostenere una simile enormità, quando non c’è straniero che, visitando l’Italia, non resti colpito da tutto ciò che si sta facendo per il progresso materiale e civile del paese, per la prosperità del popolo italiano, mi è apparso qualche volta persino mostruoso. La verità è che in questi anni non abbiamo avuto che un triplice assillo: fare, fare presto e fare bene. Con questo non voglio dire che non ci siano stati insufficienze ed errori, perché chiunque fa è soggetto a sbagliare. Ma se la critica è sempre accettabile, la negazione totale e sistematica è disonesta ed offende. Comunque, tutto è polemica ormai passata. Ora non ci resta che attendere il verdetto delle urne. Se il popolo italiano crederà di riconfermarci il mandato, continueremo a servirlo con sacrificio ed impegno di tutti i giorni e di tutte le ore, cercando di fare sempre di più e sempre meglio, senza pretendere manifestazioni di plauso e di gratitudine, ma solo l’onesto riconoscimento della nostra buona volontà e della purezza delle nostre intenzioni .
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Miei giovani e miei vecchi amici romani, il segretario della Democrazia cristiana ha ricordato l’ultimo comizio e l’ultimo incontro che abbiamo avuto il 23 maggio 1952 ; allora prevedevo che la battaglia politica sarebbe stata ancora più aspra della battaglia per le amministrative e fui facile profeta; allora ricordavo nelle amministrative l’orrore, che sentivamo ancora riconfermarsi nelle ultime notizie, verso il regime bolscevico, ricordavo i 53 capi fucilati e soppressi dai russi e non potevo prevedere la crisi in Russia avvenuta dopo la morte di Stalin; e voi sapete che lì la crisi vuol dire non mandare i ministri in pensione, ma in prigionia; e ricordavo tutto quello che di analogo avveniva negli altri paesi satelliti. Oggi, a un anno di distanza, le cose sono forse migliorate? La situazione è più rosea, più tranquilla, più calma? No. Dobbiamo ripetere che la parola odio da quei paesi di oltre confine e di oltre cortina, questa parola, «odio», viene ripetuta. Vi porterò un esempio. È morto nel marzo scorso il presidente della Repubblica cecoslovacca Gottwald, naturalmente un comunista. Ebbene un giornale, un organo ufficiale del partito pubblicava a proposito di questa morte queste considerazioni che leggerò parola per parola: «l’odio di classe di Clemente Gottwald, un inflessibile rivoluzionario e un vero leader del popolo lavoratore cecoslovacco, veniva insegnato anche ai lavoratori in modo che questi imparavano ad odiare nella stessa maniera. È stato con questo odio che egli ha creato la forza necessaria per la distruzione del sistema capitalista e lo sconvolgimento del governo sanguinario e borghese. Dall’inizio della sua carriera il compagno Gottwald seguiva la strada indicata da Lenin e Stalin ed ha istruito il Partito comunista nell’odio verso la borghesia. Egli insegnava al suo popolo che la lotta di classe aumenta con la edificazione del socialismo e che è necessario essere particolarmente vigili per distruggere nel nascere ogni tentativo del nemico. Come tutti i grandi rivoluzionari ha scoperto i traditori del tipo di Slanski (ex capo socialista fucilato) ed ha purgato il partito nella stessa maniera. La grande eredità di Gottwald sarà attuata soltanto se il popolo continuerà ad aumentare la sua vigilanza rivoluzionaria e non cesserà di odiare sempre più il nemico di classe. Non si dovrà contrattare col nemico di classe, ma esso dovrà essere distrutto come condizione per l’esistenza del popolo». Queste parole ufficiali del capo del comunismo cecoslovacco, confermano la gravità e la profondità dell’abisso che ci separa; confermano la gravità della minaccia che è contro di noi e la gravità dell’errore di questi princìpi. È questa dunque la situazione nostra in confronto all’estrema sinistra ed essa rimane uguale, né io qui ho da ripetervi tutti gli argomenti che furono da me espressi durante la campagna elettorale o che voi avete sentito ripetere dagli amici, contro codeste dottrine e codeste ispirazioni. Ed ora mi volgo verso la destra: ecco, dicevo l’anno scorso, che noi siamo attaccati sulla destra con tale impudenza e tale falsità da far smarrire la mente, ricordando un periodo che sembrava impossibile ritornasse. Ho detto durante la campagna elettorale, ai missini e ai neo-fascisti: noi non vi chiediamo che voi rinneghiate quello che avete fatto nel passato, ma che non lo giustifichiate malgrado le sue tristissime conseguenze. Avevo invitato i fascisti non a recitare il «mea culpa», ma almeno a meditare, a fare un esame di coscienza sopra le responsabilità che essi hanno portato verso l’intera nazione. I loro oratori mi hanno risposto per bocca di De Marsanich, qui a Roma e a Cagliari: «noi non rinneghiamo nulla e non ci pentiamo di nulla». Sentiteli: non rinnegano nulla, non si pentono di nulla. Ma c’è qualcuno, ed è il popolo italiano, che invece si pente perché ha dovuto pagare, ha dovuto pagare il prezzo del terribile esperimento. Gli economisti hanno valutato i danni causati dalla guerra a diecimila miliardi, nel valore in lire del 1949; gli oneri del Trattato di pace ascendono a duemila miliardi. Essi non vogliono pentirsi di questo. Forse perché chi ha pagato non sono essi, è il popolo italiano che ha pagato. Miei amici romani, non è del passato che noi vorremmo essere qui a chiedere conto. Non siamo qui eretti a tribunale e lasciamo loro il giudizio sopra le responsabilità del passato. Noi siamo qui a chiedere che non giustifichino quel passato, perché temiamo le conseguenze per il presente, cioè perché temiamo che si confermi in loro lo spirito del passato. Ecco la gravità della situazione. Recentemente a Roma un oratore fascista, che passa per moderato, Michelini , ha detto ricalcando le orme che tutti conoscono, che a noi in Italia non ci salverà nessun passaporto. In Italia, diceva, non si salveranno De Gasperi e i suoi soci; non li salverà nessun passaporto; dovranno rimanere in Italia e pagare di persona. Ebbene, io domando a questi forsennati, a questi giudici postumi, dinanzi alla testimonianza della nazione, dinanzi a questa folla di popolo, domando perché dovrei pagare. Perché? Forse, perché per 9 anni ho lavorato con il popolo italiano, perché ho servito la nazione in patria e all’estero insieme con tanti miei collaboratori che qui, ancora una volta, ringrazio per l’opera loro, e anche con l’appoggio di tutto il popolo e con l’aiuto della nazione americana; dovrei pagare perché abbiamo salvato l’Italia dalla fame? O perché abbiamo restaurato il paese dalle rovine, ricostruito ponti, strade, ferrovie, marina; rimesso in piedi l’esercito, il nostro glorioso esercito. E tutto questo non con la forza, badate, non con la coazione, non con la violenza, ma con la ragione, con la libertà. Dovrei forse pagare perché abbiamo amnistiato le pene più gravi e ridotto ed attenuato le pene minori? Sì, forse, come voi dite, abbiamo fatto male. E poi, dovremmo pagare di persona, secondo loro, quando si tratta di responsabilità odierne, mentre quando si tratta di responsabilità del recente passato essi dicono: «no, noi non siamo i responsabili, ma tutta l’Italia, tutto il popolo italiano ha sbagliato». Ci resta, amici miei, nell’animo un senso di turbamento per una faziosità tanto aberrante. No, non è paura, non è pentimento. È forse soltanto colpa, come dite voi, di essere stati troppo ottimisti, di aver sperato nella giovinezza e nella bontà della nostra stirpe. Ed ora permettetemi di passare ad un altro capitolo: non posso certo sfogliare tutti i capitoli di questo libro che abbiamo sfogliato durante le settimane passate e specialmente quelle pagine che si riferiscono ai monarchici ed al signor Lauro. Vi avverto che il fischiare porta degli equivoci. Anche ieri su una piazza di Napoli quando ho nominato Lauro si sono messi a fischiare e giornali, come Il Secolo , dicono che hanno fischiato contro di me. Verso il comandante Lauro ho fatto un meritato elogio a Napoli. Veniamo ora a parlare del nostro Pietro Nenni, e statemi attenti. Nenni identifica la sua cosiddetta «alternativa socialista» con una politica internazionale di pace. Noi dovremmo essere neutrali ed amici di tutti, saremmo i più adatti ad avviare negoziati ed arrivare ad accordi per la pace. Ed allora Nenni si aggrappa ad un’idea di Churchill: la Locarno dell’Est . Churchill disse ad un certo momento, pur senza darci veramente molta importanza, che, come c’era stata la Locarno con un impegno di difendere la Francia in caso di attacco della Germania e viceversa, così potrebbe fare l’Inghilterra: garantire la Germania e la Russia reciprocamente qualora l’una o l’altra fossero aggredite. Lasciamo stare e non mettiamoci a discutere sopra la formula di Locarno. Quello che Nenni dice è questo: aderiamo senza preoccuparci di programmi e di premesse e sopratutto senza preoccuparci di concordia tra le Potenze atlantiche. Ecco proprio il punto che ci separa da lui in maniera decisiva. Se ci fosse una conferenza nella quale una parte degli atlantici, cioè gli inglesi, per esempio, fossero di diverso parere dagli americani ed arrivassero a diverse conclusioni, allora saremmo in disaccordo col Patto atlantico e questo sarebbe un successo della Russia, e non ci sarebbe pace. Noi siamo d’accordo per qualunque sforzo per la pace, ma, sopratutto, la premessa indispensabile bisogna che sia prima un accordo, una linea comune di condotta tra i paesi del Patto atlantico. Aggiungiamo a questo un altro punto: che non bastano i grandi, i grandi i quali sono spesso piccoli quando si tratta di grandi questioni da risolvere. I grandi hanno bisogno dei paesi minori perché non possono risolvere le questioni degli Stati minori che siano assenti. Quindi io sollevai la questione che in una forma o nell’altra bisogna venga sentita anche la voce dei popoli, e anche quella dei vinti perché il periodo della divisione del mondo in vincitori e vinti dev’essere finalmente chiuso. Voi sapete che cosa ha inventato Nenni dopo il suo ritorno dalla Russia? Ha inventato una cosa che fu già introdotta in Italia nel 1933: il patto di non aggressione fra Italia e Russia. Patto di non aggressione che giovò così poco che a poca distanza ci fu una guerra e nessuno si ricordò più della esistenza di quel patto. Di una tale «novità» noi non ci interessiamo. Nenni dice che il governo non tiene conto degli obiettivi di pace quasi che noi volessimo fare o provocare a qualunque costo un conflitto; egli dice che quando si parla di distensione internazionale sembra a lui come se il nostro governo avesse un morto in casa, un morto da seppellire subito onde poter riprendere all’interno, egli dice, la politica di divisione, di rancore, di odio. E aggiunge: da De Gasperi non abbiamo sentito che balbettii intesi a conciliare ciò che è inconciliabile: l’oltranzismo atlantico e la distensione; la piccola Europa clericale e la nuova Locarno. Ma che vuol dire oltranzismo? È una delle parole coniate nella discussione per non dire chiaro e netto: Patto atlantico. Che cosa significa «oltranzismo atlantico»? Significa stare nel patto oppure non starci? Essere lealmente alleati oppure essere semplicemente non belligeranti; in poche parole significa forse secondo lui che noi dovremmo mantenere il patto concluso dall’Italia ma poi aggirarlo con un sotterfugio? Di una tale politica doppia abbiamo avuto una prova in passato: essa non ha giovato ed ha portato al disastro. E poi «piccola Europa clericale» sarebbero i sei Stati che si raduneranno qui, a Roma, il 12 prossimo, per rinnovare lo sforzo diretto ad organizzare l’Europa. Ma sono sei Stati che hanno la volontà di farla, questa Europa, e se altri Stati non la vogliono fare, è certo che noi non possiamo fare l’Europa con Stati che non vogliono farla e dobbiamo cominciare col farla con quelli che la vogliono. Ecco la nostra posizione: 1) trattative più rapide e concrete che sia possibile per risolvere i problemi uno ad uno; 2) la competenza degli interessati per risolverli. Possiamo, per esempio, noi che non facciamo parte dell’ONU, che non abbiamo mandato combattenti in Corea, essere gli iniziatori, i negoziatori dell’armistizio in Corea? No. Possiamo augurarlo che lo facciano gli altri; possiamo desiderare questo armistizio, che spero che entro le prossime ore sia concluso, ma non possiamo fare i mediatori. Passiamo al problema dell’Austria. I russi hanno dichiarato di non essere d’accordo per riconvocare la conferenza che deve stabilire finalmente i capisaldi del programma di pace dell’Austria. L’Austria non ha ancora un trattato di pace; è ancora occupata da truppe straniere. Ebbene, i russi si sono rifiutati di continuare queste trattative. Senza voler cercare di comprendere le ragioni dell’atteggiamento russo, risulta tuttavia chiaro che i sovietici non vogliono risolvere il problema austriaco separatamente, e ciò si traduce in un prolungamento della occupazione dell’Austria. In poche parole i russi stanno a Vienna, non si muovono di là fino a che tutto il problema sarà risolto. E qui, a proposito dell’Austria, abbiamo il dovere di stare attenti e con il piede alzato, perché c’è chi vuole tirare dentro Trieste. Ma a proposito di Trieste diciamo: il suo destino è ormai stabilito: Trieste è italiana. Non c’è nessun intervento internazionale che può decidere di questa sorte: si potrà decidere la procedura, la forma dello sgombro delle truppe e l’entrata delle altre; si può decidere sui modi del passaggio di sovranità; sulla cosa stessa la decisione è fatta, è ormai della storia. Quanto al Patto atlantico, noi vogliamo che si mantenga l’unità fra i 14 Stati, vogliamo che tutti lavorino per la pace, ma lavorino d’accordo e non cerchino di mettere ora gli inglesi contro gli americani, ora i tedeschi contro gli inglesi o i francesi: questa è vecchia politica che divide, vecchia politica che potevano fare altri Stati. L’Italia ha bisogno di concordia e di una Europa unita. In verità, a proposito dell’Unione europea confermo ancora che noi non possiamo fare la grande Europa che sogna Nenni (non so se vuole arrivare fino agli Urali), ma quando parliamo di Europa ci riferiamo anche ai rapporti di pace, di collaborazione fra la Francia e la Germania. Questo è il principio base. Poi c’è la possibilità di uno sviluppo ulteriore, di una estensione del campo di azione di questa Europa perché non si tratta soltanto dell’esercito comune e nemmeno del carbone e dei minerali, si tratta di un mercato comune, si tratta della libera circolazione del lavoro e delle merci. L’Italia è un paese proletario, ha bisogno di spazio per i suoi numerosi figli e l’unico modo è proprio questo, e potrà anche servire a liberare l’America dal peso dell’occupazione di una parte dell’Europa; creare un’Europa che sia capace di difendersi da sé. Soltanto allora gli americani potranno smobilitare lentamente dall’Europa senza perdere nulla del loro prestigio ed avranno compiuto così una grande ed una gloriosa funzione storica. Ma per arrivare a questo bisogna che Nenni ed alcuni socialisti come Guy Mollet mettano fuori dalla porta loro l’anticlericalismo. Bisogna che pensino più ai lavoratori che ai giacobini, bisogna che guardino più all’interesse del popolo che alle storiche fazioni, ai conflitti fra diversi Stati. Amici, ora voglio dire alcune parole rivolte in special modo alle categorie e prima di tutto a quella dei miei collaboratori, dei collaboratori dell’amministrazione dello Stato. Vorrei dire ai funzionari dello Stato una parola dignitosa che non chiede nulla all’infuori dell’adempimento del dovere. Le categorie dei dipendenti pubblici, lo so, non sono del tutto soddisfatte della loro situazione economica. Se non è stato dato quello che si doveva, certo è stato dato molto di quello che si poteva. Noi dal 1949 abbiamo aumentato il nostro onere per 141 miliardi e 109 milioni, oltre a 52 miliardi per le pensioni. È vero che non basta, ma vuol dire che abbiamo una buona volontà di fare. La questione degli statali non si esaurisce in termini di trattamento materiale. Sono i nostri collaboratori, e rappresentano la burocrazia dello Stato, tante volte criticata, ma indispensabile nella sua struttura, nella sua funzione ed in ogni caso sempre piena di alte responsabilità. Bisogna riconoscere lo sforzo che il governo farà presentando la legge delega alla Camera la quale potrà cambiare e migliorare le condizioni della organizzazione burocratica e contemporaneamente anche la forma di pagamento unificandolo ed introducendo elementi di perequazione. Credo che questo lavoro potrà essere fatto durante la prossima estate e la classe impiegatizia vorrà darci la fiducia, aiutandoci in tutte le difficoltà esecutive di questo nostro piano. Ma sopratutto, amici impiegati e dipendenti dello Stato, che qualche volta vi lagnate della disciplina o del lavoro, io vi chiedo di fare un confronto. Voi vi trovate in un regime di libertà e non vi si chiede nulla contro la vostra coscienza, non c’è alcuna coartazione sulla vostra anima, sul vostro spirito. La vostra collaborazione è volontaria. Negli altri Stati che vengono invocati dall’onorevole Togliatti come «luminosi esempi della nuova organizzazione amministrativa», le cose sono diverse. Vi leggerò alcuni articoli del Codice penale sovietico. L’art. 59 dice: «qualsiasi atto che, pur non tendendo direttamente al rovesciamento del potere sovietico o del governo operaio-contadino, abbia lo scopo di turbare il funzionamento regolare degli organi della amministrazione… è considerato delitto contro l’ordine amministrativo». Tra tali delitti c’è la partenza fuori orario dei treni e dei battelli: 10 anni o anche la fucilazione. E l’articolo 111 commina tre anni per inazione nel servizio, cioè inesecuzione da parte di un funzionario di atti del servizio quando la noncuranza abbia portato ritardi. Vi ricordo, poi, quando, da noi, tutti erano costretti a mettere gli stivali ed il fez, e stare sull’attenti, e quando il ministro degli Esteri di Salò, in pochi mesi, licenziò 400 funzionari. Noi invece abbiamo licenziato i più compromessi, una trentina, ma con la pensione e con tutti gli arretrati. Amici, molti hanno gridato poco fa: troppa libertà; ma è più facile pentirsi di un atto di coazione, di violenza, che di una serie di atti di libertà. Nella libertà la conversione è possibile; l’appello alla coscienza ha una forza morale; nella coazione vi possono essere molte conseguenze della reazione che desta, e ben difficilmente si possono prevedere. Ora vorrei richiamare la vostra attenzione sopra una situazione particolare. Al Senato, come anche alla Camera, abbiamo discusso e votato la legge sulle chiese. Tutti hanno dovuto ammettere che in seguito allo sviluppo enorme delle città, bisognava pensare anche a facilitare il culto perché era impossibile pretendere dalla povera gente che potesse dare un contributo sufficiente. Venne votata una legge sulle chiese. L’unico rappresentante missino, l’onorevole Franza, fu moderato e prudente. Nonostante ciò fece un discorso che pur senza essere contrario in principio a questo contributo per le chiese, diede occasione di sollevare una questione relativa ai rapporti fra Stato e Chiesa, affermando come fece che «esiste ormai ed è già in atto quella confusione di poteri che dal giorno della Conciliazione venne paventata». «La Santa Sede, disse, con il divieto di militare in partiti politici ai sacerdoti, assunse l’obbligo di natura permanente verso lo Stato italiano» e aggiunse che «il divieto avrebbe avuto per conseguenza di non poter sostenere apertamente e pubblicamente partiti politici, né affiancare nella lotta uomini di gruppi politici qualificati». Ora, badate, il divieto di militare in partiti politici è stata una misura disciplinare di convenienza. Inoltre per quel senatore non si tratta di stabilire il limite di convenienza, o di misura, che è una questione sulla quale la Chiesa stessa si batte, ma un principio, il principio cioè di imbavagliare e disarmare il clero in un momento di persecuzione mondiale; è un principio veramente reazionario che non possiamo accettare: sarebbe annullare diritti costituzionali di cittadini, mentre si tratta di misura di disciplina per ragioni d’opportunità. Certamente, la funzione spirituale impone dei limiti e delle riservatezze, su cui la Chiesa è gelosa; ma impone anche dei doveri di legittima difesa, difesa disinteressata, difesa del clero, che in tutti i paesi ha provato di essere pronto al sacrificio, ma di non tradire le anime. Noi, gelosi come cattolici della libertà, dell’incolumità della Chiesa, ricordiamoci, o romani, del nostro dovere di riconoscenza: il Papa salvò Roma e dobbiamo essere pronti con il Papa, a difendere la nostra famiglia; con il Papa, o uomini e donne di tutti i partiti, difendiamo la libertà nella pace e la pace nella libertà. Abbiamo parlato in questa campagna elettorale di fatti, di fatti economici, di cifre, di progressi sociali, di riforme, di economia. Ma la democrazia politica è duplice: è formale e sostanziale. La forma è la garanzia dell’essenza, e l’essenza è il senso di giustizia e la giustizia vuole la libertà della persona e una equa disponibilità dei beni. Non c’è ispiratrice più forte di giustizia che la fraternità cristiana. Difendere, mantenere, alimentare lo spirito cristiano vuol dire inserire nei rapporti sociali ed economici il fermento evangelico perché li preservi dalla corruzione e li muova verso la giustizia. Perciò, romani, chiamiamo la nostra democrazia «Democrazia cristiana», non per menar vanto di una caratteristica esclusiva, ma per riaffermare che, fra i contributi nostri alla democrazia, il primo, quello cioè che è al di sopra della esperienza sociale e della tecnica economica, è il contributo energetico della ispirazione cristiana che ricaviamo dalla nostra fede e dalla nostra storia. Non si è trattato nella campagna elettorale solo del fatto economico, delle leggi organiche o dei provvedimenti sociali, non solo della pace e della sicurezza, non è in causa solo la organizzazione politica, la struttura sociale, la vita materiale del popolo italiano; è in causa anche lo spirito nazionale. È in causa non soltanto il corpo, ma in causa l’anima. Quando parliamo di libertà, che cosa vogliamo difendere se non la libertà dello spirito contro ogni coazione o pressione violenta, o sistematica soffocazione? Quando riaffermiamo la democrazia cosa vogliamo sostenere se non i diritti naturali concessi all’uomo da Dio? Quando facciamo appello al popolo, è perché crediamo che esso, quando è illuminato dal ragionamento della coscienza morale, parla con la voce di Dio: vox populi, vox Dei. Ma la coscienza morale è quella fiamma che da generazione in generazione ci fu trasmessa, come patrimonio sacro, dagli antenati. Non lasciatela spegnere, ci gridano da un secolo all’altro i nostri grandi; e con la stessa voce ci parla accorato Leonardo nell’Ultima Cena e risuona come grido terribile nel giudizio della Sistina. Lo scalpello, il bulino, il pennello degli artisti, la penna dei filosofi e dei poeti ripetono di secolo in secolo lo stesso ammonimento. Anche oggi, amici, ci battiamo per l’anima della nazione e per vincere questa battaglia abbiamo bisogno che in mezzo a questo popolo martoriato e quasi schiacciato dai problemi economici ma pur sempre assetato di idee e di ideali, si elevino al disopra delle cure quotidiane, gli uomini del pensiero, dell’arte, i cultori della poesia, gli araldi della scienza. Ci fu un tempo in cui la democrazia delle arti e mestieri venne accompagnata da un’aristocrazia di artisti e di pensatori. Non si deve credere che il regime democratico si esaurisca nei piani quinquennali o dodecennali di produzione agricola e industriale, che le fonti energetiche indispensabili alla nostra rinascita debbano essere ricercate solo nelle acque defluenti dai nostri ghiacciai o fra i gas della terra; bisogna, amici, scavare più a fondo ancora, nella intimità degli spiriti, negli abissi misteriosi della moderna anima, agitata e spesso travolta, e cercarvi le sorgenti primitive della nostra storia per fonderle e conciliarle con le esigenze e con le aspirazioni del regime libero. Non è un caso che la Cassa del Mezzogiorno abbia organizzato mostre d’arte e promosso scavi archeologici; che si siano istituiti premi «Roma» e «Incontri della gioventù» ; ma questi dovrebbero essere appena sintomi preliminari di un movimento culturale che la democrazia deve a se stessa se vuole consolidarsi negli spiriti come nelle istituzioni. Certo la democrazia moderna avrà pochi cortigiani e scarsi mecenati; ma può offrire ai pensatori e agli artisti lo spettacolo della solidarietà consapevole, il respiro della libertà morale e sopratutto il senso della fraternità sociale. Io penso che questo senso sia l’aspirazione più viva dell’anima popolare. Il Machiavelli ci insegnò come governare; frate Savonarola come governare e come morire. In questa dura campagna troppi predicarono l’odio, l’odio della demolizione o l’odio della vendetta. Ma il popolo italiano ha bisogno di fraternità e di amore. Tutti ne abbiamo bisogno, i milioni di poveri che reclamano un’opera di redenzione sociale, appena cominciata; i milioni del ceto medio che mantengono a fatica, nelle accresciute esigenze, il decoro della vita; i milioni di giovani contesi e straziati da opposte fazioni. Più amore, più fraternità, più pace. Con questo arcobaleno vorrei chiudere la mia fatica elettorale. Quando, migliorando il tenore di vita dei miseri, avremo fatto un passo definitivo verso la giustizia sociale; quando, nell’ordine e nella libertà, avremo sprigionato tutte le sane energie popolari, allora, o democrazia italiana, in questa atmosfera rinnovata dalla solidarietà cristiana, sorgerà anche il grande artista della tua epoca, interprete del sentimento che ti ispira e ti muove; il pennello farà allora risplendere ancora la luce del Suo volto nel Cenacolo ed il sorriso del Suo amore divino.
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Per il lettori de Il Messaggero , il quale ha accompagnato con tanta comprensione e attenzione la mia campagna elettorale, non ho nuove conclusioni da tirare, ma, ad esperimento compiuto, le affermazioni anche ripetute prendono nuova vita e calore. Anzitutto: la finalità della legge del premio. Come risulta evidente oggidì, colle cifre avanti gli occhi, che la Dc cercava il premio, non come si disse, per truffare voti per proprio conto, non per libidine di potere, non perché si sentisse perduta. Anche colla proporzionale senza premio, essa ha riguadagnato ed assunto la posizione di partito dominante della vita pubblica italiana. Ma noi volevamo allargare la base della democrazia, offrire occasione alle forze socialdemocratiche, liberali e repubblicane di riorganizzarsi e d’irrobustirsi, per cercare così entro le frontiere democratiche la possibilità d’una collaborazione alternativa e dinamica. Ricordate il discorso estivo di Predazzo? Fissai proprio così lo scopo della riforma elettorale . Gli elettori non ne hanno profittato nella misura desiderata? È increscioso, perché nell’amministrazione della cosa pubblica questa varietà d’impulsi e di elementi di equilibrio, se combinati in una direttiva comune, costituisce una molla di progresso. Ella persiste dunque nel suo centrismo? Senza dubbio, la politica di centro è la politica del buon senso e la condizione per la continuità del progresso. Al governo o fuori, rimango sempre centrista. Gli estremi – l’avete visto – si toccano e le deviazioni costituzionali favoriscono la sovversione. A che cosa si riferisce con quest’ultima affermazione? Mi riferisco al deviazionismo monarchista. Era chiaro che il voto non poteva cambiare la situazione istituzionale né abolire la Repubblica o far ritornar la dinastia. Invece abbiamo denunziato il pericolo che l’intervento del Pnm favorisca l’estrema sinistra . Ora è dimostrato che l’estrema sinistra ha oggi alla Camera (ripartendo i seggi secondo la proporzionale) 70 mandati in più di quelli che avrebbero, se si applicasse la legge del premio (48 comunisti e 22 socialisti nenniani). Colla proporzionale i comunisti sono 143, colla legge del premio sarebbero 95! Bisognerebbe in verità affiggere un ultimo manifesto nelle regioni del sud, per rendere evidente la colpa di codesti signori che dicono di voler salvare la Monarchia e intanto mettono in pericolo la patria. Lei è forse sorpreso dalla forza comunista? Sorpreso no, impressionato sì. A forza di sentir dire che il pericolo comunista è fantomatico, che i comunisti vanno indietro, si cominciava a dubitare perfino delle proprie convinzioni, per quanto radicate. Ora avete visto le cifre? Nel 1946 comunisti 19%, socialisti (uniti) 20.7%; nel 1948 Fronte pop.[olare] 31%; nel ’51/52 comunisti 20%, soc.[ialisti] 13.10% + ind.[ipendenti di] sin.[istra]; totale 35.60% Nel 1953 comunisti 22.70%, soc.[alisti] Nenni 12.70% = 35.40% In tutta la campagna abbiamo dovuto levar la voce di Cassandra, ma l’ignoranza colpevole, la cecità, la passione ci gridano: non è vero! È uno spauracchio dei clericali. E nella prima fase i comunisti si tennero riservati, fecero i finti tonti nei comizi di Corbino e di altri utili prestanome, applaudivano all’alternativa di Nenni, buona per mietere nel campo di Saragat che pur si batté mirabilmente; poi all’ultimo momento si ammassarono attorno a Togliatti. Il quale oggi ha ragione di menarne vanto. In verità non sono le sue argomentazioni che lo portano avanti, sono le meschinerie, le ambizioni egoistiche delle classi borghesi, che si prendono il lusso di dividersi, di disperdersi, in liste senza prospettive o di perdersi in questioni non attuali. Sei milioni di voti comunisti, senza contare i nenniani! Immaginate un po’ che i democratici cristiani si fossero lasciati andare, che i comitati civici non avessero aiutato sollecitando l’afflusso degli elettori, che noi non avessimo affrontato la minaccia ovunque sulle piazze e non avessimo orientato le masse, che cosa avrebbero fatto i Missini, i quali ci hanno gridato spavaldamente: «ai comunisti ci pensiamo noi! La vostra è una trincea di cartone!». Ci pensano loro: nelle elezioni 1951/52 erano il 6.88% con 1.697.128 voti, ora, dopo una campagna feroce… contro non i comunisti, ma contro la Dc, sono scesi al 5.83% dei voti, pari a voti 1.580.395. A proposito del Msi ha fatto, presidente, il confronto fra i socialisti della Camera e quelli del Senato? Sì, ho considerato che alla Camera votano in più tre classi di giovani. Ebbene non risulterebbe che i giovanissimi siano nostalgici, perché alla Camera il Msi ebbe 5.90% di voti, al Senato il 6.10%. Sembrerebbe invece che i giovani siano piuttosto attratti dalle sinistre, perché queste per la Camera ebbero il 36.2% e per il Senato il 34.7%. E allora nemmeno questa funzione sa assolvere il neofascismo. Vuol dire la sua opinione sulla avanzata di Nenni? Se ho calcolato bene, non ci fu avanzata. Nenni nelle amministrative ebbe il 13.10% e arrivò il 7 giugno al 12.70%, mentre i comunisti toccarono il 22.10% (soc.[ialisti] 3.440.222, i com.[unisti] 6.122.638). Se sono soddisfatto dei risultati della Dc? Certamente. Nelle amministrative avemmo il 36,30% (8.013.212); oggi il 40.7%, cioè 10.859.554 voti. È un bel recupero in una campagna nella quale la Dc e il governo su essa imperniato furono il bersaglio concentrico da tutti i lati. È vero che nel 1948 toccammo i 12 milioni 712.516; ma allora nessuno osava mettere in dubbio la minaccia bolscevica, la flotta di Lauro si occupava di trasporti e non di politica e non operavano i commandos di guastatori come quelli di Corbino, e di Parri che, come Marco Curzio si gettarono nella voragine contribuendo ad impedire che scattasse quel sistema che avrebbe loro assicurato un mandato. Ci risponda la prego ancora a una domanda: quale cosa durante la campagna le ha più dato soddisfazione e quale le sembrò più amara. Soddisfazione e speranza mi diedero i giovani, i moltissimi giovani della Dc. Essi rappresentarono l’entusiasmo disinteressato e impersonale, non solo la speranza, ma la certezza di un domani democratico e consapevole. Amaro invece mi apparve certo contegno irresponsabile di qualche gruppo del Mezzogiorno. Il popolo no, il popolo ci fu amico, perché vede i fatti e i benefici: la sola Cassa del Mezzogiorno spende per la popolazione meridionale 300 milioni al giorno. Codesti signori negarono il fatto, svalutarono l’opera, diffamarono le intenzioni, e tutto ciò coinvolgendo, fra il plauso ironico delle sinistre, le illusioni del sentimento colla rappresaglia degli interessi.
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A leggere certi commenti di oggi, sembrerebbe che i quattro partiti che si presentarono collegati alle urne si fossero incontrati incidentalmente per via, senza dirsi l’un l’altro donde venissero e dove si proponessero di andare: compagni di viaggio di una sola giornata i quali, scesa la notte, si perdono nel buio, senza ricordare più i rispettivi connotati. Ma la verità è un’altra. Il collegamento, cioè l’associazione delle liste, venne attuata ai primi di maggio 1953; ma esso fu l’applicazione e la conseguenza di un accordo di principio che era stato solennemente concluso e firmato il 15 novembre 1952. È utile rileggere questo documento: «La Democrazia cristiana, il Partito socialista democratico italiano, il Partito liberale italiano, il Partito repubblicano italiano, per consolidare la democrazia; per assicurare la stabilità e l’efficienza delle istituzioni parlamentari e del governo; per garantire l’ascesa del popolo italiano ad un più alto livello di giustizia sociale stabiliscono un accordo politico che l’impegna alla difesa solidale dei diritti inalienabili della persona, dell’autonomia della nazione, della concordia civile e della difesa della pacifica convivenza tra i popoli» . Coscienti delle loro responsabilità, i quattro partiti democratici prendono sin d’ora il loro posto nella prossima competizione elettorale quali interpreti delle aspirazioni più alte e vitali della nostra storia: l’ideale democratico, la libertà politica e l’indipendenza della patria, i valori universali del Cristianesimo, i princìpi di giustizia sociale nel primato delle forze del lavoro. Nella concorde visione dei compiti di un moderno Stato democratico, i quattro partiti affrontano la lotta uniti da un accordo che, nell’autonomia delle rispettive posizioni, ne garantisce la confluenza per il bene comune del popolo italiano. Risulta da tale accordo politico che i partiti rivendicavano bensì, com’era naturale, l’autonomia delle loro posizioni – cioè i socialdemocratici, i liberali, i repubblicani, i democratici cristiani conservavano ciascuno la loro propria fisionomia ideologica e programmatica e la piena libertà di partecipare o non partecipare a responsabilità governative, ma tutti e quattro fissavano di comune accordo alcuni postulati e affermavano alcune istanze discriminanti che li caratterizzano in confronto degli altri partiti in lotta. Tale comune caratteristica era indicata come segue: ideale democratico, libertà politica, indipendenza nazionale, valori universali del Cristianesimo, giustizia sociale e pacifica convivenza tra i popoli. Il 7 maggio poi, celebrando l’avvenuto collegamento, i quattro sottoscrivevano un altro comune impegno, quello di orientare con lealtà la loro battaglia elettorale al fine solidale della difesa e del consolidamento delle istituzioni democratiche. Si trattava dunque non di un incontro casuale, ma di una comunanza di vedute e di progetti, certo circoscritte ad un particolare settore quale è quello politico più propriamente detto, che però era destinato ad essere appunto il settore nel quale doveva svolgersi principalmente la lotta fra maggioranza e opposizione. A questo momento, dall’esterno si tentarono due diversioni. Mentre sulla destra si introdusse l’elemento di una revisione costituzionale di carattere legittimista, sulla sinistra il Psi assunse uno schieramento che voleva apparire di indipendenza in confronto del comunismo. In realtà non era che una posizione parallela e conforme alla nuova tattica distensiva di Malenkov; né il comunismo nostrano aveva assunto posizione diversa, per quanto per ragioni evidenti di tattica si lasciasse alquanto sopravanzare. Senonché la manovra di Nenni trovò un sorprendente aiuto nel discorso di Churchill e in tutto l’atteggiamento inglese, al quale il socialismo italiano parve avvicinarsi tanto che Nenni, il quale sin dai tempi di Hitler fu sempre dall’altra parte della barricata, cioè da quella russa, in questa occasione parve accordarsi col laburismo inglese e la sua voce parve contraffare la voce dell’Europa neutralista contro l’atlantismo americano. In verità Nenni nell’Avanti! del 2 giugno non aveva mancato di rilevare che tra i socialisti italiani e i laburisti vi sono anche motivi di dissenso sul «modo diverso con cui noi apprezziamo la Rivoluzione di ottobre e i suoi sviluppi nei trentasei anni trascorsi, sulla Rivoluzione cinese e sulle democrazie popolari dell’Est, e inoltre (come egli continua) sulla diversa valutazione dell’Internazionale socialdemocratica» . Ma negli ultimi giorni della campagna non ci fu occasione di insistere su questi motivi di dissenso, né di fare ammettere a Nenni che in realtà si tratta di un contrasto profondo ed essenziale intorno alla Rivoluzione russa, al bolscevismo, alla conquista della Russia e della Cina, insomma proprio del contrasto principale fra Occidente e Oriente. Né forse fu abbastanza rilevato che Nenni, facendo sua la tesi bolscevica contro la Comunità di difesa e l’Unione europea, stroncava le speranze di un rinnovamento europeo, che pure suscitano entusiasmo anche fra le masse socialiste. Forse la sua propaganda su questi temi non trovò sempre adeguata reazione. Le ragioni sono diverse e molteplici in ciascun settore. Per quanto riguarda la Dc bisogna rilevare che il partito si batteva fra due fuochi, e prima il provocante attacco neo-fascista e poi l’intervento massiccio comunista assorbirono le sue forze. Tuttavia nel nostro campo fu rilevato l’irriducibile contrasto, sia riguardo alla politica internazionale, nella quale noi vogliamo la pace, sì, ma anche la sicurezza e quindi le alleanze, sia riguardo all’Europa, nella quale cerchiamo, sì, la soluzione dei problemi fra Occidente e Oriente ma prima di tutto il consolidamento della collaborazione tra Francia e Germania, che è condizione dell’Unione europea, e quindi di un mercato comune di beni e di lavoro; né siamo davvero anglofobi, ma non vogliamo rovinare il nostro paese isolandolo dall’indispensabile amicizia dell’America. Del resto non in noi potevano sorgere dei dubbi circa la cosiddetta alternativa. Ne abbiamo subito negata la consistenza. Nenni dal canto suo fu abbastanza trasparente, quando alla Basilica di Massenzio inaugurò la campagna dichiarando: «è nella pienezza della nostra responsabilità che ci presentiamo al corpo elettorale alzando la bandiera dell’alternativa socialista. Non abbiamo nulla da ripudiare. Né d’altro canto le azioni sono tutto, ci sono le lotte sindacali. C’è l’azione unitaria di massa. In qualsiasi circostanza le forze reazionarie ci troveranno uniti coi comunisti e con l’avanguardia democratica nelle lotte sindacali, e nella difesa della Repubblica, della democrazia, della pace» . Quale concetto più unitario di codesto? Togliatti ne prese atto con soddisfazione. È anche poi, quando nel seguito della lotta, il Psi fece manovrare più seducentemente lo specchietto per le allodole, si parlò è vero di una nuova maggioranza, alla quale avrebbe potuto partecipare anche parte della Dc, ma c’è stato anche un solo momento in cui si fosse rivelata una sia pur parziale confluenza di princìpi o di compatibilità di programma? Ci si è chiesto semplicemente di rovesciare la nostra politica. Ecco come suonava il manifesto agli elettori del Psi: «…occorre cambiare strada, cambiare politica. Ma non si cambia politica con la Dc che si è rivelata incapace di resistere alla attrazione della sua destra conservatrice e clericale; non si cambia strada con gli apparentati della Democrazia cristiana scesi più di una volta alla parte di agenti provocatori contro il movimento operaio e popolare. Non si cambia né strada né politica con la socialdemocrazia, elemento di confusione e di corruzione trasformistica». Avevamo bisogno di altri chiarimenti? Se la violenta, quotidiana campagna anticlericale, anzi, più precisamente anti-cattolica, non fosse stata la caratteristica più irriducibile dell’Avanti! già, questo linguaggio perentorio delle manifestazioni ufficiali ci avrebbe dispensato da qualsiasi discussione. La alternativa socialista fu in realtà l’alternativa anticlericale, tanto più iniqua e infondata, in quanto era nello stesso tempo rivolta contro partiti nostri collegati che ad ogni occasione tenevano a dissociarsi da ogni «confessionalismo». Per quanto riguarda la socialdemocrazia, aggiungiamo in particolare che l’accanimento spregiativo col quale i socialisti di Saragat, antichi compagni dell’unità socialista, vennero trattati dai loro commilitoni di un tempo basta da solo a documentare lo spirito fazioso, intollerante e soverchiatore dell’apparato nenniano, forgiato alla scuola bolscevica. In fondo si tratta pure di gente che crede nel socialismo e lavora da anni in patria e per esso ha sofferto in esilio, gente che ha dimostrato molte volte di preferire l’ideale all’interesse. È l’unico partito in Italia che appartiene all’internazionale socialista, della quale fanno parte quasi tutti i partiti socialisti d’Europa. Le ragioni dell’insuccesso non sono tutte chiare e precisabili. Ma se fosse vero quello che affermano i nenniani che parte dei voti saragattiani sono passati a Nenni, perché questi elettori hanno creduto che egli li liberasse dalla dittatura comunista, allora quelli sono voti davvero non perduti definitivamente per la democrazia in quanto l’avvenire si incaricherà di disingannarli. Comunque i Dc che hanno resistito magnificamente, sia all’attacco come alla insidia, sentono ora la responsabilità di dover rappresentare la democrazia in genere, non nel senso di far monopolio della sua causa, che saranno lieti di veder difesa da tutti, ma di sostenere i princìpi e i postulati dell’accordo comune del novembre 1952. La nostra fedeltà alla causa democratica, qualunque cosa avvenga è fuori discussione. L’Italia difenderà la sua libertà dentro e fuori le frontiere.
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Instrada la discussione rilevando che la relazione Gonella si compone di 2 parti: 1) introspettiva e 2) prospettiva per il futuro, quindi programma di quella soluzione che verrà prescelta. Rivolgere la nostra attenzione su ciò che deve essere fatto nei prossimi giorni. Far proposte che abbiano probabilità di attuazione con criteri risolutivi. [Si discute quindi la «mozione d’ordine» presentata dall’on. Gronchi che per «evitare inutili divagazioni propone che questa sessione dedichi la sua attenzione al solo problema del governo»]. Siccome è chiaro che lo statuto presume una prossima sessione dopo la crisi, è in quella sede che verranno esauriti i problemi non centrati in questo. Questo non respinge la proposta Gronchi, ma la soddisfa anche nel senso che l’attuale discussione si restringe al problema del governo. Per questo è stato convocato il presente C.[onsiglio] n.[azionale]. Il tema è questo: come pensate di formare il governo, con che programma e con quali indirizzi. Bisogna però non disperdersi su altri temi pure importanti ma non attuali. [Dopo alcuni interventi e una breve interruzione di De Gasperi, procede l’esame della situazione politica]. Interrompe ancora per dire che aveva chiesto che la Commissione si pronunciasse in un modo o nell’altro. A questo proposito si ha il dovere di dire che un partito che non sa risolvere il diritto dello sciopero in un senso o nell’altro ne pagherà le conseguenze. È inutile che si dica di essere energici se poi si dilazionano e si rinviano problemi come questi. (Si accendono colloqui fra l’oratore e Piccioni, Tosato, Ravaioli). […] La maggior parte degli oratori nel giudicare le elezioni non ha tenuto conto delle interferenze internazionali e del momento internazionale nel quale si sono svolte. Non si tratta dello spostamento a sinistra di voti sindacali, ma di ceti piccolo borghesi. Come si fa a non dar peso alle dichiarazioni di Churchill e alla politica distensiva della Russia? Nenni si è avvalso della dichiarazione di Churchill e l’ha abilmente sfruttata. Poi, dopo si sono fatti investimenti e spese in grande misura, [ma] non si è avuto il risultato logico che ci si poteva attendere. Le riforma danno effetto a grande distanza. Come vecchio discepolo di Toniolo afferma che il nostro programma ci porta alla soluzione dei problemi sociali, ma senza credere che ciò sia immediatamente producente sul piano elettorale. Manca la razionalità nell’elettorato il quale in genere si lascia guidare dal sentimento o da [omissis]. Il nostro governo è stato innovatore e riformatore. Ma la riforma agraria porta benefici da una parte e danni dall’altra. Con questo non desistere, ma non avremo immediati risultati. Credete che se avessimo dato di più agli statali facendo oscillare la bilancia della moneta avremmo avuo risultati maggiori? Nel Sud ha agito il sentimento monarchico. È una realtà. L’incoronazione di Elisabetta ha fatto rinascere il sentimento monarchico anche in altri paesi. Noi abbiamo un sentimento religioso, ma gli altri cosa oppongono ad un sentimento di questo genere? Temo che salti fuori il problema dei governi anche a questo proposito. Non giudichiamo le cose soltanto da un programma che verrà suggerito. Occorre anche una forza suggestiva: salvare l’Italia dal comunismo! In queste forze c’è una parte egoistica, quella di coloro che vogliono conservare. Non vogliamo perdere la libertà! Come si garantisce? Tutte le altre questioni vanno in sottordine. Dite: più energia! In via amministrativa accetto il consiglio, ma in via legislativa. Il prossimo governo sarà un governo di amministrazione e svolgerà anche una politica sociale, ma sul piano legislativo non sarà possibile far passare la legge sindacale e la polivalente . La legge sindacale era una legge di salvezza della democrazia. Era un tentativo necessario. Giustifica la legge elettorale.
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Già ieri vi avevo detto che avrei richiamato la vostra attenzione sui problemi di politica estera che debbono inserirsi nel nostro dibattito e, più che nel nostro dibattito, all’attenzione pubblica. E voi vedrete le ragioni per le quali io faccio questa parentesi alla discussione generale e che non è che io non sappia valutare tutto il contributo che la discussione può dare al programma del futuro governo. Anzi, devo aggiungere che era inteso e presupposto che si elaborassero in questa seduta anche degli elementi programmatici, tanto è vero che io stesso, presidente del governo cessato, mi sono fatto premura di chiedere ai miei collaboratori di ieri i punti necessari per constatare appunto la meta cui siamo arrivati, le mete che ci eravamo prefisse e che non siamo arrivati a toccare e le altre esperienze che abbiamo potuto trarre dall’applicazione delle leggi che abbiamo già votato. Quindi mi riservo di fare alla fine questa discussione, quando altri hanno preso la parola, di riassumere, riagganciandomi all’attività del governo passato, per stabilire in modo chiaro l’attività del governo futuro. È facile rilevare che un governo di progresso sociale, di rinnovamento, non è che può cambiare quella politica che in sostanza ha fatta. Può modificarla, può integrarla, forte di nuove esperienze, ma l’indirizzo fondamentale per fortuna nostra è il medesimo, altrimenti vuol dire che la Dc aveva sbagliato il corso delle cose, il che non è vero. Quindi adesso voglio richiamare la vostra attenzione sopra i problemi di politica estera, i quali hanno avuto una grandissima importanza durante la campagna elettorale e poca qui, in questo dibattito, forse perché crediamo di essere tutti d’accordo o forse perché ci sfugge l’importanza dei contrasti fra la nostra impostazione e quella dei socialfusionisti e dei comunisti. Ci sfugge soprattutto l’importanza di questi contrasti, cioè il criterio discriminante, che noi dobbiamo valutare. Ho scritto le formule che, secondo me, condensano questo contrasto e quindi giustificano il nostro atteggiamento in confronto della proposta e dell’iniziativa di Saragat, come in genere, in confronto dell’atteggiamento della sinistra socialista. Permettetemi di riassumere con una certa rapidità. Quando avrò finito vi accorgerete che avrò fatto anche una relazione sulle ultime discussioni di politica estera, di cui pubblicamente ancora non si è detto . Quando si parla di schieramento democratico in confronto dello schieramento totalitario, riferito alla situazione internazionale, s’intende di contrapporre ai partiti comunisti, socialcomunisti e filocomunisti che accettano la Russia bolscevica come Stato-guida, ne esaltano il regime e invocano la sua estensione per la sua penetrazione in Italia, di contrapporre, dico, l’idea del regime libero, parlamentare e democratico o meglio ancora l’incarnazione di questa idea, cioè la difesa del regime costituzionale democratico esistente di fatto in Europa e in America. Questa difesa è alla base del Patto atlantico e della politica atlantica, giustifica l’alleanza difensiva dei 14 paesi, ispira la politica che il Consiglio della NATO discute e formula con la collaborazione dei rappresentanti alleati. È vero che questa politica, a seconda delle circostanze e degli interessi più immediati dei singoli, può essere o apparire ora più duttile, ora più rigida; e che sui metodi e sui mezzi è sempre aperta la discussione; ma rimane impegnativa, in forza del Patto, la solidarietà della difesa nella sua preparazione, quindi nel comune sforzo di riorganizzare le Forze Armate. Certamente, sull’organizzazione, sui modi di costituire e far valere la volontà comune, sulla strategia e sulla tattica da seguire, vi sono e possono esservi discussioni e differenze. È chiaro che non si è raggiunta ancora nella cosiddetta guerra fredda la necessaria unità d’azione, che la diversa situazione dei paesi alleati in confronto di alcuni problemi porta talvolta a manifestazioni divergenti e contraddittorie, né, in tale fase di sviluppo si può attendere dai vari paesi un conformismo che si avvicini a quello dei paesi satelliti. A tale riguardo l’Italia ha sempre fatto sentire in foro competente la sua libera voce. Il suo atteggiamento è stato quello di una ragionevole e cauta aspirazione verso le soluzioni pacifiche, associata alla più esplicita lealtà verso il patto e l’esecuzione delle comuni deliberazioni. Non è quindi lecito parlare di un nostro «oltranzismo» che si dovrebbe e potrebbe modificare senza ledere il patto. In realtà non esiste un atteggiamento neutralista e para-neutralista che si possa conciliare col rapporto di alleanza. Se l’Italia ritenesse doveroso e opportuno il mutare politica dovrebbe senz’altro onestamente e francamente disdire il patto. Un partito e un governo che volesse fare tale politica, avrebbe l’obbligo e sarebbe costretto ad assumere la responsabilità di quella rottura. Non si tratta dunque di cambiare ritmo di marcia e tono di comportamento, ma come fu ammesso ripetutamente anche da Nenni, di cambiare politica. Per parlare chiaro, ci si consiglia di mutare direzione al nostro cammino e di muoversi in senso contrario. Contrario all’americanismo, si aggiunge, ma non si dice che il senso di marcia contrario conduce verso lo Stato-guida, anche se la marcia può avere delle soste tortuose che si chiamano neutralità. Ecco perché – e qui parliamo solo di politica estera – non mi riesce di trovare fra il cammino di Nenni e il nostro una possibilità di convergenza che giustifichi il tentativo di fare, sia pure per un breve tratto, del cammino assieme. Se ci vedessero camminare in compagnia, la brava gente che incontrassimo per via scuoterebbe il capo e a ciascuno di noi domanderebbe: Quo Vadis? Non è quindi che non vogliamo, per misoneismo o, come si è scritto, per paura del rischio; la vita politica e l’interesse del paese possono chiederci talvolta di passar sopra alla coerenza formale; ma non possiamo sacrificare la coerenza sostanziale. Senza dubbio ci saranno nelle file socialiste, come in altri gruppi, elementi che non sono inseribili nell’antitesi che ho descritto, e l’ulteriore evoluzione potrà mettere in evidenza o valorizzare tali elementi, ma in questo momento non possiamo né individuarli in sé, né ravvisarli nella loro rappresentanza ufficiale. Ma non basta. Quand’anche ci si rispondesse che non si pretende da noi l’abbandono del patto d’alleanza (come se il rimanere a mezza via dipendesse solo da noi!), ma piuttosto il suo graduale annullamento, fra la nostra linea di condotta di politica estera e quella consigliata e voluta dai socialcomunisti: si tratta dell’Unità europea. Noi abbiamo accettato la proposta francese della Comunità di difesa, cioè dell’organizzazione di un esercito comune di difesa europeo, non semplicemente per le ragioni gravi, ma pur sempre contingenti della difesa, ma perché la Comunità di difesa è destinata a diventare, sia pure entro determinati limiti, comunità politica ed economica dell’Europa. Per sei mesi rappresentanti di sei paesi continentali hanno lavorato allo Statuto, raggiungendo risultati di compromesso veramente positivi, imperniando attorno alla esistente Comunità del carbone e dell’acciaio e alla CED, già accolta da sei Stati, una serie di istituzioni e di attribuzioni, sufficienti per iniziare una vita politica comune europea. Molte difficoltà ed esitazioni sono sorte in vari Stati; ma ogni volta che ci raduniamo, nessuno osa spegnere una così grande speranza, anzi la fiamma si ravviva. La verità è che la CED costituisce la garanzia più organica e più solida immaginabile della pace in Europea, perché supera il conflitto sempre rinascente tra la Francia e la Germania, lo supera e lo coordina ai fini della pace in tutto il mondo . È il primo, grandioso tentativo non di sostituire, ma di integrare, con una comunità più larga, la vita delle principali nazioni europee. Nello stesso tempo essa è garanzia di pace anche verso la Polonia e la Russia. La Germania dell’esercito comune non può sortire per attaccare chicchessia: del resto le stesse idee di Churchill per la Locarno anglo-russa possono essere interpretate e applicate come garanzie integrative. Ed infine, quale altra soluzione pacifica e tranquillante si propone? Nessuna. La Germania nella NATO fu proposta, e sollevò fierissime obiezioni. La Germania disarmata e controllata è la soluzione post-bellica di Potsdam, ma chi può affermare che si tratta di [una] soluzione che porti pace interna ed esterna? Non mi voglio attardare nel prevedere i pericoli di un tale periodo che, anche se imposto, non potrebbe essere che transitorio. Perciò, quando insistiamo per la CED, non seguiamo un sogno fantastico, non predichiamo misure di guerra, ma tendiamo con tutte le nostre forze verso la pace. Obiezioni, perplessità, deficienze, moltissime come in tutte le cose umane, ma dobbiamo lavorare con tenacia e con fede con gli elementi costitutivi oggi possibili e utilizzabili. Mi si accusa di eccessivo americanismo. Ma io mi sento uomo libero anche di fronte alla America. Sono grato per quello che l’America ci ha dato e ci dà, ma la nostra aspirazione è che il suo aiuto si esplichi accettando le nostre merci e soprattutto i nostri lavoratori. Lo dissi a suo tempo a Truman e l’ho ripetuto al presidente Eisenhower. Il nostro ideale è di non pesare in nessuna maniera sui contribuenti americani, ma chiediamo agli americani, tutti, di buona volontà (e tale desiderio ultimamente è stato manifestato anche all’ambasciatrice Luce) di non chiudere le dogane alle nostre esportazioni e soprattutto di non negarci le occasioni di lavoro. È la fraternità del lavoro, sia per le commesse all’interno sia per il lavoro all’estero, che rinsalda la nostra e la democrazia di tutti, e costituisce la permanete linea di difesa. Così concepiamo e abbiamo concepita la Comunità atlantica, così siamo grati all’America per l’appoggio che essa dà all’unità europea. Politica atlantica e politica europeista sono solidali. Bisogna procedere uniti alla difesa e nella costruzione della pace. Ogni formula, ogni trattato cartaceo sarebbe vano, se lasciasse dietro di noi un’Europa lacerata dagli antichi sospetti e indebolita dalle vecchie gelosie e dai ricorrenti egoismi. Si è invocata una iniziativa italiana. L’iniziativa è questa: l’Europa; non è iniziativa tattica nostra, benché dei grandi italiani sia l’ispirazione universalista! Noi saremo accanto alla Francia in amicizia fraterna, se la Francia, che ha elaborato il trattato, prenderà la testa del movimento per attuarlo, per attuarlo a tempo, in modo che esso diventi argomento e strumento costitutivo e definitivo di pace. […] Rileva che il programma massimo per un governo, nelle circostanze attuali, deve essere quello di assicurare piena occupazione della mano d’opera. La meta è ancora lontana: essa non appare del tutto raggiungibile che con un potenziamento radicale della nostra produzione agricola e industriale, e tale potenziamento date le scarse risorse naturali e l’esuberanza della popolazione è realizzabile, solo se l’Italia diventa paese trasformatore delle materie prime altrui, vale a dire se riusciremo ad abbassare i costi della nostra produzione industriale e agricola a livello inferiore o per lo meno uguale al prezzo degli altri paesi e ci inseriremo così in pieno nell’economia mondiale. Evidentemente questa non può essere opera del solo governo, ma non può che derivare dal concorso di tutte le forze economiche; ma il governo non dovrà mai perdere di vista questa meta necessaria, e ad essa dovrà tendere favorendo al massimo la produzione e l’esportazione, distribuendo adeguatamente i pesi fiscali, aiutando la formazione e l’afflusso di risparmio italiano ed estero verso investimenti produttivi. Il presidente sottolinea quindi i piani per l’incremento produttivo già in sviluppo, e che rappresentano perciò una direttiva di marcia da proseguire. Non si vuole sostare nell’opera più immediata e più diretta degli investimenti statali, cioè: lavori pubblici, Cassa per il Mezzogiorno, bonifiche e programmi per la agricoltura, riforma fondiaria. Questi investimenti hanno dato un’impronta di eminente socialità all’azione dei passati governi da me presieduti e caratterizzano la attività rinnovatrice del governo che ne verrà ad assumere l’eredità. Poiché le leggi già deliberate dal Parlamento, come quella sulla Cassa del Mezzogiorno, quella per il Centro-Nord, quella sulla riforma fondiaria, sull’occupazione, sulla montagna, sui fiumi e torrenti, sugli acquedotti, e sul credito, bonifiche, cantieri, INA-Casa ecc., gravano già per gli anni 1953-1958 sui bilanci dello Stato per 1.078 miliardi, spesa che sarà trasformata in lavoro o fonti di lavoro. Si tratterà dunque in prima linea di integrare, eventualmente correggere, intensificare tale sforzo. De Gasperi quindi accenna ai problemi della riforma agraria, dei contratti agrari e della piccola proprietà coltivatrice, sottolineando le convenienti prospettive del prolungamento dell’INA-Casa [e] dello sviluppo delle iniziative della Cassa del Mezzogiorno, e dell’ulteriore incremento e perfezionamento della rete stradale, per cui sono già stati progettati imponenti lavori, nonché al piano relativo agli acquedotti che ne prevede l’ulteriore impianto nei comuni che ne sono sprovvisti. Per quanto riflette il settore tributario si dovrà: a) continuare, con una sempre più ferma applicazione, l’imposta progressiva sul reddito con una contemporanea riorganizzazione dei sistemi amministrativi; b) disciplinare le sanzioni fiscali a carico degli evasori, aggravandole nei casi di maggiore entità e di obiettiva evidenza e semplificando, per altro verso, l’intera materia. De Gasperi tiene a sottolineare che punto di partenza di ogni iniziativa e attività futura dovrà essere la più ferma difesa della stabilità monetaria. Per favorire l’aumento della produzione e della esportazione si dovranno ridurre alcuni oneri diretti, specialmente sull’artigianato e le piccole industrie e introdurre una nuova disciplina per il rimborso dell’esportazione. Alle merci esportate si dovrebbe concedere un rimborso delle imposte pagate in Italia, in base ad aliquote uniformi, più sensibili per i prodotti finiti e meno elevate per i prodotti lavorati. Rilevando gli aspetti della situazione, De Gasperi afferma che la pazienza deve essere oggi la virtù di qualsiasi governo che si presenterà al Parlamento. Avete raccomandato a me e al mio successore il coraggio. Ma il coraggio principale che bisogna avere è il coraggio della pazienza. De Gasperi termina rilevando la costruttività dei dibattiti svolti all’assemblea e compiacendosi con quanti ad essi hanno dato il loro contributo .
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Le due giornate di esplorazione dovevano darmi una impressione generale sulla situazione parlamentare soprattutto. Ora devo concludere che non sono riuscito a chiarire i termini in modo tale da poter dire: «la conclusione è positiva» o «la conclusione è negativa». Mi sono mancati gli elementi che ci danno una situazione di maggioranza precostituita. I voti dei partiti appartenenti al collegamento sarebbero sufficienti a dare una maggioranza di 303 voti, come voi sapete, su una maggioranza assoluta di 295. La maggioranza sarebbe assicurata anche se tutti fossero presenti e tutti fossero i votanti; ma voi conoscete le polemiche che sono sorte a proposito di questa situazione ed è inutile che io torni a rivangarle. Divenuta incerta la maggioranza di collegamento non esistono elementi per dire che un’altra maggioranza si è formata o sia in formazione e quindi non ho potuto portare delle conclusioni impegnative al presidente della Repubblica. Anzi, voi avete sentito dal comunicato che la mia impressione spregiudicata e, credo, che ammettiate anche disinteressata, è che si dovrebbe ricorrere ad una figura meno caratterizzata politicamente che, in questo momento di incertezza, fosse più atta a intervenire e far pesare la bilancia in un senso o nell’altro. Avevo fatto delle proposte a tale riguardo. Mi ero permesso dei suggerimenti al presidente della Repubblica ma il suggerimento non è stato accolto. La discussione è stata lunga e quello mi dà la prova delle affettuose insistenze che il presidente ha usato verso di me; e, poiché il suo appello si riferiva alla situazione internazionale e alla situazione interna del paese, e toccava degli interessi che mi parevano così rilevanti, non mi sono sentito, alla fine, di insistere nel mio diniego, ed ho risposto chinandomi dinanzi a questa volontà che mi è parso interpretare fosse il desiderio, fosse l’ansia del paese. Comunque volontà autorevole, volontà responsabile. Perciò, secondo la solita formula, l’ho accettato con riserva. Questa formula tradizionale, come sapete, lascia una certa libertà all’incaricato e al capo dello Stato. Vorrei dirvi qualche cosa sulle impressioni che mi accompagnano in questa dura impresa. Ho tentato in una serie di colloqui coi rappresentanti dei vari partiti di discutere da uomo ad uomo sopra i problemi, di toccare la corda comune dell’interesse del paese e degli ideali che ci muovono. Ho passato in rassegna tutti i gruppi parlamentari, tutti i rappresentanti di partito e direi che, dopo lungo tempo, ho rivisto anche uomini con i quali non avevo più comunanza. Ho dimostrato che come è doveroso, dalla franchezza della polemica si può giungere in momenti difficili anche alla spiegazione formale e alla discussione dialettica e ho cercato di venire al fondo delle obiezioni. Devo dire, ad onore di tutti, che la questione personale non ha giocato gran parte. Nessuno ha ricordato il tono di battaglia che abbiamo dovuto seguire durante la campagna. Nessuno ha fatto delle osservazioni di carattere odioso di esclusività o posto veti, come da qualche giornale si è accennato. In base a queste discussioni si è cercato piuttosto di indovinare, di divinare la situazione e soprattutto di prevedere le prospettive dell’avvenire poiché è chiaro che un governo non si fonda soltanto sulla situazione presente, ma si fonda sopra le prospettive dell’avvenire immediato; ed ecco perché certe questioni hanno avuto una importanza così grave. Mi si è accusato di aver posto questioni che apparentemente sono secondarie e non di diretta importanza per l’Italia, come quella della organizzazione della Comunità di difesa e del Patto atlantico, di averle poste come una barriera dinanzi ai vari interpellanti e ai vari interlocutori, ma in realtà è dimostrato che non era certo la mia intenzione. Sentivo il dovere di chiarire, dinanzi a me, la via affinché per me, o per chi mi dovesse succedere, la marcia fosse possibile: e qui il problema è vario a seconda dei rappresentanti dei partiti con i quali ho parlato. Ho cominciato a parlare coi comunisti – sono andato per ordine alfabetico –. Nei comunisti ho trovato quel tentativo di evadere dai punti discriminanti, di girare le difficoltà, il che se fosse diretto a superare contrasti, evidentemente costituirebbe uno sforzo notevole: se invece fosse inteso a eludere la chiarezza non contribuirebbe a una determinazione di responsabilità. Quando Togliatti distingue tra Patto atlantico, strumento stipulato, trattato, e politica atlantica, sfugge alla questione poiché esistono il Patto atlantico e la organizzazione atlantica, esiste un programma atlantico, esiste un impegno che riguarda la ricostituzione dell’esercito, la disciplina di questo esercito soprattutto, la tendenza politica alla sicurezza; tutto questo complesso si chiama comunemente Patto atlantico. In realtà di tutto ciò il Patto atlantico propriamente detto non è che lo strumento diplomatico; l’attività deve essere logica, consona e unitaria. Su questo problema abbiamo avuto discussioni varie. La più interessante è stata la polemica coi socialdemocratici da una parte e con Nenni dall’altra. Voi lo sapete perché. Ora, poiché l’on. Nenni ieri vi ha intrattenuto su quello che ha detto e io non sono stato in grado di farlo come era mio dovere di riserbo prima della comunicazione al presidente della Repubblica, forse mi è lecito integrare il colloquio completandone l’impostazione. Io ho chiesto a Nenni le sue convinzioni circa la politica atlantica e la CED. Nenni mi ha riposto che se avesse avuto i voti della Dc, cioè gli 11 milioni di voti, avrebbe posto la questione della denuncia del Patto atlantico e di una politica estera radicalmente nuova, ma, essendo realista e sapendo di rappresentare soltanto tre milioni e mezzo di elettori, si è limitato a chiedere che cessasse l’oltranzismo atlantico. (E su questa parola, oltranzismo, come in genere su quelle che finiscono in «ismo» si viene in genere quando le cose sono poco chiare, come su altrettanti simboli). Comunque Nenni voleva intendere che secondo lui non si dovrebbe essere all’avanguardia delle posizioni più spinte. Guardiamo gli altri paesi: l’atlantismo dell’Inghilterra con Attlee era una cosa, con Churchill è diventata un’altra. Perché, domandava Nenni, non poteva essere la strada dell’Italia? Il Patto atlantico, continua Nenni, potrebbe restare uno strumento d’archivio come finora sono stati i patti russo-francese e russo-inglese, strumenti burocratici. Basterebbe una certa attenuazione. Abbiamo combattuto vigorosamente il Patto atlantico prima dell’approvazione, ma ora la situazione obiettiva rende meno necessaria, anzi inutile, una reazione così tenace. Circa la CED Nenni ha espresso contrarietà netta alla formula con cui oggi si presenta tanto più che, secondo le sue previsioni, la CED difficilmente andrà in porto, perché la Germania probabilmente nei prossimi giorni cambierà governo a seconda delle elezioni. Anche se non lo cambiasse Adenauer vincerebbe soltanto di misura e l’unificazione della Germania avrebbe una prevalenza sulla partecipazione tedesca alla CED. Io ho ribattuto che questo problema era stato trattato, esaminato, alla Conferenza di Parigi dei sei ministri. Si concluse, sebbene non ufficialmente, che la compatibilità fra la unificazione della Germania e la sua integrazione pacifica nella CED, è assicurata. Io ho ammesso naturalmente che ci possono essere delle difficoltà per una decisione in materia nei prossimi mesi. Però ho fatto osservare che il Partito socialista francese ha assunto una posizione leale, chiara dinanzi al problema della CED come ancora ieri ha indicato la mozione del Congresso del Partito socialista francese. Nenni mi ha risposto che questa non sarebbe altro che tattica e che egli non credeva che la maggioranza socialista francese fosse favorevole al sistema. Ho replicato che, al contrario, tutti i partiti socialisti di Europa sono favorevoli: o con entusiasmo o in linea di principio, o favorevoli senz’altro, oppure a certe condizioni. È il Partito socialista italiano che si trova in diverse condizioni rispetto a tutti gli altri ed è l’unico che non fa parte della Internazionale socialista. Secondo Nenni la questione non sarebbe pertinente perché fra l’altro parecchi di quei socialisti non sarebbero più socialisti perché avrebbero perduto contatto con i princìpi del marxismo. Ho insistito su questa anomalia del socialismo italiano che è assolutamente al di fuori non soltanto della organizzazione internazionale del socialismo ma al di fuori del programma, delle direttive del socialismo internazionale. E questo è un fenomeno di cui noi soffriamo. Io ho dimostrato, ad esempio, che ulteriormente, nell’Assemblea della CECA si è costituito il primo organismo internazionale di carattere socialista dove c’erano socialisti tedeschi, francesi, belgi e che là mancano i socialisti italiani, almeno come Nenni li concepisce. È veramente dunque un problema specificatamente italiano. Sono quindi passato a considerare i rapporti tra il Psi e il Pci; in quale grado i socialisti sono autonomi dai comunisti? La domanda è lecita perché, anche non volendo entrare nelle faccende interne di partito, esiste nel paese una enorme preoccupazione circa questi legami. E non è una preoccupazione della «destra clericale» come da qualcuno si dice ma è una preoccupazione di tutti gli uomini liberi che temono che questi legami portino a uno slittamento verso un regime comunista, cioè verso la perdita di ciò che per noi è più prezioso: un regime di libertà. Non sono entrato formalmente nel patto d’unità di azione anche perché Nenni avrebbe potuto magari dire che esso, come aveva detto del Patto atlantico, poteva essere considerato uno strumento di archivio, burocratizzato. Ho insistito chiedendo in qual grado i socialisti siano autonomi rispetto ai comunisti, non nel senso di disponibilità libera dei propri atti, ma come sganciamento interiore dalle concezioni dell’estrema sinistra totalitaria. Io non voglio finire la mia vita politica aprendo la porta a questa fine, mediata o immediata, delle democrazia e Nenni mi disse: «risponderò con chiarezza. L’andata dei comunisti al potere non la vedrei come una sciagura, ma come un semplice fatto di fronte al quale mi collocherei con grande serenità. Tu ti riferisci sempre alla sorte dell’Ungheria, Bulgaria, ecc. Ma in quelle nazioni la politica si è svolta attorno all’occupazione dell’esercito russo. E che cosa di diverso – ha soggiunto Nenni – sarebbe accaduto qui se avessimo avuto i russi a Roma o a Milano? Le condizioni di fatto sono da noi del tutto diverse. Il patto di unità d’azione – è sempre Nenni che parla – è, come tale, un foglio di carta il più innocente e superato, ma esso è espressione di una situazione e di una politica che è essenziale mantenere, e cioè dell’unità della classe operaia. Voi avete verso i comunisti un motivo di natura “ideologica” che noi invece non sentiamo affatto e che ci fa guardare i comunisti non con terrore. Può anche essere che domani, in una situazione meno insidiata per la democrazia, il socialismo possa fare anche una sua strada più differenziata». «Il Pci è oggi estremamente abile. Voi vi richiamate spesso a Turati, ma che avrebbe potuto fare Turati se avesse avuto di fronte non un asino teologico come Bordiga o un Bombacci , che esasperavano le situazioni alleandosi persino all’estrema destra per non seguire iniziative ragionevoli, ma uomini seri e preparati come i quadri dell’attuale Pci, formazione moderna inserita nella vita nazionale? Noi non possiamo prescindere dal fatto che se vogliamo essere oggi qualcosa e vogliamo assumere iniziative o orientamenti politici, non possiamo farlo altro che con l’adesione dello schieramento comunista. Una operazione del tipo di quella richiesta da Saragat non sarebbe altro che aggiungere la mia persona a quella di altre isolate; avremmo un Saragat o un Romita di più. E voi sbagliate lottando contro i comunisti in tempo di pace con i metodi reazionari: li rafforzate. Se si inacidisse la situazione sui vecchi schemi delle rotture verticali il comunismo non farebbe che progredire. Il socialismo invece può svilupparsi nella distensione e nella risoluzione decisa, seppure graduata nel tempo, di quei problemi sociali, sulla cui non soluzione prospera il comunismo. Guardate almeno alla Cgil che non può essere misconosciuta soltanto perché ha alla testa un comunista». Questo dei rapporti tra Psi e Pci – ha ripreso l’on. De Gasperi – è il problema dialettico che credo abbia contribuito a chiarire, nella discussione, parecchie situazioni. Questo che vi riferisce non è un verbale ma è un resoconto fatto con attenzione e con la massima fedeltà e garantisce il contenuto anche se non esattamente la lettera dei colloqui. Alla fine del colloquio con Nenni, l’on. Morandi, che si distingue sempre per un tenace silenzio, ha aggiunto: «nulla ho da aggiungere a quanto detto dall’on. Nenni». Voi mi domanderete che cosa hanno dichiarato gli altri partiti, quelli soprattutto di destra, i missini ed i monarchici. Dirò una cosa che interessa e che ho cercato con attenzione come si cercano i punti di discriminazione. Ho detto ai monarchici: «in quale maniera, con quali manifestazioni, con quali espressioni programmatiche, con quali riserve eventualmente voi intendereste tener conto della vostra specifica caratteristica che appare nel titolo che avete scelto?». Mi è stato risposto che il Partito monarchico si riserva, quando fosse il momento opportuno – e oggi evidentemente non è – di ricorrere con istituti costituzionali alla riforma istituzionale del regime. Non hanno aggiunto di più né io avevo interesse di sollecitare ulteriori dichiarazioni. Riguardo al Msi, vibrano nelle dichiarazioni più sentimenti che idee. Abbiamo parlato molto di Trieste. Ne avevamo parlato, naturalmente anche con altri. Se ne è parlato con confidenza come italiani. Abbiamo trovato un punto di cordiale affiatamento pensando all’avvenire del nostro paese. E i rappresentanti del Msi hanno fatto presente che specialmente la gioventù chiedeva un gesto che annullasse il trattato. Ho spiegato che le clausole più umilianti e anche tutte quelle lesive della sovranità nazionale, come quelle relative alla liquidazione degli armamenti, furono rimosse anche se quando lo ottenemmo non demmo abbastanza pubblicità a questo fatto. Non abbiamo potuto ottenere l’annullamento delle clausole territoriali ma, questa, appunto, era la questione che essi stessi avevano previsto impossibile a far rivivere in questo momento. Non sono state chiacchiere: veramente gli interlocutori hanno cercato di superare difficoltà polemiche per vedere concretamente i problemi che interessano il paese e che ne agitano la vita. Lasciatemi dire che fu una grossa fatica. Non è facile parlare su argomenti così diversi con persone così diverse, superare passioni e polemiche così violenti. Lasciatemi dire che questi colloqui sono una specie di rilevazione dei partiti. Vuol dire che in certe situazioni, se siamo impegnati in una discussione utile, possiamo affrontare veramente le difficoltà. Le abbiamo risolte? No. Se le avessimo potute risolvere sarei qui con un più lieto viso, ma sono invece più accorto pensando al nuovo incarico che mi attende. Nessuno di voi penserà che dopo otto anni non avessi sospirato una vacanza, anche breve. Però, amici miei, una delle gravi delusioni che mi sono costate amarezza è stata nel mio passato, quella di aver incontrato tanti uomini politici che nei momenti difficili si ritiravano riservandosi di tornare in momenti più favorevoli. Non voglio farlo. Credo che questi momenti siano duri, credo che bisogna sacrificarsi e se è vero che gli uomini si sobbarcano e si bruciano, è meglio che si brucino coloro che hanno 70 anni passati come me, anziché lo facciano i giovani ai quali è affidato l’avvenire del paese.
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La visita fatta ai due presidenti è visita di dovere per cui devo dire che è visita anche molto utile per orientarmi sopra una situazione parlamentare ed è visita anche amichevole perché trova dei personaggi che per la loro esperienza, per le loro attitudini possono essere collaboratori disinteressati ed autorevoli dal loro punto di vista, dal loro settore, per l’opera comune. Io sono in questo stadio: mi pare che in tutte le manifestazioni la stampa lo abbia compreso. Le consultazioni che ho avuto, le quali erano meno formali del solito perché non fatte con un incarico specifico, sono tuttavia sufficienti per stabilire le posizioni programmatiche e tattiche dei singoli partiti in quanto queste posizioni sia possibile fissarle oggi. È per questo che il risultato di tali contatti venne formulato in una formula negativa dinanzi al capo dello Stato, cioè che questi contatti non avevano assicurato una maggioranza precostituita. Né è da ritenere che qualche altro contatto possa cambiare questa situazione perché ciascun partito si riserva il suo atteggiamento definitivo, ciò che vuol dire il suo «voto di fiducia», per il momento in cui, dinanzi ad un governo costituito e ad un programma definito, possiede tutti gli elementi per una decisione; e tale decisione, per i nostri riflessi della politica nello scacchiere parlamentare, non è una decisione che derivi soltanto dalla logica inferiore, ma deriva anche dagli effetti appunto dello scacchiere parlamentare. Perciò io potrei avere nei prossimi giorni dei contatti integrativi esplicativi ulteriori, ma questo sarà necessario, se in una caso particolare verranno richiesti. Ma il mio compito principale è di formare il programma e di costituire un governo, creando quella situazione concreta di fronte alla quale i partiti si sono riservati di prendere una decisione definitiva. Quindi il mio compito di domani e dopo domani è questo: formare il programma di governo. Ho detto che non escludo dei contatti esplicativi, integrativi, che siano necessari per fissare meglio gli atteggiamenti, ma in via di massima non c’è il negoziato che tenti di arrivare ad una maggioranza precostituita. Ho avuto l’impressione che questo, oggi, non sia possibile perché non dipende più da semplici dichiarazioni generiche, ma dipende dal fatto che ciascun partito si riserva di prendere il suo atteggiamento dinanzi ad un programma concreto ed agli uomini chiamati ad attuarlo. Ecco perché devo pensare adesso al programma ed agli uomini.
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Parlo anche a nome dei miei colleghi ministri. Vi prego di rilevare il significato del giuramento che, a poca distanza dalla costituzione, non può essere una formula vuota: fedeltà alla Repubblica; fedeltà alla Costituzione e soprattutto subordinazione di ogni tendenza di parte agli interessi supremi della nazione. Questo più che un programma è un impegno sacro che non esige da noi alcun commento: è eloquente per sé; direi che, poiché è legato profondamente alle convinzioni ed alla nostra coscienza civile, rappresenta anche una garanzia per tutti coloro che amano la libertà, la democrazia, il diritto e soprattutto per quanti hanno dinanzi allo sguardo e nel cuore l’avvenire dell’Italia. Non vorrei, in questa occasione, fare alcun accenno polemico, ma, egregi colleghi giornalisti è la stessa stampa che non me ne dà occasione. La composizione del ministero, è vero, è stata laboriosa, ma non è vero che questioni personali abbiano assorbito tutti gli 8 giorni (non di più furono infatti necessari). Ho consacrato i primi giorni all’esame della situazione finanziaria ed alle direttive della politica economica. Trattandosi di un governo omogeneo era ovvio che questioni di tale natura potessero venire affrontare già prima della formale costituzione del gabinetto, mentre, quando si tratta di superare difficoltà di un governo di coalizione, si affida la soluzione di certi problemi in una certa misura alla necessità del compromesso in sede di Consiglio dei ministri. Quanto alle persone, il ritardo fu dovuto alle mie insistenze presso l’on. Scelba perché, fino all’ultimo momento, io non volevo adattarmi a rinunciare ad una collaborazione che mi era così cara, una collaborazione che non credo sarebbe stata, e vorrei dire sarà, tanto utile e forse necessaria per il paese. Quando però la sua risposta fu definitiva – e forse nelle precedenti conversazioni la speranza mi aveva fatto credere che avrebbe accettato – allora, come avete visto, ho chiuso rapidamente, superando le difficoltà che si pongono sempre durante la formazione di un gabinetto e che consistono nella necessità di conciliare diversi criteri, quali ad esempio il giusto equilibrio nella rappresentanza della Camera e del Senato e la rappresentanza delle diverse regioni. Ad ogni modo potete smentire nella maniera più decisa che l’inclusione o l’esclusione dell’on. Scelba o di qualsiasi altro membro del governo sia stata oggetto di negoziazione o di contrattazione con qualsiasi partito di destra, di sinistra o di centro. Che io dovessi consultare i due direttori dei gruppi Dc era ovvio e corrisponde ad una procedura seguita sempre nel passato nei confronti di tutti i gruppi che pregiudizialmente intendano partecipare al governo. È vero che tale procedura può essere materia opinabile, perché le formule da seguire nella consultazione non sono rigide, esse devono comunque essere tenute entro certi limiti perché debbono conciliarsi con il regime costituzionale parlamentare. Può darsi che, da qualche manifestazione di stampa, taluno abbia creduto di arguire che vi possano essere stati addirittura degli intrighi. È questa una parola che io vorrei assolutamente escludere dal nostro vocabolario. Per quanto ci risulta, posso dire che intrighi non ve ne sono stati in nessuna maniera e di nessuna natura. Non ho poi bisogno di affermare e l’ho già detto prima nel rilevare il contenuto e la formula del giuramento, che il governo, riuscito monocolore in ossequio alla situazione politica e non per una volontà precostituita, sente più che mai il dovere di subordinare le visioni particolari agli interessi generali del paese e di interpretare le esigenze della libertà e della democrazia che ebbero tanta convalida nello stesso risultato delle elezioni. Voi mi conoscete, conoscete la storia dei miei precedenti governi, conoscete lo sforzo continuo da me fatto per andare verso una certa concentrazione. In questo momento il meglio che si potesse fare era di non forzare la situazione, di non costringere uomini che erano in una situazione ancora fluida ed in evoluzione, verso posizioni determinate o precostituite. Presenteremo un programma di lavoro al Parlamento, dove si svolgerà un ampio dibattito. Ben venga: noi lo affronteremo. Ognuno potrà non soltanto dire il suo pensiero politico della situazione. Ci batteremo per idee chiare in politica interna e in politica internazionale. Sentiamo che è proprio la chiarezza programmatica quella che ci dà una forza ed una energia superiori perché sentiamo la responsabilità di fronte al paese. E non sfideremo nessuno. Non è vero quello che da taluno è stato scritto proprio stamane che, cioè, noi sfidiamo il Parlamento. Noi ci affidiamo al Parlamento. Ci affidiamo al Parlamento come espressione del giudizio della pubblica opinione e diciamo: non esiste un governo De Gasperi, non esiste un governo monocolore, non esiste un governo clericale o di Democrazia cristiana, esiste il governo, che in questo momento rappresenta e vuole rappresentare l’interesse della nazione, la salvezza della democrazia. Non dimenticate che la lotta che abbiamo ingaggiato durante la campagna elettorale potrà essere stata più o meno fortunata, ma sempre è stata una lotta per consolidare in Italia l’affermazione della democrazia, impedire cioè che questo paese vada a finire in una situazione che non occorre che io qui vi descriva; lotta per salvare la libertà di tutti. Voglio ora aggiungere una parola. Troppo facilmente dagli avversari si parla di corruzione. Io ho l’intima convinzione che tutti i miei colleghi hanno le mani purissime, che possono affrontare qualsiasi discussione pubblica. È sempre difficile ad ogni governo di rispondere ad accuse d’una tal natura quando sono generiche, quando non vengono prodotti fatti concreti. È difficile, ma l’opinione pubblica deve sentire che, se ci fossero abusi nell’amministrazione, noi vigileremo con tutta la nostra cura per eliminarli e reprimerli. Devo sentire soprattutto che nel nostro spirito fermissima è la decisione di essere noi stessi incorruttibili. E non dico, beninteso, incorruttibili in senso venale, perché sarebbe semplicemente anche soltanto il parlarne, ma voglio dire incorruttibili di fronte alla tentazione che può venire da due parti: da quella delle velleità dittatoriali e da quella delle deduzioni della demagogia, pericolosa sempre per il nostro paese.
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Era inteso che appena il presidente della Repubblica avesse concluso le consultazioni con la designazione dell’incaricato , io avrei preso qualche giorno di riposo. Ne ho bisogno, perché dall’inizio della campagna elettorale in qua non ho avuto né sosta né tregua. Non ho accettato di riprendere in mano la soluzione della crisi, perché credo che il vicepresidente Piccioni sia più adatto di me a superare le nuove complicazioni. Egli sa di poter contare su tutta la mia affettuosa solidarietà. Confido e mi auguro che tutti gli amici politici e gli uomini di buona volontà agevolino il suo compito. Esso esige un alto senso di disciplina morale e una chiara visione dei supremi interessi del paese. Conto di rimanere a Sella per qualche giorno in assoluto riposo. Ho portato con me le egogle e le bucoliche di Virgilio. Leggete la Bibbia nel libro dei Proverbi: al versetto 14-125 vi è scritto: non deviare né verso sinistra, né verso destra.
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Ho una dichiarazione personale da farvi: ho subito questa notte una umiliazione notevole dinanzi al risultato elettorale, umiliazione che è frequente nelle lotte democratiche, ma credevo di poter evitare se le intenzioni e i propositi con i quali mi ero dichiarato disposto ad accettare questo posto fossero stati compresi. Ho avuto dapprima l’impressione che ne dovessi tirare le conseguenze e cioè che un voto dato con questa riserva di una parte notevole del Consiglio nazionale, non mi metteva nella condizione di esercitare quella funzione mediatrice che io intendevo ed intendo svolgere. Quindi la mia prima impressione, impressione immediata, se dovevo giudicare secondo il mio stato d’animo, senza risentimenti ma come uomo che ha trattato le conseguenze di un tale atteggiamento, era quella di rinunciare alla missione. Avevo dichiarato ieri che naturalmente la mia accettazione è anche in rapporto ai nomi dei collaboratori che mi verranno dati. Quindi c’è ancora un certo condizionamento nella mia decisione. Forse il tempo passa troppo veloce e non abbiamo avuto l’occasione di intenderci e di capirci; soprattutto io non ho avuto la possibilità di presentarmi in modo tale per cui fossero chiare le mie intenzioni e le mie idee con le quali io intenderei amministrare il partito. Ho voluto però considerare che questo fatto non è un fatto mio specifico, individuale, se questo fosse stato avrei dovuto risolverlo immediatamente come ho accennato: è un fatto che riguarda anche la vitalità e l’organizzazione del partito. Non so se fuori, nelle sezioni, fra tanta gente che mi ha visto durante le campagne elettorali, che conosce la mia attività, si scandalizzerebbero di un mio atteggiamento di risentimento; e pensando a questa brava gente alla quale facciamo appello nei momenti decisivi, mi sono detto questa mattina che dovevo passare sopra alla manifestazione di dissenso, perché, altrimenti, se dovessi giudicare secondo logica, dovrei arrivare alle conclusioni dette prima. Direi che si tratta di un differimento fino al prossimo congresso nazionale, se nelle riunioni future del Consiglio nazionale attraverso l’esame della mia e della nostra attività, si verrà a creare quel necessario psicologico avvicinamento che renda possibile la mia missione mediatrice. Altrimenti io non eserciterei un ufficio utile se dovessi essere il rappresentante di una parte o di una tendenza contro l’altra e soprattutto se mi dovessi trovare di fronte ad una opposizione precostituita. In questo ultimo caso meglio sarebbe affidare l’incarico ad un giovane, alle prime armi, e in una posizione dialettica diversa. Uno, alla mia età ormai con le esperienze fatte e con la considerazione acquisita, non è adatto a questa dialettica. Perciò io vorrei concludere che se la lista dei collaboratori che mi darete sarà tale da rendere possibile questa collaborazione delle diverse parti e tecnicamente possibili progressi del partito, io tenterò sempre nella speranza che le obiezioni che sono state qui fatte possano venire superate nel prossimo futuro. Questo per quanto riguarda la mia persona. Devo aggiungere ancora che ieri è mancato, forse per una mia svista, l’annuncio che il segretario amministrativo [che] deve essere eletto dal Consiglio nazionale è dimissionario da parecchio tempo. Il sen. Restagno ha insistito anche recentemente e a parecchie riprese presso la vecchia Direzione perché venisse sollevato da un peso che abbiamo sentito ieri quanto sia grave e quanta responsabilità comporti. D’altro canto non vogliamo rinunciare alla competenza e alla esperienza del sen. Restagno e quindi vorrei arrivare a trovare il sostituto in simile incarico, un successore a Restagno; ma incaricare la Direzione di provvedere temporaneamente, sperando che la Provvidenza mandi un uomo con altrettanto spirito di sacrificio e di abilità pari a quella di Restagno. Direi con questa soluzione si tende ad identificare nella direzione politica anche quella amministrativa. Questo incarico potrebbe essere immediatamente affidato al vicesegretario politico. Però l’opera del sen. Restagno può essere ancora molto utile e ambita, perché riguarda una attività per la quale si riscontra una certa carenza di uomini preparati. Si tratta inoltre di creare accanto a questa amministrazione (che curerebbe la parte ordinaria) una commissione finanziaria, la quale deve provvedere soprattutto a procurare i mezzi, incanalandoli poi nell’amministrazione ordinaria. Questa commissione dovrebbe essere anche una specie di consiglio d’amministrazione, almeno per la parte consuntiva, riguardante i bilanci e le spese del partito. Su questo vi farei delle proposte concrete nel prossimo Consiglio nazionale, sottoporrei cioè le soluzioni provvisorie che avremo trovato ed eventualmente le formule definitive che vorremmo proporre. Evidentemente non è necessario cercare frasi di congedo nei confronti del sen. Restagno, al quale voglio manifestare ancora il desiderio di volerlo come nostro collaboratore, magari in una forma diversa. Però è giusto ricordare di nuovo lo spirito di sacrificio che egli in 10 anni ha dimostrato attivissimamente nel raccogliere fondi e nell’amministrarli; e soprattutto lo spirito di coraggio col quale ha affrontato certe soluzioni, che forse non molti avrebbero subite ed affrontate. E credo di interpretare il vostro sentimento esprimendo la più viva simpatia e più viva gratitudine all’amico Restagno . (Applausi vivissimi).
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Come ognuno ha potuto rilevare dal mio discorso al Consiglio nazionale della Democrazia cristiana io non ho proposto e nemmeno parlato di un «fronte anticomunista». L’espressione venne usata dall’on. Gonella nella sua relazione retrospettiva , ma a quanto risulta dal contesto, non in senso organizzativo. È vero invece che io, in un discorso rivolto all’avvenire, ho affermato che la Democrazia cristiana per suo programma e per suo spirito sarebbe disposta alle più ardite riforme sociali e soprattutto a collaborare dentro e fuori il governo con i rappresentanti dei Sindacati, quando tali Sindacati fossero in grado di dimostrare la loro indipendenza nei confronti del comunismo accentratore e quindi a fornirci delle garanzie organiche e personali che il sistema democratico sarebbe al sicuro contro colpi di mano e insidie dittatoriali. Aggiungo che non ho parlato di elezioni, ma esprimendo l’augurio di lunga vitalità al ministero Pella, le ho supposte evidentemente non attuali e molto lontane. È più ridicolo che perfido l’insinuare che io abbia fatto richiedere nuove elezioni da Adenauer, il quale, se ricordo bene, vi ha accennato in una intervista domandando però scusa di parlare di un affare interno dell’Italia e con riferimento alle sorti dell’Unione europea. Infine nella mia esposizione si sarà notato che io ho ben distinto fra situazione parlamentare e quindi governativa e situazione del paese, sulla quale ho invitato i democratici cristiani a concentrare la loro attenzione, affinché irrobustiscano l’organizzazione del partito opponendo attivismo, spirito di sacrificio e disciplina alla tenace e crescente pressione comunista, e ciò nell’interesse della democrazia e del regime libero.
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Rivolgendo il più cordiale saluto, esprimo la certezza che gli amici tutti avranno compreso con quale spirito dopo tanti anni, ritorno alla sede centrale del partito. Per un lungo periodo ho servito il paese nel governo dello Stato, d’ora in poi intendo servirlo in quello che è la più solida struttura governativa politica della democrazia italiana che è il nostro partito. Chiedo agli amici di accettare con senso fraterno quest’ultima offerta della mia convinzione antica e della mia lunga esperienza vecchia e recente. Non ho altra ambizione che quella di contribuire allo sforzo comune, che ieri fu merito della passata Direzione e da domani sarà compito della nostra, recentemente eletta . Domando a tutti e specie a voi, dirigenti, solidarietà e collaborazione, disciplina e spirito di sacrificio, impegno unitario, pur nella libertà del regime democratico che governa il nostro statuto. Molto s’è fatto, molto resta da fare per lo sviluppo programmatico e organizzativo del partito che nella varietà dei suoi elementi rappresenta la complessità della nazione e deve seguire il ritmo incalzante della sua evoluzione e dei suoi progressi. Mettiamoci al lavoro e acceleriamo il passo, perché il cammino è lungo, e la meta di un’Italia libera e cristiana giustifica tutti i nostri sforzi, e soddisfa tutte le nostre speranze.
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Questione politica . A Roma e in altri centri si cerca di disfare le intese [e] i patti corsi ai tempi della armonia fra noi e i partiti democratici. C’è ovunque la tendenza a mandare all’aria questi patti. Distingue fra la situazione amministrativa e la situazione parlamentare. La prima non deve subire le conseguenze dei mutamenti. Questioni sindacali . Non entrate nel merito ma reclamiamo la mediazione del governo. Pella ha pregato di attendete per interpellare il ministro del Lavoro , ammalato. La Confindustria è pure in stato di trapasso avendo prossimamente la rinnovazione della cariche. Vediamo, senza entrare nel merito, se è il caso di invitare il governo a prendere atto e intervenire per una composizione. Apre la discussione. […] Solleva la questione delle integrazioni del Senato secondo le prospettive già esaminate a suo tempo. La integrazione non deve essere fatta solo per dare soddisfazioni agli ex ma per dar anche sfogo a una parte degli ex parlamentari (principale), una piccola fetta al presid.[ente] della Repubblica su proposta del governo, riservata alla funzionalità di ogni campo. Non c’è che da prenderne atto e assumere che si avvii a conclusione. Però la integrazione non deve spostare l’attuale proporzionalità dell’assemblea. La questione della «fetta» sarà la più discussa. [Il vicesegretario politico Spataro osserva che si rendono «stabili certi seggi comunisti»]. I nostri che sono nelle Commissioni ci terranno informati. [Seguono gli interventi di Fanfani e di Moro sull’opportunità di un preventivo esame della legge elettorale da parte del partito]. Non possiamo far molto in materia a meno che non arriviamo al collegio uninominale e si frantumino i piccoli partiti – avremo consenzienti i comunisti –; abolire le preferenze per la salvezza del partito. [Tupini propone di nominare una Commissione di studio per riferire alla Direzione centrale del partito]. Osserva però che la questione è di natura squisitamente parlamentare perciò Moro, Scelba e Ceschi per vedere quello che si può fare d’urgenza. [Seguirono altri interventi; De Gasperi riprese la parola sulle controversie di lavoro e sugli accordi mancati con le organizzazioni sindacali]. Tratteggia la situazione della vertenza e i suoi termini e la posizione delle parti. Il governo dice che [è] fra il migliorare le condizioni delle retribuzioni e quella di andare [incontro] ai disoccupati. Possiamo invitare il governo a intervenire per una rapida soluzione della vertenza. […] È possibile che la Direzione debba intervenire in situazioni determinate da altri? Poi siamo carenti nella legislazione sindacale stante l’opposizione della Cisl. Chi ci dice di intervenire ha impedito di conseguire. Il problema deve essere affrontato: 1)[sui] rapporti nostri con la Cisl; 2)sul piano delle responsabilità. [Seguono alcuni interventi sulla bozza di comunicato proposta dal segretario politico]. Non vede la consistenza delle obiezioni di [non leggibile]. Crede che una formula generica possa essere approvata e deve essere pubblica. [Terminata la discussione, De Gasperi intervenne sulla questione della presidenza dell’acquedotto pugliese]. La nomina è di competenza del Consiglio dei ministri. Essendo molto contestata propone di non interferire. Si può esprimere un desiderio; è stato espresso, basta. (Indirizzo: raccomandare sì, ma lasciare le responsabilità a chi l’ha). […] Richiama agli impegni di Gonella. Noi non dobbiamo esprimere un giudizio. Non dobbiamo sconfessare un impegno preso quindi non esprimiamo nessun parere e lasciamo libertà al Consiglio dei ministri. […] Prega la Direzione di esaminare in sua assenza (deve lasciare perché deve partire per l’Aja) il problema finanziario. Il partito deve avere la sensazione che si fa appello allo spirito di sacrificio di tutti, però occorre intanto aiutare la periferia. La politica non si può fare senza soldi.
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Cari amici milanesi, voi certo non attendete da me un discorso politico di occasione. Non è un discorso che io intendo fare alla finestra, per il pubblico esterno; è un discorso rivolto all’interno, un appello e un esame di coscienza. È vero, voi l’avete? Già avuta questa preoccupazione. L’ansia per Trieste vi ha afferrato alla gola durante questa stessa assemblea. E io non posso trascurare questo vostro palpito, che è il palpito mio. Vi accenno solo per dire che la Democrazia cristiana si serra compatta accanto al governo, gli dà il conforto della opinione pubblica consapevole, ha fiducia nella bontà della causa, nella comprensione, finalmente nella comprensione, degli alleati e nella vittoria finale della ragionevolezza. C’è qualcuno che ha approfittato anche di questa occasione per inserire la questione in una polemica personale contro di me e contro le passate responsabilità. Non risponderò. Vi dico una cosa sola: ho la coscienza tranquilla. Comunque, se avessi avuto torto nel passato e il governo attuale, invece, avesse ragione, e dovessi scegliere oggi tra me e il governo della nazione, deciderei per il governo. Non ebbi torto, ed oggi gli avvenimenti dimostrano che non fu un torto il credere che l’amministrazione comune del Territorio sarebbe stata fatale all’esistenza dell’italianità in quelle terre e fatale anche alla causa della pace e alla possibile collaborazione fra i due Stati. Non abbiamo accettata questa amministrazione – per lo meno non l’abbiamo cercata nel momento in cui qualche cosa dipendeva dalle nostre decisioni – perché l’amministrazione comune voleva dire la fine dell’italianità nel Territorio. E seoggi voi badate a quello che avviene, seavete la sensazione della violenza della reazione slava, pensate quale vita sarebbe stata quella di un piccolo territorio ove gli italiani più temperati, più moderati, forse, degli jugoslavi, sarebbero stati in conflitto perpetuo, quotidiano, contro una marea slava proiettata dall’urbanesimo, dal movimento naturale verso le coste, una massa irresistibile verso il mare. Ancora: non mi sono sbagliato quando ho pensato, quando ho creduto – ma non io solo ho creduto, hanno creduto anche altri che hanno dovuto contribuire alle decisioni in quei momenti – che ad una soluzione, ad una qualche tollerabile soluzione, si sarebbe potuti arrivare solo con la collaborazione degli alleati atlantici, perché senza di loro, al di fuori di loro, nessuna soluzione era ed è possibile. Noi siamo tutt’altro che entusiasti del loro contegno, delle loro tergiversazioni, dubitiamo assai della loro coerenza, perché si spaventano dinanzi alle minacce di un dittatore. Però, amici miei, quel poco di buono che ci sarà in questa soluzione, quel tanto di salvezza che caveremo ancora dalla situazione, questo proviene dalla linea atlantica. Se noi, pensateci un momento, fossimo fuori dalla alleanza atlantica, se fossimo dalla parte della Russia, che ci nega qualsiasi concessione, della Jugoslavia, che ci vuole escludere letteralmente da quel territorio o neutrali; o soli o con il solo appoggio di Nenni e di Togliatti. Se avessimo soltanto questo appoggio immaginate che cosa potremmo ottenere. Voi sapete la mia posizione nel passato; io non ve la ripeterò. Vi dirò però che la situazione attuale è maturata logicamente durante le discussioni sull’ottavo ministero che composi e che ha portato poi alla crisi. Feci allora dichiarazioni precise intorno al caso di Trieste. Sentite le mie dichiarazioni: «sia ben chiaro a tutti che nulla ci fa dimentichi del supremo dovere di tutelare senza debolezze i diritti delle nostre genti. Il nostro pensiero al riguardo è già stato affermato e riaffermato più volte pubblicamente, in tutti gli incontri diplomatici e politici. Nulla potrà mai farci deflettere dal perseguire il raggiungimento dell’obiettivo e ogni tergiversazione, ogni ritardo, ogni dubbio sulla fedeltà verso riconoscimenti solennemente dichiarati, si ripercuoteranno fatalmente sul popolo italiano come una pesante remora a quella collaborazione internazionale, alla quale esso pure dà il suo valido, consapevole e talvolta determinante contributo» . «Sia chiaro ai nostri alleati che certi errori di valutazione – mi riferivo all’invito fatto alla missione militare slava, in quel momento, da Washington – potrebbero ripercuotersi sulla stessa solidità della nostra alleanza, determinando delle crisi che si risolverebbero a tutto vantaggio di coloro che hanno interesse ad incrinare l’edificio della solidarietà occidentale. Ci è parso talvolta che, assorbiti dai gravi problemi mondiali, essi non abbiano compreso l’importanza decisiva della questione del TLT. Ma al punto in cui sono le cose, ritengo indispensabile aggiungere all’azione svolta per via diplomatica queste mie ferme parole, pronunciate innanzi alla maestà del Parlamento italiano». Aggiungevo che, nonostante tutto, io tenevo fede alla linea atlantica. Dicevo: «faccio queste mie rimostranze, riconoscendo però specie nei confronti degli Stati Uniti, la grandiosa solidarietà economica e morale che ci fu in questi ultimi anni prestata e prendendo atto con soddisfazione della salda, rinnovata dichiarazione di amicizia e di solidarietà espressa ieri dal governo di Washington» . Terminavo così alla Camera: «tutto questo sento, riconosco, confermo; né vacilla la mia fede negli ulteriori sviluppi della cooperazione internazionale, nella necessità di raddoppiare lo sforzo per la pace organicamente costruita e garantita. Ma la mia provata fede, che trova già nell’animo vostro tanto consenso, dovrà costituire per tutti una prova convincente che è giunta l’ora di rendere giustizia al popolo italiano» . Queste mie dichiarazioni erano come una premessa alla politica del governo che doveva succedere al mio. E quindi è giusto quello che mi avete detto. C’è una continuità, non soltanto una continuità logica, ma è una continuità di fatto, un maturare di situazioni, che ha portato alla presente, non ancora conclusiva fase. Vorrei ancora ricordarvi che quando mi sono presentato alla Camera dissi: «due sono i problemi, onorevoli deputati, sui quali dovete decidere. Il primo è sulla vitalità o meno dell’attuale ministero; sulla necessità di esprimere o meno la fiducia nel presente governo. L’altro, più grave, che supera anche la questione personale del come il governo è presieduto e composto, è la funzionalità del Parlamento, con una maggioranza com’è uscita dalle elezioni del 7 giugno, cioè poco salda, poco sicura». Per ciò stesso la funzionalità, la capacità di legiferare e di decidere del Parlamento era messa in causa. Oggi devo aggiungere che ho considerato fin dal primo momento la soluzione che ha portato al governo Pella come un superamento delle difficoltà nel momento decisivo; e, com’era mio dovere, ho considerato un atto di patriottismo quello dell’onorevole Pella per aver assunto una tale responsabilità. Oggi insisto: bisogna sostenerlo. Bisogna che questo governo duri, bisogna che si rafforzi, non soltanto come espressione di quella funzionalità che era in causa, ma anche perché oggi esso ha in mano la soluzione di grossissime questioni, fra cui quella di Trieste . E noi dobbiamo in questo momento essere compatti, uniti nell’appoggiare questo governo il quale si trova impegnato in così gravi problemi. Chiarito questo, passiamo all’esame di coscienza che riguarda il partito. Già al Consiglio nazionale ho fatto rilevare che bisogna distinguere bene fra le diverse funzioni di un partito democratico. Il partito, dice Lenin, «è lo strumento della dittatura del proletariato». Ne deriva, secondo i comunisti, che là bisogna concentrare tutte le forze, e perciò il partito deve essere sottoposto ad una disciplina ferrea, confinante con la disciplina militare, e perciò il partito deve esigere la completa subordinazione degli stessi gruppi parlamentari. Questo è il concetto del partito totalitario. È ben chiaro che questo concetto non lo accettiamo. Noi distinguiamo le varie funzioni. Noi diciamo: esiste l’organizzazione del partito che ha presentato le candidature, esiste però un corpo elettorale che ha affidato un mandato. Bisogna che armonizziamo le esigenze del partito col senso di responsabilità del mandato. Bisogna che rispettiamo il carattere specifico della rappresentanza parlamentare. La quale è responsabile della tattica sullo scacchiere del Parlamento, con tutti i limiti imposti dalla proporzione delle forze. Invece il partito deve dirigere la strategia rivolta all’opinione pubblica, alla pluralità delle organizzazioni che lavorano con noi, riguardanti le direttive di marcia, le tendenze essenziali, la coscienza del paese. Notate che noi siamo pluralisti, cioè non siamo totalitari, non accentriamo tutto nel partito, non concentriamo tutto in un organismo solo: contiamo su alleanze e fiancheggiatori, su forze spirituali al di fuori di noi, come le forze dei cattolici militanti; su forze culturali, come quelle universitarie scolastiche; sulle forze autonome dei sindacati, sulle associazioni economiche. Quindi un complesso di importanti relazioni e connessioni che legano il partito a queste collaborazioni, a questi contributi indipendenti da esso. In questo pluralismo si esprime la civiltà democratica, il regime democratico libero. Badate, mi ha veramente fatto impressione nelle ultime discussioni al Consiglio della Tavola rotonda, sui principi e sui destini dell’Europa , incontrare degli uomini che, partiti da un punto diversissimo nei loro studi o nelle loro considerazioni, sono arrivati alla stessa conclusione. Si è sentito, cioè, uno storico come Toynbee , forse il più grande storico vivente, da una parte, e dall’altra storici e sociologi germanici, esaminare il problema dei rapporti fra persona e Stato, e venire alla stessa conclusione che i diritti dell’uomo (che si proclamano come quasi un invenzione delle Rivoluzioni francese e americana, e che certe volte sono stati contrapposti alle tesi cristiane) si sono affermati – così ha dimostrato lo storico cui ho accennato prima – nella lotta che la Chiesa ha condotto contro lo Stato durante i secoli, per salvaguardare la propria indipendenza. Da una parte questo fatto storico lascia comprendere come l’indipendenza della persona, della libertà dell’uomo provengono proprio da questa duplicità di potere entro la storia cristiana; mentre dall’altra sottolinea l’esigenza di respingere i totalitarismi, le religioni laiche, cioè il comunismo e il nazismo, soffocatori della libertà umana. Dunque la questione fondamentale è questa: democrazia o non democrazia. C’è in palio, amici miei, più che una poltrona ministeriale, più che un mandato. Sono stato al governo nove anni, venti anni nei Parlamenti, cinquanta nell’azione democratica cristiana, nella lotta per l’idea, per la difesa della libertà con fede nella democrazia, con molti rischi e con sacrifici. Se ora ho accettato di tornare al partito perché il mondo politico ostile mi calunnia con l’accusa di intrigare, di dare l’assalto alla diligenza? Se questa contrattazione della mia figura serve come spauracchio per tenere buoni coloro che vedono in me il peggio che può capitare, accetto anche di essere utile in questa funzione. Ma spero che nel partito – anzi ne sono certo – ci sia dell’idealismo, specialmente nelle menti giovani, per credere che motivi più elevati mi abbiano fatto riprendere, dopo i settant’anni, una eredità che, nonostante la buona volontà e lo spirito di sacrificio dei miei predecessori, è tanto pesante. Amici miei, non farò dei miracoli: è la natura stessa che impone dei limiti. Ma exempla trahunt, gli esempi trascinano, e mi sono detto che forse il mio gesto susciterà energie sopite, incoraggerà speranze, farà comprendere la gravità di quest’ora suprema. C’è taluno che riserva lo scherno alla fedeltà all’idea della propria giovinezza. Veniamo dalla scuola cattolico-sociale, ma non presumiamo di essere questa scuola, e come partito abbiamo una fisionomia ben distinta nello spazio e nel tempo, e la responsabilità di una funzione tutta propria. La scuola cattolica sociale prepara soluzioni di principio, indica anche misure concrete, suggerite dall’esperienza, ma non è vincolata ad una determinata struttura politica, né ad una particolare costituzione civile. Noi, invece – ecco la differenza – come cittadini di uno Stato costituito, collocati nel tempo e nello spazio della nostra attività, chiamati ad agire secondo le regole del regime democratico, dobbiamo prepararci ad una responsabilità concreta, avere un programma d’azione che riguardi i problemi attuali. Nell’elaborare tale programma gli elementi ideali permanenti ci devono ispirare: le indicazioni della scuola cattolica sociale ci sono utili, ma la politica che facciamo, con tutti i suoi elementi di contingenza e di relatività, è responsabilità nostra. Per questo, amici, dobbiamo aggiungere al nostro pensiero cattolico, alla nostra mentalità cristiano-sociale, l’attitudine politica democratica cristiana. Per questa ragione abbiamo dovuto organizzarci in partito, cioè in una formazione politica con una fisionomia specifica, adatta al sistema in cui operiamo e all’azione che vogliamo svolgere. La prassi democratica cristiana è quel metodo d’azione che si svolge entro la Democrazia cristiana, applicando, nelle forme adatte ai tempi, i princìpi del Cristianesimo socialmente inteso. Ora, amici miei, un partito che si compone delle rappresentanze di interessi molteplici, da conciliarsi nel progresso e nel rinnovamento, deve ispirarsi ad una concezione integrale della vita, essere ispirato da una fede irremovibile, pronta al sacrificio, aperta alla fraternità; non c’è nessuna fonte più abbondante e più pura del Vangelo, sentito e praticato. Questa fede integrale è conciliabile con la tolleranza civile, cioè con la leale attuazione della Costituzione per quanto riguarda le pubbliche e private libertà, e con un costume di convivenza rispettoso di ogni fede sinceramente e onestamente professata? Senza dubbio. A tale metodo di vita ci ha indotto 1’evoluzione storica, ma non occorre derivarlo da presupposti filosofici quando esso è ormai una norma indispensabile per la pacifica e progrediente comunità democratica. Qui è necessaria di nuovo una distinzione, per non farci cadere in equivoci e perché i nostri avversari non continuino nelle loro prevenzioni nei nostri confronti. Abbiamo distinto fra i princìpi, le tesi dottrinali che ci ispirano e ci guidano, e le norme pratiche della convivenza, che tengono conto della realtà storica e della naturale differenza delle opinioni. I filosofi e i teologi sono chiamati a trovare una sintesi di principio, i politici sono chiamati a operare nel quadro entro il quale si svolge la vita qual è. Solo così è possibile unire tutte le forze spiritualiste e creare una base per l’unità delle forze libere in confronto alla minaccia materialista. Solo così troviamo legittimo il sistema democratico. Al di fuori di esso, se questo sistema non va, se non lo sappiamo applicare, la spinta all’unità, che è naturale nell’uomo, conduce al collettivismo, all’assorbimento da parte dello Stato o ad una religione totalitaria che spegne la personalità umana. C’è questo pericolo in Europa? Il pericolo senza dubbio c’è stato fino a ieri, come minaccia di conquista con le armi. Basti citare un fatto solo. Stalin investì in venticinque anni 638 miliardi di rubli nell’industria pesante e 193 nei trasporti, mentre dedicò soltanto 92 miliardi all’agricoltura e 72 all’industria leggera. E sapete cosa vuol dire siderurgia e industria pesante? Cannoni e carri armati. La produzione dell’acciaio e del carbone è salita fin quasi ad equivalere quella dell’Inghilterra, della Germania e della Francia insieme; ma il bestiame è diminuito in confronto al 1928 da un indice 44,5 per abitante a 27. Bastano questi dati per capire chi è stato a spingere con estrema energia gli armamenti, e non si può negare che questa era una preparazione alla guerra. Stalin è morto. Muterà Malenkov la distribuzione delle risorse di cui la Russia può disporre? Ci sarà un’altra proporzione nella distribuzione, ossia una parte maggiore verrà dedicata alle opere di pace, a migliorare il tenore di vita degli abitanti? Ecco che la risposta a questa domanda ci dice se il pericolo è diminuito o se ancora continua. Fino ad oggi è dubbio. Ma vogliamo essere ottimisti e parlare anche noi di distensione. Ma allora dobbiamo distinguere due specie di distensione: la distensione come disposizione dell’animo, come proposito di tentare ogni mezzo per evitare l’urto: è questa la distensione nei rapporti internazionali, la distensione come stato d’animo di preparazione alla pace. Oh, per questo siamo tutti d’accordo; siamo d’accordo che si facciano tutti i tentativi ritenuti opportuni per non inasprire la situazione inutilmente. Il metodo delle conversazioni, senza dubbio, può essere accettato purché bene organizzato. Una condizione sola bisogna porre: che ci sia l’unità del fronte dalla nostra parte. Perché se l’Inghilterra, con un discorso di Churchill, dice che vuole così e l’America, con un altro discorso, dice che vuole cosà, e la Francia interviene nel mezzo con un’altra soluzione, allora i russi hanno l’impressione del dissapore, della discordia interna e dicono: con questi qui la partita è facile e vinceremo. Abbiamo organizzato il Patto atlantico, il Consiglio atlantico della NATO a Parigi, ma questi signori non si radunano mai nei momenti decisivi, mentre invece c’e una specie di direttorio ancora postbellico che tenta di liquidare le partite della guerra. Sopratutto noi dobbiamo volere l’unione in Europa. Se la Russia, trattando, vede che c’è una unione da quest’altra parte, sa di poter trattare seriamente e se l’accordo viene raggiunto sa anche di avere una garanzia che tale accordo sarà mantenuto. Questa è una distensione nei rapporti internazionali. Il secondo aspetto della distensione è quello interno. E qui ognuno vi vede quel che vuole. Ma sotto sotto c’è questa interpretazione: distensione vuol dire rilassamento, vuol dire sbandamento, vuol dire affievolimento nella resistenza alla conquista comunista e abbandono della difesa democratica. Questo no. Questa distensione, questo rilassamento, questo abbandono, questo sbandamento sono pericolosissimi: è la penetrazione attraverso le linee interne dello stesso nemico. È vero che il sistema democratico permette anche ai comunisti di giungere, attraverso le forme democratiche, alla maggioranza di governo, ma il sistema democratico esige anche la difesa della Costituzione e non è possibile che ci si valga dei sistemi democratici e parlamentari per distruggerla. E qui siamo dinnanzi al problema della penetrazione del comunismo. Avete senza dubbio raccolte le vostre esperienze nella vita sindacale, nei rapporti sociali, nella vita amministrativa. Non starò a portare dettagli, ma mi pare che in Italia, come altrove, esistano due mondi; un mondo che ha il suo centro alle Botteghe Oscure, con le sue riviste e giornali, con le scuole di partito, con le cellule in ogni organismo: una specie di termitaio che fa un lavoro di erosione interna, una preparazione tenace, metodica d’uno Stato totalitario contro ed entro lo Stato democratico. Le librerie di Via delle Botteghe Oscure vendono i testi dei grandi maestri comunisti. Togliatti ha cominciato nel 1945 a tradurre le opere di Lenin e di Stalin; poi sono state pubblicate altre opere principali ed ecco che i testi sono là; gli studiosi se ne interessano; questi testi sono considerati come scienza dogmatica. Le scuole comuniste sono moltissime ed attingono a queste fonti; esse inculcano con forza i dogmi del leninismo nei giovani. E di fronte a questo mondo c’è l’altro di una borghesia scettica, eclettica, sufficiente, che si muove sul vulcano come se sotto non covasse il fuoco. E intanto queste «verità» presentate come assiomi si inculcano, imbottiscono i crani della gioventù e dinanzi a questi testi ci si inginocchia con venerazione. Ecco la definizione di Lenin sulla dittatura: «la dittatura del proletariato è necessaria, e la vittoria sulla borghesia è impossibile senza una guerra lunga, tenace, disperata, una guerra che richiede padronanza di sé, disciplina, fermezza, inflessibilità e unità di volere». E il Comintern del 1919 proclamava (art. 1): che la meta della lotta era l’instaurazione della dittatura mondiale del proletariato. E nel 1947 fondandosi il Cominform, si ripeteva che nelle condizioni attuali, non può chiamarsi marxista chi non sostiene apertamente e senza riserve la prima dittatura mondiale, che è la Russia. E si citano i Codici sovietici: la statizzazione di ogni proprietà (art. 6): «la terra e il sottosuolo, le acque, i boschi, le officine, le fabbriche, le miniere, le cave, le banche, i mezzi di trasporto, il patrimonio edilizio, sono patrimonio dello Stato». E altre norme si leggono, qualcuna di esse molto interessante, ma che difficilmente si ripete dinanzi al nostro pubblico. L’articolo 122 del Codice sovietico dice: «l’insegnamento delle dottrine religiose ai bambini e minorenni negli istituti e nelle scuole statali o private oppure la violazione delle norme emanate comporta i lavori forzati fino a un anno». Idem per le cerimonie religiose. Ora, tutte queste affermazioni raramente si riproducono nei giornali e nelle polemiche giornalistiche. Dobbiamo anzi dire che nell’ultimo periodo si rileva un’avanzata del comunismo fra le classi intellettuali. Dopo il Congresso del Partito comunista del 1949 venne costituita una Commissione culturale centrale presieduta dall’onorevole Platone , con sottocommissioni per ogni branca (cinema, teatro, arti figurative). In seguito ad avvenute dimissioni si cambiò tattica dividendo gli aderenti in simpatizzanti, che sono considerati censiti in numero di trecentomila; in iscritti attivisti (circa 40 mila) ed infine in una terza categoria che è la categoria dei fiancheggiatori. I cosiddetti «utili idioti». L’iscrizione di questi scrittori e artisti ha portato alla prevalenza del Partito comunista in questi sindacati di artisti. È un fatto al quale noi dobbiamo badare assai, sul quale richiamo la vostra attenzione. Un altro fatto è la forza organizzativa del partito. E qui non dobbiamo accettare quelle conclusioni sulla ultima campagna elettorale, troppo sempliciste. Si dice: è la miseria. Si dice anche: è la situazione del Mezzogiorno dovuta a mancanze od a deficienze del governo, a leggi antipatiche. Ma non è esatto. L’aumento dei voti è senza dubbio l’effetto globale di una pluralità di cause. Sono molteplici le cause e differenziate secondo il luogo e secondo le categorie. Tali cause, se naturali, sono sfruttate oppure poste in essere dal Partito comunista, perché esso possiede, appunto, uno strumento attrezzato proprio per un’azione differenziata; ed è così che penetra e progredisce. Il progresso comunista è, in altri termini, effetto assai più del cosiddetto lavoro di massa del partito, che di tendenze generali e cause nazionali economiche e psicologiche. Queste formano sì, lo sfondo sul quale si esplica la strategia comunista: distensione, promesse, «utili idioti», esaltazione della URSS, agitazioni sindacali. Ma non è tanto la strategia quanto la tattica minuta quella che produce voti per il Partito comunista. La varietà delle tattiche è assai più pericolosa del programma del partito per mascherato e duttile che sia. Il Partito comunista spinge, infatti, all’estremo l’analisi e la conoscenza delle situazioni e degli stati d’animo differenziati secondo le due discriminanti del luogo e della categoria. Per ciascuna situazione la sinistra si domanda soltanto come aumentare i voti o come arrestare una diminuzione se esiste, e per ciascuna adotta i metodi appropriati, che sono della natura più varia, all’interno di ciascuna situazione, e diversi da una situazione all’altra. Stando così le cose non basta replicare con una azione basata soltanto o prevalentemente sulle presunte grandi cause. Anzi, un’azione di questo genere, che può essere utile in un luogo o per una categoria, potrebbe anche riuscire dannosa altrove o per altre categorie. Che cosa può aumentare o ridurre i voti comunisti? Per fare qualche esempio: fra i mezzadri dell’Umbria, fra i maestri elementari di tutta Italia, fra i braccianti della «bassa» padana e quelli delle Puglie, fra i lavoratori, le operaie, i borghesi, fra i minatori della Sardegna e i pensionati, fra gli artisti, è sempre qualche cosa di specifico che il Partito comunista fa per conoscere sia nello aspetto psicologico che in quello economico le situazioni particolari. La classificazione delle situazioni, con eventuali raggruppamenti, e la loro conoscenza sono dunque la premessa indispensabile. Il Partito comunista le possiede. Dovremo possederle anche noi, almeno in eguale misura. Innegabilmente per noi l’impresa è più difficile. Siamo meno burocratizzati, siamo più vari di tendenze e di interessi. Eppure questo è il metodo che dobbiamo seguire e nei prossimi scontri dovremo badare meno alle grandi assemblee quanto al lavoro differenziato, fatto categoria per categoria. Ma la forza principale del comunismo è la utilizzazione del Sindacato. Ricordo che al Congresso di Venezia del 1921, io feci un brevissimo intervento per dire che l’avvenire politico era nel Sindacato . Venivo appena allora dall’Austria, avevo assistito allo sviluppo dei sindacati germanici, belgi, francesi ed inglesi. E pensavo che l’inserzione di questa nuova organizzazione del lavoro nello Stato democratico era il problema più urgente e quello che portava ad una soluzione. Ma, mentre ovunque isindacati – laburisti, cristiani, socialisti – partecipavano al potere politico, in Italia, invece, l’inserzione venne più tardi snaturata dalla dittatura fascista che ne fece un corporativismo di Stato. Il problema, purtroppo, è ancora aperto e costituisce un pericolo per lo Stato democratico, che abbiamo durante l’ultimo periodo cercato invano di superare. Ma l’ostacolo maggiore è la manomissione operata dal Partito comunista sulla Confederazione del lavoro. Vi do un esempio perspicuo della differenza di atteggiamento dei sindacalisti comunisti italiani e degli altri sindacalisti del mondo. Voi avete assistito alle agitazioni, alle proteste, agli scioperi fatti contro il Piano Marshall, prima, e poi contro il piano Schuman, cioè contro il consorzio per il carbone e l’acciaio. Il piano Schuman non ha a che fare con la difesa di per sé, o ha a che fare in senso positivo in quanto sottrae alla disponibilità libera della Germania e della Francia il carbone e l’acciaio. Quindi sottopone questi due paesi ad un comune consorzio al quale partecipano anche altri Stati, compresa l’Italia. Perché i socialisti italiani si sono dichiarati contrari e i socialisti belgi, francesi, tedeschi, si sono dichiarati favorevoli? Recentemente all’Aja ascoltavo il discorso di un sindacalista belga, socialista Finet , il quale partecipa anche all’amministrazione del piano Schuman. Egli ha dichiarato che la creazione di un mercato unico per il carbone e l’acciaio aveva già migliorato le condizioni dell’industria belga ma sopratutto aveva migliorato le condizioni e il tenore di vita dei lavoratori belgi. E dalle sue esperienze ho ricavato la conclusione che questo allargamento del mercato, questo allargamento della produzione, portava ad un affinamento della produzione e a migliorare le condizioni di lavoro. Finet aggiungeva poi che i lavoratori si erano dichiarati per un mercato europeo, si erano dichiarati in favore di questo sforzo per l’unione europea e, prendendo ad esempio il consorzio esistente del carbone e dell’acciaio, vogliono estendere la stessa comunanza di mercato ad altri prodotti. E perché? Perché lo sviluppo della tecnica rende impossibile di continuare in questa specie di autarchia, di controlli, di sopraproduzioni, di duplicità di produzioni. Fra uno Stato e l’altro c’è già una ripartizione naturale di lavoro e gli operai non hanno che da guadagnare dall’aumento della produzione, dalla razionalizzazione della produzione. Egli sosteneva la tesi generale che il tenore di vita dei lavoratori non può che migliorare con un allargamento del mercato. In Italia una campagna iniqua dei comunisti e dei socialisti nenniani si è rivolta contro il Piano Schuman e in genere contro il movimento europeo. Si è addirittura coperto di scherno l’europeismo, senza pensare che se c’è un popolo il quale ha bisogno di allargare la propria sfera d’azione, la circolazione dei beni, i propri mercati, questo popolo è proprio l’italiano. E se voi domandate: ma perché prendono questa posizione? Solo perché la Russia è contraria alla Unità Europea, perché è contraria ad ogni sforzo unitario, perché la Russia vuole la disgregazione dell’Europa per poterla permeare col proprio comunismo; o con mezzi pacifici, o, se necessario, anche con le armi. Ma questo è un esempio. Vi sono molte altre ragioni che dimostrano come la manomissione marxista e leninista sul Sindacato impedisce in Italia il progresso del mondo del lavoro sia sul terreno economico che su quello sociale. E qui veniamo alla questione della sinistra e della destra. Spero che non vi perderete anche voi intorno a questa terminologia falsa di sinistra e di destra; è terminologia sbagliata e ingannatrice perché vi sono dei sinistri in senso giacobino, ereditari dell’anticlericalismo passato, i quali sono sinistri perché sono anticlericali, ma quando si tratta di difendere la propria proprietà, i propri affari, allora sono destri. Questi sono dei sinistri miscredenti, ma conservatori economicamente parlando e difendono la proprietà e spesso anche i privilegi. Ci sono poi dei sinistri talmente dirigisti che finiscono con l’accettare la dittatura economica; e anche questa posizione è tutt’altro che scevra di pericoli. Ci sono poi i comunisti che si dicono democratici solo perché abusano delle libertà democratiche e parlamentari. Cerchiamo di intenderci. Se sinistra vuol dire – ed io contesto che questa parola abbia sempre tale significato – apertura verso il progresso sociale, verso la giustizia per i lavoratori, allora non è vero che noi non andiamo o non vogliamo andare verso sinistra: siamo per principio a sinistra, in questo senso. Lo so, ci si accusa di solidarietà con la Chiesa, ma i chiarimenti autorevoli sono venuti anche da parte della Chiesa e se c’erano equivoci sono stati dissipati. Quando Pio XII dice che ogni disegno, ogni programma, deve essere ispirato dal principio che l’uomo, come soggetto e custode e promotore dei valori umani, è al di sopra delle cose; quando a un certo punto del discorso alla radio del 1° settembre 1944 , tornando alla questione così delicata della nazionalizzazione, dice: badate che non sono per la nazionalizzazione per principio, sono per qualche caso di nazionalizzazione, ma ne vedo anche le conseguenze tristi in qualche altro lato; in ogni modo non c’è obiezione di principio da parte della Chiesa; e aggiunge essere certe categorie di beni da riservarsi solo ai pubblici poteri quando portino seco una tale preponderanza economica che non si possa lasciare in mano ai privati senza pericolo del bene comune; quando la scuola cattolica sociale invoca una simbiosi fra capitale e lavoro, cioè una compenetrazione da una parte e dall’altra, e che il lavoro possa trattare da pari a pari col capitale; quando si parla di associare più strettamente il lavoro col capitale, col contratto di lavoro temperato, col contratto sociale; quando si dice che in verità la co-gestione non è un diritto, ma un onesto obiettivo che si può seguire, allora ditemi dove sono le difficoltà programmatiche che ci impediscono di procedere su questa strada? Quando si chiede di trasformare il proletariato in proprietariato, non si aprono per principio tutte le porte al mondo del lavoro? Si dirà, sì per principio, ma in via di fatto i progressi sono lenti su questa strada. Ma qual è la causa fondamentale? Esaminiamola con sincerità, con serietà. Che cosa gioverebbe avere la co-gestione nell’industria, che cosa gioverebbe ottenere questa conquista che, del resto, è prevista dalla Costituzione se domani, poi, capitasse al potere Togliatti, il quale introdurrebbe l’industria di Stato, ove le norme di rendimento sono stabilite dallo Stato, ove il passaggio dall’una all’altra impresa è vincolato al permesso dello Stato? L’art. 58 del Codice sovietico parla del sabotaggio che è punito con un anno di prigione e con la confisca dei beni. Ma sapete quale è la definizione del sabotaggio? «La cosciente non esecuzione di determinati doveri e la negligenza intenzionale nel compierli». Con una siffatta generica formula, ditemi dove va a finire la libertà del lavoratore. Che cosa sarebbe la co-gestione in compagnia di un datore di lavoro-Stato? È allora naturale che coloro i quali temono queste minacce, questi agguati, direi, del comunismo, esitino ancora per concessioni, o conquiste, che sarebbero sopportabili, anzi desiderabili in questo momento. Questo, dunque, amici miei, è il nostro travaglio: fare una politica veramente sociale, una Repubblica fondata sul lavoro, senza, però, correre il rischio mortale di cadere sotto la dittatura del proletariato che, come abbiamo visto, i maestri del marxismo proclamano fatale, necessaria. Dobbiamo batterci nella vita sindacale per la sua libertà e per la sua indipendenza dal bolscevismo. E dei sindacati dobbiamo fare strumenti di conquista, come teatro di conquista è anche il Parlamento. Ma non voglio ignorare che errori ne vengono commessi anche dall’altra parte. Un giornalista straniero che ha seguito molto attentamente i fenomeni della vita sociale italiana un giorno mi diceva: «ho visitato, in Alta Italia, istituti di beneficenza, scuole, cliniche, case di riposo, colonie estive creati da industriali filantropi. Ne sono stato ammirato. Ma perché allora i lavoratori votano comunista?». E aggiungeva: «come mai lo sforzo compiuto dal suo governo nel Mezzogiorno, sforzo che è evidente, non ha raccolto i frutti che si speravano?». Da una parte ciò è dovuto al lavoro di massa dei comunisti che prima ho analizzato. Non avete idea, sui luoghi della riforma agraria, che cosa avviene. Là dove distribuiamo la terra si dice: «ve la danno ma ve la fanno pagare», ed agli altri che non hanno avuto la terra: «ma quelli sono stati favoriti, voi altri no». A Matera, dove si è costruita addirittura una città per sostituirla ai famosi «sassi», sono andato per inaugurare le prime cento case . Le famiglie erano felici: figuratevi la gioia dei bambini al vedere tutte quelle spine d’acqua. Nei «sassi» dove gli abitanti erano circa tremila, c’erano due sole spine di acqua; in ogni casa nuova ve ne erano tre o quattro. La gioia era proprio rappresentata da quei bambini che si divertivano nel vedere scorrere l’acqua. Ebbene, quando sono entrato ho visto madri contentissime. Sono venuto fuori col cuore soddisfatto per l’opera compiuta, ma ecco che sulla porta una donna mi dice: «e a me perché non l’hanno data? Io ero così, io ero cosà». Intervengono allora i comunisti i quali dicono: «a te non l’hanno data per questa e questa ragione». False naturalmente. Ed allora ecco come i risultati sono diversi da quelli che si potevano sperare. Da una parte è il lavoro di massa che ho detto, ma dall’altra è colpa degli stessi datori di lavoro che non hanno trovato il contatto di fiducia con i lavoratori. I lavoratori non vogliono più essere trattati come inferiori, anche quando sono beneficati; ma hanno una coscienza di collaboratori e devono esser trattati come tali. Molti atti di larghezza, e anche di previdenza da parte di qualche datore di lavoro, vengono distrutti da altri gesti altezzosi, dal tono sprezzante del prendere o lasciare, da un paternalismo anacronistico. La mia accusa non è rivolta a tutti, né a ciascuno singolarmente. Voi siete in grado di giudicarlo sul luogo. Ma bisogna arrivare alla collaborazione. Questo è importante. Bisogna che questi datori di lavoro si abituino a consultare gli operai in questioni tecniche, ad interessarsi dei loro problemi sociali e familiari, in vista di un ulteriore progresso che dobbiamo fare ad un certo momento, quando la paura del comunismo sarà diminuita, quando le garanzie le avremo create; e intanto associarli ad un sistema di partecipazione ai benefici. Qui il partito deve intervenire per favorire lo sviluppo di un nuovo spirito fra datori di lavoro e lavoratori, e deve agire, con comprensione, sulle due parti: sui datori di lavoro per sviluppare in loro il senso sociale, che è fondato non tanto sulla generosità nel dare, quanto nel sapere valutare e considerare; e sui Sindacati per renderli più indipendenti nella loro funzione sociale. Se noi arrivassimo in Italia ad un Sindacato, non dico cristiano, ma almeno neutro, staccato dalla responsabilità bolscevica, potremmo assieme lavorare per una riforma e un rinnovamento sociale definitivi. Sia ben chiaro che se riconosciamo l’importanza dei Sindacati, non intendiamo essere un partito di sole categorie. I lavoratori hanno nei Sindacati un mezzo per difendere i loro interessi. Ma i disoccupati, i non ancora occupati, i miserabili, chi li difende se non una politica economica saggia e previdente che distribuisca con giustizia ed equità le risorse nazionali di cui disponiamo? E i ceti medi, il tessuto forse più tenace della nostra vita sociale, chi li protegge se non le riforme fiscali giuste e una politica delle esportazioni previdente? Questo è il duro ma necessario compito di un partito che rappresenta non solo i salariati e gli stipendiati, ma anche i contadini, gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti e gli imprenditori. Non perdiamo di vista il popolo italiano nella sua complessa struttura, nelle sue varie categorie che devono vivere e prosperano e declinano assieme. E ho finito. Togliatti – lasciate che mi ricordi anche di lui – recentemente, in una dichiarazione, ha menato vanto di avermi fatta passare la voglia di un fronte anticomunista, perché, in seguito alla pubblicazione fatta sul Consiglio nazionale, ho detto di non aver mai parlato di fronte anticomunista. Infatti non lo ho mai invocato questo fronte, se la parola «fronte» è intesa in senso organizzativo, che bisogna mettersi cioè insieme tutti con l’unico cemento dell’anticomunismo . No. Noi abbiamo un altro cemento, che non è quello negativo. Noi non siamo contro il comunismo per essere contro il comunismo. Siamo contro il comunismo perché siamo per la democrazia e la libertà. Auguriamoci che nei rapporti internazionali si giunga a una tregua e se questa tregua nella tensione mondiale ci portasse a un più calmo sviluppo della vita interna, ciò sarebbe una conseguenza logica e naturale. Ma fino a che i termini della dialettica politica non si spostano, la vigile e tenace difesa della libertà rimane un dovere primordiale della democrazia italiana e della democrazia europea. Recentemente alla «Tavola Rotonda» abbiamo scambiato le nostre idee sul destino dell’Europa. Alla presidenza sedevano storici, filosofi, sociologi, uomini politici di diversa fede, di diversa religione e confessione. Alle discussioni partecipavano scrittori e uomini di pensiero di quindici nazioni, anche di Turchia. Erano uomini di destra o di sinistra, questi? Quando ci univamo nel proclamare i diritti dell’uomo, pur motivandoli storicamente in modo diverso, andavamo a destra o a sinistra? Ci hanno accusato d’immobilismo. Immobilisti noi che pur venendo da una fede sicura, gareggiamo con le fedi laiche nelle discussioni e sul terreno delle libertà; noi che, uscendo da una storia ove spesso il trono sfruttò l’altare, entriamo a bandiere spiegate nel libero regime delle democrazie. E la sinistra, la sinistra più estrema, più radicale, definitiva, sarebbe costituita da coloro che dopo Hitler rappresentano la reazione più opprimente del collettivo sull’individuo, della massa contro la persona, dello Stato contro i lavoratori. Amici e avversari non mi facciano torto di interpretare queste parole in termini di topografia parlamentare. La questione è più grave e profonda. Guardo all’Italia e al suo popolo; mi ispiro alla sua storia e penso al suo destino. Non importa di avere sempre ragione. Bisogna non avere torto domani.
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Riferisce sulla riunione del Direttivo della Camera alla quale ha partecipato. Molto senso di responsabilità, cose molto serie dette con grande senso di misura e di ponderazione. La conclusione è quella da lui accennata a Milano : occorre stringersi intorno al governo e sostenerlo in questo difficile e grave momento. Tutti d’accordo perché la situazione non sfugga di mano e si mantenga nel quadro atlantico; evitare assolutamente un urto; e si è concluso di non precisare tutto; pazienza, utilizzare ogni elemento con prudenza senza porre condizioni o scadenze. Nessuno vuole [una] crisi governativa che farebbe il gioco degli avversari e aprirebbe un periodo di confusione. Il governo è stato assicurato e invitato a continuare il suo lavoro e a rimanere al suo posto. […] Osserva che il coordinamento stampa consiste nel coordinare e unificare i servizi e di coordinare e unificare le spese il che non ha nulla a che fare con l’attività stampa della SPES. Non crede che si possa fare una cosa sola con la SPES, che ha un compito eminentemente politico . [La Direzione affronta quindi il tema del tesseramento al partito per l’anno in corso]. Rileva il cenno ai «cattolici militanti». Cosa significa? Accenna alle elezioni nella sezione di Milano, domenica, era stata presentata una lista «cattolica»! [Angelo Salizzoni riferisce la notizia della costituzione a Bologna di una «Consulta dei partiti democratici», sollecitata in altre province; l’invito era stato rivolto anche alla Democrazia cristiana]. Osserva che se ci vogliono andare come persona, liberissimi, ma non come partito. D’altra parte se ci vorranno come partito lo chiederanno essi al centro. [Interviene quindi sulla relazione dell’on. Jervolino sui lavori svolti dall’Ufficio centrale Assistenza, creato nel 1949 «per seguire e orientare su raggio nazionale la grande assistenza»]. Abbiamo avuto la sensazione di un effettivo ed efficace senso di collaborazione, efficace e sostanzioso. […] Crede che un esame approfondito non si può fare che alla presenza dell’on. Scelba e dell’on. Fanfani: ex e attuale ministro degli Interni. [La Direzione centrale procede quindi ad analizzare il tema dell’organizzazione e delle responsabilità degli organi politici del partito]. Osserva che è curioso parlare di responsabilità singole. L’attività della Direzione è di diretta responsabilità del segretario e del v.[ice] segretario politico il quale risponde al C.[onsiglio] n.[azionale] di tutta l’attività della Direzione, per cui la responsabilità politica è sempre del segretario e vicesegretario del partito e le decisioni devono essere da loro firmate. (Si è d’accordo sulla proposta e sui criteri esposti da De Gasperi, i quali valgono per tutti gli uffici centrali). [Si propone successivamente che all’Ufficio centrale per i problemi del lavoro siano anche affidati «oltre ai problemi del lavoro e ai problemi della previdenza sociale, quelli degli enti di riforma»]. Accettiamo la formula collaborativa espressa da Tupini, salvo a vedere in seguito le difficoltà che potrebbero sorgere. (Si propone la nomina dell’on. Zaccagnini a capo dell’Ufficio del Lavoro al quale vengono attribuiti i problemi della previdenza sociale e gli enti di riforma. Si approva). [La Direzione centrale procede successivamente ad analizzare il tema del coordinamento della stampa di partito]. Esamina il problema. Osserva che il baricentro politico è spostato malgrado ogni sforzo nostro, al nord piuttosto che verso Roma. Non si può quindi trascurare la realtà. Ciò impone che si mantenga Il Popolo edizione di Milano. (Si apre una parentesi per citare e valutare la recente vertenza sindacale e la differenza di atteggiamento). Per la stampa periodica del partito bisogna vedere. (La nomina dell’on. Manzini a segretario della SPES è approvata). Propone la conferma di Dall’Oglio [all’Ufficio elettorale]. […] Cerca di chiarire i compiti dell’organizzazione e dell’[ufficio] elettorale. Non capisce come la vigilanza sulla rete capillare organizzata non passa (esecutore collaborato cosciente e consapevole) .
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Non possiamo fare il programma del partito né parlare di tutti i problemi in una risoluzione. Il più grave scoglio lo mette avanti Fanfani quando invoca un maggior controllo della Dc nel governo (si accrediterebbe la diceria del governo «ombra» il quale, in Inghilterra, è quello di opposizione). Analizza lo stile, il tono, il temperamento della politica estera che non è legata alla persona ma ha una sua linea che viene realizzata con lo stile e il tono della persona che vi è preposta. Ciò dice per rispondere a Fanfani per dire che occorre procedere con molta prudenza nei rapporti col governo. Il partito deve occuparsi – lui – del paese, delle zone che gli sono affidate, della preparazione dei programmi da affidare al governo per la realizzazione e di fiancheggiarlo e aiutarlo nell’attuazione – lo ha sostenuto ieri e lo sostiene oggi – (Scelba protesta? Il governo e il partito devono procedere di pari passo e in stretto accordo). De Gasperi sostiene il suo punto di vista ancorché la Direzione non voglia assumersi tutte le responsabilità delle manovre tattiche parlamentari. Gli errori del governo sono davanti alle persone non ai programmi. Non c’è altra possibilità di fare altro governo negoziando con i monarchici. […] Ripropone il suo testo per dimostrare che è quanto mai corretto e che cautela bene la Direzione nei confronti del governo. Ripropone all’approvazione della Direzione il testo riveduto, con gli emendamenti proposti stamattina, della risoluzione da dare alla stampa. Spiega un passo del punto 7 il quale vuole significare – a salvaguardia della linea del partito – che la Dc nell’appoggio del governo mescola i voti suoi con quelli dei monarchici per una ragione tattica la quale non compromette il partito su impostazioni programmatiche concordate che non ci furono e non ci sono, ma che è dettata dal fatto che il governo è nato senza una maggioranza precostituita. […] Se voi mi liberate dalle preoccupazioni che il partito abbia bisogno di indicargli una linea, sono ben lieto di correggere le mie valutazioni e rivedere il mio pensiero. […] Riprende il tema delle questioni di Trieste ingrandendolo [omissis] nella situazione internazionale è a noi assolutamente sfavorevole e invece favorevole a Tito. Di fronte a questo, credete che la Dc si esponga troppo a pronunciarsi sulla conferenza a cinque? Propone una nuova formulazione .
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Ha quindi preso la parola l’on. De Gasperi, che ha illustrato la risoluzione. Per quanto rifletteva la prima parte del documento ha rilevato che, relativamente alla questione di Trieste, non vi era nulla da aggiungere data la esauriente dichiarazione fatta ieri alla Camera dal presidente del Consiglio . Il governo può contare sull’appoggio compatto del partito e dei gruppi parlamentari, appoggio che costituisce un elemento di sostegno per la sua iniziativa. Mentre è in corso una delicata azione diplomatica, al governo deve essere lasciata quella autonomia di iniziativa che necessariamente comporta ogni negoziato internazionale. L’on. De Gasperi ha illustrato poi la seconda parte della risoluzione del partito relativa alla azione sociale da svolgere nel paese, per neutralizzare la crescente manovra di agitazione, di pressione e di penetrazione del comunismo, attraverso l’attività convergente di varie forze organizzate. Occorre tener conto della pluralità delle organizzazioni che, occupandosi di interessi di categoria o di altri aspetti sociali, incidono nella vita politica spesso senza che esista un piano ed una direttiva concordata o comune. Bisogna fare un nuovo sforzo per diminuire le conseguenze di questo pluralismo del nostro partito che è peraltro riflesso della struttura sociale e dello sviluppo storico del popolo italiano. La Direzione ha riaffermato le ragioni che impongono l’unità e che sono: la responsabilità nazionale della Dc quale compagine imprescindibile per la salvaguardia del regime democratico in Italia, e la responsabilità morale che le deriva dall’essere la forza politica tutrice e alimentatrice della tradizione cristiana del nostro paese. In nome di tale unità necessaria, il partito deve continuamente rinnovare il suo sforzo di sintesi tra le esigenze e i postulati delle categorie e dei gruppi che accettano le responsabilità sopra indicate secondo alcuni criteri fondamentali e tendenziali che ne caratterizzano la socialità. La sintesi infatti deve avere il fine di rinnovamento e del progresso verso la giustizia sociale, perché il partito non è stasi ma movimento alla testa del quale devono marciare coloro che hanno spirito dinamico di riforma e più largo senso di fraternità e sappiano anche tener conto delle insufficienze di chi è più lento nel cammino. Nella risoluzione si accenna ad alcuni particolari settori nei quali devono attuarsi la socialità e la solidarietà sociale. Dovremmo poi scendere al concreto, anche per quell’opera di aggiornamento corrispondente alle esigenze del momento. La Direzione a questo fine intende consultare gli interpreti più qualificati dei vari gruppi per esaminare con il loro concorso i postulati e le istanze delle categorie rappresentate entro il partito, i rurali, i lavoratori dell’industria e della terra, i piccoli proprietari, i ceti medi, dagli imprenditori agli artigiani, agli stipendiati, ai liberi professionisti. Accanto a quella voce degli interessi converrà sentire la voce degli economisti, degli esperti, dei tecnici e dei dirigenti. Cogli elementi così ottenuti si aggiorneranno i capitoli del nostro programma economico sociale attraverso una rielaborazione che dovrà poi essere formulata e integrata dagli organi politici del partito. Nel frattempo abbiamo fatto appello agli organi periferici della Dc perché curino i rapporti con le organizzazioni affini di fronte alle quali il partito esercita la funzione mediatrice ed elaboratrice. Noi speriamo che anche tali organizzazioni affini per quella parte della loro attività che incide nella vita politica non negheranno il contributo della loro operazione; e gli elementi che sono già praticamente rappresentati in seno ai nostri gruppi parlamentari sentiranno doppiamente questa esigenza di solidarietà. Un partito rurale, un partito medio ove esistessero, dovrebbe rifare in Parlamento il lavoro di sintesi per raggiungere qualche risultato. I loro eletti ed elettori sarebbero poi esposti al pericolo di negare la loro responsabilità verso la nazione e sarebbero facilmente vittime di un particolarismo di interessi e di un classismo che agirebbe entro la nazione come forza disgregatrice. Ora occorre raccogliere le forze, riordinare le file, guardare innanzitutto al paese della cui salvezza siamo corresponsabili al popolo che ci ha affidato la rappresentanza e ricordare soprattutto il nome di cristiani di cui ci onoriamo. Si ha il diritto di giudicarci secondo la fraternità che dimostriamo, secondo la spiritualità delle nostre azioni, secondo la moralità del nostro costume. La Direzione del partito conta sulla buona volontà e sulla autorevole e consapevole collaborazione dei parlamentari per il rafforzamento spirituale e organizzativo della Democrazia cristiana.
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Deve dire che esiste lo stato di crisi e lo sente, ma dipende dagli avvenimenti succedutisi dal caso di Trieste che ci ha assillati tutti. I direttivi hanno dato prova di grande senso di responsabilità davanti alla situazione, ed al governo. Crede che la questione di Trieste, che viene condotta pubblicamente, non è quella che possa richiedere uno sforzo unitario. A Scalfaro dice che capisce il suo stato d’animo però lui si duole che stamattina al gruppo 125 a favore della discussione e 12 contro: questo il gruppo di maggioranza! Mi sia lasciato terminare della questione di Trieste già esaurito ieri sera in Aula, anziché portarsi sul piano della discussione programmatica per la quale era stato convocato. Si augura che la questione di Trieste venga a progredire e con ciò a sgombrare il terreno politico per un esame approfondito e sereno delle nostre cose. Comprende l’atteggiamento di Gronchi e Piccioni. Due cose sulla linea della ragione ha detto Pella , degne di rilievo: non approfondire il solco fra gli alleati; lasciare un po’ di libertà di manovra al governo in confronto della Camera. […] Bisogna prima irrobustire il partito poi ingrossare una certa linea di convinzioni. [La Direzione passa quindi ad analizzare la questione della statizzazione delle industrie e la vertenza Pignone]. Si può concludere con l’esortare il governo a continuare negli sforzi per trovare una soluzione provvisoria in attesa di trovare una via d’uscita. In quanto alla discussione generale sul problema sarà fatta ma bisogna tener conto della situazione di fatto rappresentata dall’IRI. Cosa dobbiamo fare? La statizzazione delle industrie? Ma la riforma agraria si è proposta la riforma della piccola proprietà. Stiamo attenti perché non ci si dica che anziché andare verso una forma collettivizzata abbiamo spinto verso forme di vita arretrate (riforma agraria). Non è da ritenersi che si possa difendere situazioni improduttive. Se La Pira può municipalizzare la Pignone va bene, ma non parliamo di statizzazione. Se si tratta di assistenza molte sono le forme. Si può controllare l’industria per conoscere se sono o meno fondate le lamentele di mancato reddito ma non per una tendenza dirigista. La questione è grossa; se si deve affrontarla bisogna affrontarla in contraddittorio con gli industriali. Cosa possiamo fare stasera? Il governo interverrà per soluzioni temporanee. Però non possiamo avvallare le occupazioni delle fabbriche: fatto rivoluzionario e illegale. La questione verrà alla Camera in modo allarmante. (Moro informa che i fiorentini hanno presentato un’interrogazione). Occorre incaricare qualcuno che prenda contatti e promuova una riunione alla quale intervengano anche i sindacalisti e la parte opposta per una soluzione intermedia. [L’on. Scelba introduce quindi il dibattito sulla riforma della legge elettorale politica, durante il quale si propone di abrogare la vecchia legge «Modifiche al Testo unico delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto presidenziale 5 febbraio 1948, n. 26», salvo discutere poi un nuovo progetto]. C’è una terza via: abrogazione e il cambiamento di quoziente o abrogazione con un progetto da proporre all’esame e alla discussione onde guadagnare tempo nei confronti della revisione in corso. Conclude: o noi riusciamo a far passare un sistema elettorale migliore per noi dell’attuale, diversamente dobbiamo mantenere l’attuale.
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L’on. De Gasperi aprendo i lavori della riunione ha porto ai presenti il caloroso saluto della Direzione del partito e il suo personale, ricordando come egli stesso avesse iniziato la sua carriera politica come consigliere comunale e amministratore dell’Azienda municipalizzata di Trento assieme a Cesare Battisti. Queste esperienze giovanili lo hanno quindi portato in quei tempi lontani ad avere contatti con i grandi problemi della municipalizzazione, il che gli ha poi consentito di seguire, sia pure da lontano, l’attività delle municipalizzate con un sufficiente bagaglio di cognizioni. L’on. De Gasperi dopo aver constatato il notevole sviluppo della municipalizzazione e il contributo veramente prezioso che i democratici cristiani hanno dato a tale organizzazione in modo da acquistare una posizione così influente, come quella che attualmente detengono, ha espresso la gratitudine del partito per l’attività svolta dai suoi esponenti ed ha fatto voti che la manifestazione ufficiale che oggi si inizia in Campidoglio costituisca un rafforzamento della tendenza generale e sociale della municipalizzazione che è la prima e la soluzione intermedia tra il collettivismo statale e la cooperazione di forze di categoria. La municipalizzazione è quella che meno ha il peso della burocratizzazione statale e quella che più ha il contributo del controllo diretto dei cittadini; caratteristica questa ancora viva e feconda. Avviandosi alla conclusione, l’on. De Gasperi ha detto che la municipalizzazione è veramente la pratica della socialità entro un certo limite, il limite delle mura cittadine e dell’attività comunale, la applicazione, l’esperienza continua del senso di solidarietà che ci anima e ci deve animare.
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Passare subito all’o.d.g. o esaminare la polemica sorta fra gli imprenditori e i datori di lavoro? Costa è una figura complessa: da una parte adopera: 1)asprezza polemica da parte padronale; 2)sensibilità notevole per i problemi della disoccupazione che lo porta dalla parte dei lavoratori. Vario problema: occupazione delle fabbriche che è stato posto a forza dal disegno di legge Angelini presentato due giorni dopo che la Direzione si era occupata della questione . Il disegno fu visto dal ministro Malvestiti e modificato quindi accolto dal Direttivo. Ho scritto a Malvestiti perché dubito assai sopra la idoneità del provvedimento. Malvestiti ha risposto che gli fu detto da Angelini che i socialcomunisti stavano preparando qualcosa di simile e che d’altra parte nel massese si era potuto correre ai ripari, in quattro casi identici alla Pignone, superati politicamente: ciò lo ha incoraggiato (Angelini) a presentare il progetto di legge. Il disegno ormai è presentato, la Camera [lo] modificherà. Il governo non è proprio d’accordo con il ministro dell’Industria. Non può la Direzione pronunciarsi prima del governo. Ha preparato una risoluzione che presenta il progetto di legge come un espediente per risolvere le contingenze. Ne dà lettura. (Presupponeva che Il Popolo non avesse pubblicato l’articolo deciso nell’ultima seduta ). Apre la discussione. [L’on. Moro «avverte che, non avendo il gruppo chiusa la discussione sul progetto Angelini, non sia il caso di pronunciarsi oggi»]. È competente la Direzione e la sua risoluzione serve ad entrambi i gruppi. […] Analizza le osservazioni fatte e avverte Malfatti di non lasciarsi trascinare ad eccessi. Dobbiamo avere il coraggio di reagire. Non dobbiamo farci prendere dalle ingenuità del mondo cattolico. Cosa vogliamo in Italia? Si avrà una serie di scioperi colossali con gravi ripercussioni (colloquio con il ministro greco). Bisogna ristabilire l’ambiente su un piano di ordine. Forse la prima parte della risoluzione è ottimista… [Moro: «…sono dati statistici non credibili…»]. …ma su che cosa dobbiamo allora difendere o affermare una politica? Se i dati statistici non sono attendibili? […] Non so se l’accenno alla Pignone… […] Ho già detto a Milano queste cose . Se si parla chiaramente di Consigli di gestione ci si potrebbe accusare da parte della parte industriale, oggi estremamente reattiva, di voler consegnare l’Italia ai socialcomunisti. Aggiunge ulteriori considerazioni per dimostrare le ragioni della firma piuttosto pendente della risoluzione. Se il coraggio ci manca di affermare quello che abbiamo saputo fare e fare questo regalo ai comunisti, tagliamo pure la prima parte, però non si sente di fare un progetto di programma al governo, ma solo di indicare la strada che si deve battere, gli organismi che sono necessari. Torneremo sull’argomento ma gradualmente perché altrimenti noi favoriamo o procuriamo la fuga del capitale. E allora? […] Avete letto il discorso di Costa, di un cattolico? Se noi nel clima avventato creatosi riusciamo a dire una parola equilibrata otterremo qualcosa, diversamente faremo precipitare le cose. Ecco perché accenniamo anziché specificatamente ai Consigli di gestione a qualcosa che è più delle Commissioni interne e non è ancora il Consiglio di gestione. [Dopo altre osservazioni, il testo è approvato con l’intesa di citare nel comunicato il caso della Pignone . La Direzione passa poi a discutere la relazione del prof. Rodolfo Arata, dirigente dell’Ufficio coordinamento della stampa quotidiana del partito]. Manca la concretezza perché non si concluda in base all’esperienza con delle precise proposte. […] Com’è che ogni nostro giornale ha un suo corrispondente da Roma? […] Prima di tutto avere un piano per sapere cosa si vuol fare: 1) ridurre le spese e in che modo. Ciò vale per Roma e Milano. Il difetto sta nel non sapere chi sono i proprietari: e cioè il partito perché paga i debiti. Ci dovrebbe essere un Consiglio di amministrazione solo. Fu tentato senza riuscire. Oggi però non dobbiamo abbandonare questa via; 2) riduzione dei giornali. Possibile quello di Torino e quello di Palermo. Roma e Milano non si possono toccare. Per Torino sarebbe intempestivo atteso che il presidente del Consiglio è piemontese. Però è relativamente (4.000 copie all’edicole e 8.000 abbonati) più diffuso degli altri nostri giornali. Incomincerebbe (preparare per la prossima volta) a porre le condizioni per assicurare un [omissis]. [..] Allora bisogna proseguire nell’iniziativa! […] Dire ai giornali, Roma e Milano, «faremo uno sforzo per darvi un contributo però vi mettiamo delle condizioni per ridurre le spese». Per Torino soprassediamo per contingenze politiche e così per Palermo, che è in via di soluzione su base locale .
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Ricordiamo: il fascismo è venuto dopo una serie di capitolazioni del governo e dei partiti. Lavorare con prudenza ma non tanto prudenti da non parlare. Il partito non può tacere. Va bene rendere efficiente con accordi preliminari le nostre posizioni ma non dobbiamo rinnegare la nostra linea di condotta che è nettamente contro lo sciopero nei pubblici servizi. Se le cose possono arrivare ad una mediazione tanto meglio ma diversamente non dobbiamo transigere a scanso di grosse nostre difficoltà. […] Trovare una formula che non siluri lo sciopero ma che nello stesso tempo ci scagioni dalle responsabilità dello sciopero . Vede la questione soprattutto in questo: cosa farà il Parlamento. Non crede che possa ricorrere alla battaglia sindacale per questo argomento (diritto allo sciopero). Bisogna tenere conto dei compositi interessi che rappresentano, i quali trovano la loro rappresentanza in parlamento. Se è possibile trovare una via d’uscita, troviamola perché la situazione non è facile, però il principio deve essere riaffermato. Il ricorso allo sciopero è illegittimo. È un fatto che tocca le sorti della democrazia. Secondo le risultanze non sembra ci sia più molto da tentare. Pertanto è necessario riaffermare il principio anche perché i tempi sono torbidi. […] Andiamo adagio perché si potrebbe far credere che ci sia un piano diverso da quello del governo. I sindacati se si chiamano democratici non devono mettersi contro il Parlamento. [Segue l’intervento di Oscar Luigi Scalfaro, che vede nell’inserimento del principio dello sciopero nella legge di delega al governo il massimo elemento di contrasto]. Va bene ma non è il governo che decide ma il Parlamento! […] Avverte la pericolosità di questo passo: se il governo accetta per noi è un trionfo se prende tempo noi siamo coinvolti come compartecipi dello sciopero. […] Fare un sondaggio presso il governo se è disposto a parlare di accordi e a stralciare dalla legge delega il diritto allo sciopero (questa la proposta di Moro) ; Scelba invece sostiene l’integralità della legge delega. Io sosterrei il principio salvo a vedere in sede parlamentare cosa convenga fare. [Angelo Salizzoni sostiene che il governo debba «accogliere le richieste degli acconti e del principio dello sciopero». «Qualora, malgrado ciò, i sindacati non revocano lo sciopero, si dovrà dire al paese cosa ha fatto il partito per evitare lo sciopero e le concessioni che si sono ottenute»]. Va bene ma metteremmo in crisi il governo. Propone che due delegati della Direzione vadano dal presidente Pella. [Dopo la relazione del dirigente centrale dell’Ufficio problemi del lavoro, on. Zaccagnini, De Gasperi interviene sul progetto di legge sui contratti agrari, in via di discussione al Parlamento]. Si è espresso il parere: 1)il progetto deve essere presentato dal governo; 2)contenere i punti di vista assimilati ai nostri; 3)la base: testo della Commissione del Senato salvo nella mezzadria classica e [nella] trasformazione della mezzadria in affitto; 4)formula esecutiva nel periodo transitorio. [Scelba riferisce sui colloqui con il presidente del Consiglio Pella per la regolamentazione dello sciopero]. Allora come partito noi potremo [dire] che se si prolunga interverremo per gli acconti e perché il principio dello sciopero sia lasciato a disposizione del governo sotto forma di arbitrato .
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Ringrazia i colleghi per l’accoglienza. Ricorda le sue dichiarazioni che tenevano presente lo scioglimento improvviso del Senato, il quale veniva a trovarsi decurtato di alcuni membri non elettivi. Il problema è naturalmente politico e transitorio e non dovrebbe andare al di là di un numero limitato. Attualmente ritiene necessario inserirsi in questa riforma, sia pure limitando al massimo il numero degli integranti. Personalmente non avrebbe niente in contrario se questi uomini, in parte, fossero scelti anche tra persone autorevoli, al di fuori del rapporto numerico dei gruppi. Dichiara che il partito ripone molta fiducia nell’equilibrio dei senatori. Nostro compito è quello di difendere soprattutto lo Stato, al di fuori del partito.
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Innegabilmente siamo in un periodo di turbamento. Pare che in alcuni di noi sia venuta meno la fede nel programma, nell’azione, nelle possibilità della Democrazia cristiana. Taluno pensa che bisognerebbe mutuare impulsi innovatori e istanze sociali dalla sinistra, tal altro ritiene che, per stare in piedi, ci convenga il puntello della destra. Noi, certi di interpretare il sentimento dei più, siamo qui ad affermare che non vi è che una necessità e una urgenza sola, quella di metterci in marcia sul cammino che ci è proprio. Ma marciare bisogna! Scuotersi di dosso l’indolenza e il senso di depressione, riprendere intiera la consapevolezza della nostra responsabilità di fronte al paese, rinnovare ed aggiornare la nostra attrezzatura intellettuale e programmatica, migliorare i nostri quadri, allargare e consolidare la nostra organizzazione. Prestiamo orecchio alla voce del popolo che crede e spera in noi e ci chiede soprattutto di essere anche in politica onesti, disinteressati e sinceri: non demagoghi frasaiuoli, pronti ad ogni opportunismo verso l’alto o verso il basso, verso destra e verso manca, ma uomini schietti e coraggiosi che conoscono la direzione di marcia e trovano nell’intimo della loro coscienza la fiamma che illumina il cammino. Perché noi cristiani, i quali crediamo col Salmista che «la luce della faccia del Signore è stampata dentro di noi» dovremmo far ricorso ai lumi di altre ideologie per imboccare la via giusta; e come possiamo essere scettici e pessimisti noi, che crediamo in un Dio il quale dona la «giocondità e la forza» per camminare sulla via della verità e della giustizia? A mio avviso due sono le cause esterne, cioè al di fuori di noi: la prima è la situazione parlamentare, la seconda la situazione nel paese. La mancanza di una maggioranza solida, fondata su un’evidente convergenza di direttiva politica o su impegni programmatici di collaborazione, costringe il governo a cercare di volta in volta il consenso delle parti. È ovvio che tale necessità tattica non favorisca il raffronto e il dibattito delle idee e non offra frequente occasione di definire tendenze, accentuare distinzioni o confluenze programmatiche. È vero che rimane alle Camere quello che è il loro compito più diretto, cioè il legiferare e il controllare la amministrazione; ma tant’è, l’opinione pubblica, cioè i giornalisti e i lettori, sono abituati ad appassionarsi più per la dialettica e la grammatica dei discorsi tendenziali che per le considerazioni di una discussione concreta, sì che l’assenza o la mortificazione di questa polemica sconcerta e delude, nello stesso modo che il pubblico rimane disorientato e scontento innanzi a una partita giuocata senza impegno. Tuttavia, se non ci fosse che questo imbarazzo parlamentare non sarebbe forse difficile col tempo di far mutare i gusti e le abitudini del pubblico, il quale alla fine dovrebbe prendere atto che si tratta di una necessità tattica, inevitabile, anzi talvolta anche meritoria, nei casi in cui viene perseguita nell’interesse superiore del paese. Il male è che una situazione similare si manifesta anche nello stesso paese. Qui la ragione del disorientamento e della paralisi sta nel fatto che, dall’impostazione della campagna elettorale in qua, l’ispirazione, l’iniziativa e la direzione della manovra politica, delle agitazioni di massa e in genere delle manifestazioni collettive, è stata e rimane in mano del movimento comunista, sotto la parola d’ordine dell’unità delle forze progressive e di sinistra. Quali che siano stati i propositi personali di Nenni e di Saragat, è certo che la alternativa socialista e l’apertura a sinistra servono allo stesso scopo della politica unitaria di raccoglimento dell’on. Togliatti, anzi suppongono tale politica e la integrano. Di siffatta politica l’altra faccia è la disgregazione del blocco democratico, dei partiti minori prima, poi della Dc. Nei nostri confronti, qual è l’effetto orale che si vuole raggiungere con queste manovre di aggiramento? Si vuole insinuare nelle forze di centro che esse altro non sono che un aggregato artificioso senza impulsi sociali e senza spirito vitale, sì che per operare dovrebbero integrarsi con le idee e col programma dei socialisti. È vero che per poter affermare una simile necessità si è dovuto negare quanto abbiamo fatto in otto anni di lavoro costruttivo e riformatore; ma, contando sulla labile memoria della gente, si è proclamato che il voto del 7 giugno aveva condannato e sepolto inesorabilmente sotto le rovine del quadripartito anche il passato e il presente della Dc. Noi, sicuri della nostra coscienza e fidando nel buon senso del popolo italiano, abbiamo reagito debolmente, nella preoccupazione che l’esasperazione polemica sul passato non rendesse ancora più precaria la vacillante situazione parlamentare e ci indebolisse ancora più nei nostri rapporti con l’estero. Siamo pur sempre il partito della maggioranza relativa, investito come tale di una responsabilità preminente: ed è nostro obbligo di appoggiare lealmente un governo amico che nella difficile situazione interna e internazionale rappresenta e difende gli interessi supremi del paese. Tale nostro atteggiamento ha potuto far credere che noi accettassimo la faziosa interpretazione del voto del 7 giugno, che noi ci sentissimo compunti come dinnanzi ad una sanzione meritata? Si disingannino i nostri avversari, se l’hanno creduto e soprattutto si tranquillizzino quegli amici che si sono lasciati stordire dal gran vociare degli estremi. Noi, anche noi dobbiamo fare una politica di raccoglimento e rinnovare e radunare le forze. Ma in verità non fingano di allarmarsi i maligni: non si tratta della diligenza governativa né di un colpo di mano parlamentare. Il Parlamento è l’organo supremo; ma non bisogna rimanere avvinti e incantati innanzi a questo che è pur sempre uno strumento della volontà popolare: occorre preoccuparsi di ciò che avviene nel paese, negli strati più larghi del nostro popolo, di ciò che vi si prepara perché un giorno presto o tardi che sia, (e il tardi è sempre presto per l’immenso lavoro da fare) la rovina o la salvezza verranno di là, verranno dalla base. E qui converrebbe fare un’analisi anche delle accuse interne, cioè di quelle che riguardano responsabilità nostre, del partito, o in genere del nostro movimento. La prima causa interna di debolezza è la dispersione delle forze. Noi siamo in dottrina e in pratica pluralisti, rispettiamo le autonomie, distinguiamo compiti e funzioni; il partito Dc non è totalitario, nemmeno all’interno delle nostre strutture. Quindi Azione cattolica, Acli, sindacati, consorzi, cooperative, ecc.; ciascuno al suo posto, con propria responsabilità. Sta bene: ma che nella loro azione non si incontrino sulla stessa linea, quando si tratta di schierarsi per una difesa comune di fronte ad uno schieramento avversario unico; che non cerchino e non trovino una parola d’ordine per tutti; che manchi uno scambio di idee e perfino di informazioni, ciò costituisce un punto debole da sempre, e spesso, un’altra ragione di disorientamento . A lungo andare questo modo di procedere per linee sparse porterebbe gravi conseguenze; ma già ora deprime gli slanci e scoraggia le iniziative, e soprattutto dà adito agli avversari di giocarci gli uni contro gli altri. Altre cause ancora sono più inerenti all’attività e alla funzionalità del partito. Le campagne elettorali, anche se vittoriosamente condotte, logorano uomini ed organi. Qua e là la presentazione e il sostegno delle candidature ha fatto prevalere ambizioni personali e solidarietà di gruppi sul concetto e sull’interesse unitario. E vi sono certo anche colpe o insufficienze di uomini; è doveroso ammetterlo francamente, com’è doveroso per ogni cristiano di considerare e giudicare con senso di comprensione e di fraternità. Noi intendiamo che queste colonne siano aperte a questo sereno esame, a quest’analisi coscienziosa. Chi ha delle idee, frutto delle sue provate convinzioni di partito, della sua esperienza nell’attività pubblica le dica, concretamente e impersonalisticamente. Non metteremo altra condizione che questa: la critica non sia uno sfogo di risentimenti, ma si proponga l’unità del partito e a questo bene necessario veramente contribuisca. Ma l’analisi, la critica, la discussione devono servire a orientare e spingere innanzi tutte le forze del nostro movimento, dando loro una coscienza e una propulsione unitaria. Così, nella conclusione, torniamo all’affermazione iniziale. La questione non è di sapere se, quando si presenti la necessità, sia lecito o si debba cercare o accettare il concorso di questo o di quel partito. La questione di principio in dottrina e in pratica è da lungo tempo superata. Un governo di coalizione può in certi casi imporsi come necessità di Stato e di pubblico interesse; ma la collaborazione può essere innocua e feconda, solo se noi saremo interiormente e qualitativamente forti e compatti, cioè se avremo piena coscienza delle nostre origini, del nostro carattere, delle nostre finalità supreme. Prima di ogni cosa dunque è urgente vivificare l’anima del partito, irrobustire le sue strutture, porlo di fronte alla sua responsabilità nazionale che è quella di salvare il regime democratico e la libertà. Approfondire il suo carattere sociale, aggiornando il programma alle nuove esigenze e alle condizioni economiche; definire entro il quadro di un programma massimo i postulati di possibile immediata realizzazione; esaminare e vagliare le richieste delle categorie e dei gruppi rappresentati o aderenti per cavarne gli elementi di una sintesi realizzabile. Riunire le forze in sede locale, provinciale e centrale. Al centro si lavora in tale senso. Bisogna che se ne discuta anche in periferia e nelle Sezioni. Così si preparano convegni e congressi, così si sostanzia il dibattito che dovrà precedere le deliberazioni. Il congresso non può essere una manifestazione effimera, ma la maturazione di un processo chiarificatore, unitario, ricostruttore. Anche questo foglio è destinato a tale maturazione; perciò esso invita alla reciproca informazione ed alla discussione giovani ed anziani, uomini che sentono l’ansia delle Cose Nuove (Rerum Novarum) e uomini che hanno già saggiato l’urto della realtà storica e ambientale che condiziona la nostra vita collettiva. Quando saremo tutti in piedi, fusi in una sola volontà suprema di salvezza, allora ci accorgeremo che per essere innovatori e riformisti non abbiamo bisogno di cercare impulsi e ispirazione a sinistra né per dimostrare senso nazionale, di fare una conversione a destra. Avremo una rinnovata coscienza integrale di noi stessi e marceremo avanti sulla nostra via, e se dovremo scegliere compagni di viaggio, avremo diritto di chiedere la garanzia che anche il loro cammino sia quello di uomini liberi.
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Sulla conversazione che ebbi il 23 c.m. a Palazzo Chigi col presidente del Consiglio io non feci né direttamente né indirettamente comunicazione alcuna alla stampa e l’on. Pella passò all’ANSA la brevissima dichiarazione interlocutoria che tutti conoscono . Ciò nonostante i giornali sono pieni di congetture, di cosiddette indiscrezioni e di immaginarie o tendenziose ricostruzioni del colloquio. Ed ecco che sulla fede di tali presunte informazioni la stampa di estrema sinistra scatena contro la Dc e personalmente contro di me una tempesta d’invettive e di menzogne. Il Paese proclama su quattro colonne che De Gasperi avrebbe imposto a Pella il «Diktat della Direzione», e che Pella l’avrebbe accolto con «supina acquiescenza» . L’Avanti! parla «di termini addirittura scandalosi del gioco personale del segretario della Dc» il quale «avrebbe proposto a Pella di servire da testa di turco per le proprie mire», infine l’Unità introduce un bilioso articolo di O.[ttavio] Pastore coll’apostrofe: «possibile che l’on. De Gasperi non senta l’onda sdegnata e sprezzante che nel paese gli si leva contro?». E mi accusa di non aver «smesso un minuto dal porre tutti i bastoni possibili nelle ruote del governo, seminando la confusione, accrescendo il disordine in Parlamento, impedendo accordi» ecc. ecc . Inutile dire che anche l’estrema destra (Secolo) inserisce nel coro la sua voce chioccia. Mi guarderò bene dal polemizzare contro tanta malafede o di entrare nel merito delle conversazioni in corso. Ma forse non è superfluo ch’io segnali agli amici la persistenza e la perfidia di questo tentativo di dividere gli uomini della Dc, di aizzarli l’uno contro l’altro, di presentare il partito come una cricca che va all’assalto del governo, e il governo, pur composto prevalentemente di Dc, come estraneo e ostile al partito. La verità sta nei fatti: 1)i nostri gruppi parlamentari hanno sempre accolte le proposte fatte o raccomandate dal governo e hanno sempre votato per il governo, quando si trattava di esprimergli la fiducia. Anche la Direzione del partito nella sfera della sua competenza, o, quando venne chiamata in causa, confermò costantemente e unanimemente tale direttiva. 2)Né Direzione né gruppi parlamentari hanno preso l’iniziativa di proporre modificazioni nella composizione del gabinetto. Abbiamo soltanto riaffermata la necessità che, nella presente delicata situazione parlamentare e politica fra governo e partito, regni il più cordiale spirito di mutua collaborazione e fiducia. È vero che tale fiducioso rapporto di collaborazione fra il gabinetto e il partito della maggioranza relativa dovrebbe essere doveroso e ovvio sempre; ma l’abbiamo dovuto accentuare, più particolarmente nella ultima risoluzione della Direzione , onde porre termine a una insidiosa ed equivoca campagna di stampa. Sventuratamente tale campagna pare non s’acqueti. È da prevedere che gli attacchi e le insidie continueranno. Ebbene gli amici devono sapere che siamo tranquilli e sereni, che non abbiamo altra ambizione che quella di irrobustire e di mantenere unito e vigilante il partito. E gli uomini di buona fede che non militano nelle nostre file, ma sono preoccupati delle sorti della democrazia e del paese, riconosceranno che questa fu anche la preoccupazione suprema nostra, nei lunghi anni del nostro pubblico servizio e prendano atto che oggi ancora essa sovrasta ogni personale considerazione.
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Avrete visto i giornali ed avrete rilevato che a Roma vi è una certa attesa per il mio discorso. Credo che vi saranno delle delusioni, perché io non intendo affatto profittare di questa assemblea, facendo un discorso alla finestra per coloro che stanno fuori. Intendo parlare a voi, rappresentanti responsabili degli interessi della Sicilia e miei fratelli nella responsabilità della nazione: altrimenti farei torto a voi, amministratori, delegati e lavoratori, cittadini, rappresentanti del ceto medio e del proletariato, a voi che avete affrontato con concretezza problemi angosciosi della vostra e nostra vita sociale. Veramente qui in questo convegno ha risuonato la voce, il fremito rinnovatore di un popolo che, sotto la guida dei suoi amministratori regionali e dei propri deputati, ha preso conoscenza dei suoi bisogni. Valuta quello che si fa e quello che si è fatto, ma esamina quello che ancora urge di fare. La relazione Costarelli sul problema della casa che io ho riletto pazientemente, è una relazione meravigliosa, piena di dati tecnici, di considerazioni, di esperienze. Mi congratulo con voi che avete fra voi stessi uomini, ed anche perché avete dimostrato una particolare maturità nel seguire, con viva attenzione tanti dati statistici, tante considerazioni di carattere tecnico. Aver fatto argomento di questa assemblea una discussione così irta di cifre e di fatti a voi stessi complessi e nello stesso tempo così imperiosi nella loro urgenza bruciante, vuol dire che vi sono stati dei progressi sulla via della maturità del nostro popolo. Nelle nostre assemblee, una volta bastavano le parole: oggi le assemblee sono pronte a considerare fatti e sono aperte allo spirito critico, seguendo con interesse, ma anche con moderata diffidenza le varie tesi che vengono trattate. Invero Costarelli ha esposto il problema in una maniera esauriente. Egli ha diviso in tre categorie la sostanza del problema: i senzatetto, le abitazioni qualitativamente e quantitativamente insufficienti ed infine ci ha portato i dati statistici ed ha dimostrato che con 770.600 vani che si costruiscono annualmente per dieci anni, si può soddisfare il fabbisogno annuo, in vani, per avviare a soluzione il problema. Ora, nel 1953, abbiamo costruito in Italia 800 mila vani e nella Regione 135 mila. Dunque è possibile, in un piano decennale, giungere alla meta. Si tratta, soltanto di coordinare meglio lo sforzo, ma il problema non è insormontabile: è necessario però avere tenacia e coraggio. Mi permettete una considerazione forse un po’ immodesta? Si tratta di rendere testimonianza ai miei collaboratori: nella relazione Costarelli trovo affermato che la preparazione di questa potenzialità è un effetto, degno del massimo apprezzamento, della politica dell’ultimo quinquennio. Purtroppo, a volte, per varie ragioni, in quest’opera di ricostruzione e di costruzione non si è pensato adeguatamente, sopratutto ai miserabili, manifestandosi una tendenza a dirottare finanziamenti dai settori di massima urgenza verso meno urgenti bisogni, per cui la voce di coloro che hanno più immediato bisogno rimane meno avvertita di quelli che, pur con uguali bisogni sono più lontani. La relazione Costarelli ha constatato ciò e ciò abbiamo constatato anche noi. Egli ha fatto il paragone tra la troglodita di Modica e lo stipendiato che riceve, attraverso la cooperativa, una forte sovvenzione per una casa. Graduatoria, egli ha detto; bisogna creare una graduatoria. Bisogna innanzi tutto eliminare i ricoveri di fortuna (218.642 famiglie in 193.565 ricoveri, con 1’11,5 per cento di casi di coabitazione); quindi bisogna dedicarsi alla bonifica edilizia, che riguarda anche le case per i contadini. Nella Regione si è fatto tanto che, dedicando la spesa con criteri di graduatoria, il soddisfacimento dei bisogni è raggiungibile. Qual è attualmente la situazione legislativa? Le due leggi della Regione più la legge Fanfani, la legge Tupini e la legge Aldisio, formano un complesso da rendere organico e da sviluppare. E qui si inserisce la proposta concreta dell’onorevole Costarelli il quale auspica il costituirsi di un organo di coordinamento fra i vari enti e di studio pianificatore. Alla luce di queste considerazioni mi pare di poter dire che il problema della casa sia stato affrontato in questo Convegno con grande serietà. Questa non è un’adunanza che possa prender decisioni; si tratta di decisioni che devono prendere la Regione e il Parlamento. Però il problema è stato affrontato con serietà. Si sono tracciate alcune linee, si è aderito ad alcune proposte, le quali devono essere norme di condotta, tanto per la Regione, quanto per lo Stato. Il partito, da parte sua, assume la responsabilità di vigilare questo programma. E veniamo alla relazione Alessi, sulla quale, già l’onorevole Scelba, con molta competenza, ha interloquito; relazione magnifica, alata, come egli sa fare. In essa ricorda le origini municipaliste del nostro movimento, in particolare del movimento siciliano e ricorda altresì le esperienze fatte in quest’ultimo periodo di amministrazione regionale. Si sono raggiunte conclusioni che io vivamente raccomando allo studio dell’Ufficio enti locali del partito. Si è toccato il problema della provincia: cioè del modo di abolire e ricostruire la provincia, sì da ricostruire, cioè nello spirito, attraverso la collaborazione volontaristica, quella che sta sulla carta geografica. È una soluzione che anche Scelba, mi pare, trova utile. Io dirò una sola cosa: che mi auguro che voi facciate l’esperimento e che vada bene, in quanto lo dovremo copiare anche nelle altre Regioni. Del resto, anche per l’autonomia avete condotto una esperienza positiva e io dissi in proposito allora: va bene, proviamo. L’esperimento è andato bene e non poteva essere diversamente, perché c’è lo spirito che ci unisce; c’è il sentimento nazionale dei siciliani, i quali sono italiani meglio e più degli altri. Voi direte che io sono anche un po’ campanilista perché rappresento una regione che ha un’amministrazione autonoma e che ha anche delle speranze di sviluppo. Disgraziatamente però nella mia Regione questo problema autonomistico è mescolato con il problema etnico che viene a interpolarsi: voi per fortuna non avete né avanzi di arabi; né di greci: li avete assorbiti e così questo pericolo non lo avete. Quello che mi ha impressionato è stata la discussione con un’autocritica serena. Sono venute alla tribuna persone che hanno avuto parole di lode, ma che hanno fatto anche osservazioni serene. Hanno detto: bisogna far questo, bisogna far quest’altro; e io accolgo tutte le osservazioni fraternamente fatte a me, al governo, alla Regione. Ma qui non abbiamo ascoltato soltanto la voce degli organizzati: abbiamo ascoltato voci di dispersi e di isolati; non soltanto di gente cioè riunita in organizzazione che può scioperare, fare dimostrazioni, avanzare lagnanze. Qui tutte le tendenze, le esigenze ed i bisogni sono rappresentati. Qui ha parlato il popolo tutto nelle sue multiformi categorie. E questo è bene, perché nella vita sociale accade spesso che, non organizzati, gli isolati soccombano di fronte alla maggiore pressione delle categorie sociali compatte. Ecco che questi convegni dimostrano quale sia la nostra visione panoramica; che cosa intendiamo quando affermiamo che la Democrazia cristiana è partito di popolo e non partito di classe. Sull’interclassismo della Democrazia cristiana si è fatta spesso dell’ironia, dicendo che col nostro interclassismo riusciamo a paralizzare gli interessi degli uni mettendoli a raffronto a quelli degli altri. Non è vero. È vero invece che, volendo considerare tutte le categorie sociali, non possiamo accettare un’interpretazione della vita sociale che divida il popolo in due categorie nette: i ricchi e i poveri, identificabili questi ultimi con le categorie dei salariati e degli stipendiati. Il vero si è che in un paese povero come l’Italia, con un reddito medio assai basso, inferiore alla media salariale, dobbiamo affrontare i problemi globalmente, con una graduatoria dai miserabili, dai disoccupati, dai sottoccupati in su. Non possiamo fermarci sulla considerazione di un particolare interesse, di una particolare categoria di cittadini. E quando vogliamo agire, dobbiamo agire sulla produzione, sulle condizioni generali di vita, sulle occasioni di lavoro, e dobbiamo sollecitare tutte le energie, lo Stato, la Regione ed il Comune, ma anche la iniziativa privata, come ben dice l’onorevole Costarelli; e attorno al Comune creare l’interessamento e la difesa dei legittimi interessi locali, come ben dice Alessi. Da qui la soluzione dei problemi generali. Il sorgere della Cassa del Mezzogiorno, per esempio, non aumenta direttamente i salari, ma fa sì che la produzione aumenti a beneficio della società tutta. Da qui la legge di riforma agraria, la legge di sollecitazione (montagna, meccanizzazione agricola, cantieri di lavoro): leggi di interclassismo che creano condizioni di lavoro. Il ceto medio è sostanzialmente costituito da coloro che cercano una propria base di lavoro per sviluppare una propria attività, come l’artigiano, il contadino, il commerciante, l’imprenditore. La scomparsa del ceto medio significherebbe avviarsi ad una società di stipendiati e salariati dello Stato; sarebbe la fine della produzione. Vi è una parola che abbiamo usato e che è bene ripetere spesso: solidarismo. Solidarismo vuol dire essere solidali; collaborazione di classi. Quando parlo di collaborazione di classi non intendo dire che bisogna sempre giungere all’accordo, ma intendo dire che tutti i movimenti, anche delle classi più disparate, devono essere coordinati. In questa visione la lotta sindacale deve essere intesa come lotta indirizzata a ricostituire la solidarietà che sia rotta dall’imperio del principio monopolistico. Ed anche la proprietà privata, secondo il solidarismo, deve servire all’unità e al consolidamento della famiglia e dello Stato; ma non può minacciare Stato e famiglia con lo sviluppo del proprio istituto. La teoria economica del solidarismo pone nel centro il fattore personale dinamico, cioè il lavoro. Io vorrei che sopratutto i giovani considerassero in particolar modo questo problema: l’uomo è creato dalla società, vive nella società e nella società riesce a trovare la necessaria assistenza e soddisfazione alle sue esigenze. Il solidarismo è quel sistema sociale che eleva a principio della convivenza umana la solidarietà di ogni comunità con i suoi membri, e dei suoi membri con la comunità. Individui e gruppi realizzano sempre i propri fini, ma sempre e non incidentalmente in connessione con la loro presenza nella comunità e, in gran parte, con l’aiuto della comunità. Da questo rapporto vitale dell’individuo con la comunità deriva la subordinazione del bene del singolo a quello della società. Le classi sociali si organizzano su basi legittime: allora esse tendono all’unione con le altre. I loro piani particolari, di fatto, non stanno al posto supremo della gerarchia naturale dei fini sociali; è la concezione che ci ha accompagnato dalle origini, è la concezione non classista, ma pluralista ed organica. Ho sentito in qualche dichiarazione giovanile un accento accorato, angosciato, quasi vicino alla disperazione. Ho sentito un riferimento alla Redenzione, citando una nota definizione: «il comunismo è una testimonianza del dovere incompiuto». Io non ho da obiettare in quanto tali affermazioni provengono da un umile esame di coscienza. Ma, amici miei, il problema del bene e del male è un mistero molto oscuro se guardiamo alla storia. Che cosa pensare allora del fatto che la maggioranza della terra è ancora in preda al paganesimo? L’ateismo della massa senza dubbio è una delle cause di penetrazione del comunismo. Ma credete che se non vi fosse stata la forza organizzata, se non ci fosse stato il peccato delle guerre, credete voi che il bolscevismo avrebbe potuto raggiungere i limiti attuali? Costarelli ha iniziato la sua relazione col monito del Santo Padre sul problema della casa. Ebbene, citiamo anche noi il Santo Padre, specialmente le ultime parole, che egli ha detto sulla scuola sociale cristiana. Ai politici cristiani, e quindi anche a noi, egli ha detto: «in un tempo come il nostro in cui gli errori si mutano facilmente in catastrofi, un uomo politico cristiano non può – oggi meno che mai – accrescere la tensione sociale interna, drammatizzandola, trascurando ciò che è positivo e lasciando smarrire la retta visione di quello che è ragionevolmente possibile. A lui si chiede tenacia nell’attuazione della dottrina sociale cristiana, tenacia e fiducia più di quanto ne dimostrino gli avversari verso i loro errori». E infine: «è colpevole chi non è risoluto a far prevalere in tutti i gruppi la legittima autorità dello Stato e la osservanza delle giuste leggi. Occorre forse dimostrare che la debolezza delle autorità scalza la solidità d’un paese più che tutte le altre difficoltà e che la debolezza d’un paese porta con sé l’indebolimento dell’Europa e mette in pericolo la pace generale?». Non bisogna, o giovani, disperare della storia umana, anche se essa proceda col ritmo lentissimo dei secoli, fra gli errori degli uomini e i sommovimenti della materia che, come l’Etna, è sempre in eruzione. Forse taluno di voi sedendo lungo il mare e meditando sulle civiltà scomparse avrà letto le lettere indirizzate da Platone a Dione e ai suoi amici di Siracusa, oltre due millenni or sono. In una sua epistola il grande filosofo greco si mostra desolato delle condizioni politico-costituzionali di tutto il paese, a cominciare da Atene; in essa si pente di aver sperato nel moto rivoluzionario dei trenta, al quale ha collaborato. Venuto a Siracusa una prima volta, il filosofo rimase scandalizzato dell’ozio e del malcostume che regnava nella classe dirigente dell’isola. Chiamato più tardi una seconda volta e venutovi, onde non apparire solamente «parola ma uomo pronto all’azione», si dedicò ad inculcare alla corte di Dionisio il principio che «nessuno può essere felice se non trascorre l’esistenza in luce di spiritualità e in imperio di giustizia». La sua predicazione non ebbe successo. Dione, il suo discepolo prediletto, che giungendo al governo voleva attuare le idee del filosofo, scomparve vittima del secondo Dionisio. Non per questo Platone si perdette d’animo e mutò parere, ma in un ultima lettera insistè presso i siciliani con questa raccomandazione: «accogliete, o siracusani, prima di tutto le leggi che si dimostrino adatte a staccare le vostre menti dal guadagno e dalla ricchezza. Vi è un triplice ordine di fatti: anima, corpo, ricchezza. Ebbene dovete ritenere sopra ogni altra preziosa la virtù dell’anima; secondo, la virtù del corpo; terzo, poi, il valore della ricchezza e del denaro che serve al corpo e all’anima». I secoli, i millenni sono trascorsi. Il Cristianesimo è venuto a confermare e a perfezionare il testamento del filosofo: più profondo e più vasto il nostro concetto di popolo; più intima la fraternità nel Cristo Redentore, che rimane vero che sopra ogni altra cosa deve valere la virtù dell’animo. La casa, il comune, lo sfruttamento delle energie di questa gloriosa Sicilia, onusta di secoli; ma prima di tutto sarà lo spirito che ci anima, lo spirito che è la nostra forza motrice, la nostra unità che ci fa resistere e lavorare oltre il successo e oltre la speranza.
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Signor Presidente, desidero anzitutto ringraziarla per le parole così cortesi che ella ha voluto dedicare alla mia attività di Governo e che mi hanno profondamente commosso. L’apprezzamento che attraverso la mia persona ella ha voluto esprimere nei riguardi dei risultati raggiunti in Italia e nel campo internazionale dal Governo che ho la ventura di presiedere mi è giunto tanto più gradito in quanto proviene da una personalità così illustre come quella di V.E. che tanti servigi ha reso alla Patria ed alla causa del mondo occidentale e che la volontà popolare liberamente espressa ha chiamato oggi alla responsabilità del Governo. Condivido appieno la convinzione di V.E. Ammaestrati dalle recenti esperienze i nostri due popoli non si allontaneranno più da quella fraterna amicizia che ha le sue radici nella loro storia millenaria e la sua piena giustificazione nelle comuni aspirazioni ed esigenze. Esigenze ed aspirazioni che si traducono in tre fondamentali concetti: pace nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo, stabilità e progresso sociale, stretta collaborazione con tutti i popoli che condividono i nostri ideali di libertà e di giustizia. Sono certo che da questa mia visita e dai franchi scambi di vedute con V.E. e con gli altri membri del Governo ellenico deriverà un ulteriore rafforzamento della collaborazione già felicemente in atto fra i nostri due Paesi. Essi hanno un antico e glorioso patrimonio di civiltà che non è soltanto un illustre ricordo ma una preziosa eredità da proteggere ed una ricca miniera di esperienze la quale ci consente di apprezzare in tutta la sua importanza il nuovo fervore di vita che oggi si manifesta nei Paesi bagnati dal Mediterraneo. Nel quadro dell’Alleanza atlantica, Grecia ed Italia possono dunque assolvere anche una particolare missione di affratellamento fra questi Paesi e contribuire anche in tal modo al benessere ed alla prosperità del mondo libero. In tale fiducia e con tali sentimenti levo il calice alla salute di S.M. il Re degli elleni, alle fortune del popolo greco ed alla prosperità personale di V.E.
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Nel colloquio iniziale i due presidenti non vollero presenti i collaboratori e si scambiarono sin dalle prime parole una confidenza: non gradivano né l’uno né l’altro le formule diplomatiche preferendo illustrarsi a vicenda il loro pensiero con franchezza. Così felice inizio accrebbe il sentimento di reciproca fiducia e aiutò a trattare senza diffidenza di sorta il riassetto della difesa nel settore sudorientale d’Europa. All’intesa greco-turca che mirava a coordinare l’organizzazione politica e militare della zona mediterranea e balcanica si veniva da mesi interessando per necessità geografiche anche Belgrado. Scambi di idee erano intercorse tra le capitali interessate e si era studiata la possibilità di una collaborazione da parte Jugoslava. La posizione internazionale della Jugoslavia non inclusa nell’Alleanza atlantica ostava ad un pieno inserimento di essa nella organizzazione difensiva occidentale mentre il problema sempre aperto ed insoluto del Territorio Libero di Trieste impediva che Roma e Belgrado effettuassero nel dispositivo della difesa mediterraneo-balcanica quella indispensabile sutura che avrebbe reso automaticamente efficace tale dispositivo. E a coloro che pensavano si venisse delineando un asse Roma-Belgrado- Atene De Gasperi rispondeva che nel caso l’asse sarebbe riuscito un poco contorto perché avrebbe dovuto passare per Trieste. Questa fu la sua linea di condotta nei colloqui avuti ad Atene.
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De Gasperi ha risposto dicendosi lieto della occasione offertagli di poter incontrare gli italiani di Atene. Illustrando poi alcuni principi fondamentali della politica seguita dal Governo italiano, il presidente del Consiglio ha detto che gli italiani hanno bisogno soprattutto di pace e di tranquillità per poter lavorare. L’espansione del nostro lavoro all’estero – ha aggiunto De Gasperi – risponde ad una effettiva necessità e può costituire una missione che gli italiani assolsero sempre con un assoluto senso di dignità e di prestigio. Gli italiani – ha dichiarato ancora il presidente del Consiglio – si fanno amare dovunque perché sono attivi lavoratori: ed il lavoro assicura la fraternità internazionale. Perciò l’Italia cerca sempre più vaste intese internazionali per determinare quelle condizioni di pace senza le quali è impossibile sviluppare e soddisfare le sue esigenze di lavoro. È un fatto che la decadenza determinatasi in Grecia dopo il secolo di Pericle derivò essenzialmente dalla ignoranza della fondamentale legge della fraternità. A quest’epoca infatti – ha proseguito De Gasperi – i rapporti tra gli uomini e gli Stati erano impostati su relazioni di forza. Il presidente del Consiglio italiano si è poi soffermato sulla importanza rivestita dalla diffusione della cultura italiana all’estero che deve accompagnarsi allo sviluppo del lavoro italiano. L’Italia cerca – ha continuato De Gasperi – l’accordo con tutti i popoli amanti della pace. Niente intrighi nei nostri viaggi; noi intendiamo cercare i mezzi e i modi di collaborare con tutti, per edificare la pace in cui crediamo fermamente, non pace degli imbelli, ma la pacifica convivenza dei popoli che nutrono sentimenti di libertà; la pace verrà solo se sapremo guadagnarla. Concludendo De Gasperi ha rilevato che gli ottimi rapporti greco-italiani si fondano anche sull’atteggiamento degli italiani residenti in Grecia.
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Sono felicissimo di vedervi qui verso la fine del mio soggiorno in questo magnifico Paese, la cui accoglienza così calorosa mi ha profondamente commosso. Desidero esprimere in vostra presenza la mia riconoscenza più sincera per tutte le attenzioni di cui i miei collaboratori ed io stesso siamo stati fatti segno da parte delle loro Maestà, del maresciallo Papagos e degli altri membri del Governo, nonché della municipalità di Atene. Il mio soggiorno qui rappresenta una esperienza indimenticabile. Sono stato colpito non soltanto dalla maestà della Grecia antica e dalla bellezza incomparabile e tipicamente mediterranea del paesaggio, ma, oserei dire, anche e soprattutto dallo slancio vitale del popolo greco e dalla sua volontà evidente di tenere, nel quadro del mondo libero, il posto al quale ha diritto per le sue tradizioni e per le sue alte qualità di coraggio e di operosità. Nel comunicato diramato alla stampa troverete la traccia dei principali argomenti trattati nel corso dei colloqui che ho avuto l’onore e il grande piacere di avere con il maresciallo Papagos e il ministro Stephanopoulos . Troverete anche una definizione chiara dello spirito di completa lealtà e comprensione da cui i nostri colloqui sono stati ispirati. In questo spirito abbiamo fatto un completo giro d’orizzonte ed abbiamo avuto la soddisfazione di constatare ancora una volta che l’Italia e la Grecia perseguono lo stesso scopo di pace e di collaborazione internazionale nel quadro del Patto atlantico. Più particolarmente, abbiamo parlato della situazione nel settore del sud-est europeo e del Vicino Oriente. A questo proposito ho francamente esposto l’atteggiamento dell’Italia che può essere così riassunto: «l’Italia è favorevole a qualsiasi intesa difensiva che nel quadro del Patto atlantico possa aumentare l’efficacia della difesa del mondo libero. È per questo ch’essa crede suo dovere sottolineare ai suoi amici l’esistenza di uno stato di fatto alla sua frontiera orientale che, al di fuori della volontà italiana, è nocivo al consolidamento della difesa comune. L’Italia è sempre pronta a tendere la mano alla Jugoslavia con la quale ha tante possibilità di intesa e di collaborazione per il benessere economico comune. Ma per poter collaborare occorre attendere una soluzione equa della divergenza che ci separa» A questo punto De Gasperi ha spiegato che non esiste un mutamento nell’atteggiamento italiano riguardo all’eventuale conclusione di un’intesa jugogreca-turca. Egli ha detto che potrebbe ripetere al riguardo oggi quanto già disse in una riunione a porte chiuse della NATO e quanto disse a Stephanopoulos nel loro primo incontro: Di principio non siamo contrari, ed anzi riconosciamo il valore di una tale intesa. Il nostro atteggiamento è assolutamente logico e conseguente. […] Abbiamo anche considerato gli interessi comuni della Grecia e dell’Italia e del Medio Oriente, di fronte ai quali i due paesi hanno una posizione analoga a causa dei loro legami storici con tutti i Paesi bagnati dal Mediterraneo e per le collettività italiane e greche che hanno ivi contribuito in misura tanto larga al benessere e allo sviluppo di questi stessi Paesi. E che rappresentano un elemento di stabilità e prosperità. L’Italia come la Grecia ha ogni interesse a favorire in questo settore soluzioni che, conciliando l’evoluzione naturale dei Paesi con le esigenze della sicurezza comune, possano creare le condizioni necessarie per una cooperazione fondata sulla fiducia reciproca. Quanto alle relazioni economiche fra i due Paesi, sono stato felice d’aver potuto constatare anche sulla base di dichiarazioni di personalità responsabili elleniche, che la collaborazione tecnica tra l’Italia e la Grecia si è sviluppata finora nel modo più favorevole. Ciò consente di prevedere una durevole collaborazione, durevole nel settore tecnico oltre che in quelli commerciale e finanziario. In questo spirito, una delegazione italiana sarà ad Atene il 19 gennaio per iniziare conversazioni relative alla collaborazione economica e per giungere alla conclusione di un nuovo accordo commerciale che ne sarà la prima realizzazione pratica. I rapporti culturali tra i nostri due Paesi sono per tradizione felicissimi. Sono certo che avranno un nuovo impulso con l’istituto di cultura che ho inaugurato stamane e che possiede una biblioteca già molto frequentata. D’altra parte, i nostri istituti universitari in Italia sono frequentati da un numero sempre crescente di studenti greci che siamo felici di accogliere fra noi. L’esposizione d’arte moderna italiana che si aprirà prossimamente in Atene, come l’esposizione d’arte moderna greca che sarà organizzata in Italia, daranno agli ambienti artistici dei due Paesi l’occasione di stabilire nuovi legami. «Concludendo, voglio dirvi molto sinceramente che la mia visita in Grecia è stata per me di una utilità molto grande. Dopo i contatti avuti recentemente a Roma con il ministro degli Esteri turco, gli scambi di vedute col maresciallo Papagos e con il ministro Stephanopoulos hanno contribuito a rafforzare la mia convinzione che l’Italia, la Grecia e la Turchia stabilendo tra loro una collaborazione prettamente amichevole, non servono soltanto i loro interessi particolari, ma anche la causa della pace e della stabilità nel mondo libero. Ecco perché noi consideriamo non come semplice cerimonia il fatto che io ho pregato il maresciallo Papagos di continuare quest’opera di buona volontà in una sua visita a Roma, ove saremo felici di riceverlo come l’illustre rappresentante di un popolo amico».
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Signor presidente dopo che lei ha fatto le sue dichiarazioni ai colleghi della stampa internazionale di Atene, possiamo chiederle un suo giudizio sulla conferenza stampa? I colleghi della stampa mi sono parsi in generale molto cortesi e molto discreti. Le dirò però che sono un po’ sorpreso del fatto che taluno non ha visto chiaro la posizione logica e tenace e continuativa dell’Italia in confronto del problema della Jugoslavia. Come mai si può dire che questo atteggiamento è cambiato? L’atteggiamento che ho già riferito – atteggiamento esposto da me, precisato nella conferenza della NATO, poi riferito a Stephanopulos subito dopo la conferenza, in fondo precisato attraverso rettifiche o smentite anche nella stampa – è sempre l’atteggiamento di coloro i quali, in via di massima, sono favorevoli in principio della comunità di difesa e quindi anche di una collaborazione con la Jugoslavia, ma che dicono: fatalmente la situazione storica ha creato tra noi delle differenze, che non sono solamente aspirazioni, ma che sono questioni aperte, aperte per l’inapplicazione del trattato e quindi per un provvisorio che è penoso e che esige assolutamente una soluzione definitiva. Un’ultima domanda. Quale crede che sia il risultato più fecondo del reciproco scambio di idee da lei avuto col Capo del governo e gli altri ministri greci? Ecco, voglio dirvi: astrarre per un momento dalle singole questioni, dirvi piuttosto l’impressione, dirvi la parte umana di tutto questo incontro, ed è secondo me il risultato veramente più fecondo. Ed è questo: la pace, il consolidamento della pace, il consolidamento della struttura politica internazionale, la costruzione dell’Europa, il problema che ci angoscia della difesa comune: tutto questo non verrà risolto con documenti, con testi, con trattati. Ossia, sì, questi saranno strumento di una volontà. Ma bisogna che la volontà ci sia, la volontà, e a questa volontà, premessa assoluta, è la fiducia reciproca. Bisogna che ci sia fra gli uomini che sono portati a preparare le decisioni responsabili, che ci sia il presupposto della lealtà, che ci si possa credere, che le dichiarazioni vengano fatte con sincerità. C’è un’etica internazionale alla quale ci si tiene: la parola data, la visione dei propri interessi subordinata agli interessi generali o coordinata almeno agli interessi generali. Tutte queste premesse rappresentano, costituiscono quella necessaria base su cui poi si può costruire. In fondo, in fondo anche qui, come in tutte le altre cose (gli affari privati, gli affari di famiglia ecc.), si tratta soprattutto di uomini. Bisogna che gli uomini si conoscano fra loro, che gli uomini responsabili si attengano alla fiducia nel contatto frequente, l’uno con l’altro. E bisogna che si stabilisca una collaborazione di buona volontà. E questa buona volontà è premessa assoluta al lavoro di consolidamento sia nel campo della difesa sia nel campo della pace. E ho avuto la sensazione che anche qui, in Grecia, dopo tanti guai l’aspirazione suprema sia la tranquillità del lavoro, della pace, nella quale ogni Paese possa rimediare ai guai passati e creare una premessa di progresso sociale. Grazie presidente.Terminato il lavoro, domani Lei visiterà il Peloponneso? Sì, lo spero, domani sarà una grossa distrazione; distrazione che vedo non come uno svago ma come ragione di meditazione. Non c’è nulla come la storia e la storia delle generazioni umane che ispiri tutti coloro i quali sono responsabili di dirigere gli uomini e che hanno soprattutto l’occhio ai problemi collettivi e sociali.
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Siamo d’accordo con le considerazioni che sono state esposte da V.E. circa anche la necessità di conoscere quali siano i reali intendimenti e le reali possibilità parlamentari del Governo francese. È evidente altresì che prima che si possano prendere decisioni definitive in merito alla questione dei protocolli addizionali al Trattato per l’Esercito Europeo sarà necessario conoscerne e studiarne con attenzione sia il contenuto che le conseguenze eventuali.
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Con considerazioni esposte dalla S.V. siamo d’accordo e pensiamo necessario che alla Conferenza CED i Protocolli siano presentati in blocco e non alla spicciolata. Altrimenti mancherebbe qualsiasi sguardo d’insieme e si correrebbe il rischio di una discussione ed approvazione non simultanea ma con successioni pericolose. Noi siamo disposti, come già telegrafato all’Ambasciata Parigi, a facilitare i francesi per il superamento delle loro difficoltà in tema CED ma oggi ci è evidentemente difficile ed anzi impossibile prendere una posizione circa i Protocolli aggiuntivi dei quali attualmente ignoriamo il reale ed effettivo contenuto.
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Signor Ministro È con vivo piacere che ho ricevuto la lettera consegnatami dall’ambasciatore Fouques Duparc il 26 gennaio in cui Ella ha voluto riconfermarmi il desiderio Suo e del nuovo Governo francese di continuare a percorrere di buon accordo la strada che dovrà condurci all’Europa unita. Ella sa con quale spirito di vera convinzione e di sincera collaborazione il Governo italiano partecipa al progresso di integrazione europea. Noi crediamo fermamente che solo procedendo verso sempre più intime forme di associazione potremo conservare ai nostri popoli i valori della comune civiltà e procurare loro più stabili ed adeguate condizioni di vita. È quindi con vera soddisfazione che ho preso conoscenza della decisione del Governo francese di iniziare senz’altro la procedura intesa a promuovere l’entrata in vigore degli accordi costitutivi della Comunità di Difesa che di tale processo integrativo costituiscono una tappa essenziale. Con non minor interesse – sempre nello stesso spirito ho letto che gli scambi di vedute che il Governo francese si propone di aprire per la conclusione di accordi addizionali al Trattato, sono di tale natura da inserirsi nel quadro normale dei lavori del Comitato interinale, trattandosi solo di interpretare e precisare alcune clausole del Trattato stesso. Non posso nasconderLe infatti che le vaghe notizie finora giunte a nostra conoscenza avevano destato nel Governo italiano qualche timore che i protocolli potessero riferirsi a punti sostanziali del Trattato, venendo a toccare le caratteristiche salienti di esso, lo spirito europeistico cioè e la sovranazionalità, che ne costituiscono agli occhi nostri gli elementi fondamentali. Sono stato quindi particolarmente lieto delle indicazioni che Ella ha voluto fornirmi e le assicuro che porteremo nello scambio di vedute suggerito dal Governo francese il nostro costante spirito di collaborazione e la particolare comprensione dei motivi che muovono il suo Governo nel proporre i protocolli aggiuntivi. Nella Sua lettera Ella ha anche riconfermato il desiderio francese, pienamente condiviso dal Governo italiano e da me personalmente, di continuare l’opera di consolidamento di una più stretta amicizia franco-italiana. È certamente in questo spirito di amicizia che Ella ha voluto assicurare l’ambasciatore Quaroni – che me ne ha informato – di aver dato istruzioni affinché vengano risolte con amichevoli trattative tutte quelle questioni minori che ingombrano da vari anni il terreno delle relazioni italo-francesi e sulle quali un soddisfacente compromesso potrà essere raggiunto, ove intervenga una superiore direttiva di carattere politico. In occasione del Suo ritorno alla direzione del Quai d’Orsay desidero formulare l’augurio di ogni miglior successo e assicurarLe che, come per il passato, potrà sempre contare sul mio incondizionato assenso ad ogni iniziativa suscettibile di promuovere il rafforzamento dell’amicizia italo-francese. La prego di accogliere l’assicurazione della mia alta considerazione.
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La ringrazio vivamente del suo cordiale messaggio. È stato per me un grandissimo piacere di incontrarmi con il segretario di Stato Foster Dulles e con il Signor Stassen per esporre le mie vedute sulle questioni politiche di comune interesse. I miei colleghi di Governo ed io siamo stati inoltre lieti di aver avuto modo di fornire ogni utile informazione sulla posizione economica e militare dell’Italia. Ho molto apprezzato le sue assicurazioni secondo cui il Governo americano continuerà a collaborare per il rafforzamento della sicurezza reciproca e per il benessere dei nostri popoli. Desidero per parte mia sottolineare che il Governo italiano condivide pienamente le sue vedute sui comuni obiettivi di pace, sicurezza e stabilità economica. Con questi propositi il Governo italiano, nell’ambito e nello spirito della collaborazione atlantica, intende fermamente continuare a dare il suo contributo alla realizzazione di quella integrazione europea che, nei suoi nobili e lungimiranti fini, offre la più sicura premessa di pace e di progresso per un mondo libero.
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Il presente fa seguito al mio 1307/C. Per quanto concerne la ratifica del Trattato della CED preciso che nella conversazione da me avuta con Dulles ho chiarito che da parte nostra delibereremo in merito ai protocolli aggiuntivi solo quando saremo sicuri che il progetto, in via di massima, troverà una maggioranza nel Parlamento francese. Altrimenti rischieremo di esporci al destino dell’Unione doganale italo-francese. Il segretario di Stato mostrò di rendersi conto delle nostre ragioni. Tuttavia in seguito insistette perché noi si procedesse. Risposi che avevo già presentato alla Camera il programma e che in settimana (in realtà martedì prossimo) sarebbero iniziati i lavori della Commissione e che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla ratifica prima delle elezioni italiane. (Solo per Parigi). Si prega di voler cortesemente comunicare quanto sopra anche alla Delegazione Esercito Europeo.
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Si comunica che, a seguito della nostra proposta di cui al telespresso del 5 corr. N. 21/0461, ministro Bidault ha fatto conoscere di accettare nostro ordine del giorno. Per quanto riguarda la procedura da seguire per l’esame dei testi che l’Assemblea ad hoc ha elaborato, sarebbe nostro intendimento di richiamare l’attenzione dei ministri degli esteri sulla opportunità che il proposito di convocare appena possibile una conferenza intergovernativa venga confermato. Data l’incertezza circa le ratifiche del Trattato CED ci rendiamo conto che non potranno essere fissati i termini, ma riteniamo utile una riaffermazione di principio, alla quale le necessarie consultazioni per i normali tramiti diplomatici possano ispirarsi. Da parte francese – secondo quanto ha aggiunto ministro Bidault – ci si riserva di richiamare, in occasione discussione memorandum olandese, alcuni progetti di cui è stata presa iniziativa da parte di codesto Governo. Nostri orientamenti sono già a conoscenza di V.E. Essi verranno ulteriormente precisati nei prossimi giorni (lettera n° 20/5539 con appunto allegato concernente l’apposita riunione del CIR). Avremmo interesse da parte nostra, tenuto anche presente quanto riferito col telegramma di V.E. n. 152, di sapere con esattezza, prima che il ministro olandese Beyen giunga a Roma, a quali iniziative francesi si riferisse in particolare Bidault e quali siano gli intendimenti di codesto Governo .
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Sono sinceramente grato per il cortese telegramma inviatomi in occasione dell’apertura del mercato comune : Nel felicitarmi vivamente per il cammino già percorso, formulo anche a nome del Governo italiano i migliori voti per l’avvenire della comunità, prima tappa verso quell’obiettivo finale di unità nella quale l’Europa vede la migliore premessa di pace e di prosperità.
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Nel richiedere a riunione Sei Ministri che venga riaffermato in principio intendimento Governi convocare «appena possibile» conferenza intergovernativa per esaminare progetto che verrà presentato da Assemblea ad hoc, abbiamo in mente quella conferenza di cui parla l’articolo 38 del Trattato CED. La conferenza stessa – che dovrà parallelamente studiare gli aspetti politici e quelli tecnici della futura Comunità – comprenderà evidentemente riunioni dei Ministri degli Esteri et riunioni dei loro sostituti, assistiti da tecnici. Pensiamo naturalmente che tale conferma debba essere preceduta da consultazioni per i normali canali diplomatici. Circa il secondo quesito si comunica che nelle conversazioni di Roma intenderemmo attenerci – per parte nostra – ai punti indicati nell’ordine del giorno (memorandum olandese, esame lavori dell’assemblea ad hoc, proposta dal Belgio, et procedura), che potrebbero permettere anche scambi idee su questioni generali relative alla Comunità politica, ove altri ne prendessero l’iniziativa.
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Sono particolarmente lieto di darvi il benvenuto a Roma a nome del Governo italiano. Queste nostre riunioni periodiche che man mano rinnovano una gradita consuetudine di comune lavoro, sono la prova e il segno dell’attiva collaborazione in atto tra i nostri Paesi. Il compito che ci siamo assunti è di trasformare un sentimento – quello dell’amicizia tra i nostri popoli – e un’idea – quella delle necessità che essi hanno di cooperare in ogni campo tra loro – in una concreta realtà: quella dell’unità europea. Noi intendiamo così costituire i presupposti affinché i nostri popoli possano vivere e prosperare in un clima di maggiore e più diffuso benessere economico e di salda sicurezza. Noi crediamo nelle forze, nelle risorse morali e spirituali, nella tradizione e nella volontà di questa nostra Europa, madre di antica e di moderna civiltà. E pensiamo che attraverso l’unione questi elementi possano trovare la via del loro più armonioso e più ampio sviluppo. La strada da percorrere è lunga e aspra; essa sta ancora nella maggior parte davanti a noi; ma possiamo ormai constatare con soddisfazione che abbiamo oltrepassato insieme le prime pietre miliari e che l’Europa è in cammino. Già, infatti, i nostri Paesi vedono in atto la Comunità carbosiderurgica nella quale essi hanno volonterosamente associata una parte tanto cospicua delle loro economie nazionali, già essi hanno stretto fra loro i vincoli che derivano dal trattato della Comunità di Difesa; già si accingono a trasferire sul piano di una operante realtà quella Comunità politica europea che dovrà inquadrare le precedenti e le future iniziative comuni. Lo spirito di collaborazione che ci anima favorisce al massimo grado la nostra reciproca comprensione e consente di parlarci con assoluta franchezza. Né potrebbe essere altrimenti, convinti come siamo che stiamo percorrendo la giusta via, l’unica che possa assicurare il bene di tutti e di ognuno. La realtà riesce di rado a tenere il passo con i propositi e con i piani. Se questo si manifesta anche nel processo integrativo europeo, ciò non deve incidere sulla nostra fiducia. Quello che ci proponiamo e per cui lavoriamo con lena concorde è di costruire gradualmente, col ritmo pacato ma ininterrotto, con cui si elevano gli edifici destinati a durare, un’Europa senza lotte, senza egemonie, senza barriere e senza diaframmi. Le porte di questa nuova Europa saranno sempre aperte a tutti i popoli di buona volontà che sentano di avere con noi comunanza di ideali e di interessi. L’Italia è fiera di avere sinora contribuito a quest’opera, ed è fermamente intenzionata a proseguire nel proprio sforzo. Questo del resto si associa a quelli che generosamente compiono i Paesi che voi rappresentate. È con questi sentimenti che io levo il bicchiere beneaugurando alla prosperità dei vostri Paesi e dei vostri Popoli, alla personale felicità dei vostri eminenti Capi di Stato e vostra alle fortune e al successo della nostra meta comune.
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[…] Ad un giornalista che gli chiedeva quale fosse l’atteggiamento del Governo italiano nei rispetti della molteplicità di iniziative per il raggiungimento di una unità europea, se, cioè, il Governo italiano sia piuttosto favorevole a procedere indipendentemente rispetto ad ognuna di queste iniziative, ovvero se ritenga più opportuno affrontarle entro un medesimo quadro, il presidente del Consiglio ha risposto che il Governo di Roma ritiene preferibile procedere su un unico fronte e non per settori. A questo proposito egli ha notato come anche i progetti collaterali quali il cosiddetto «pool verde», dovrebbero essere studiati in stretto riferimento con gli altri programmi in esame. Dopo aver annunciato, rispondendo ad una domanda che le conversazioni tra gli esperti italiani e francesi per l’esame di numerose questioni di interesse reciproco si inizieranno nel corso del pomeriggio di domani, l’on. De Gasperi ha tenuto a smentire nuovamente le intenzioni, che gli erano state attribuite, di un’opera di mediazione tra Francia e Germania a proposito dei protocolli addizionali. È d’altra parte improprio – egli ha aggiunto – continuare a parlare di «protocolli»; il comunicato diramato questa sera, egli ha fatto osservare, parla soltanto di testi interpretativi, testi tuttora in fase di elaborazione e di discussione. A questo proposito, egli ha tenuto a ribadire che, data la natura esplicativa e interpretativa di questi testi, essi non possono in alcun modo ostacolare il lavoro dei parlamenti sul trattato difensivo e la ratifica di tale trattato. Ciò non significa, naturalmente, che il Parlamento non verrà messo al corrente dei testi esplicativi quali essi verranno definiti. Rispondendo a un’altra domanda di un giornalista, l’on. De Gasperi ha dichiarato di ritenere che il trattato potrà essere ratificato dai parlamenti europei nel corso della primavera, e di sperare che la Camera italiana potrà ratificare il trattato prima del suo scioglimento.
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[Esame del Memorandum olandese circa il contenuto economico della Comunità] Il presidente De Gasperi ha dichiarato che il Governo italiano è in linea generale favorevole all’estensione delle attribuzioni della Comunità al settore economico. La strada da seguirsi non può essere che quella di una graduale integrazione dei mercati nazionali fino a giungere all’obiettivo del mercato comune. A tale progressiva integrazione occorre procedere non per settori ma coordinando gli interessi delle economie nazionali nel loro complesso perché solo così si rendono possibili adattamenti e compensazioni tra i vari settori. La proposta olandese, in particolare, per la creazione di una Comunità tariffaria merita piena considerazione ma occorre non dimenticare che occorre anche procedere sulla strada della smobilitazione delle altre restrizioni che attualmente intralciano gli scambi economici tra i sei Paesi. Quanto al metodo suggerito da parte olandese, il sistema delle clausole di salvaguardia appare veramente interessante: occorrerebbe approfondire fin da ora lo studio di alcune ipotesi. Il Governo italiano è anche d’accordo per quanto riguarda il «fondo comune» suggerito da parte olandese. Le disposizioni relative a questa integrazione economica, ha aggiunto il presidente De Gasperi, devono essere certo stabilite mediante un trattato multilaterale – sia esso, come preferiremmo, quello che costituirà la Comunità politica dei sei, se mai, altro successivo che ne estenda le attribuzioni (non si vede invece come possano, una volta costituita tra i sei Paesi una Comunità politica, crearsi tra gli stessi Paesi altre Comunità di contenuto economico che non rientrino sotto l’autorità di quella); ma da tale trattato dovrebbe nascere una autorità comune sovranazionale altrimenti non si uscirebbe dalle antiche formule. Proprio questo è previsto negli interessanti articoli che il progetto dell’Assemblea da hoc dedica alle attribuzioni economiche della costituenda CPE. [Stato di avanzamento delle ratifiche degli accordi CED] Il presidente De Gasperi ha ricordato come in sede NATO ebbe nel dicembre scorso ad esprimere le medesime preoccupazioni, auspicando una rapida ratifica degli accordi CED. Vero è che in tale sede si discusse anche delle responsabilità francesi in Indocina, che ispirano le attuali richieste francesi di protocolli aggiuntivi, e per le quali la Francia ha da attendersi la nostra solidarietà. Vi sono quindi delle difficoltà che dobbiamo superare. Vi è uno stato di incertezza. Di tali condizioni il presidente De Gasperi ha dovuto anche domandarsi cosa convenga fare di fronte al Parlamento italiano per il seguito della procedura di ratifica. È desiderabile un chiarimento delle posizioni che può derivare soprattutto da franche dichiarazioni da parte della Francia. […] Il presidente De Gasperi, in un ulteriore intervento, ha espresso nuovamente la speranza che in sede di Comitato interinale si arrivi ad una chiarificazione, possibilmente prima del 10 marzo, epoca alla quale i sei ministri dovrebbero rivedersi a Strasburgo. Il Governo italiano ha di fronte a sé un problema di tempi, anche in relazione alle prossime elezioni politiche. Difficoltà varie possono essere sollevate dall’opposizione che ha iniziato una vivace campagna; vi è inoltre un aspetto militare, di fronte ad una anti-Europa che alle nostre porte conserva la piena sovranità delle sue forze militari, ciò che può creare altre difficoltà nell’opinione pubblica. Il Governo italiano è pronto ad affrontare tali difficoltà per la ratifica della CED ma non può esporsi al rischio di esser poi smentito dai fatti. Per quanto riguarda la posizione francese egli rileva come dalla esposizione del ministro Bidault si rilevi chiaramente quanto interesse debba avere proprio la Francia al completarsi di una solidarietà, difensiva ed oltre, europea che le assicuri la solida difesa dietro cui dedicarsi, nell’interesse europeo, ai compiti spettantile oltre mare. Occorre infine, ha sottolineato, uno «choc» psicologico di fronte all’opinione pubblica per combattere la propaganda di una unione dei popoli nel comunismo: tale «choc» non può essere che quello della unione dei sei Paesi europei nella libertà. [Esame dei lavori dell’assemblea ad hoc] Il presidente De Gasperi con l’appoggio del cancelliere Adenauer si è dichiarato favorevole alla riunione dei Ministri a Strasburgo per ricevere solennemente il progetto. Ha aggiunto che a Strasburgo, tenendo presenti anche i risultati che sarà stato possibile raggiungere in seno al Comitato interinale CED, occorrerà prendere più precise decisioni sulla procedura e sui tempi per il successivo lavoro: e al riguardo, come questione subordinata, esaminare se e in che modo associare al lavoro stesso i suddetti parlamentari. Dal canto suo ha dichiarato sembrargli che tale associazione sarebbe, da vari punti di vista, di particolare utilità ed essere quindi favorevole a studiarne la forma in cui potrebbe effettuarsi.
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Quali conclusioni Ella può trarre, signor presidente, dallo svolgimento dei lavori di questa conferenza? Lo svolgimento dei lavori è stato soddisfacentissimo. Lo spirito che ha animato la riunione è stato informato a un senso sempre maggiore di comunione e di volontà realizzatrice. Lei pensa che lo spirito e il dinamismo di questa conferenza si estenda nei Paesi e si traduca nei Parlamenti? Lo spero e lo credo: i sei ministri hanno riaffermato che il progresso della Comunità è legato alla fusione degli interessi essenziali degli Stati membri. Per quale data Lei pensa che si possa arrivare alla ratifica della CED? Io penso senz’altro in primavera, anche prima delle elezioni. Lei ritiene possibile una politica estera comune dei sei Paesi? I sei ministri, affermando la necessità della creazione dell’armata europea, hanno affermato la necessità di una politica militare comune; il che significa, in certo senso, già una politica estera comune.
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In vita il dittatore non mostrò per il nostro Paese né comprensione né considerazione. L’atteggiamento dei suoi diplomatici fu nelle trattative e nella conferenza della pace ostinatamente duro e pertinacemente negativo. Tuttavia se fosse vera l’opinione di chi attribuisce anche la saggezza al suo influsso personale l’esitazione dell’URSS a scatenare una nuova conflagrazione mondiale, dovremmo mettere al suo attivo questo suo rifuggire dalla responsabilità estrema e augurarci che il suo successore lo accetti come norma di saggezza. Ma chi, prima dello storico imparziale, potrà in questo momento misurare e valutare il ruolo personale che un uomo come lui volle o poté svolgere nei momenti decisivi? Perciò grave rimane l’incognita di domani e se in mezzo a tante parole di esaltazione o di condanna possiamo trovare un accento semplicemente umano, vorremmo dire che questo tragico trapasso debba ammonirci tutti intorno ai limiti della persona umana e ai confini del suo destino. Con questa grave riflessione noi chiniamo la fronte pensosi innanzi alla scomparsa d’un uomo che lascia nella storia del mondo un vuoto così grande, che vorremmo si riempisse di comprensione, di fraternità e di pace.
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Caro Segretario di Stato. È stato con vivo piacere che abbiamo nei giorni scorsi ricevuto la visita dell’ambasciatore Bruce a Roma; nella sua persona e nell’incarico affidatogli noi vediamo una nuova, chiara testimonianza dell’interesse e della simpatia con cui gli Stati Uniti d’America seguono il processo di integrazione europea. Con l’ambasciatore Bruce ho parlato a lungo di questa politica generale europeista di cui – come Ella sa – io sono stato sin dall’inizio e sono tuttora convinto assertore; e ho parlato anche della ratifica del Trattato istitutivo della Comunità europea di Difesa. Tengo però a scriverLe anche personalmente al riguardo, riferendomi ai colloqui che ebbi il piacere di avere con Lei nel corso del Suo gradito passaggio da Roma. Non ho bisogno di assicurarLa che la realizzazione della Comunità europea di Difesa resta sempre in primissima linea fra gli obiettivi del Governo italiano. Avevo il fermo proposito dopo che il Trattato è stato – come Ella sa – approvato con larga maggioranza dall’apposita Commissione della Camera (il che è già un notevole risultato, che ha il suo valore) di portare il dibattito in seduta plenaria. Ma l’ostruzionismo svolto in Senato dall’opposizione contro la riforma elettorale – legge questa di cui sono sicuro che gli ambienti parlamentari e l’opinione pubblica americana apprezzano tutta la speciale importanza – domina in questo momento tutta la situazione politica ed anche i nostri sforzi e li assorbirà ancora certo per tutto il tempo disponibile prima dello scioglimento della Camera. Io spero comunque di fare nei prossimi giorni al Senato.[…] chi ancora ne avesse – alcun dubbio sulle intenzioni del Governo italiano e sul perdurare del nostro fermo proposito di adoperarci al massimo affinché al più presto possibile gli Accordi CED ottengano la sanzione del Parlamento, trasferendo, quando occorra, la trattazione del disegno di legge dalla Camera al Senato. Inoltre, come credo Ella già sappia, i partiti democratici hanno pubblicamente manifestato la loro decisione di porre tra gli elementi fondamentali dell’impostazione elettorale, quello della politica di integrazione europea; il che significa dare a tale politica una base ed un rilievo ancor più spiccati. Io spero che l’opinione pubblica e parlamentare dei Paesi amici, e specie quella degli Stati Uniti d’America, saprà comprendere appieno la posizione del Governo italiano, posizione che, mi sia permesso di dirlo, è sempre stata assolutamente chiara e lineare, tale cioè da rappresentare un serio apporto alla idea della integrazione europea ed uno stimolo per quanti credono in tale causa.
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Stimatissimo Cancelliere Federale, Ho ricevuto la sua gradita lettera, nella quale Ella mi parla della ratifica del Trattato istitutivo della Comunità europea di Difesa. Non ho bisogno di assicurarLa che condivido totalmente le Sue preoccupazioni circa il destino della Comunità. Avevo il fermo proposito, dopo che il Trattato è stato, come Ella sa, approvato con larga maggioranza dalla apposita Commissione della Camera, di portare il dibattito in seduta plenaria. Ma l’ostruzionismo svolto in Senato dall’opposizione contro la riforma elettorale domina la situazione politica ed assorbe i nostri sforzi nonché tutto il tempo disponibile prima dello scioglimento della Camera. Spero però di poter fare al Senato o alla Camera delle dichiarazioni che non lascino alcun dubbio sulle nostre intenzioni o sul perdurare del nostro fermo proposito di adoperarci al massimo affinché al più presto possibile il Trattato in questione ottenga la sanzione del Parlamento. Mi felicito frattanto molto vivamente con Lei per il recente voto al Bundestag e le invio i miei migliori auguri. La prego di gradire, Caro Cancelliere Federale, i più amichevoli saluti.
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Siamo stati alquanto sorpresi dalla comunicazione fattale, a nome del segretario di Stato, da Tomlinson . Infatti credevamo di aver chiaramente precisato a Bruce che l’impossibilità per il momento di portare il Trattato davanti alla Camera in seduta plenaria, non implica in alcun modo che il Governo italiano abbia mutato la sua ferma intenzione di portare avanti la procedura di ratifica nella forma più conveniente e il più presto possibile. Avevamo chiarito allo stesso Bruce le ragioni di politica interna e di tecnica parlamentare, che rendevano ancora impossibile l’esatta precisazione di modalità e date. Solo il Governo italiano può, evidentemente, avere sicuri elementi di giudizio su questo punto. In una lettera personale in data odierna diretta a Dulles, confermando questa nostra chiara posizione, lo ho al tempo stesso messo al corrente della decisione, che ho preso già da alcuni giorni, di fare una specifica dichiarazione al Parlamento, a conferma di questa nostra intenzione. Nel riferire a Tomlinson quanto sopra detto, gli lasci comprendere, nel modo più opportuno, le nostre perplessità sulla forma e sulla sostanza della sua comunicazione.
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Signor Ambasciatore, il saluto che oggi le rivolgiamo le giunge mentre sta per concludersi la sua breve ma intensa e costruttiva missione italiana. Ella è stata testimone di un periodo particolarmente interessante della vita del nostro Paese: un periodo durante il quale ha potuto osservare il rafforzamento delle nostre istituzioni democratiche, il completamento di un gran numero di opere di ricostruzione post-bellica, la ripresa della nostra produzione, la riorganizzazione e il potenziamento delle nostre forze difensive. Tutto questo lavoro è stato compiuto in un’atmosfera di sicurezza fondata su uno sforzo concorde, senza precedenti nella storia della civiltà, e che associa – con gli altri Paesi amanti della libertà e della pace – gli Stati Uniti e l’Italia. Testimone, ho detto, e avrei dovuto dire partecipe: non vi è infatti impresa civile ai nostri tempi che possa compiersi prescindendo dall’interdipendenza che vincola agli altri ciascun Paese di una comunità, e della solidarietà che fa comuni i mezzi per conseguire eguali risultati. In questo quadro di collaborazione fra Stati e popoli, che ci auguriamo vedere ancora estendersi ed approfondirsi in avvenire, i rapporti esistenti tra gli Stati Uniti e l’Italia vantano a buon diritto un posto d’onore: tali rapporti, signor Ambasciatore, Ella ha, con la sua attività, intensificati e resi maggiormente fecondi di risultati positivi. Della simpatia che il popolo italiano nutre per gli Stati Uniti d’America, Ella ha avuto frequenti e chiare manifestazioni: di queste io vorrei che le parole di commiato e di augurio che ora le sto rivolgendo trovassero il sincero accento e la calda spontaneità. E vorrei dirle che, assolto con tanto onore il suo compito in Italia, un altro le si offre ora, ed è quello di recare con sé in America il messaggio della solidarietà italiana quale Ella, meglio di ogni altro, ha potuto intenderlo. Ella può confermare al popolo americano ciò che i fatti vanno sempre più eloquentemente dimostrando: che gli italiani hanno compreso e condividono i principi e i sentimenti che sono alla base della politica di cooperazione, al servizio della quale gli Stati Uniti hanno posto le loro poderose risorse e l’entusiasmo del loro giovane popolo. Di questa politica ella è stata in Italia un assertore autorevole ed un appassionato esecutore. Un’amicizia così cordiale come quella stabilita fra Lei, signor Ambasciatore, e tanti di noi, non è certamente destinata a cessare col concludersi di una missione diplomatica: ed io vorrei che assai più che un congedo la signora Bunker e Lei vedessero nel nostro saluto la riaffermazione di questa amicizia che resta profondamente radicata nei nostri animi e ci auguriamo di poter avere, in futuro, frequenti occasioni di confermare personalmente quando loro torneranno nel nostro Paese. Con questi sentimenti nel cuore, io levo il calice alla sua salute personale, signor Ambasciatore, a quello della signora Bunker, a quelle del grande popolo americano e del suo valoroso Presidente.
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Signor Presidente e Caro Amico, La ringrazio della Sua cortese lettera del 21 corrente; e mi consenta di dirLe quanto considero utile ed opportuna la Sua iniziativa intesa a chiarire fin d’ora il contenuto e la portata della nostra prossima riunione del 12 maggio. Io ritengo infatti che sia assai importante, nell’attuale momento politico, che tale riunione risulti particolarmente sostanziosa e costruttiva, sì da costituire – e da apparire agli occhi delle nostre opinioni pubbliche che ne sono in attesa – un nuovo passo verso la meta dell’integrazione europea alla quale stiamo concordemente dedicando i nostri sforzi. Io penso dunque che l’art. 38 del Trattato CED, dal quale – come Ella giustamente sottolinea – l’attuale procedura ha tratto ispirazione, vada interpretato anche alla luce delle altre successive decisioni che i sei Ministri degli Esteri hanno preso in comune e particolarmente quelle di Lussemburgo del settembre dell’anno passato e di Roma dello scorso febbraio. Esse, così come l’atteggiamento che prendemmo attraverso i nostri Delegati in occasione della presentazione all’Assemblea ad hoc del «questionario» governativo, mi sembra dimostrino la concorde intenzione dei sei Governi di mantenere alla procedura che deve portarci alla Comunità politica europea un carattere particolare quale richiesto dalla importanza delle decisioni che dovremo prendere e dalla portata che esse avranno nei settori della politica interna oltreché nel campo internazionale. Occorre cioè a mio parere che nelle nostre frequenti riunioni, opportunamente – come è ovvio – preparate, vengano studiate e risolte le principali questioni di merito che si sono poste dal progetto di Trattato presentatoci dall’Assemblea ad hoc, lasciando poi ad una conferenza di nostri delegati o a riunioni di comitati di lavoro il compito di elaborare i principi fissati. È mio parere quindi che la prossima riunione dei Ministri del 12 maggio dovrebbe già poter procedere all’esame dei punti di vista dei Governi su almeno alcuni dei problemi sostanziali posti nel progetto di Trattato, allo scopo di ottenere un riavvicinamento tra essi ove necessario e, se possibile, raggiungere qualche prima conclusione. Per questo del resto mi pare concordammo appunto a Strasburgo di far circolare attraverso il Segretariato del Consiglio dei Ministri CECA le nostre prime osservazioni. E penso che dall’andamento di queste nostre discussioni sulla sostanza del Trattato trarremo gli elementi per decidere, al termine della nostra riunione, circa il carattere, la procedura, la composizione della eventuale conferenza o dei comitati di lavoro che dovranno – con la loro attività permanente negli intervalli delle nostre riunioni – elaborare, ripeto, le nostre decisioni. Io spero, Signor Presidente e Caro Amico, che tale sia – come mi era parso di capire – anche il punto di vista dei miei colleghi. Perché, Le dico francamente, vedrei molti e seri inconvenienti di vario genere, e che certo Le sono perfettamente chiari, in una contraria decisione che intendesse mettere come oggetto della nostra prossima riunione puramente questioni procedurali. Ringraziandola nuovamente per l’iniziativa che Ella ha voluto prendere, mi è particolarmente gradita l’occasione per rinnovarLe i sensi della mia alta considerazione.
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Il Governo italiano, nella fiducia che ciò possa effettivamente valere ad ottenere ratifica francese e ad assicurare la rapida entrata in vigore degli accordi CED ed accordi contrattuali, dà il proprio benestare ai sei testi Protocolli aggiuntivi come sono stati concordati in Comitato interinale. Ella potrà fare tale comunicazione nella prossima riunione del Comitato direttivo e contemporaneamente ad accettazione tutti altri Governi. La S.V. vorrà prendere, nel fare tale dichiarazione, formale atto dello esplicito riconoscimento fatto tanto da parte francese, quanto da parte germanica, e Protocolli stessi intendono avere solo carattere interpretativo. Parlando con Bruce aggiunga che le resistenze che abbiamo sin dall’inizio mostrate e i dubbi che abbiamo avuto, rispondono proprio alla preoccupazione evitare che accordi CED si avviino su una china capace di svuotarli del loro sostanziale contenuto politico. Comunque attendiamo che il nostro atteggiamento valga a scoraggiare ogni eventuale richiesta in tal senso. Per l’una e per l’altra preoccupazione ci valgono di assicurazione anche le spiegazioni venuteci da parte USA.
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Signor Presidente: anche la delegazione italiana ritiene che non vi sia ragione, almeno attualmente, di credere che sia intervenuto un cambiamento nelle finalità ultime dell’URSS che, al contrario, restano sempre le stesse. Il governo italiano ritiene che bisogna valutare con molta prudenza l’apparente voltafaccia sovietico. In effetti finora non abbiamo alcun elemento sicuro per giudicare e valutare i ritmi e le fasi del processo d’aggiustamento che il regime sovietico sta attraversando. Ma abbiamo ragione di credere che tutte le ipotesi formulate in tale materia siano di dubbia utilità nel senso che esse sono suscettibili di proiettare una luce forte sul vero stato attuale del mondo sovietico provocando per contro nel mondo occidentale dei sentimenti di euforia e rilassamento, il che probabilmente è uno degli obiettivi della manovra attuale del Cremlino. In definitiva, la sola ipotesi che i fatti più recenti ci autorizzano a emettere è la seguente: i dirigenti – e lo stesso Stalin se fosse ancora in vita sarebbe potuto giungere alle stesse conclusioni – non possono aver ignorato gli effetti negativi provocati durante l’ultimo periodo dalla politica estera dell’URSS, che fra l’altro ha condotto all’accelerazione dell’organizzazione difensiva del mondo libero nel suo doppio aspetto, atlantico e europeo. Di qui l’utilità per l’URSS di attenuare la guerra fredda e di ricorrere a mezzi più sottili e più in armonia con le sue necessità e le sue possibilità attuali. In effetti, la politica estera dell’URSS dagli inizi ha obbedito alla missione rivoluzionaria del bolscevismo-marxismo-leninismo che vede nella Russia lo Stato pilota di cui i partiti comunisti negli altri paesi, come ci ha insegnato Stalin, non sono che le brigate d’assalto. Ma la seconda è la volontà dell’URSS di consolidare le posizioni provvisoriamente acquisite a Yalta e Potsdam rendendole più definitive e dando allo stesso tempo slancio alle guerre coloniali al fine di restringere i mercati aperti al mondo libero e inasprendo in ogni modo le relazioni fra i paesi del mondo occidentale. Anche Stalin non ha mancato di dirci tutto ciò. Queste due tendenze a seconda si alternano o si sommano ma la tattica sottile e cangiante resta sempre subordinata a obiettivi più concreti. Intendo dire: la vera alternativa non riguarda la tattica ma la finalità. Del resto questo orientamento sovietico non rappresenta per il modo che un carattere marginale e causa sorrisi e gesti più che fatti e realtà. L’Unione Sovietica nel perseguire questa politica si è attualmente decisa a scegliere la tattica dell’appeasement poiché essa sembra la più adatta a indebolire l’unione e la cooperazione fra la Germania e la Francia. Ma nel caso le nostre divergenze avessero come conseguenza una diminuzione delle nostre misure difensive e il blocco dell’integrazione europea, la potenza militare russa garantirebbe a Mosca non solamente i suoi possedimenti attuali ma le permetterebbe inoltre di riprendere con rinnovato vigore la sua politica ideologica e cominformista nei paesi occidentali. È dunque nostro dovere primariamente accettare un dialogo di distensione nel caso in cui esso sia realmente possibile, inquadrandolo in proposte concrete che, come ha indicato il presidente Eisenhower, obblighino i russi o a fare delle concessioni o a scoprire il proprio gioco. Secondariamente, continuare nella nostra politica di difesa e di integrazione europea, poiché questo è il solo cammino che possa condurre a degli accordi e a delle soluzioni pacifiche. Tale politica è nel contempo, attraverso la costruzione di un’unità europea, il solo mezzo che possa arrestare la penetrazione bolscevica negli stati europei e che possa di riflesso permettere al mondo libero di resistere nelle terre d’oltremare. Signor Presidente, non voglio terminare queste mie alcune osservazioni senza attirare, a mia volta, l’attenzione dei miei colleghi su un aspetto che chiamerei psicologico della questione che stiamo discutendo. Voglio dire che mi sembra indispensabile che dalla presente sessione esca l’indicazione di una valutazione comune a noi tutti su questo tema, che possa dare alle opinioni pubbliche dei nostri paesi quegli elementi di chiarificazione che esse si attendono da noi. Sarei quindi favorevole alla redazione di una dichiarazione comune sulle linee della nostra discussione, sulle linee che ci hanno dato Eisenhower, Churchill e oggi Bidault che ha parlato molto chiaramente in favore dell’unità europea e di una cooperazione che potrebbe eventualmente essere inserita anche nel nostro comunicato finale. Nel nostro spirito, questa dichiarazione dovrebbe essere redatta in termini che siano alla portata di tutto il mondo e ispirata dai principi enunciati che ci sono comuni e che hanno preso la forma di una dichiarazione formale più solenne nell’illuminato discorso del presidente Eisenhower dello scorso 16 aprile. Grazie, signor Presidente.
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Questa mattina, dopo che Bidault ebbe a dichiarare aperta la seduta, ha preso la parola il presidente De Gasperi, il quale, con lo stesso impeto e la stessa decisione ebbe a difendere in ripetute occasioni la causa dell’Europa unita, ha ribadito la necessità di giungere entro il più breve tempo possibile al perfezionamento, nei suoi aspetti giuridici, politici e costituzionali del progetto di Comunità politica europea sul quale la attuale conferenza è chiamata a esprimere il proprio punto di vista. In altri termini – come lo stesso De Gasperi ha detto – il problema essenziale è di sapere con esattezza se si vuole o non si vuole fare l’Europa. Ciò che conta è la volontà di continuare nella strada iniziata e di realizzare l’idea per la quale appare sempre più evidente che le opinioni pubbliche dei diversi paesi già precedono nelle aspirazioni l’azione dei governi e dei parlamentari. L’intervento del presidente De Gasperi, ha, in sostanza dominato l’atmosfera di questa prima riunione in cui i sei ministri hanno immediatamente affrontato il primo punto all’ordine del giorno, quello della procedura. Il problema è infatti di stabilire una linea di condotta futura allo scopo di consentire ai sei di mettere a punto e quindi definitivamente approvare il progetto di comunità politica che oggi si discute. De Gasperi ha naturalmente insistito perché non si perda tempo, perché si trovi la via migliore, più concreta e più rapida per dare una fisionomia politica a questo embrione di unità europea che ha già trovato la sua pratica espressione nella comunità carbo-siderurgica, già in funzione, e in quella della difesa, che attende di essere perfezionata. Egli ha espresso il parere che si debba raggiungere tale obiettivo mediante una serie di successivi incontri dei sei ministri, intercalati da riunioni di esperti. Tali riunioni coordinate dal Segretario della Comunità apriranno la via più rapida e conclusiva.
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[…] Il presidente De Gasperi osserva che evidentemente il punto di partenza per la CPE è costituito dalle due Comunità ristrette, la CECA e la CED. È giusto che le porte siano aperte a tutti gli Stati europei che desiderano raggiungere gli stessi fini: ma poiché dette due Comunità sono nate tra i sei Paesi, si cominci per la CPE da questi Paesi. Per quanto riguarda le attribuzioni della Comunità, la formula delle estensioni non automatiche sembra sufficiente per abbordare il problema e per prendere qualche utile decisione nella fase iniziale. Da parte italiana, come è noto, si vede con interesse la possibilità di estensioni nel settore economico, come proposto da parte olandese. Quanto alla questione territoriale fatta presente dalla Francia, è d’accordo nel rinviare ogni esame al riguardo poiché si rende conto delle difficoltà che può creare specie appunto alla Francia. Per quel che riguarda le istituzioni, da parte italiana non si intende fare della pariteticità o meno del Senato una questione pregiudiziale. Il presidente De Gasperi osserva comunque che, se il Senato sarà paritario, occorrerà che nell’altra Camera il principio della ripartizione dei seggi in proporzione all’entità numerica dell’elettorato, principio che è la naturale conseguenza del suffragio universale diretto, trovi opportuna applicazione. Bisognerà certo badare, in caso di Senato paritario, a chiarire bene la funzione del Senato stesso rispetto a quella del Consiglio dei Ministri: lo sforzo dei parlamentari per superare questo problema aveva portato ad una soluzione mista di compromesso, avente evidenti difetti ma anche non pochi aspetti interessanti. In complesso è interessante rilevare che il progetto di Trattato non crea tra gli Stati membri una Confederazione e tanto meno una Federazione: ma costituisce bensì una forma nuova di associazione che opportunamente si definisce col termine nuovo di «Comunità». Il presidente De Gasperi prende nota con soddisfazione che anche da parte francese si è favorevoli al principio del suffragio universale diretto. (Bisognerà poi – aggiunge fra parentesi – un giorno pensare anche alle linee generali di una legge elettorale: in Italia non si ha al riguardo, una buona esperienza del sistema proporzionale). È molto importante raggiungere un accordo sul principio del suffragio universale diretto; gli altri problemi istituzionali possono infatti, una volta accettato quello, esser risolti più facilmente. Ciò va detto anche per il problema del potere esecutivo, circa il quale in fondo le differenze tra quanto disposto al riguardo nel progetto di Trattato e quanto auspicato dal ministro Van Zeeland non sembrano inconciliabili.
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Premier De Gasperi, lei è stato primo ministro per sette anni e mezzo, più a lungo di ogni altro capo del governo in Europa liberamente eletto. Qual è il segreto del suo successo? È difficile dare una risposta. Non credo si possa parlare di «successo». È il risultato di una sequenza di eventi. Sin dal principio, il mio sforzo è stato quello di unire le forze nel paese. All’inizio, ho anche lavorato con i comunisti. Gli americani ne erano sorpresi. Quando visitai l’America nel 1947 ogni giornalista mi chiedeva: «perché lavora coi comunisti?» Io spiegavo che il comunismo sovietico era alleato degli Stati Uniti durante la guerra. Di conseguenza, i comunisti divennero membri del governo in Italia, in Francia – ovunque il partito comunista fosse forte. Com’era lavorare al governo con i comunisti? Nel primo periodo, i comunisti italiani non davano l’impressione di essere il braccio amministrativo di bolscevichi stranieri. Togliatti, il leader comunista italiano, mi disse che incontrava l’ambasciatore russo solo una volta l’anno e che non aveva contatti con Mosca. Forse non ci credevo interamente ma senz’altro, fino al 1947, i comunisti italiani si comportavano in maniera differente rispetto a quanto avrebbero fatto in seguito, dopo l’organizzazione del Cominform. La nascita del Cominform, nel 1947, significò praticamente il ristabilimento del vecchio Comintern, l’internazionale comunista, ancora più controllato e ispirato di prima dal governo bolscevico. Togliatti, che era un membro del mio gabinetto, era stato segretario generale del Comintern. Capii immediatamente che da allora in poi non avrei avuto a che fare soltanto con un comunista italiano, ma con uno dei leader del comunismo internazionale. Questa considerazione ampliò la spaccatura che per altre ragioni interne si era già verificata fra noi e i comunisti. Fu lei a cacciare i comunisti dal suo gabinetto o furono loro a ritirarsi da sé? I comunisti mi accusarono di aver cambiato il mio atteggiamento verso di loro dopo il viaggio in America. Non era vero. Ad essere responsabile era stata l’evoluzione del comunismo. Contemporaneamente, le relazioni fra i vecchi alleati, Russia e paesi occidentali, erano deteriorate. La spaccatura avvenne dopo un articolo pubblicato da Togliatti che chiamò gli americani «stupidi». C’era una crisi di governo in quel periodo e dissi a Togliatti: «Credi che possa continuare a lavorare con voi? La nostra economia è a terra e abbiamo chiesto agli americani di aiutarci per ricostruire il nostro paese danneggiato dalla guerra, e tu ti metti a dare degli stupidi agli americani». C’erano altre divergenze. Sulla questione di Trieste, per esempio, avevo notato che Togliatti seguiva la linea sovietica, allora vicina a Tito, e che era troppo influenzato dal punto di vista russo che sosteneva le richieste della Jugoslavia. Da queste e altre posizioni nelle relazioni internazionali conclusi che era impossibile condurre la politica estera in cooperazione con i comunisti. La spaccatura avvenne sulla politica estera allora, più che sulla politica interna? Certamente. Ma non solo. Avevamo anche differenze in politica interna. Ma queste differenze potevano forse essere superate finché fossimo andati d’accordo in politica internazionale. Coi comunisti fuori dal governo la mia politica ha continuato a essere di unità – unità di tutte le forze non comuniste per la ricostruzione dell’Italia. Credo che questa politica spieghi il lungo periodo di stabilità di governo avuto in Italia. Avrei potuto formare un governo del mio solo partito, i cristiano-democratici. Dopo le elezioni del 1948 avevamo quasi il 53 per cento dei seggi in parlamento. Ma credevo che tale governo non sarebbe stato forte e non avrebbe resistito quanto una coalizione di tutti i partiti democratici. Ma ora ci sono solo due partiti nel suo governo, i cristiano-democratici e il piccolo Partito repubblicano. Questo è vero. All’inizio c’erano sei partiti nel gabinetto. Quando uscirono i comunisti li imitarono i loro ausiliari, i socialisti di sinistra di Nenni. Ne restarono quattro. Poi i liberali e i socialisti di destra si ritirarono. Sono ancora fuori dal governo. Ma ora per la campagna elettorale le nostre liste sono di nuovo collegate. Le elezioni politiche italiane, le prime dopo cinque anni, si terranno il 7 giugno. Crede che i quattro partiti di centro resteranno uniti e vinceranno le elezioni? Questo è l’obiettivo della nuova riforma elettorale che abbiamo appena approvato. Rende possibile una coalizione dei quattro partiti democratici. La nuova riforma elettorale permette ai quattro partiti di correre separatamente. Ma essi possono «collegare» i loro voti. E se il voto congiunto supera il 50 per cento del totale, prenderanno e divideranno fra loro il 65 per cento dei seggi nella nuova Camera dei deputati. Altrimenti ogni partito riceve solo una quota proporzionale dei seggi. Il nostro obiettivo è permettere alla maggioranza di avere in Parlamento seggi a sufficienza per gestire e mantenere un governo stabile. La riforma elettorale non va a vantaggio del mio partito. Credo anzi che il mio partito avrà meno seggi di prima. Ma sarà a vantaggio della democrazia in generale. Il mio obiettivo con la riforma elettorale è stato di unire le forze democratiche. Questo è l’unico modo per sconfiggere il comunismo. Lo stesso vale per l’Europa. Anche lì dobbiamo unire le forze democratiche. Il comunismo ha la forza dell’unità. Le forze democratiche sono difficili da unificare. Hanno tendenze politiche differenti. Ma devono unirsi. Questa è la mia idea fissa in politica interna e estera. […] Ci sono ora due tendenze in Europa. Da un lato c’è la possibilità di ricostruire l’Europa come un’unità, di creare una accettabile cooperazione fra stati liberi. Dall’altro, c’è la tendenza di lavorare contro l’unità, di muoversi verso la disgregazione. Unità significa pace. Disunione significherebbe penetrazione comunista, aggressione e guerra. Mi arrabbio quando vedo nei giornali che i nostri obiettivi sono messi in discussione e vedo gli sforzi fatti per seminare il sospetto riguardo agli obiettivi dell’America in Europa. L’America ci sta aiutando a ottenere l’unità aumentando le nostre possibilità di difesa contro il comunismo, difesa morale e politica oltre che militare. Se la Gran Bretagna e la Francia sono divise, se la Francia e la Germania sono divise, questo lavora contro la pace e la possibilità di evitare la guerra. È impossibile per Americani o Europei avere un grande esercito e difendere l’Europa, se gli stessi stati europei non sono convinti della necessità dell’alleanza. Ciò che lavora contro la pace è la divisione in Europa. L’Italia, con una ampia minoranza comunista, o la Francia, con una classe media che non si sente abbastanza sicura, non possono stare da sole. Quindi credo che Eisenhower, nei suoi due anni in Europa, abbia capito il vero perno della situazione: l’unità. Ciò che serve è non solo l’organizzazione di eserciti e dei Supreme Headquarters, SHAPE, a Parigi. La questione principale è convincere Germania e Francia che il loro destino è un destino comune. Se si convincono e si accordano, il nostro problema principale sarà risolto. Secondo lei, allora, il problema principale in Europa è quello fra Francia e Germania? Sì. Sto ora discutendo con Nenni, il cui partito socialista di sinistra collabora con i comunisti. A fini elettorali Nenni sta cercando di distinguersi dai comunisti, una manovra tattica. Lo fa assumendo una linea «neutrale» nei confronti della Russia. Dice: «non chiedo a nessun italiano di allearsi con la Russia, ma di rimanere neutrale fra Russia e America». Nenni ripete ciò che ha scritto dopo il suo colloquio con Stalin diversi mesi fa. Dice che la Russia non ha motivo di attaccare l’Occidente perché la Russia è soddisfatta delle decisioni di Yalta e Potsdam. Ma la mia risposta è che Yalta e Potsdam non hanno deciso niente in via definitiva. A Yalta si decise che il confine fra Polonia e Germania doveva essere la linea Curzon. Questo nel febbraio 1945. Nell’agosto 1945, a Potsdam, si decise che la frontiera tedesco-polacca si sarebbe delimitata dopo, in un trattato di pace con la Germania. Nel frattempo, l’amministrazione provvisoria del territorio Oder-Neisse è stata affidata alla Polonia. Quindi, una situazione definita, fissata giuridicamente, non esiste. Adenauer ha ragione quando dice che ancora non c’è trattato di pace e che la questione è ancora aperta. Nel 1950, il governo comunista della Germania Est ha riconosciuto come definitivo il confine lungo l’Oder-Neisse. Ma Bonn ha rifiutato di riconoscerlo. Nenni dice che questo è motivo di guerra. Ma Adenauer risponde che la situazione è così complessa e gli effetti di una guerra così disastrosi che nessuno statista tedesco rischierebbe una guerra per i terreni dell’Oder-Neisse. […] Sei milioni di tedeschi sono stati cacciati dai territori dell’Oder-Neisse. Sei milioni di polacchi vi si sono trasferiti. Il territorio ora è abitato da slavi, non da tedeschi. La questione ora è tanto complicata che solo con grande sforzo, uno sforzo pacifico di negoziato, è possibile trovare una soluzione. Non credo quindi che si tratti di un genere di situazione che conduce alla guerra. La mia conclusione è che la soluzione non sta nella guerra, ma nella cooperazione fra Francia e Germania. L’unità in Europa può imporre una soluzione di questo problema. Se l’Europa è unita, la nostra unità spingerà i russi a giungere a negoziati pacifici su tutti i problemi dell’Europa. Questa è la mia speranza e ho il diritto di sperare. Forse è ottimismo. Ma questa è la mia politica. Ritiene che l’occidente debba continuare a riarmare, nonostante i recenti eventi in Russia? Lei deve capire che sono per il Patto atlantico, sono per la difesa, sono per l’unità con l’America – questa è la prima cosa. Se guardo al futuro, cosa vedo? Guerra? Conflitto? Assolutamente no. La mia politica è evitare la guerra: possiamo farlo solo se siamo forti, se siamo uniti in Europa e abbiamo forza morale oltre che militare. Ma non si può riassumere il problema semplicemente in termini militari, in numero di divisioni. Se arriveremo al punto di avere 80 divisioni in Europa, certamente sarà bene. Ma questo non è tutto. Se abbiamo 80 divisioni e proseguiranno i dissidi fra Germania e Francia, non abbiamo nulla. Se abbiamo 50 divisioni ma anche l’alleanza fra Francia e Germania, allora avremo la forza necessaria. Intende dire che un’alleanza franco-tedesca varrebbe 30 divisioni? Mi riferisco alla cooperazione, alla federazione, come progettata nei nostri piani di Unione europea. Lei conosce certo i nostri piani per un esercito di difesa europea. È più di un’alleanza. È fusione di eserciti. Assieme al pool carbosiderurgico del Piano Schuman, apre la strada alla unione politica dell’Europa. Vede oggi migliori prospettive per la pace rispetto a un anno fa? In Corea, sì. Ma in Europa non vedo differenze. Si attende miglioramenti a seguito dell’offensiva di pace di Malenkov ? Si può solo sperare. Sembra che cinesi e russi abbiano deciso che è nel loro interesse giungere alla pace in Corea. Ma questa non è la questione principale nel mondo. Vede qualche speranza di riconciliare i due mondi? Non abbandono interamente la possibilità della coesistenza. La Russia può rimanere comunista e noi democratici. Ma solo a condizione che la Russia si astenga dall’intervenire negli affari di altri paesi. Avete avuto alcuna testimonianza dell’abbandono da parte di Malenkov della tattica annunciata da Stalin all’ultimo Congresso del Partito comunista sovietico? Io no. Possiamo sempre sperare che ci sarà un cambiamento. Ma non c’è alcun segnale concreto. Stalin ha posto l’accento sulla divisione dell’occidente, sul mettere un paese contro l’altro e sfruttare queste divisioni per arrivare a un mondo comunista. Non c’è alcun segnale che gli obiettivi di Malenkov siano differenti. È preoccupato che l’occidente potrebbe smorzare i propri sforzi difensivi in seguito all’offensiva di pace di Malenkov? Non vedo da nessuna parte segnali che gli uomini di stato responsabili in occidente siano tratti in inganno. Ho già sottolineato l’importanza dell’unità in tutta questa questione. Per noi è irrilevante che la politica sovietica diminuisca o aumenti la tensione in un momento particolare; l’una e l’altra tattica servono gli obiettivi di Mosca. E il punto è l’obiettivo, non la tattica. In altre parole, la tattica, morbida o dura, è immateriale. Ciò che conta è questo: il risultato di questa tattica è l’unità delle forze democratiche in Europa o il contrario? Ogni tattica che disintegri queste forze è dannosa per la pace e la sicurezza. Può spiegare perché l’Italia progetta di ridurre i propri stanziamenti per la difesa nel prossimo anno fiscale? Il governo italiano ha integrato i propri stanziamenti per la difesa con una serie di leggi, in virtù degli impegni presi con il Trattato nordatlantico. Questi stanziamenti sono stati distribuiti in diversi anni fiscali in base ai programmi militari e alla loro esecuzione. Può succedere che il ritmo di spesa cali in un anno. Ma gli investimenti militari crescono proporzionalmente secondo i piani NATO. […] Lo SHAPE vorrebbe vedere l’Italia collegata agli accordi militari balcanici che vengono stretti fra Jugoslavia, Grecia e Turchia. Non sarebbe nell’interesse dell’Italia farlo? Trovo qualche resistenza nel mio vicino Tito. Non possiamo aderire a un patto balcanico prima di trovare una soluzione della questione di Trieste. La nostra opinione pubblica non lo accetterebbe. Dopo le elezioni di giugno la soluzione sarà più semplice? La sostanza della disputa sarà la stessa. La soluzione non dipende dalle elezioni, ma da Tito. Non è possibile un compromesso? Certo un compromesso è possibile, e lei ne ha suggerito uno: una linea etnica che collochi i territori a prevalenza slava in Jugoslavia e quelli prevalentemente italiani in Italia. Premier De Gasperi, lei parlava di unità europea. Perché l’Italia non ha ratificato il trattato sull’esercito europeo? Da quanto ho capito, sperava che sarebbe stato ratificato per aprile. Invece prima dell’autunno il Parlamento non lo potrà nemmeno prendere in considerazione. Ho dovuto ritardare il passaggio di molte leggi importanti a causa dell’ostruzione comunista. Ho dovuto dare la priorità alla legge di riforma elettorale. Stando così le cose, i mesi consumati per ottenere l’approvazione della legge elettorale con mezzi legali e costituzionali ha ritardato le elezioni all’ultimo weekend possibile prima del raccolto. Detto per inciso, è la prima volta nella storia del Parlamento italiano che abbiamo ottenuto un vittoria sugli ostruzionisti. Come avete fatto? La battaglia finale è stata al Senato. Il nostro Senato, come sa, ha gli stessi poteri della Camera dei deputati. È più come il Senato americano, per questo aspetto, piuttosto che come le deboli camere alte in altri paesi europei. Come la Camera, può far cadere un governo con un voto di sfiducia. La maggioranza democratica è minore al Senato rispetto che alla Camera, perché quasi un terzo dei senatori sono «senatori di diritto», nominati invece che eletti. Per molteplici ragioni, il blocco comunista ha una quota sproporzionatamente alta di questi seggi. Ma abbiamo tenuto il Senato in sessione giorno e notte. La notte scorsa ho dormito nella camera del Senato. La mattina successiva abbiamo predisposto il nostro piano; poche ore più tardi abbiamo votato e la maggioranza ha vinto. È stato l’ostruzionismo comunista, immagino, a farvi sciogliere il Senato e a indire elezioni anticipate di un anno? Sì. Ma questo non ostacola i propositi della vostra nuova riforma elettorale per la Camera dei deputati? Il Senato sarà eletto con la legge del 1948, con rappresentanza proporzionale e nessun bonus di seggi per il blocco di maggioranza? La nuova legge è pensata per la Camera. Il Senato è eletto in parte con sistema proporzionale, in parte con sistema maggioritario uninominale. Sfortunatamente, questo sistema rende estremamente difficile ogni alleanza fra partiti. Quindi i partiti collegati alla Camera saranno in competizione fra loro al Senato. Questo significherà dispersione di voti. Nelle elezioni del 1948 il suo partito, la Democrazia Cristiana, ha ricevuto 12.700.000 voti, 48,5 per cento del totale. Questo vi ha dato quasi il 53 per cento dei seggi alla Camera. Ma nelle elezioni locali e regionali nel 1951 e 1952, il voto alla Democrazia Cristiana ha totalizzato meno di 9.000.000, circa il 36 per cento. A cosa attribuisce questo calo? La nostra analisi del voto del 1951-52 non mostra un declino tanto marcato come nei suoi dati. In ogni caso il voto del 1951-52 riguardava le elezioni locali e amministrative e la partecipazione è stata inferiore del 5-10 per cento rispetto al 1948. È più semplice per i partiti democratici mobilitare i propri sostenitori nelle elezioni politiche a livello nazionale e crediamo che le elezioni di giugno lo dimostreranno. La legge elettorale, comunque, penalizzerà i partiti maggiori, noi e i comunisti. È improbabile che otterremo tanti voti quanti nel 1948. I piccoli partiti sono favoriti dalla legge. I loro guadagni, speriamo, dovrebbero significare una significativa maggioranza per i quattro partiti del centro nel loro complesso. I dati che ho visto indicano che i quattro partiti del centro insieme raccolgono solo il 51.4 per cento dei voti nelle elezioni del 1951-52, contro il 62.7 per cento del 1948. Questo indica uno stretto margine nelle elezioni di giugno? Abbiamo fiducia che ci sarà una maggioranza significativa per i quattro partiti del centro. Abbiamo ora naturalmente una situazione differente rispetto a quella del 1948. Allora era questione decisiva. C’era la crisi economica e la paura di una vittoria comunista. Era subito dopo il colpo in Cecoslovacchia. La gente ha votato a favore o contro il blocco comunista. Noi cristianodemocratici abbiamo ricevuto i voti di molti anticomunisti che non erano nostri sostenitori. Alcuni di questi voti ora andranno ad altri partiti. I due principali partiti anticomunisti fuori dalla coalizione di centro sono monarchici e fascisti. I monarchici hanno ricevuto circa un milione di voti nelle elezioni del 1951-52 e i fascisti circa 1.700.000. Alcuni osservatori credono che i monarchici potrebbero guadagnare in giugno mettendo in pericolo la maggioranza di centro. Il risultato, temono, sarebbe un’instabilità di governo di tipo francese. Pensa che il partito monarchico guadagnerà in giugno? Crediamo che gli elettori italiani torneranno a una maggioranza democratica che renderà possibile un governo stabile in Italia. Pensa che i fascisti in futuro possano tornare ad essere una minaccia per la democrazia in Italia? Il fascismo non ha possibilità a meno che non sia aiutato involontariamente dall’insufficiente comprensione da parte delle altre democrazie occidentali sul problema del territorio libero di Trieste. Premier De Gasperi, molti osservatori credono che il blocco comunista a giugno avrà il 30-35 per cento dei voti come nel 1948 e di nuovo nel 1951-52. L’Italia ha avuto una ripresa economica sorprendente dal 1948, aiutata da più di 2 miliardi di dollari di aiuti americani per il dopoguerra. A cosa attribuisce il fatto che ci siano ancora 8 milioni di voti per il blocco comunista? Le dirò quanto dissi ai vostri leader a Washington nel 1947. Dissi: «Se mi date lavoro per i nostri disoccupati o se accettate gli italiani che vogliono emigrare in America, potrò rinunciare agli aiuti economici». Intende che la disoccupazione è la causa della forza comunista? È solo una spiegazione. Forse se ne possono trovare altre. Ma credo che il problema principale sia la sovrappopolazione. Certamente abbiamo compiuto alcuni progressi, con l’aiuto americano. Ma non possiamo trovare abbastanza lavoro in Italia per occupare tutta la nostra gente. Una recente inchiesta parlamentare mostra che ci sono 1.300.000 disoccupati inseriti nelle liste ufficiali, più un numero considerevole di sottoccupati. A quanto so, il tasso di natalità italiano è ora inferiore a quello americano. Circa un milione di nuovi posti di lavoro è stato creato con il piano Marshall. Perché c’è un problema di popolazione? La nostra popolazione cresce di circa 400.000 unità l’anno. Circa 250.000 giovani ogni anno entrano a far parte della forza lavoro. Negli anni recenti siamo riusciti ad assorbire i nuovi lavoratori. Ma non siamo stati capaci di smaltire gli arretrati di persone che normalmente sarebbero emigrate. Almeno due milioni di persone ora in Italia sarebbero emigrate negli ultimi due decenni se non ci fossero stati il fascismo e la guerra. La media di emigrati fra il 1921 e il 1930 è stata di 260.000 persone l’anno. L’Italia ha sempre avuto emigrati, come voi in America sapete bene. Abbiamo bisogno di sbocchi per 350.000 persone l’anno. Attualmente circa 120.000 emigrano ogni anno, principalmente in America Latina e in altri paesi europei. Molto pochi possono andare negli Stati Uniti, molti meno di prima; dopo il McCarran Act meno di 6.000 l’anno . La ridotta emigrazione è aggravate dal ritorno degli italiani dall’Africa e da altri territori in conseguenza del trattato di pace. Abbiamo cercato di espandere l’emigrazione. Ma è un problema difficile, anche dove le porte sono aperte, come in alcuni paesi in America Latina. Oltre ai costi di trasporto, è costoso inviare emigrati verso paesi sottosviluppati che spesso li accolgono solo in cambio dei fondi per equipaggiare le campagne dove si possono insediare. Speriamo che l’unione europea renderà possibile per alcuni italiani andare in altri paesi europei a corto di forza lavoro. Non ci sono altre ragioni che spieghino la forza dei comunisti oltre alla sovrappopolazione? Per esempio, i sindacati comunisti possono usare molti edifici governativi come sedi e come centri ricreativi, un vantaggio che i sindacati liberi non hanno. Perché questi privilegi non sono eliminati, oppure concessi anche ai sindacati liberi? C’è una situazione legale da considerare. Abbiamo ereditato la situazione dal fascismo. Allora queste proprietà appartenevano ai sindacati di stato e a altri soggetti pubblici e dopo la guerra passarono legalmente all’unica confederazione sindacale allora esistente. Allora lavoratori comunisti, socialisti di sinistra, socialisti di destra e democristiani appartenevano tutti allo stesso sindacato. Il governo concesse loro le proprietà in affitto. Più tardi i leader non comunisti uscirono e fondarono i sindacati liberi. Ma i contratti di affitto degli edifici restarono a nome del vecchio sindacato che allora divenne interamente controllato dai comunisti. Gli edifici saranno reclamati alla scadenza degli attuali contratti di affitto? Questo è un problema che il nuovo Parlamento dovrà studiare. È sua intenzione prendere delle misure per escludere i comunisti dai consistenti sussidi che ora ricevono dal controllo dell’agenzia di commercio con i paesi comunisti? Il problema è che i paesi comunisti, come sa, hanno monopoli di stato. Nel commerciare con i paesi democratici, possono comperare e vendere attraverso qualsiasi ditta di export-import privata che poi può guadagnare commissioni di intermediazione. Alcuni funzionari americani credono che l’economia italiana potrebbe espandersi più rapidamente per assorbire molti dei disoccupati. Cosa ne pensa? Facciamo quello che possiamo. Come sa, abbiamo un ampio programma di sviluppo in corso nel sud. Stiamo cercando di dare terre ai contadini frammentando le grandi proprietà, confiscando le terre incolte, costruendo canali di irrigazione, argini e così via. È un processo lento. Per risistemare i contadini bisogna rivendicare le terre, costruire case e nuove strade, installare i servizi. Intendiamo continuare questo programma e ampliarlo. Ma non credo che si possa trovare lavoro per tutti i disoccupati senza che l’emigrazione contribuisca a ridurne il bisogno. Oltre alla disoccupazione nelle città, a quanto capisco, l’Italia ha il problema di molti contadini sottoccupati e senza terra. Quanti di questi hanno ottenuto delle terre fino ad ora con la riforma agraria? Il nostro progetto di riforma agraria renderà disponibili per la redistribuzione ai contadini circa 700.000 ettari. Di questi, circa 177.000 ettari sono stati distribuiti. Circa 38.000 famiglie sono state trasferite su queste terre. Intende introdurre una nuova legge nel prossimo parlamento per estendere la riforma oltre i 700.000 ettari finora espropriati? Sì, ma la forma legislativa non è stata ancora decisa. Recentemente diversi comitati americani, indagando sugli aiuti americani all’Europa, hanno affermato che l’espansione industriale e la libera impresa in Italia sono ostacolate dai monopoli italiani, privati e pubblici. Parte delle critiche si è concentrata sull’impresa pubblica chiamata IRI. Pensa che le fabbriche dell’IRI dovrebbero essere restituite alla libera impresa? L’IRI non agisce in regime di monopolio. È stata fondata nel 1933 come «ospedale» per ditte private andate in bancarotta. Poi è stata trasformata in un organo permanente per esercitare il controllo di gruppi finanziari in importanti settori dell’economia nazionale e nell’industria di guerra. La distruzione degli impianti e l’eccesso di forza lavoro dopo la guerra hanno aggravato la situazione dell’IRI. Di qui l’enorme difficoltà di riportare le imprese dell’IRI sul libero mercato. Molto è stato fatto. Alcuni trasferimenti di impianti sono stati fatti. Ad altri è stata data una nuova forma e organizzazione. Finito questo lavoro potremo decidere quali imprese lo stato può mantenere e quali dovranno essere vendute a imprese private. L’Italia accoglie con favore gli investimenti esteri? Certamente. Abbiamo grande bisogno di capitali di investimento. Oltre alla preoccupazione per la posizione privilegiata dell’IRI, gli investitori privati esteri hanno la sensazione che la legge italiana scoraggi gli investimenti. Mi dicono che annualmente si può esportare dall’Italia solo il 6% dei profitti. Avete in progetto di modificare queste leggi? So che la legislazione italiana è fra le più favorevoli per gli investimenti stranieri. Secondo un provvedimento speciale già approvato da un ramo del Parlamento, integrato con il trattato commerciale e di amicizia con l’America, i due governi si impegnano a concedere il trattamento della «nazione più favorita» al trasferimento dei capitali. L’Italia ha ancora bisogno degli aiuti americani? Speriamo che proseguano. Ma siamo d’accordo con il principio del «trade not aid». Il presidente Truman, ad esempio, ha aperto il mercato americano ai nostri formaggi. Più commerceremo, meno avremo bisogno di aiuti in dollari. L’Italia sta ricevendo 80 milioni di dollari in aiuti economici statunitensi quest’anno fiscale. Ma funzionari americani dicono che gli acquisti militari americani in Italia e le spese delle truppe americane portano più di 200 milioni di dollari l’anno. Crede che questo consentirà all’Italia di fare senza aiuti economici a partire dal 1° luglio? Secondo i nostri dati, pagamenti in dollari per acquisti militari americani in Italia, inclusi gli ordinativi NATO, negli ultimi tre anni fiscali ammontano a circa 123 milioni. Le stime per il 1953-54 indicano pagamenti per 119 milioni. Questo è molto diverso dai 200 milioni annui di cui parla lei. Quindi, l’Italia continuerà nel suo sforzo per aumentare l’occupazione e nel suo sforzo finanziario per la difesa comune, non può fare a meno degli aiuti internazionali finché la situazione internazionale non consentirà una vera espansione delle esportazioni, in particolare verso paesi con valute forti. Molti leader europei sono stati in visita a Washington recentemente per conoscere la nuova amministrazione. Lei non è stato negli Stati Uniti dopo il 1947. Sta pianificando un viaggio? Si è discussa la questione. Ma, come sa, ho di fronte un periodo molto intenso, con le elezioni in vista. Se la mia presenza fosse necessaria, naturalmente, non esiterei a partire.
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1,953
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101951-1955
Prego comunicare alla Delegazione Italiana presso la CED seguente telegramma: Riferimento telegramma di codesta Delegazione n. 351.Vostra Signoria nella riunione del Comitato di Direzione potrà confermare che le proposte contenute nella nuova Nota britannica sono vedute con favore dal Governo italiano. Alla Dichiarazione unilaterale britannica appare in massima preferibile la forma dell’Accordo: nell’eventualità che tuttavia la maggioranza delle Delegazioni manifestino preferenza per la proposta contenuta nella Nota inglese in data 11 marzo, non sembra opportuno che Vostra Signoria assuma un atteggiamento rigido.
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101951-1955
Telegramma circolare n. 6293 di questo Ministero. Le conversazioni tripartite di Atene fra gli Stati Maggiori del Patto balcanico non hanno – per quanto risulta al Governo italiano – conseguito ancora la messa a punto dei piani difensivi che, secondo l’art. 3 del Patto stesso, dovrebbero essere sottoposti all’approvazione dei tre governi. Tali notizie sono state confermate anche a Rossi Longhi dall’Ammiraglio Dik, come risulta dal telegramma sopra indicato. D’altra parte risulta che lo SHAPE sembra avere iniziato negli ultimi giorni di maggio con l’intervento del generale Gruenther studi preliminari per una possibile partecipazione ai piani NATO della Jugoslavia. Questo non può da parte nostra non suscitare notevole sorpresa e perplessità. Innanzi tutto è chiaro, che dall’esame di un problema che, come quello della collaborazione Jugoslavia con NATO, ci concerne così da vicino, non intendiamo e non possiamo essere estranei neanche nelle fasi preliminari ed esplorative. A tal proposito ricordo le esplicite assicurazioni che nella seduta del Consiglio Atlantico del 19 marzo u.s. ci furono date. È da considerare inoltre il momento particolarmente delicato per le relazioni italo-jugoslave e per il consolidamento delle linee direttrici della nostra politica estera. Circa la sostanza del suindicato problema, l’attività dello SHAPE è da noi ritenuta, oltre tutto, prematura sia in vista delle sopra menzionate notizie da Atene sia in considerazione dell’attuale situazione politica generale che non giustificano la fretta di cui lo SHAPE sembra dar segno. È inutile aggiungere che queste affrettate iniziative potrebbero ingenerare nel governo e nei circoli responsabili italiani non pochi interrogativi. Riassumendo Governo italiano è e rimarrà fedele alla politica Atlantica, ma è necessario che i nostri principali alleati si rendano conto di ciò che esso può o non può ammettere. Con codesto Governo si esprima in conformità aggiungendo che ci attendiamo pronte amichevoli assicurazioni nel senso del presente telegramma e vengano […] istruzioni conformi al suo Rappresentante permanente alla NATO. Quanto sopra telegrafato Londra Washington.
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1,953
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101951-1955
Avendo governo francese definitivamente accettato, riunione sei Ministri degli Esteri avrà luogo lunedì 22 corrente in mattinata. Nella giornata stessa si prevede che sarà esaurita. Questioni relative formazione Comunità Europea verranno trattate nelle ore antimeridiane, nel pomeriggio in vista anche prossimo incontro delle Bermude potranno aversi tra i sei Ministri utili scambi di idee su problemi politici. Alla convocazione sarà provveduto da Segretariato Lussemburgo. Comunque prego confermare a codesto Ministero degli Esteri quanto sopra. È stato telegrafato a Lussemburgo, L’Aja, Bruxelles, Bonn.
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1,953
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101951-1955
Il Sig. De Gasperi ha detto che oltre ai fattori interni coinvolti, il risultato delle elezioni è stato «un riflesso della situazione europea». Ha detto che durante il lungo periodo preelettorale l’offensiva di pace di Malenkov è stata sempre più efficace nel persuadere l’opinione pubblica italiana che la minaccia di aggressione comunista in Europa è finita con la morte di Stalin e che la coesistenza pacifica con la Russia sovietica ora è divenuta possibile. Ha detto che il discorso di Churchill ha causato un danno incalcolabile alle elezioni dando ampio credito a questa impressione e che ha anche gravemente messo in pericolo ovunque in Europa la validità e l’urgenza di tutta la comunità di difesa europea della NATO e i concetti di comunità politica europea che sono stati alla base della politica estera cristiano-democratica. Ha detto che la richiesta di Churchill di neutralizzazione della Germania prefigura una calcolata politica britannica per far collassare tutti gli sforzi di creare un’Europa unita e forte in funzione antisovietica. Nel suo duro giudizio di condanna di Churchill ha affermato «Churchill è più giovane delle sue idee». Queste, ha affermato, sono le idee di un imperialista britannico dell’età vittoriana. Ha dichiarato «ci sono solo due potenze conservatrici e reazionarie nel mondo di oggi – la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica». Ha detto che l’attacco indiretto di Churchill contro l’unione europea si fonda sulla volontà di ridurre l’Europa, ancora una volta, a un debole insieme di piccole nazioni che si temono e sospettano a vicenda così che la Gran Bretagna possa tornare ancora alla sua storica politica di balance of power giocando il ruolo di potente mediatore fra il mondo e la Russia sovietica. Ha avvisato che se «la politique de Churchill» persiste e prevale, finirà col far cadere Adenauer, consegnare la Germania nelle mani dei socialisti e dei neutralisti tedeschi, rafforzare le stesse forze socialiste e neutraliste già forti in Francia e distruggere l’intero movimento cristiano-democratico in Europa. Intende dire tutto questo a Churchill in occasione del pranzo che si terrà questo martedì a Londra. Ha detto che il successo della politica attualmente illustrata da Churchill dovrebbe anche portare al ritiro delle forze americane in Europa e quindi alla fine del predominio americano in Europa. All’offensiva di pace di Malenkov e al discorso di Churchill, fra i fattori che hanno contribuito a creare un clima d’opinione favorevole alla causa comunista in Italia ha aggiunto, come fattore minore, il capitale emozionale che i comunisti sono riusciti a ricavare dal caso Rosenberg , dato che l’opinione pubblica italiana, sia a destra sia a sinistra, invocava clemenza. Ha anche accennato alla capacità dell’opposizione tutta di capitalizzare l’incapacità americana di emanare una legislazione sull’immigrazione o di assumere la leadership mondiale per risolvere il problema. Ha poi affermato che l’effetto negativo di tutti questi fattori sulle elezioni è stato accresciuto dal taglio significativo degli aiuti americani all’economia italiana. Ha detto che visti i bisogni italiani e l’importanza delle elezioni «venti milioni di dollari erano stati troppo poco». Ha minimizzato gli effetti sugli elettori delle somme consistenti rappresentate dai manufatti militari americani e degli offshore procurements dato che ogni discussione pubblica al riguardo li avrebbe necessariamente identificati come preparazione alla guerra e, nell’atmosfera creata dall’offensiva di pace di Malenkov e dall’approvazione fattane da Churchill, questa discussione ha ulteriormente alimentato i sentimenti pacifisti italiani che a loro volta hanno aiutato i comunisti.[…] Ha detto che se l’opinione pubblica non fosse stata così attratta dal tentativo di raggiungere o evitare la maggioranza elettorale del 50,1, la questione di Trieste sarebbe certamente stata dominante nella campagna e che in questo caso egli avrebbe subito una sconfitta ancora peggiore. Ha affermato e ripetuto diverse volte che «l’Italia potrebbe già essere perduta per la questione di Trieste». Ha detto che ora sarebbe più difficile che mai per lui discutere qualsiasi soluzione finora proposta da Tito perché senza una maggioranza forte in Parlamento gli sarebbe impossibile presentare al paese un accordo su Trieste che non fosse chiaramente favorevole all’Italia. Ha detto che la debolezza relativa del suo governo lo costringe ancora una volta a dichiarare che la sua politica su Trieste si fonda sulla dichiarazione tripartita. Ha detto che il suo governo cadrebbe certamente se egli accettasse una soluzione che includa un corridoio che permetta alla Jugoslavia di costruire un porto jugoslavo in concorrenza con Trieste. Ha detto che se in conseguenza di questo si arrivasse a elezioni anticipate nella attuale incerta situazione internazionale, l’Italia potrebbe diventare comunista. Ha detto che «il Pentagono, nella sua fascinazione per le divisioni jugoslave» ha seguito una strada che potrebbe portare alla perdita dell’Italia, senza la quale la Jugoslavia non sarebbe utile in battaglia. Qui è tornato alla politica britannica che ha costantemente appoggiato Tito e ha accusato quei politici britannici che hanno scioccamente immaginato che Tito potesse ancora essere trasformato in un socialista di tipo europeo-occidentale. Ha poi detto che è sua intenzione portare avanti «fino alla sconfitta o fino alla morte» la politica a cui è legato da profonda convinzione personale, necessità politica interna e logica della situazione europea. Ha detto che la creazione di un’Europa unita, una «terza forza» è necessaria, o l’Europa è destinata al comunismo. Ha detto che nonostante tutte le indiscrezioni sul contrario, egli sta per formare un governo degli elementi della coalizione di centro politicamente affidabili ed efficaci e che non coinvolgerà né destra né sinistra. Ha detto che questo governo sarà il più possibile stabile e durevole e che desidera che così sia visto all’estero e che le voci sulla formazione di un governo ad interim o di ordinaria amministrazione sono state messe in giro dai comunisti che cercano di distruggere in anticipo la fiducia del partito e del pubblico nell’integrità, forza e stabilità del nuovo governo in modo da causare una serie di crisi e nuove elezioni. Non sottovaluta la possibilità che il suo governo cada e che siano indette nuove elezioni per il mese successivo, ma ha detto che se il suo governo cade non deve cadere su temi di politica interna che favorirebbero i comunisti ma su una questione internazionale che metta alla prova in maniera definitiva l’opinione pubblica italiana sull’intera questione delle sue politiche di difesa occidentale e di integrazione europea. Ha poi espresso la fervida speranza che la politica americana intervenga con forza nelle questioni internazionali sopramenzionate, ma particolarmente ha sottolineato l’importanza che il governo americano non faccia dichiarazioni politiche relative all’Italia che non possa poi tradurre in tempi ragionevoli in azione concreta. Pur esprimendo comprensione e simpatia per le necessità politiche che la nostra amministrazione deve affrontare, ha detto che se l’annuncio di politiche auspicabili nei confronti dell’Italia, specialmente nell’ambito degli aiuti, fosse effettuato con tentennamenti aumenterebbe i dubbi in Italia sul fatto che il governo americano sia sufficientemente forte all’interno per perseguire la propria politica ma, ancora più importante, ha detto che qualsiasi misura richiesta ad alto livello per conto dell’Italia se poi abbandonata confermerebbe lo scetticismo italiano riguardo al fatto che tali misure vengono annunciate semplicemente per manipolare l’opinione pubblica italiana in senso favorevole in tempi di crisi politica – chiaramente un altro riferimento all’abbandono statunitense della dichiarazione tripartita. Ha poi espresso sincera gratitudine per l’appoggio americano, sia in passato sia durante le elezioni. Ha detto che spera che il suo pensiero sia portato immediatamente alla tua attenzione […]
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Il presidente De Gasperi, nel porre in rilievo come il problema dell’unificazione tedesca tocchi direttamente e profondamente la nascente Comunità europea e dopo aver indicato come la manovra di distensione russa, per quanto essa contenga di utile e positivo, sia la conseguenza diretta della politica seguita dai Paesi europei ed atlantici in questi ultimi anni, ha affermato come quel problema dell’unificazione germanica si presenti oggi quale una «ipotesi attuale» e tale da consigliare scambi di idee atti a permettere la precisazione di elementi suscettibili di contribuire alla formulazione di un punto di vista comune tra i sei Paesi della Comunità. Egli ha poi ricordato come il cancelliere Adenauer avesse avuto già occasione, nelle passate settimane, di fissare cinque punti essenziali nei riguardi del processo di unificazione del suo Paese: 1° libere elezioni in tutto il territorio tedesco; 2° istituzione di un Governo unico; 3° conclusione di un Trattato di Pace liberamente negoziato; 4° regolamento, nel quadro di quel Trattato, delle questioni relative alle frontiere della Germania; 5° possibilità per il futuro Governo tedesco unico di concludere liberamente accordi internazionali secondo i principii e lo spirito delle Nazioni Unite. Ora – ha ricordato l’on. De Gasperi – questi punti dovrebbero incontrare la generale approvazione anche perché, in realtà, essi non costituiscono affatto un elemento di contrasto con il processo integrativo, nell’Europa occidentale, della Germania: processo integrativo al quale sono dedicati e dovranno esserlo sempre più, gli sforzi dei sei Paesi interessati. Tra questi sforzi, in primo luogo, è la messa in moto della Comunità europea di Difesa. In riassunto una Germania unificata nel quadro e nello spirito di quanto è stato sopra indicato non è affatto «incompatibile» con una Germania integrata nella Comunità di Difesa e quindi nella Comunità politica europea. In tale maniera si concorrerà davvero al mantenimento della pace in Europa e quindi nel mondo. L’integrazione europea costituirà così, essa stessa, una garanzia della pace mentre una Germania neutralizzata e smilitarizzata costituirebbe, per l’ampiezza e la difficoltà dei controlli, un problema di estrema complessità, pericoloso forse per la pace stessa. In queste condizioni i Governi dei sei Paesi vedrebbero con soddisfazione il rappresentante della Francia alle Bermude esporre, a loro nome, questi concetti in modo che gli uomini di Stato che vi rappresenteranno l’America ed il Regno Unito potessero avere la diretta sensazione e conoscenza di quanto nell’Europa occidentale si pensi circa il problema dell’unificazione tedesca: si tratterebbe cioè di affidare al rappresentante di Francia alle Bermude – che sarebbe augurabile possa essere personalmente lo stesso ministro Bidault – un «mandato morale» la cui esplicazione sarebbe di indubbia utilità nel quadro dei rapporti politici internazionali. […] Ed il presidente De Gasperi, nel rievocare come la Commissione della antica Camera dei Deputati di Roma avesse già provveduto, prima del suo scioglimento, all’approvazione del Trattato, ha detto che, evidentemente, la nuova posizione parlamentare non poteva non provocare un certo ritardo. Ma, almeno a quanto è dato comprendere, una parte dell’opposizione al Governo appare favorevole all’idea della formazione della Comunità di Difesa e ciò potrà, senza dubbio, al momento opportuno, facilitare i lavori per la ratifica. […]
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Da notizie qui pervenute appare essere sorto una qualche differente interpretazione circa le decisioni prese nel corso recente incontro Parigi nei riguardi futura riunione dei Sei ministri, fissata per giorno 7 agosto a Baden Baden. Avverto che, in merito, farò ora pervenire a codesto ministro Affari Esteri a mezzo del Segretariato di Lussemburgo, una mia lettera nella quale porrò in chiaro come prevista riunione di Baden Baden dovrà effettivamente costituire vera e propria prima parte della Conferenza, con discussione sui punti basilari, come del resto era già previsto per Conferenza di Roma. In riunione stessa dovranno essere stabilite poi modalità circa i successivi lavori che si rendessero necessari. Telegrafato Parigi, Bonn, Bruxelles, L’Aja, Lussemburgo.
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101951-1955
Signor Ministro, secondo alcune informazioni pervenutemi tramite il nostro Segretariato sembra che qualche divergenza di interpretazione stia facendosi strada circa il carattere che avrà la nostra prossima riunione a Baden Baden. Mi preme quindi, per assicurare la buona riuscita di tale incontro, che questi dubbi siano tempestivamente eliminati e sarei perciò lieto di conoscere al riguardo il punto di vista di ciascuno dei nostri colleghi. A mio modo di vedere, quando abbiamo discusso a Parigi della prossima riunione, non vi è dubbio che pensavamo ad un incontro dei Ministri degli Esteri destinato – come del resto appare dal comunicato finale – a fare avanzare sostanzialmente i nostri lavori per la costituzione della Comunità Europea. La riunione cioè deve avere carattere sostanziale, e non meramente procedurale. Noi prevedevamo qualche settimana fa, per la Conferenza che doveva inaugurarsi a Roma il 12 giugno, due stadi: un primo cioè a livello Ministri per discutere i punti basilari del Trattato e per tracciare le linee generali entro le quali avrebbe dovuto muoversi ulteriormente la conferenza; un secondo livello Sostituti per proseguire i lavori ed elaborare con maggior precisione e dettaglio i punti concordati. Mi sembra che il nostro prossimo incontro di Baden Baden sia stato previsto appunto come il primo di questi momenti, restando inteso che a termine delle nostre discussioni colà verranno prese le opportune decisioni per i successivi lavori che si rendessero necessari. Nel ringraziarLa fin da ora, Sig. Ministro, della risposta che la E.V. mi farà pervenire al riguardo, La prego di voler gradire le espressioni della mia alta considerazione.
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101951-1955
Chiarire alcune connessioni della presente crisi italiana colla politica internazionale. Il PSI, avendo sin dall’inizio della campagna impostata la lotta sulla «distensione» contro il presunto oltranzismo atlantico del governo e concretamente sulla conferenza a 4, ritenne d’aver trovato sostegno politico e morale nel discorso di Churchill che lanciando l’idea di una nuova Locarno, sembrò voler superare la partecipazione della Germania alla CED. Il PSI puntò quindi sulla conquista degli elettori socialdemocratici, cercando di abbattere il diaframma che divideva la socialdemocrazia dal PSI, cioè la fedeltà di Saragat al Patto atlantico e alla politica europeista. Secondo l’interpretazione che dei risultati elettorali ha dato lo stesso Saragat, la tattica di Nenni sarebbe riuscita a distogliere da Saragat 1 milione di elettori. Fondandosi su tale interpretazione, i socialdemocratici (19 di numero alla Camera) minacciano di votare in ogni caso coll’estrema, ossia dalla posizione di centro di passare all’opposizione sistematica. Essi insistono in tale tattica non solo in forza dell’esito delle elezioni, ma anche perché a loro avviso, è prevedibile che la prossima evoluzione della distensione porti 1) alla conquista socialista del governo di Bonn, 2) con ciò alla fine della politica europeista (CED) e allo svuotamento della politica atlantica. Sembra che essi fondino tali prospettive future su due previsioni: la prima, che l’URSS insista fino in fondo nella politica di distensione, che è l’opinione condivisa da tutta la sinistra; la seconda, che la Gran Bretagna ritenga opportuno di continuare sulla linea del discorso Churchill. In assenza di ogni dichiarazione concertata, nel silenzio degli organi collettivi (NATO e Comunità europea) si fa largo l’opinione che non esista una solidarietà fra le grandi potenze né un accordo di metodo e di sostanza. Anche i comunisti, come appare da un comunicato odierno, credono venuto il momento di abbattere la CED, cosicché si può prevedere che, come nell’attuale crisi italiana, anche nella campagna germanica la meta dell’opposizione sarà di impedire la partecipazione della Germania all’esercito europeo. Tanto si richiama all’attenzione di V.S. pur non potendosi in questo momento valutare oggettivamente l’evoluzione della situazione.
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È convinzione del Governo italiano che i prossimi incontri Washington offrano favorevole occasione anche per un esame approfondito delle questioni di preminente interesse europeo con particolare riguardo alla Germania e all’Austria. Pur riconoscendo le speciali responsabilità delle tre potenze firmatarie dei patti contrattuali con la Germania et immediati interessi dei Paesi in questione, è evidente che la questione oggi determinatasi nei rapporti Est-Ovest ed il comportamento di tali rapporti sono in stretta connessione con la consistenza et funzionalità dell’Organizzazione Atlantica et con azione per integrazione europea. Onde promuovere sviluppi atti a consolidare la pace nella sicurezza risulta perciò indispensabile che le potenze più direttamente interessate possano nella loro azione rappresentare la solidarietà delle forze atlantiche ed europeistiche in maniera che le soluzioni operino nello spirito di questa solidarietà. Con queste premesse e con questo spirito il Governo italiano propone ai tre Governi alleati di promuovere, e di annunziare nel comunicato conclusivo dell’incontro di Washington, convocazione ai fini suddetti di una ampia consultazione collettiva alla quale parteciperebbero i Ministri degli Esteri membri del Patto Atlantico e della Comunità Carbone e Acciaio. La data della conferenza dovrebbe venir fissata anche in relazione con elezioni Germania. Prego l’Eccellenza Vostra di comunicare la mia proposta, con le considerazioni che l’accompagnano, al ministro degli Affari Esteri francese prima dell’incontro di Washington. È stato telegrafato a Washington e a Londra. Per orientamento di V.E. rilevo che la soluzione problema germanico incide direttamente su problema integrazione europea. È utile ricordare a tale proposito che in recente riunione di Parigi l’opinione comune di Sei ministri degli Affari Esteri – sia pure espressa a titolo personale – fu che l’eventuale unificazione della Germania non sarebbe incompatibile con sua partecipazione Comunità Europea.
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Impossibile cogli elementi finora noti di giudicare spassionatamente il caso Beria . Si tratta comunque di un colpo di stato, di un fenomeno che ricorda gli episodi più truci della tirannide orientale. La Pravda dice che si volle colpire una «politica di capitolazione avente come fine ultimo la restaurazione del capitalismo». Qui conviene chiedersi di quale «capitalismo» si parli. Della minaccia d’un ritorno capitalista interno o del capitalismo esterno dei paesi non comunisti? La capitolazione si tentava in confronto di fattori interni delle repubbliche sovietiche o la colpa era quella di una politica troppo remissiva (distensiva) in confronto del capitalismo straniero (occidentale)? Tale è la questione che più direttamente interessa tutti i popoli occidentali. Si conferma più che mai che quest’interrogativo interessa non solo i tre o quattro paesi che sono immediatamente implicati nelle questioni controverse coll’URSS, ma tutte le Nazioni dell’Occidente, grandi e piccole, che devono saper con quali presupposti, a quali condizioni, il problema della comune pace e della comune sicurezza debba e possa venire affrontato. Questa valutazione collettiva ora più che mai si conferma urgente e necessaria.
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101951-1955
1. La posizione del Governo italiano in merito al processo di integrazione europea, non è mutata nelle sue linee fondamentali. Fanno fede di un tale atteggiamento le recentissime dichiarazioni fatte dal presidente Pella, sia nel discorso di inaugurazione dei lavori della Conferenza di Roma dei Sostituti dei Ministri degli esteri, sia nel discorso pronunciato dinanzi alla Camera dei Deputati di Roma a conclusione del dibattito sulla politica estera. L’Italia rimane fedele a quel movimento di idee e di azione che deve condurre, attraverso la progressiva creazione della Comunità, a quella attuazione dell’idea federale o confederale che, per iniziativa e per merito del presidente del Consiglio italiano, on. De Gasperi, ha formato il contenuto e lo scopo dell’importantissima decisione presa dai sei Governi interessati con l’adozione dell’art. 38 del Trattato CED. In questo senso e su tale direttrice hanno agito, proprio in questi ultimi giorni, i delegati italiani alla Conferenza di Villa Aldobrandini i quali hanno, tra l’altro, attribuito il maggior valore a quel progetto di Statuto europeo che, per incarico dei Governi dei sei Paesi, i parlamentari della Commissione Costituzionale dell’Assemblea ad Hoc, hanno, come è noto, compilato. Da parte italiana, infatti, ci si augura sempre più che la strada destinata a portare ad una più intima integrazione europea possa essere – secondo le parole pronunciate dinanzi alla Camera dallo stesso presidente Pella – felicemente percorsa e possano venire eliminati gli ostacoli che potrebbero ritardare l’urgente realizzazione della meta. È soltanto così, infatti che potranno veramente darsi all’Europa quella nuova fisionomia e quelle nuove forme di reggimento federale o confederale che devono finalmente porre termine ai conflitti interni del nostro continente. L’Italia, per parte sua, conta fare di tutto perché, in via pacifica e di collaborazione, siano sgombrati gli ostacoli ai quali si è sopra accennato. 2. Tra questi ostacoli uno ve ne è, oggi, particolarmente italiano: e cioè quella situazione, fin troppo nota in ogni dettaglio, creatasi alla frontiera orientale dell’Italia a seguito della mancata soluzione dell’importante problema del Territorio Libero di Trieste. È questo un problema che indubbiamente tocca ed interessa tutta la Comunità europea e che merita, quindi una particolare attenzione, specialmente nei confronti dell’auspicata realizzazione della Comunità europea di Difesa, pietra angolare di tutto l’edificio dell’integrazione europea. Qualora, infatti, l’Italia dovesse chiedere alla Comunità di scrivere in partenza nel suo libro mastro la voce passiva costituita dalla questione triestina, la posizione della Comunità stessa, la sua azione ed il suo sviluppo verrebbero gravate di una seria ipoteca. Occorre infatti sempre ricordare che la Jugoslavia è Paese svincolato da qualsiasi impegno europeo e, quindi, in condizioni di procedere in assoluta libertà anche nel settore militare senza dover rendere alcun conto del suo operato e tanto meno alla Comunità europea. Ora, con l’entrata in vigore del Trattato CED, la Jugoslavia antagonista di uno dei membri della Comunità in una questione per essa vitale, non potrebbe che diventare antagonista della Comunità intera non essendo neppure pensabile che la solidarietà dell’organismo comunitario possa venire meno in un organismo come la CED al quale ciascuno Stato ha conferito il suo patrimonio politico e spirituale più prezioso, ossia le Forze Armate. Cosicché la Comunità dovrebbe scegliere fra l’una o l’altra di queste due ipotesi: A – o assumere preventivi e precisi impegni sul piano politico e su quello militare al fine di risolvere la questione triestina secondo lo spirito della Carta delle Nazioni Unite (come detto nel preambolo della CED) – ossia in base ai principi della dichiarazione e dei diritti dell’Uomo e dell’autodecisione dei popoli; B – ovvero dovrebbe riconoscere all’Italia la piena libertà d’azione politica e militare per quanto concerne tale problema. Né l’una né l’altra di tali ipotesi faciliterebbe la ratifica del Trattato. Resti quindi ben chiaro che il problema della frontiera orientale italiana non dovrebbe essere qui considerato, come taluni vorrebbero, sotto una visuale pessimistica, ma deve solo essere tenuto presente che la ratifica del Trattato sarà decisamente favorita e grandemente affrettata dalla soluzione del problema che è problema di diritto e di giustizia al quale, finché non sia risolto, si rivolgerà l’appassionato interesse del Popolo italiano. Ed è, quindi, con viva soddisfazione che in Italia si è preso conoscenza delle chiare parole pronunciate, nei giorni scorsi, a Strasburgo, dal presidente Spaak, il quale ha, in un suo ampio discorso, indicato, tra l’altro – in tema di politica europea – come il problema triestino deve essere considerato, nel quadro europeo e con gli stessi intendimenti, alla pari della questione dell’unificazione germanica. In altri termini, cioè, l’Europa dà chiari segni, oggi, di sentire profondamente la necessità di una soluzione che, nel dare, a mezzo di sistemi equi e democratici, soddisfazione alle giuste aspirazioni italiane, metta fine alla controversia italo-jugoslava, facilitando la creazione di nuovi elementi di collaborazione e di ricostruzione nel nostro continente . L’Aja, 10 ottobre 1953 Moralità internazionale AADG, Affari Esteri, X, a; pubblicato con questo titolo De Gasperi 1979, pp. 174180; in De Gasperi 1990b, pp. 423-426, e in De Gasperi 1999, pp. 101-105. Discorso pronunciato al XII Congresso del Movimento Europeo all’Aia il 10 ottobre 1953. De Gasperi rievoca gli sforzi compiuti per la Comunità politica, evidenzia il ruolo dell’Europa come strumento per mantenere la pace e si richiama alle dichiarazioni di Schuman e von Brentano sullo sforzo di conciliazione fra Francia e Germania; invita a propagandare presso l’opinione pubblica l’idea della Comunità come luogo di libertà e democrazia, vede nel futuro della Comunità un ruolo di mediazione e di equità che le darà dignità arbitrale. È la prima volta che assisto ad una vostra riunione plenaria. Sono un vecchio militante della stessa idea che ha animato così fervidamente questo Congresso, ma finora ho combattuto in un’altra trincea, nella trincea degli uomini di governo. Ho quindi anche della comprensione per il massacrante travaglio che ha soverchiato questi uomini nel dopoguerra, nel periodo della ricostruzione, nelle ore della preoccupazione per la sicurezza dinanzi ad una nuova minaccia. Ma, come Schuman ha fatto notare, l’idea della solidarietà europea si è attuata in vari istituti in mezzo a difficoltà straordinarie, e noi sappiamo quanto dobbiamo alla sua iniziativa ed al suo spirito di realizzazione. Vi sono ancora delle esitazioni, ma il dinamismo che abbiamo inserito nel Trattato della CED e questo all’Assemblea ad hoc, lavora sempre più rapidamente ed efficacemente per merito anche delle capacità della saggia moderazione e della fermezza del suo presidente e dei suoi membri. Bisogna insistere e non perdere la pazienza. Si costruisce su un terreno nuovo, si fondano le basi di costruzioni secolari, e questo nostro lavoro si intreccia, si sovrappone, si urta con le crisi di governi e di Parlamenti, con gli sforzi reiterati e finora vani per definire i problemi del dopoguerra e garantire contro nuovi pericoli. Tuttavia, a chi volesse, appunto con riguardo ai problemi della pace e della sicurezza, rinviare la costruzione dell’Europa quasi che si trattasse di una complicazione per lo meno superflua, vorrei osservare che è proprio al servizio della pace e della sicurezza che l’unità dell’Europa, cioè l’unità di atteggiamento politico delle principali potenze europee, si dimostra necessaria. Se dobbiamo arrivare ad una distensione con la Russia, ad una sistemazione graduale e definitiva dei problemi postbellici, bisogna disporre di un fronte politico comune, di un fronte che esiste non solo negli organi supremi esecutivi, ma che si crei e si consolidi anche nella coscienza pubblica e nell’opinione mondiale. Bisogna che questa unità di attitudine esista, che sia ben visibile e che ognuno possa constatare che essa è solida e operante. È innegabile che il disorientamento degli ultimi mesi sarebbe stato rapidamente superato se non fossero state lanciate, da qualche cancelleria, delle proposte divergenti o che apparivano tali, se non si fosse data l’impressione, rivelatasi naturalmente erronea, che si era disposti a rompere una solidarietà assai faticosamente raggiunta. Il successo più importante di questo Congresso è la rinnovata affermazione della volontà espressa con pari forza dai delegati francesi e tedeschi di fare uno sforzo tenace ed organico per eliminare ogni conflitto tra Francia e Germania. Credo che le dichiarazioni di Schuman e di von Brentano ci abbiano tutti commossi. La condanna dell’oratore tedesco contro lo spirito egemonico di potenza non poteva essere più recisa: «Noi tedeschi ben sappiamo quali furono le colpe di Hitler e dei suoi collaboratori e comprendiamo cosa significhi entrare col nemico di ieri più che in rapporti di alleanza, addirittura di comunità». Inchiniamoci davanti a questo coraggioso esame di coscienza e non addentriamoci nei ricordi del passato. È con gli uomini nuovi che dobbiamo costruire l’avvenire. È vero: quando von Brentano ricorda la tensione con il blocco sovietico e la sorte dei 18 milioni di tedeschi della zona orientale, egli tocca il punto delicato che genera preoccupazioni e può recare complicazioni. Sarebbe infantile negare che esiste un certo rischio; ma il rischio è certamente minore di quello al quale si sarebbe esposti se la Germania isolata fosse tentata di cercare appoggi altrove. Importante e decisivo mi è parso l’intervento del sindacalista Finet : bisogna diffondere il suo discorso e ripetere le sue argomentazioni, ricavate dalla esperienza fatta nell’istituzione della CECA. Esse valgono per gli industriali, ma sono decisive soprattutto per i lavoratori. Bisogna arrivare ad una autorità comune europea anche per superare in comune la depressione economica ed adeguarsi allo sviluppo della nuova tecnica produttiva. Nel nostro paese e forse in altri ancora i partigiani della Comunità europea devono difendersi nei confronti di una parte dei rappresentanti operai, i quali predicano che la Federazione europea è semplicemente uno strumento di classe che porterà fatalmente alla guerra. No, l’organizzazione europea sarà un regime libero e democratico, sotto l’impulso di un Parlamento eletto che sarà l’espressione del pensiero europeo. Dobbiamo solo augurarci che le opinioni vi giungano già filtrate dalle discussioni e chiarificazioni avvenute in sede nazionale. A ciò dovrebbe fin da ora preparare la propaganda federalista, ben distinguendo fra i compiti comuni e specifici della comunità e la normale attività politica e panoramica delle democrazie nazionali. È lecito inoltre sperare di non vedere trasferiti nel Parlamento europeo i fenomeni di parlamentarismo degenerato. Circa il notevole rapporto di Altiero Spinelli che accenna alle ragioni che avrebbero mosso gli Stati Uniti ad appoggiare l’iniziativa della Federazione europea, io non credo che tali ragioni siano in prevalenza istintive cioè dovute alla tendenze storiche della razza o soltanto strumentali con riferimento all’esercito comune. Credo che uomini come Eisenhower abbiamo considerato e considerino la creazione della Federazione europea come l’alternativa pacifica, in giustificazione dello sforzo americano in Europa, la garanzia della resistenza democratica contro la penetrazione comunista. È questa una secondissima ragione dell’attualità della nostra comunità. Essa nasce come strumento di pace. Ogni altro patto di non aggressione deve essere integrativo non sostitutivo della Comunità la quale può trovare nell’associazione con la Gran Bretagna e con l’appoggio degli Stati uniti il suo organico completamento. È vero, non c’è «conosciuto» razionale nello sviluppo di questa nostra istituzione. Ma forse che nella storia i regimi, gli istituti sono nati per concezione e metodo logico? Credo che gli ulteriori sviluppi abbiano dato ragione a coloro che hanno avuto fede nell’evolversi fatale delle cose, data da una tenace convinzione e da una fede profonda. So che voi nutrite tale fede e tale convinzione. Bisogna metterle in azione pazientemente e vigorosamente, agire sull’opinione pubblica di ciascun paese, sui governi e sui Parlamenti. In questo interessante dibattito non è mancato il monito di non trascurare i principi. In proposito è stato ricordato il detto attribuito a Napoleone secondo cui «con le baionette si può far tutto, tranne che sedervisi sopra». Si può ripetere che le divisioni non bastano, anzi, che ad un certo punto non possono giovare. Né l’Alleanza atlantica né la Comunità europea possono rinnegare le origini democratiche alle quali debbono l’esistenza. Sappiamo che i nostri amici americani, ai quali tanto dobbiamo, sono consapevoli di queste verità e che vogliono agire in conseguenza. Dobbiamo incoraggiarli su questa via con la voce e con l’esperienza dei popoli che hanno sofferto la dittatura e che non solo non vogliono più perdere la libertà, ma nemmeno dare scandalo a quanti anelano alla giustizia. Ci sono dei principi di diritto naturale codificati anche nei documenti basilari della Comunità, i diritti della persona e della famiglia, le libertà essenziali, la protezione delle minoranze etniche ove essa è inevitabile. Sono un uomo invecchiato nella prassi parlamentare e comprendo la necessità del compromesso, ma il compimento non è mai fecondo se tradisce principi essenziali. Le tre potenze occidentali annunciano che le loro truppe abbandonano Trieste. Come italiano ne gioisco perché la città adriatica, cara al nostro cuore ed alla nostra fatica, torna in seno alla madre patria. E questa prima soluzione, per quanto transitoria, accelera l’approvazione parlamentare del Trattato della CED a Roma. Ma come europeo, vorrei che dal passato si traesse lezione per l’avvenire. Ricordo le ansie di Parigi alla Conferenza della Pace, le nostre insistenze presso le nazioni grandi e piccole. Non valsero e, per amore del compromesso con la Russia, i tre Grandi crearono a spese della popolazione una costruzione irrazionale ed artificiosa, il TLT. Appena vide la luce, si dovette ammettere che la creatura era nata morta, ed ora dopo un decennio di occupazione, le truppe del compromesso, perituro perché ingiusto e non vitale, abbandonano il campo. Una più completa riparazione ancora attende il diritto dei popoli. Ma intanto registriamo nell’archivio della storia le conclusioni internazionali di questa esperienza fallita perché aveva ignorato le basi morali dello stesso diritto. Tutta la nostra costruzione politico-sociale presuppone un regime di moralità internazionale. I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche del loro crescimento, debbono elevarsi anche ad un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati. Lo sforzo di mediazione e di equità, che è compito necessario dell’Autorità europea, finirà col darle un nimbo di dignità arbitrale che si irradierà al di là delle sue giuridiche attribuzioni e ravviverà le speranze di tutti i popoli liberi. [Testo in AADG] È la prima volta che assisto ad una vostra riunione plenaria. Sono un vecchio militante della stessa idea che ha animato così fervidamente questo congresso; ma finora ho combattuto in un’altra trincea, nella trincea degli uomini di governo. Ho quindi anche della comprensione per il massacrante travaglio che ha soverchiato questi uomini nel dopoguerra, nel periodo della ricostruzione, nelle ore della preoccupazione per la sicurezza dinanzi ad una nuova minaccia. Ma, come Schuman ha fatto notare, l’idea della solidarietà europea si è attuata in vari istituti in mezzo a difficoltà straordinarie, e noi sappiamo quanto dobbiamo alla sua iniziativa ed al suo spirito di realizzazione. Vi sono ancora delle esitazioni, ma il dinamismo interno che abbiamo inserito nel trattato della CED e di questo all’Assemblea ad hoc, lavora sempre di più rapidamente ed efficacemente per merito anche delle capacità della saggia moderazione e della fermezza del suo presidente e dei suoi membri. Bisogna insistere e non perdere la pazienza. Si costruisce su un terreno nuovo, si fondano le basi di costruzioni secolari, e questo nostro lavoro si intreccia, si sovrappone, si urta con le crisi di governi e di parlamenti, con gli sforzi reiterati e finora vani diretti a definire i problemi del dopoguerra e a garantire contro nuovi pericoli. Tuttavia, a chi volesse, appunto con riguardo ai problemi della pace e della sicurezza, rinviare la costruzione della Europa quasi che si trattasse di una complicazione per lo meno superflua, vorrei osservare che è proprio al servizio della pace e della sicurezza che l’unità dell’Europa, cioè l’unità di un atteggiamento politico delle principali potenze europee, si dimostra necessaria. Se dobbiamo arrivare ad una distensione con la Russia, ad una sistemazione graduale e definitiva dei problemi post-bellici, bisogna disporre di un fronte politico comune, di un fronte che esista non solo negli organi supremi esecutivi, ma che si crei e si consolidi anche nella coscienza pubblica e nell’opinione mondiale. Bisogna che questa unità di attitudine esista, che sia ben visibile e che ognuno possa constatare che essa è solida e operante. La condanna dell’oratore tedesco contro lo spirito egemonico di potenza non poteva essere più recisa: «Noi tedeschi ben sappiamo quali furono le colpe di Hitler e dei suoi collaboratori e comprendiamo cosa significhi entrare col nemico di ieri più che in rapporto di alleanza addirittura di comunità». Inchiniamoci davanti a questo coraggioso esame di coscienza e non addentriamoci nei ricordi del passato. È con gli uomini nuovi che dobbiamo costruire l’avvenire. È vero: quando von Brentano ricorda la tensione con il blocco sovietico e la sorte dei 18 milioni di tedeschi della zona orientale, egli tocca il punto delicato che genera preoccupazioni e può recare complicazioni. Sarebbe infantile negare che esiste un certo rischio; ma il rischio è certamente minore di quello al quale si sarebbe esposti se la Germania isolata fosse tentata di cercare appoggi altrove. Nel nostro Paese e forse in altri ancora i partigiani della comunità europea devono difendersi nei confronti di una parte dei rappresentanti operai, i quali predicano che la federazione europea è semplicemente uno strumento di classe che porterà fatalmente alla guerra. No, l’organizzazione europea sarà un regime libero e democratico, sotto l’impulso di un Parlamento eletto che sarà l’espressione del pensiero europeo. Dobbiamo solo augurarci che le opinioni vi giungano già filtrate dalle discussioni e chiarificazioni avvenute in sede nazionale. A ciò dovrebbe fin da ora preparare la propaganda federalista, ben distinguendo fra i compiti comuni e specifici della comunità e la normale attività politica e panoramica delle democrazie nazionali. È lecito inoltre sperare di non vedere trasferiti nel Parlamento europeo i fenomeni di parlamentarismo degenerato. In questo interessante dibattito non è mancato il monito di non trascurare i principi. In proposito è stato ricordato il detto attribuito a Napoleone secondo cui con «le baionette si può far tutto, tranne che sedervisi sopra». Si può ripetere che le divisioni non bastano anzi, che ad un certo punto, non possono giovare. Né l’Alleanza atlantica né la Comunità europea possono rinnegare le origini democratiche alle quali debbono l’esistenza. Sappiamo che i nostri amici americani, ai quali tanto dobbiamo sono consapevoli di queste verità e che vogliono agire in conseguenza. Dobbiamo incoraggiarli su questa via con la voce e con l’esperienza dei popoli che hanno sofferto la dittatura e che non solo non vogliono più perdere la libertà, ma nemmeno dare scandalo a quanti anelano alla giustizia. Ci sono dei principi di diritto naturale codificati anche nei documenti basilari della Comunità, i diritti della persona e della famiglia, le libertà essenziali, la protezione delle minoranze etniche ove essa [è] inevitabile. Sono un uomo invecchiato nella prassi politica e comprendo la necessità del compromesso. Ma il compromesso non è mai fecondo se tradisce principi essenziali. Le tre potenze occidentali annunciano che le loro truppe abbandonano Trieste. Come italiano ne gioisco perché la città adriatica, cara al nostro cuore ed alla nostra fatica, torna in seno alla madre Patria. E questa prima soluzione, per quanto transitoria, accelera l’approvazione parlamentare del trattato della CED a Roma. Ma come europeo, vorrei che dal passato si traesse lezione per l’avvenire. Ricordo le ansie di Parigi alla Conferenza della Pace, le nostre insistenze presso le Nazioni grandi e piccole. Non valsero e, per amore del compromesso con la Russia i tre grandi crearono a spese della popolazione, una costruzione irrazionale ed artificiosa, il TLT. Appena vide la luce, si dovette ammettere che la creatura era nata morta, ed ora dopo un decennio di occupazione, le truppe del compromesso, perituro perché ingiusto e non vitale, abbandonano il campo. Una più completa riparazione ancora attende il diritto dei popoli. Ma intanto registriamo nell’archivio della storia le conclusioni internazionali di questa esperienza fallita perché aveva ignorato le basi morali dello stesso diritto. Tutta la nostra costruzione politico-sociale presuppone un regime di moralità internazionale. I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche del loro crescimento, debbono elevarsi anche ad un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati. Lo sforzo di mediazione e di equità, che è compito necessario dell’Autorità europea, finirà col darle un nembo di dignità arbitrale che si irradierà al di là delle sue giuridiche attribuzioni e ravviverà le speranze di tutti i popoli liberi.
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La tendenza all’unità è – mi sembra – una delle «costanti» della storia. Dapprima embrionali, appena abbozzati, gli aggregati umani entrano in contatto, quindi si agglutinano sino a formare un insieme più vasto e più omogeneo, poiché, non è un paradosso, più la società umana si dilata, più si sente una. Nel loro istinto oscuro, ancor prima che si faccia luce nei loro cuori, gli uomini portano già ciò che – secondo la parola di Cristo – Dio desidera da parte loro: Ut unum sint (Vangelo secondo Giovanni, XVII, 22). Queste cose sono state dette da secoli, dai religiosi. Anche gli storici, da qualche tempo, si avviano a queste concezioni, e la presenza, a questo tavolo, di un Toynbee , ne è un alto attestato. Noi stessi, gli uomini politici, e il fatto ha del prodigioso, abbiamo adottato questo linguaggio; e la prova che non si tratta di parole al vento è là in quest’uomo lungimirante e lucido, che si chiama Schuman. Né l’odio né la crudeltà sono alla base della vita. Molti filosofi, soprattutto i materialisti, pongono nella morte la fonte della vita; e a sentir loro, la legge del più forte condiziona il progresso nel cammino della nostra specie. Guerre di conquista, di prestigio, o di rivalità nel passato, lotte di classe oggi: ecco come si manifestano normalmente queste tetre dottrine. Noi non vorremmo cadere in un equivoco, né trascinarvi altri; è per se stessa, non per opporla ad altri, che noi preconizziamo l’Europa unita. È una cosa che dobbiamo dire, in modo forte e chiaro: noi lavoriamo per l’unità, non per la divisione, foss’anche in pezzi più grossi. Significherebbe ingannarsi il sospettare nella nostra opera per l’Europa un tentativo per architettare qualche cosa che sia in grado di far fronte ai due blocchi oggi preponderanti. Sarebbe iniquo attribuirci delle tendenze esclusive quando parliamo di Unione Europea. D’altra parte soltanto dei sofisti potrebbero chiederci perché ci limitiamo a certi paesi. Non è onesto rimproverarci di escludere il resto dell’umanità. Forse che, quando si ama una donna e la si sposa, si firma perciò una dichiarazione di odio a tutte le donne? La famiglia che noi creiamo non esclude nulla: essa crea come cellula agente la città. A sua volta, la città crea la nazione, infine le nazioni creano… che cosa? La parola manca in assenza della cosa. Quanto alle nazioni europee, esse creano l’Europa. Per ubbidire alla tendenza unitaria, il XIX secolo ha lanciato il principio della nazionalità. Ai nostri giorni la nazione è discesa al rango che occupava ier l’altro la città, ieri la provincia: è a più vaste società che oggi le nazioni guardano. Quanti clamori vennero dalla città ieri l’altro, dalle province ieri, mentre sorgevano le nazioni. Noi ci stupiamo se le nazioni fanno a loro volta un po’ di baccano. Ben pochi governi italiani volevano l’Italia unita; al di fuori di un pugno di «esaltati » – è così almeno che li chiamavano – nessuno ci teneva veramente. L’Italia, malgrado tutto, si è unita e rimarrà unita. Accadrà fatalmente la stessa cosa per l’Europa. L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi, dar la misura del proprio genio. Alle olimpiadi, non nelle corse di provincia, venivano selezionati i migliori. Da quando si sente unita praticamente nel campo degli studi (questa unità è ormai cosa fatta) l’umanità studia meglio e più rapidamente, ciò che le permette di giungere a scoperte sino ad allora inimmaginabili; non appena essa si sentirà unita col cuore sbarazzata dalle impossibili barriere, l’umanità potrà anche realizzare più rapidamente il suo sogno di onesto benessere, la sua speranza, sempre chiusa, di pace laboriosa. Il fatto è che non si può giungere all’unione per mezzo di misteriosi «ukase», di decreti reali, repubblicani o ecclesiastici: l’unione è il frutto di un mutuo consenso e questo mutuo consenso è per sua natura libero e lento. Unirsi, è presto detto. Come italiano e cristiano non esiterei a dire che, nella sua parte migliore, l’Europa è già unita, è tutt’uno. Esiste una storia europea come esiste una civiltà europea. Fra i fattori individuali che si trovano alla base della nostra unità, quali sono i più salienti e perciò suscettibili di un’azione concreta? A quali fonti comuni si sono dissetati la maggior parte degli europei? Io non sono né uno storico né un pensatore: è perciò dagli uomini illustri che onorano con la loro presenza questa conferenza che io attendo la risposta a queste domande. Quanto a me, non vorrei fondare il mio sentimento di europeo sul solo fatto che mi sento cittadino di Roma e cristiano. Per quanto riguarda Roma senza alcun dubbio essa è stata grande; personalmente io vi vedo il vertice, forse il più elevato, di quanto ha offerto la storia civile e politica degli uomini; ma in Europa non vi è soltanto Roma. Come trascurare o mettere da parte l’elemento del Vicino Oriente, l’elemento greco, l’elemento delle coste africane del Mediterraneo, l’elemento germanico, l’elemento slavo? Inoltre, parlare di Roma è parlare di una cosa assai bella, ma anche assai antica. Nell’intervallo vi sono stati duemila anni di storia, di storia europea. Una volta, in Italia ogni città era capitale, con le sue leggi proprie e la sua ragione di Stato, le sue arti e la sua poesia, le sue chiese e i suoi palazzi. Ugualmente, in Europa i paesi erano innumerevoli. Quanto alla sua storia, essa è stata immensa nel tempo e senza frontiere, al punto che in alcune epoche tutti gli uomini hanno visto in essa «un giardino del mondo » se mi è permesso riprendere la frase di Dante sull’Italia, «giardino dell’Impero» (Purgatorio, IV). L’Europa che non è soltanto Roma, non neppure la sola era antica; essa è il Medio Evo, è l’epoca moderna, è l’ieri, è l’oggi. Tutti questi elementi si uniscono. Nessuno di essi potrebbe essere escluso o minimizzato. Le voci di tutte le epoche si armonizzano nel concerto europeo. Essi si fondano in una tradizione le cui radici sono classiche, ma che si estendono in ramificazioni lussureggianti e folte, una tradizione che ci ispira unendoci. Ancora recentemente, taluni ci hanno accusato, noi i sostenitori dell’Europa, di stabilire nell’ombra una sorta di identità tra Europa e cristianesimo o per meglio dire, tra l’Europa e il cristianesimo cattolico. Prima ancora che infondata questa accusa è sciocca. Permetteteci tuttavia di ricordare che il cristianesimo, essendo ai nostri occhi una cosa divina, appartiene e si indirizza a tutti gli uomini. Farne una cosa soltanto europea sarebbe limitarlo, degradarlo. D’altra parte come concepire un’Europa senza tener conto del cristianesimo, ignorando il suo insegnamento fraterno, sociale, unitario, Nel corso della sua storia, l’Europa è ben stata cristiana; come l’India, la Cina, il Vicino Oriente sono quelli che sono stati sul piano religioso. Come escludere dall’Europa il cristianesimo? So bene che anche il libero pensiero è europeo. Ma chi di noi ha mai sognato di prescriverlo nell’Europa libera che vogliamo edificare? Sopratutto, il cristianesimo è attivo, perennemente attivo, nei suoi effetti morali e sociali. Esso si realizza nel diritto e nell’azione sociale. Il suo rispetto per il libero sviluppo della persona umana, il suo amore della tolleranza e della fraternità si traducono nella sua opera di giustizia distributiva sul piano sociale e di pace sul piano internazionale. Ma simili principi non possiamo realizzare senza la pace; è in quest’ultima che lo spirito di collaborazione troverà il suo pieno slancio. In che consiste dunque l’unità dell’Europa? La cosa è ben chiara, miei cari amici: nei suoi elementi l’Europa è già unita; disgraziatamente nei suoi elementi materiali non lo è. In altri termini vi è un’altra Europa, ma è difficile definire la luce oppure l’amore. L’Europa esiste nella sua essenza, ma è visibilmente sminuzzata e tagliuzzata da divisioni territoriali, barriere economiche, rivalità nazionali. Le lingue – come ci ha dimostrato l’eminente signor Lofstedt – non costituiscono una difficoltà reale, come d’altra parte i costumi. L’Europa esiste, ma è incatenata, sono questi ferri che bisogna spezzare, le nostre strutture politiche accusano terribilmente la loro arteriosclerosi. Durante il dibattito, tutti questi illustri pensatori ci diranno i principi cui deve ispirarsi la nostra opera di costruttori. Mi sia permesso tuttavia di enunciare alcune osservazioni frammentarie a titolo personale: 1. È vero che soltanto alcune nazioni europee affrontano oggi col coraggio delle decisioni costruttive l’idea dell’unione, ma ciò si deve solo ad uno stato di cose a carattere contingente: la Gran Bretagna sente assai fortemente i suoi legami con l’Impero; la Russia divaga nell’ebbrezza del comunismo. Ma l’Inghilterra fa parte dell’Europa, e della migliore Europa, ma la Russia stessa fa parte della più grande Europa da cui ha tratto anche, disgraziatamente, la dottrina comunista. 2. Per unire l’Europa, vi è forse più da distruggere che da edificare; gettar via un mondo di pregiudizi, un mondo di pusillanimità, un mondo di rancori. Che cosa non occorse per fare una Italia unita là dove ogni città aveva imparato a detestare la città vicina durante i lunghi secoli della servitù? Bisognerà fare la stessa cosa per arrivare all’Europa. Parliamo, scriviamo, insistiamo, non lasciamo un istante di respiro; che l’Europa rimanga l’argomento del giorno. 3. Ma, soprattutto, i governi devono mostrarsi più risoluti quando si tratta di sbloccare i loro paesi. Bisogna ridurre le barriere che si oppongono al movimento di uomini e delle cose, orientare tutto verso una cooperazione piena ed intera, verso una equa distribuzione; tutto ciò, come ho detto, nella pace. Non vi sorprendano le mie affermazioni categoriche in un momento in cui un problema di frontiera è così dolorosamente vivo in Italia; l’unione degli Stati si fonda sull’unità delle nazioni non sulla loro disgregazione. Si tratta di una questione che dipende ormai dai problemi dell’edificazione europea, e, per risolverla, noi facciamo appello ai metodi pacifici della cooperazione internazionale e al diritto dei popoli. Per quanto riguarda le istituzioni bisogna ricercare l’unione soltanto nella misura in cui ciò è necessario, e, per meglio dire, in cui è indispensabile. Preservando l’autonomia di tutto ciò che è alla base della vita spirituale, culturale, politica di ogni nazione, si salvaguardano le fonti naturali della vita in comune. Quale deve essere la nostra parola d’ordine? A mio parere, l’unione nella varietà, la varietà delle forze naturali e storiche. Si potrà arrivare a questa direzione di marcia se si potrà marciare verso un nuovo umanesimo europeo; nel rispetto delle tradizioni, nello slancio verso il progresso, nell’esercizio della libertà. [Versione inedita, integrata con appunti autografi di De Gasperi, in ASMAE] Una «costante» della storia mi pare possa dirsi l’aspirazione e la tendenza degli uomini all’unità, ad una unità sempre maggiore. Dagli aggregati più larvali ed embrionali, la società umana si viene evolvendo via via verso una sempre più intima conoscenza e una convivenza sempre più vasta; e più diviene spaziosa, più si sente una, se è lecito dire. Gli uomini portano, nel loro istinto prima che nel cuore, quello che, a detta di Cristo, sarebbe il desiderio di Dio al loro riguardo: Ut unum sint (Giovanni, XVII, 22). Questo lo dicono da secoli, gli uomini delle religioni. Lo cominciano a dire anche gli storici, e la sola presenza a questo tavolo di un Toynbee, ne è un’altra testimonianza. Lo diciamo da qualche anno persino noi politici, ed è un incredibile prodigio: e che lo diciamo sul serio, n’è prova quell’uomo acuto e solido che si chiama Schuman. Non la crudeltà né l’odio reggono la vita. So bene che parecchie scuole e soprattutto i materialisti pongono nella morte la sorgente e la condizione della vita, e assegnano unicamente alla lotta il merito e la virtù del perfezionamento progressivo. Le guerre di conquista, le guerre di prestigio e di competizione ieri, oggi la lotta di classe non sono che l’espressione di codeste teorie desolate. Bisogna dir alto e chiaro. Noi lavoriamo nella direzione dell’unità, non della divisione, sia pure in pezzi più grossi. Non vorremmo cadere noi e far cadere altri nell’equivoco: noi proponiamo e promuoviamo l’Europa unita in sé e per sé, non per contrapporla ad altre unità. Chi sospettasse nella nostra opera in pro dell’Europa un tentativo di mettere su e insieme un qualcosa che meglio possa resistere ai grandi blocchi oggi dominanti, sbaglierebbe. Sar[ebbe] iniquo, pertanto addebitarci esclusioni, quando parliamo di unione europea; ma sarebbe sofistico domandarci perché ci limitiamo soltanto ad alcuni paesi. Non è onesto rimproverarci di escludere tutto il rimanente dell’umanità. Chi ama una donna e la sposa, con ciò non fa atto e dichiarazione di odiare tutte le donne. La famiglia che noi creiamo non esclude, ma crea, in qualità di cellula, la città. La città, a sua volta, crea la nazione. Le nazioni creano… che cosa? Ancora non sapremmo dire che cosa; ci manca il nome mancandoci la cosa: le nazioni europee creano l’Europa. L’Ottocento, come strumento di maggiore unione promosse l’idea di nazione. Oggi nazione è ridotta al rango che aveva la città l’altro ieri, e la regione ieri: oggi le nazioni si federano in più ampie società. L’altr’ieri le città, ieri le province strillarono al sorgere delle nazioni. Nessuna meraviglia che oggi un poco strillino le nazioni. L’Italia una non la voleva la più parte dei governi italiani; e anche allora si diceva che solo un pugno di pochi «esaltati» ci teneva. L’Italia, tuttavia, divenne una, è una e resterà una. Lo stesso avverrà fatalmente per l’Europa. L’Europa sarà e non andrà perduto nulla di ciò che formò la gloria e la gioia d’ogni singola nazione. Proprio nell’unione più vasta, proprio nella concordia più potente, il singolo può meglio eccellere, può maggiormente valere e farsi valere. È alle Olimpiadi, non nelle gare di provincia, che si selezionano i migliori. Come l’umanità, dal sentirsi praticamente una negli studi (e questa unità l’ha raggiunta) meglio e più rapidamente, e più altamente studia, e conclude a conquiste impensabili; così dal sentirsi una di cuore, senza più l’impaccio di confini e lo strazio di barriere, realizzerà tanto prima il suo sogno di onesto benessere e la sua brama, sempre delusa, di pace operosa. Se non che non ci si unisce per via di misteriosi ukase, né per decreti regi o repubblicani o ecclesiastici: ci si unisce per mutuo consenso e il mutuo consenso di natura sua è libero e lento. Unirsi, è presto detto. Italiano e cristiano, io direi piuttosto che, per la parte migliore, l’Europa di già è unita; è già una. C’è una storia europea, come c’è una civiltà europea. Tra il complesso degli elementi individuali a base della nostra unità, quali emergono di più ai fini di una applicazione concreta? Quali le polle comuni che dissetano la maggior parte degli europei? Io non sono né uno storico né un pensatore, attendo la risposta dagli uomini illustri che onorano questa tavola. Per mio conto, non vorrei fondare il sentimento del mio europeismo sul solo fatto di sentirsi cittadino romano e cristiano. Per ciò che è Roma, senza dubbio Roma è grande; personalmente penso che forse è stata la cima più alta della storia civile e politica degli uomini; ma nell’Europa non c’è soltanto Roma e non vorrei fosse trascurato o messo da un canto l’elemento del vicino oriente, l’elemento germanico, l’elemento slavo. Dire Roma non è dire tutto. Inoltre, dire Roma è dire cosa molto bella, ma piuttosto antica. Ci sono stati duemila anni di storia dopo: e storia europea. Non so, ma come in Italia ogni città è stata una capitale, con le sue leggi e la sua ragion di stato, con le sue arti e la sua poesia, con le sue chiese e i suoi palazzi, così nell’Europa molti sono stati i paesi, e soprattutto sconfinata e immensa è stata la sua storia nel tempo: e via via ha conosciuto stagioni che tutte hanno fatto di lei «un giardino del mondo», se mi è lecito andar sulle orme di Dante che definì l’Italia, «giardino dell’Impero» (Purgatorio, IV). Come l’Europa non è soltanto Roma, così non è soltanto l’antichità; è il medio evo, è l’età moderna, è ieri, è oggi. Tutti questi elementi entrano a comporla, e nessuno va escluso e attenuato. Tutti i tempi hanno una loro voce nel concerto europeo. Essi si uniformano in una tradizione che ha radici classiche, ma si ramifica fitto e frondoso e ci ispira e unisce. Non da molto, a noi europeisti si è fatta l’accusa di voler patrocinare, sotto sotto, una specie di identità tra Europa e cristianesimo, anzi tra l’Europa e il cristianesimo cattolico. L’accusa è, più che infondata, sciocca. Ci sarà lecito, tuttavia, ricordare che il cristianesimo per noi, essendo cosa divina, è per ciò di tutti e per tutti gli uomini. Se ne volessimo fare una cosa europea lo snatureremmo, lo degraderemmo. D’altra parte, chi può pensare all’Europa senza aver presente il cristianesimo e il suo insegnamento di fraternità, di socialità, cioè di unità? L’Europa è ben stata cristiana, nella sua storia; come l’India, la Cina, il Vicino Oriente furono e sono quelli che furono e sono, religiosamente. Come si fa a escludere dall’Europa il cristianesimo? So benissimo che è europeo anche il libero pensiero. Ma chi di noi si è mai sognato, nell’Europa libera che vogliamo, di proscriverlo? Ma è sopratutto il cristianesimo che è attivo e sempre operante nei suoi effetti morali e sociali. Esso si attua nel diritto e nella socialità. E, traendo dal rispetto e dal libero sviluppo della persona, dalla tolleranza e dalla fraternità, tra gli individui, si applica nella giustizia sociale e distributiva e nella pace, tra le Nazioni. Esigenza e principio fondamentale perché questi principi si attuino è la pace; è in essa che avrà rigoglioso sviluppo la cooperazione. Qual è, dunque l’unità dell’Europa? Ma è chiaro, miei cari amici: l’Europa, nei suoi elementi spirituali, è già una; purtroppo non è una nei suoi elementi materiali. In altri termini l’Europa c’è, e definire che cosa sia non riesce facile, come non resta facile definire che cosa è il giorno o che cosa è l’amore; l’Europa c’è, ma nel suo intimo deve dirsi troppo spezzata e straziata da divisioni territoriali, da barriere economiche, da competizioni nazionali. Le lingue non fanno difficoltà – e ce lo dimostrerà il prof. Loefstedt – come non la fanno i costumi. L’Europa c’è, ed è una, è nei ceppi: questi ceppi bisogna infrangere. Gli schemi politici soffrono di arteriosclerosi, paurosamente. Nel corso di questa discussione questi illustri pensatori ci indicheranno le linee direttive che dovranno presiedere alla nostra opera di costruttori. Mi siano tuttavia permesse alcune osservazioni frammentarie a titolo personale: 1. È vero che soltanto alcune nazioni europee sono disposte ad affrontare oggidì, col coraggio delle decisioni costruttive, l’idea dell’unione, ma ciò dipende da circostanze contingenti: la Gran Bretagna sente fortemente i suoi legami col suo impero; la Russia vaneggia nell’ebbrezza del comunismo. Tuttavia è certo che l’Inghilterra fa parte dell’Europa, e dell’Europa migliore, né si può negare che la Russia stessa faccia storicamente parte della più grande Europa dalla quale sventuratamente ha derivato anche la dottrina comunista. 2. Per unire l’Europa, è forse più necessario di smobilitare che di costruire: disfare un mondo di pregiudizi, di pusillanimità e di alterigie, disfare un mondo di rancori. Che cosa ci volle per fare una l’Italia, dove ogni città nei lunghi secoli di servaggio aveva appreso a detestare la città vicina? Altrettanto bisognerà fare per l’Europa. Si parli, si scriva, si insista, non ci si dia tregue: che l’Europa resti all’ordine del giorno. 3. Ma, soprattutto, i governi devono mostrarsi più risoluti quando si tratta di sbloccare i loro paesi. Bisogna ridurre le barriere che si oppongono al movimento di uomini e delle cose, orientando tutto verso una cooperazione piena e una distribuzione equa; tutto ciò nella pace e colla pace. Non sorprendetevi di queste mie affermazioni categoriche in un momento in cui un problema di frontiera è così dolorosamente vivo in Italia; l’unione degli Stati si basa sull’unità delle nazioni, non sulla loro disgregazione. Si tratta di una questione che appartiene oramai ai problemi della costruzione europea, e, per risolverla, noi ricorriamo ai metodi pacifici della cooperazione internazionale e al diritto delle popolazioni . 4. Per quanto riguarda le istituzioni bisogna ricercare l’unione soltanto nella misura in cui è necessario, o, per meglio dire, in cui è indispensabile. Preservando l’indipendenza di tutto ciò che è alla base della vita spirituale, culturale, politica di ogni nazione, si salvano le fonti naturali della vita comune. 5. Quale sarà la nostra parola d’ordine? A mio avviso senza volere prevenire le conclusioni di questa conferenza, essa deve essere: unità nella varietà delle forze naturali e storiche. Si potrà arrivare a tale unità di direzione di marcia, se si saprà marciare verso un nuovo umanesimo europeo, nel rispetto delle tradizioni, nello sforzo del progresso, nell’esercizio della libertà.
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Lo Stato è un’organizzazione politica, così la Comunità europea sarà un corpo politico con competenze specifiche: ma non si tratterà di «ammasso» di Università, di idee religiose e culturali, così come non si tratterà di un ammasso di Nazioni. Noi intendiamo creare un organismo comune, e in questo quadro istituzionale nuovo dovrà farvisi una nuova vita. La regola fondamentale resta sempre questa: la persona umana è al centro del nostro interesse, come è al centro di tutto la libertà; di qui l’antitesi con il mondo in cui domina il collettivismo. Nessuno qui ha toccato (e ciascuno ne sarebbe geloso) i compiti della Nazione. La Nazione resta con il suo bagaglio culturale e storico, ma si tratta ora di realizzare un più vasto quadro in cui la personalità delle singole Nazioni non sia annullata ma possa completarsi e svilupparsi ulteriormente. Il merito delle istituzioni consiste in ciò che le istituzioni stesse fanno e in ciò che impediscono di fare. La Comunità europea realizza la unità, impedisce i conflitti.
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[…] Gli chiedo come veda, realisticamente, l’Europa futura, se creda che gli Stati Uniti d’Europa diventeranno realtà in tempi più o meno prossimi […]. Se si vuole essere realisti bisogna guardarsi dal ricorrere a termini di confronto inesatti. Non si potrebbe parlare di Stati Uniti d’Europa se non in un senso molto relativo, poiché gli Stati Uniti d’America del nord o del sud si sono costituiti grazie alla federazione di territori i cui abitanti erano generalmente della stessa nazionalità. Ora, non si può immaginare che, anche nella sua fase più avanzata, la federazione europea possa costituire degli Stati Uniti d’Europa. L’elemento storico fondamentale degli Stati europei rimane la nazione. Nessuno potrebbe pensare a fondere, in un insieme politicoculturale, i caratteri nazionali della Francia o della Germania. È inevitabile che la comunità europea si basi su caratteri resi conciliabili dalla unità delle concezioni dominanti. […] La concezione unitaria predominante è la pace, vale a dire la garanzia di relazioni pacifiche tra i territori della Comunità e la garanzia di una difesa comune nei confronti degli altri territori europei. La pace interna basterebbe, essa sola, a giustificare la comunità tra i diversi stati, soprattutto fra la Francia e la Germania. Si tratta di raggiungere una posizione arbitrale organicamente consolidata, come quella che in alcuni momenti della loro storia hanno occupato sia il Sacro Romano Impero sia la Francia. La novità consiste nel fatto che questa posizione arbitrale non sarebbe ottenuta attraverso il prestigio e la forza imperiale, ma grazie al prestigio morale e alla forza politica derivante da un’assemblea di rappresentanti dei popoli. Molti pensano ancora che ciò è un’utopia. Non credo che sia un’utopia, se si affronta il problema con prudenza e gradualmente. La prudenza concerne soprattutto gli stati minori e in generale quando è in gioco il sentimento nazionale. Nulla di ciò che è propriamente nazionale, e con ciò intendo la tradizione storica, le caratteristiche della cultura, le qualità naturali dovrebbe essere toccato dall’organismo comune che avrà il dovere di rispettare e di fondare il loro prestigio sulla loro coordinazione. Nulla dovrebbe essere dichiarato comune al di fuori di ciò che è indispensabile alle comuni finalità: comunità di difesa, comune amministrazione militare e progressiva tendenza ai mercati comuni. Ciò non sarebbe possibile senza rinunciare almeno a una parte di sovranità nazionale. Procedendo come le sto dicendo è solamente una parte ma una parte indispensabile, di sovranità che sarebbe ceduta all’organismo comune. Le nazioni restano vive, si sviluppano, e la comunità agisce come arbitro in un ambito importante ma limitato. Le difficoltà saranno grandi Non lo nego. Ma è grande anche il progresso che l’idea ha fatto in questi ultimi tempi, sviluppandosi sul piano della comunità europea del carbone e dell’acciaio, prevedendo la comunità di difesa con la CED. Siamo rimasti distanti da qualsiasi formula generale o utopica. Più difficile può essere il problema del mercato comune, ma anche là il metodo graduale può salvarci dal naufragio. Restano sempre, è vero, le obiezioni radicate nella nostra storia, nella legittima filosofia di ogni Stato, nell’inerzia del nostro spirito che si ribella davanti al «salto nel buio». Ma che alternativa resta? L’Europa e i conflitti passati, mentre i popoli si riarmano di diffidenza e di cannoni l’uno contro l’altro e mentre, ancora, si risvegliano i nazionalismi contrapposti? Oppure si deve cercare di soddisfare la tendenza unificatrice con l’internazionalismo comunista che distrugge le classi e sommerge le nazioni? In ogni modo, è fatale che si intensifichino le tendenze verso una comunità politica Con che mezzi si potrà uscire dal punto morto attuale? Lo sviluppo della tecnica e delle comunicazioni tende a rompere il circolo troppo stretto degli stati e, da parte sua, il problema della giustizia sociale cerca la sua soluzione in una distribuzione dei beni così come in un aumento della produzione che non è possibile che con l’allargamento del mercato. D’altra parte la vita internazionale si è rapidamente complicata in seno a numerosi organismi di solidarietà e di scambio: ma si può dire che tale ordine internazionale si è dimostrato efficace in ambito politico e economico? In realtà, dal punto di vista politico noi procediamo con una specie di direttorio mondiale che improvvisa le sue decisioni senza poi poterle eseguire. La cosa è più manifesta ancora quando si tratta di problemi economici: veda per esempio l’OECE dove le decisioni sono sagge ma le conclusioni pratiche sono contraddittorie. Grazie a questa esperienza, appare chiaro cosa manca: manca un’autorità sovranazionale capace di imporre l’esecuzione comune. Non è questo il caso del piano Schuman? Il piano Schuman rappresenta l’unico esempio di una tale autorità. È in questa direzione che bisogna proseguire. So bene che bisogna procedere con prudenza, anche nel ricorrere a formule democratiche. Non mi nascondo il pericolo: il Parlamento europeo, davanti al quale un’autorità comune sarà responsabile della difesa comune, della pace all’interno e dell’impegno a favore di una migliore giustizia sociale, costituirà uno strumento più maneggevole per gli uomini di buona volontà – a qualsiasi nazione essi appartengano – di quanto in passato non sia stata qualsiasi formula di impero o di equilibrio. Ultima domanda, signor presidente. Che accadrà se non si giungerà a tale comunità pacifica? Non voglio essere un profeta di sventure, ma una fatalità storica minaccia il nostro destino. I popoli abbandonati a se stessi non potranno, a lungo andare, fare a meno di guardare oltre frontiera cercando una solidarietà più vasta: essi saranno allora facile preda di una ideologia che, fondata sul trionfo di una classe, rinnega le patrie.
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La caratteristica più suggestiva del movimento operaio del secolo XIX fu forse il suo internazionalismo. L’appello del «Manifesto Comunista» agli operai di tutto il mondo perché si unissero, si fuse in un primo tempo coll’umanitarismo internazionale di Giuseppe Mazzini, il quale insegnava che «nella cooperazione e divisione del lavoro, la vita nazionale è lo strumento, la vita internazionale è il fine». Ma questo pensiero del genovese, che la vita internazionale risulti dal coordinamento delle attività nazionali, viene ben presto superato dal socialismo il quale tende a rompere il cerchio delle frontiere nazionali, in nome della lotta di classe del movimento mondiale operaio. Benché l’«Internazionale» non abbia saputo impedire né ritardare la guerra ’70, né il crollo della Comune e si sia ben presto spaccata in due per la scissione dei bakuniniani, a quei tempi già faceva paura, tanto che il cardinale Mermillod nelle sue celebri prediche in Santa Clotilde a Parigi, la definiva «une doctrine qui s’affirme, une armée qui s’avance et une église qui s’organise». In verità nella prima forma, essa finì di esistere nel 1889, si ricostruì come organizzazione mondiale dei partiti politici che si erano andati creando sul tipo della socialdemocrazia germanica, e prevalse, finché venne la rivoluzione russa a creare la «Terza Internazionale». Altre organizzazioni parallele sorsero fino ai nostri giorni nel campo sindacale. Ora è vero che l’efficacia dell’internazionalismo è venuta a mancare proprio nei momenti in cui avrebbe dovuto operare, cioè alla vigilia dello scoppio delle guerre e durante l’elaborazione dei trattati di pace; ma le ragioni di tale impotenza sono così evidenti, che il fatto non sorprende. Sorprende invece che tale inefficienza si dimostri anche sul territorio propriamente internazionale, quale è quello della unificazione europea. L’incapacità di operare per evitare l’urto fra le nazioni o di contribuire a comporre i contrasti nati dalle guerre è comune a tutti i movimenti internazionali. Anche i sindacati cristiani, entrati più tardi nell’arena, vennero sommersi dalla marea nazionalista, né i partiti ad ispirazione cristiana, rappresentati nei vari Parlamenti, trovarono modo di corrispondere agli appelli per la pace del Pontefice romano. Ma quando viene il periodo della ricostruzione, sono proprio i cristiani che si trovano in prima fila, quasi senza darsi previo appuntamento, nello schieramento europeista. Non vi mancano certo anche i rappresentanti del socialismo democratico; ma come mai trattandosi del primo esperimento concreto ed organico di permanente cooperazione internazionale, il movimento operaio tutto intero non ha risposto all’appello? Non era scoccata la sua storica ora? Alcune cause sono di carattere contingente e facilmente localizzabili. Quando il Movimento Europeo si impose, i laburisti, partito di governo, si dissero preoccupati dei loro rapporti col Commonwealth, ma in realtà si mostrarono più preoccupati ancora delle loro conquiste sociali che in una Europa unita avrebbero potuto risultare diminuite; dei socialisti francesi invece, una parte notevole reagì negativamente per timore della rinascita germanica. Ma ben più incisivamente influì l’Internazionale comunista che, nell’interesse dello Stato-guida moscovita, deviò il movimento operaio dalla marcia verso l’unione europea, che pur sarebbe stata una sua stazione naturale e storicamente logica, corrispondente alle sue origini, al suo carattere, alle necessità del suo sviluppo. La classe operaia in Europa ha infatti una sua propria configurazione, che risulta evidente, se si statuisce un confronto fra l’operaio europeo e l’operaio americano e il lavoratore russo. In America l’operaio si è sviluppato in uno spazio quasi illimitato e con risorse sempre nuove. Negli Stati Uniti l’uguaglianza dei diritti, base della democrazia politica, si appoggia anche sulla uguaglianza dei punti di partenza. L’americano si sente al di là dei gruppi sociali, poiché può sempre sperare di trasferirsi dall’uno all’altro. L’unità della società americana sta nella speranza, che ciascuno può fondatamente nutrire, di partecipare, in una fase o nell’altra della sua vita, ai benefici della classe capitalista. L’individualismo americano risale alle qualità specifiche e intraprendenti dei colonizzatori e trova sempre ancora soddisfacimento e possibilità di operare nella dinamica di un vasto mercato, di un crescente consumo e di un potenziale produttivo sempre in aumento. In una società così fatta, anche il movimento sindacale operaio si esaurisce in agitazioni salariali, senza creare una dinamica politica, tanto che il sindacato americano ci appare come un organismo neutrale che, in forma della teoria sulla capacità di acquisto, ha scoperto ed accettato la solidarietà dei consumatori coi produttori. Radicalmente all’opposto sta il tipo sociale del lavoratore russo. Come tutte le classi della storia russa, anche la sua classe lavoratrice moderna è un prodotto del potere politico. Nobiltà e borghesia imprenditrice vennero create dallo zarismo, e «l’intelighentia» fu merce d’importazione. Germinata spontaneamente sul suolo russo è soltanto la plebe contadina, una classe però che in conseguenza della vastità dello spazio su cui si estende, manca di impulsi collettivi e di consapevolezza. Le industrie e gli operai dell’industria devono invece la loro origine ed il loro sviluppo ad una minoranza ardita, che impadronitasi del potere politico in seguito alla disfatta, ha imposto un’economia pianificatrice e ridotto le organizzazioni cooperative e i sindacati ad organi esecutivi del piano, secondo gli ordini dello Stato. Sotto questo rullo pianificatore, l’individuo scompare, e gli stessi sindacati russi operano con la stessa mentalità di chi considera l’uomo non come un fine, ma come uno strumento della collettività. Non si può tuttavia negare che il collettivismo russo è anche un riflesso di condizioni ambientali e storiche, che rivelano una continuità di rapporti fra Stato e uomo, cosicché si potrebbe concludere che il comunismo odierno russo riproduce sul piano del secolo XX situazioni analoghe dei secoli passati. Fra queste condizioni storiche, bisogna dar rilievo anche al rapporto fra Stato e Chiesa. In Russia, sia sotto il Rurik che durante il dominio tartarico, sia sotto il gran principato di Mosca o sotto il potere assoluto degli zar, che cominciava con Ivan III , domina sempre quello che si chiama il sistema cesaro-papista, la fusione cioè dell’impero con il sacerdozio. E la fatale eredità di Bisanzio per cui il potere statale si impadronisce dell’uomo intero, signoreggia corpo ed anima. In tutta la storia moscovita si cerca invano un contrasto fra Stato e Chiesa, che offra all’individuo l’alternativa di un appoggio materiale o morale. Egli rimane solo davanti a un potere chiuso e monolitico. Anche la rivoluzione, non deriva da una dialettica interna, ma da influssi esterni. Così nel totalitarismo del potere politico è la veste che muta, non la sostanza: l’individuo rimane assorbito, annullato, il tipo del lavoratore russo nei suoi rapporti con la collettività non si modifica, né parlando in generale si può dire che egli acquisti una nuova coscienza della sua personalità. Ora se raffronteremo il divenire del lavoratore europeo con la formazione del tipo americano e con la produzione del tipo bolscevico, si riveleranno subito alcune sostanziali caratteristiche della classe lavoratrice europea. Uno scrittore viennese, Ludwig Reinhold , in un volume recentissimo ha condotto fino in fondo questo raffronto analitico e benché le sue premesse e le sue deduzioni non appaiano tutte persuasive, alcune conclusioni sono senz’altro accettabili. L’operaio salariato europeo ha dovuto cercare e difendere il suo collocamento entro uno spazio limitato ed insufficiente, in mezzo ad uno sviluppo industriale, ora forzato, ora asfittico, di fronte ad una borghesia ora egoista, ora allarmata, raramente illuminata, essa stessa uscita di recente da lotte che l’hanno portata alla conquista del potere politico, nello stesso tempo che al predominio economico. Perciò, anche l’operaio europeo è cresciuto in uno spirito di battaglia ed è stato facilmente attratto dalla pratica e dalla dottrina della lotta di classe. Poiché le dimensioni dello spazio economico si dimostrano troppo anguste e le risorse insufficienti, in ciascuna nazione la lotta si acuisce per la conquista del potere politico, poiché si attende dallo Stato che supplisca alle deficienze naturali dell’economia. Di qui il carattere prevalentemente politico del sindacato europeo, e la politique d’abord del movimento socialista. E questa è già una caratteristica notevole, per quanto riflessa, che differenzia l’operaio europeo da quello americano. Ma un elemento storico più profondo si impone alla nostra considerazione. La società europea, nonostante molte deviazioni e frequenti contrasti, riconosce che le sue origini, il suo corso, le sue evoluzioni, la portarono a collocare al suo centro, non lo Stato, non la collettività ma l’uomo, la persona umana. Qui la concezione cristiana e quella umanitaria si fondono e sono confortate dalla storia. Quando Toynbee, che pur giudica al di fuori del cattolicismo, dichiara alla Tavola Rotonda di Roma di essere andato in pellegrinaggio al Sacro Speco, per venerare il luogo d’onde partì l’impulso alla nostra civiltà, afferma una verità, di cui i moderni raramente hanno consapevolezza. Ma rimane vero che l’Europa della moderna civiltà si inizia nel momento in cui si diffonde e prevale il principio che l’uomo è persona, che egli diventa persona a mezzo del lavoro, ma soprattutto in quanto il suo fine sovrasta quello dello Stato. È così che l’Europa diventa e si sente una comunità degli spiriti che oltrepassa le frontiere politiche e quelle del sangue. Tale sfondo metafisico costituisce anche la caratteristica differenziale del movimento operaio. È l’impronta di nobiltà impressavi dalle sue origini, lo spirito che muove più o meno consapevolmente il suo umanitarismo, la luce che nei momenti più tranquilli lampeggia e tenta di farsi largo per diradare le tenebre del materialismo, dottrina di derivazione esotica che porta all’annullamento della sua persona e della sua libertà. Come liberare questo Laocoonte sociale dalle spire di un materialismo che minaccia di soffocarlo? Bisogna anzitutto proporsi di allargare lo spazio della sua attività e dare un più vasto respiro al suo sviluppo. Economicamente parlando, le frontiere nazionali agiscono come spire di costrizione sulla circolare del lavoro, del capitale e delle merci; qui terre incolte ed abbandonate per mancanza di braccia, là formicai umani su spazi troppo angusti; qui esubero di materie prime, là forzata produzione di manufatti che non trovano mercato, e di qua e di là uno sperpero di forze per duplicazione di prodotti e mercati troppo piccoli per consentire una necessaria riduzione di costi e la produzione di massa in serie. Divieto, protezioni, contingenti, inconvertibilità della moneta inasprirono ancora una situazione già caotica, né accenniamo all’irrazionale sfruttamento delle forze energetiche difficoltato dalle barriere di tante nazioni. Si è calcolato che nei paesi dell’Europa occidentale la capacità di acquisto è tra 1/3 e 1/4 di quella dei consumatori americani, e nelle riunioni di Strasburgo circolavano queste cifre circa la produzione del 1950: Stati Uniti con 140 milioni di abitanti, produzione 260 miliardi di dollari; paesi europei aderenti all’OECE con 240 milioni di abitanti, produzione 160 miliardi di dollari, mentre lavorando nelle stesse condizioni degli americani, gli europei avrebbero guadagnato 400 miliardi di dollari. Senza dubbio vi sono altre differenze ambientali; ma elemento prevalentemente determinante è lo spazio, cioè la dimensione del mercato. Risulta chiara anche la sequenza economica: per elevare il tenore di vita, bisogna aumentare la produzione, per aumentare questa, bisogna migliorare le attrezzature, razionalizzare la fabbricazione e soprattutto sono necessari investimenti enormi di capitale; tutto ciò è realizzabile solo se si dispone di un vasto mercato di materie, e di beni di consumo. Ecco che l’Europa diventa per l’operaio una vitale necessità di sviluppo. Non è possibile attuare la cosiddetta giustizia sociale; cioè una più equa distribuzione dei beni, in ciascuno degli spazi vitali segnati dalle presenti frontiere. Certamente nemmeno l’Europa basterà a se stessa con l’andare degli anni, ma per un prossimo periodo l’Europa unificata costituirà una potenza di lavoro e di produzione che potrà entrare in gara col continente più progredito. Così l’operaio europeo potrà acquistare qualche caratteristica positiva del sindacalista e del consumatore americano, senza perdere i connotati propri, configurati dalla sua propria storia. Tra questi connotati uno è il modo speciale di sentire la dignità della persona umana, sentimento sviluppatosi nella storia della cristianità europea, un altro è il modo particolare di valutare la libertà come legge indispensabile di tolleranza, dopo così aspre esperienze di lotte civili, infine l’attaccamento al regime democratico come quello nel quale l’operaio ha potuto dare e condurre la battaglia per la sua elevazione. Queste concezioni spirituali e conclusioni politiche, svincolate dalla polemica regionale e nazionale, proiettate in un ambiente più vasto, illuminate da un senso storico comune, non potrebbero essere ragioni sufficienti per reclamare il pieno concorso delle forze operaie alla costruzione dell’Europa? So bene che vi sono delle opposizioni ideologiche che sembrano insuperabili, fino a che appaiono incarnate nella politica espansionistica del bolscevismo. Ma non bisogna perdere la speranza che l’Europa unitaria diventi centro di mediazione fra il capitalismo privato e il capitalismo di Stato, campo di esperimenti di cooperazione fra capitale e lavoro. Qui si superano le nazioni, senza assorbirle, ma anzi utilizzandone le forze vitali; perché non confidare che vi si superino le classi senza sopprimerle, ma coordinandole al bene comune? Perché questo spazio centrale non potrà operare fra i due blocchi, per la loro pacifica convivenza? Vi sono poi inoltre delle diffidenze e dei sospetti che ci riguardano come cattolici. Ma già anche da settori avversi giunge il riconoscimento del disinteresse e della larghezza di idee che ispira la nostra azione. Non medioevalismo ammodernato né angustia di parte ci muove. Non chiediamo a nessuno di piegar la bandiera o di accettare pregiudiziali. Chiediamo si creda all’avvenire dell’Europa come crediamo nel destino dell’uomo di far progredire ovunque la civiltà. A noi uomini di questo continente tocca questo compito e siamo grati agli statisti di altre regioni della terra che ci comprendono e ci aiutano, nella speranza che l’unità dell’Europa diverrà un fattore essenziale della pace e del progresso del mondo. Di tale unità è elemento importante la classe lavoratrice. Senza dubbio la nazione in ogni stadio di sviluppo rimarrà la prima base di convivenza, e dentro di essa opereranno utilmente tutti i ceti, ma la classe lavoratrice in particolar modo non può trovare la sua efficace inserzione nel tessuto sociale, se esso non ha una trama più larga. Lavoriamo a questo tessuto con pazienza e costanza, anche se talvolta sembra la tela di Penelope. La nostra fatica è solo una piccola parte della immensa e diurna fatica che il mondo del lavoro sopporta nello sforzo secolare della sua elevazione.
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«Europa Aeterna»: felice espressione trovata dalle «Editions M.S. Metz de Zurich», che collaborano con tanta intelligenza alla diffusione dell’idea di solidarietà fra i popoli del nostro continente. Sì, l’Europa si può dire eterna poiché essa ha dato all’umanità un insegnamento che non può morire. Il principio di libertà e dignità della persona umana, fondamento della civiltà occidentale, è destinato ad affermarsi sempre più alla base di ogni organizzazione che si propone di sviluppare la tendenza naturale dell’uomo verso l’evoluzione dello spirito. Ma troppi pericoli minacciano questo mondo di libertà e l’Europa deve quindi organizzarsi in modo da poter difendere, unendo le forze, la propria civiltà. In un clima di sicurezza si potranno intensificare i contatti fra i diversi paesi contribuendo così a creare la pacifica collaborazione di tutti i popoli del mondo.
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[…] La causa dell’unificazione dell’Europa è troppo profonda e troppo nobile perché noi possiamo perderci di coraggio. I giovani debbono lavorare con fede, per quella causa, con convinzione e coraggio. Si deve svolgere un’azione assidua di incitamento dell’opinione pubblica e dello stesso Parlamento; i giovani pensosi del loro avvenire e dell’avvenire del Paese non debbono mancare a questa opera. Il compito della gioventù italiana deriva dalla stessa tradizione nazionale, dalla nostra storia, dalla nostra civiltà. Abbiamo spirito, abbiamo cultura, abbiamo braccia per lavorare: abbiamo bisogno di spazio. L’on. De Gasperi richiamandosi agli esempi del recente passato, ha avvertito che la ricerca dello spazio non corrisponde a imprese di conquista, bensì ad un ampliamento delle frontiere. E questo deve essere realizzato come unione spirituale, culturale di civiltà. La Comunità europea si fonda lì dove sono le vestigia dell’Impero romano: tale comunità deve valere come potente arma di irradiazione del nostro spirito, della nostra cultura. Non dimenticate – giovani – che abbiamo anche un problema di proletariato intellettuale non dissimile da quello del proletariato comunemente inteso.
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(Vivissimi applausi al centro). Signor presidente, onorevoli colleghi, credo sia la prima volta che io parlo da questi banchi dopo un brevissimo intervento alla Costituente; e per mio conto avrei preferito dimenticare nel silenzio lo spettacolo di questa miseria parlamentare che segue a distanza di pochi anni le luminose speranze nate nella prima Assemblea della Repubblica. Prendo tuttavia la parola brevemente (perché attendiamo dal banco del governo una eloquente replica alle varie critiche) per un doveroso sentimento di solidarietà verso il governo dell’onorevole Fanfani , (applausi al centro), che si trova di fronte alla medesima incomprensione di cui fui io stesso vittima sei mesi fa, ad una ostilità preconcetta, decisa ancor prima che la discussione dia modo di chiarire idee e ribattere obiezioni. (Applausi al centro). Avvertivo allora (in luglio) che ormai non si trattava più semplicemente di appoggiare o rifiutare un dato governo, ma soprattutto di far funzionare la Camera. È la funzionalità, quindi la vitalità del Parlamento che è in causa, non la sorte di questo o quel partito. (Applausi al centro). Si era tanto gridato contro la egemonia di un partito che deteneva la maggioranza assoluta. Da quando lo schieramento democratico è stato spezzato e una dozzina di deputati possono determinare uno spostamento decisivo, forse che la situazione è migliorata? Consideriamo un momento questa situazione parlamentare. Esiste in questa Camera un blocco disciplinato di 143 deputati di stretta osservanza comunista, che per i loro princìpi marxisti e leninisti, apertamente e tenacemente professati, e soprattutto per i precedenti che essi esaltano di altri paesi dal comunismo governati, fanno temere che, se raggiungessero soli – o alla testa di una coalizione – la maggioranza, trasformerebbero il nostro regime democratico in dittatura di classe e di partito, sicché la loro conquista significherebbe la fine della libertà in Italia. (Vivissimi applausi al centro). Esiste, all’altra estremità dell’emiciclo, un gruppo non numeroso ma valido che, come abbiamo sentito risuonare ancora ieri nel discorso dell’onorevole Almirante , non sa o non vuol liberarsi dell’ipoteca totalitaria e antiparlamentare delle sue origini. Fra queste due estreme (dell’onorevole Nenni mi permetterò di occuparmi a parte), dovrebbe esistere una maggioranza parlamentare che, fatte salve le caratteristiche di ciascun gruppo, che portano certamente a discriminazioni e a distinzioni notevoli, dovrebbe avere la comune preoccupazione di conservare l’attuale regime libero e avere coscienza della necessità di uno sforzo serio e duraturo affinché il declino delle istituzioni non diventi inevitabile e fatale. Finora questo sforzo costruttivo non vi è stato, e il paese assiste stupito e preoccupato alla incapacità della Camera attuale di dare al paese un governo su basi stabili. (Applausi al centro). Fallace è il tentativo di riversare la colpa di questa paralisi parlamentare sul partito di centro. La Democrazia cristiana, dal luglio ad ora, ha sacrificato per la causa democratica comune i suoi uomini più sperimentati e più in vista e ha dovuto portare tutte le responsabilità perché gli altri partiti non seppero accordarsi per condividerle. L’onorevole Pella poi poté raggiungere la maggioranza talvolta solo per l’atteggiamento del Partito monarchico, partito che era stato eletto al di fuori di quello che nella campagna elettorale abbiamo definito come schieramento democratico. So bene quello che si è detto qui e altrove. Ieri l’onorevole Almirante ha formulato l’accusa in questo modo: il vostro partito ha approfittato della vacanza parlamentare per fare una crisi extra-parlamentare . Io ho assistito a tutte le fasi della vertenza… (Commenti a sinistra). Non vi è nessuna ironia nella mia osservazione, perché non sono contemporaneamente presidente del Gruppo e presidente del partito come avviene in altri partiti. (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra). Dicevo che io ho assistito a tutte le fasi della vertenza e ho preso nota di tutti i colloqui e di tutte le varie determinazioni. Se fossimo in diplomazia potrei pubblicare un libro bianco interessante. Esso dimostrerebbe che la crisi è nata dal rimpasto, che il rimpasto non venne né proposto né imposto dal partito ma fu ritenuto utile, anzi necessario, dallo stesso presidente del Consiglio, il quale lo fece preannunciare proprio per il periodo delle vacanze dandone comunicazione al Consiglio dei ministri. Dunque non è esatto che il partito abbia preso l’iniziativa della crisi per interrompere quello che l’onorevole Almirante chiama «il periodo di tregua». È vero che si ebbero in seno al partito democristiano qua e là manifestazioni di insofferenza perché la situazione parlamentare non si consolidava: ma gli organi responsabili della Democrazia cristiana hanno ogni volta dissipato ogni dubbio confermando la fiducia all’onorevole Pella, e quando questi annunciò il rimpasto non fecero obiezioni di principio. È vero bensì che durante il rimpasto nacquero difficoltà. Ed è noto – o si vada a cercare tante farfalle sotto l’arco di Tito – che la disparità riguardava il dicastero dell’Agricoltura. Ma a mio parere diversità di opinioni possono sempre sorgere quando il diritto costituzionale del presidente del Consiglio di scegliere i candidati per il suo gabinetto deve pure in pratica essere conciliato con gli obblighi che risultano per i candidati dall’appartenenza ad un partito e dalla loro adesione al programma di esso. Credo che in qualunque democrazia sia così. Certo sarebbe stato desiderabile che la crisi fosse stata evitata. Ma io, che feci talvolta la parte di mediatore fra i direttivi dei gruppi parlamentari e il presidente del Consiglio, io ho la ferma convinzione che nessuna delle parti nutrisse il proposito di sboccare nella crisi. Respingo poi decisamente l’insinuazione dell’onorevole Togliatti che si potesse trattare di ingerenza di uno Stato straniero. Egli ci confonde con i partiti che partecipano al Cominform. (Applausi al centro). Comunque è ingiusto – come si è fatto da parecchi – addossare personalmente all’onorevole Fanfani la colpa, a Fanfani che tanto nelle riunioni collegiali quanto in privato si adoperò per evitare la crisi. (Applausi al centro). So bene che accanto ai guai parlamentari a cui ho accennato per taluno esiste un altro guaio assai grave, cioè la forza e la vitalità del gruppo democristiano. Ho sentito ieri con un certo stupore l’onorevole Romita declamare contro «l’imperialismo cattolico» di don Sturzo e di tutte le forze di egemonia che si sono appoggiate finora sul centrismo degasperiano . No, onorevole Romita, il nostro imperialismo è il mandato di 11 milioni di elettori! (Applausi al centro). Ed il centrismo non si ispira ad ambizioni di una persona che passa ma si fonda sul sentimento della responsabilità nazionale, che è al di sopra di ogni tendenza, che i democristiani nutrono nei confronti del paese. Se questa concezione di forze si spezzasse, com’è il desiderio di chi si preoccupa solo del proprio interesse di parte, della democrazia in Italia non resterebbero che i relitti sul mare agitato della sovversione. Ed è per lo meno curioso che codeste definizioni offensive siano formulate nello stesso momento in cui si invocano convergenze e che nello stesso discorso, dopo aver condannato nuovamente il quadripartito, si propongano combinazioni a due con la partecipazione a quattro. Credevo ieri sera di avere afferrato male il discorso per difetto del microfono, ma confrontando stamane il testo nella Giustizia ho trovato l’identico rebus. La formula Fanfani – dice Romita – è sbagliata perché è la stessa formula proposta da De Gasperi dopo il 7 giugno. Sì, è la stessa formula, ma è una formula di necessità, allora come oggi, perché nessuno ancora ha potuto constatare che esista una maggioranza assoluta precostituita la quale abbia la volontà e la capacità di accordarsi su un programma comune di direttive e di azioni. De Gasperi non riuscì perché si pretendeva da lui che egli compisse una manovra tattica verso Nenni, destinata a fallire, e da Fanfani si pretese che improvvisasse una riforma elettorale. E così avviene che come allora La Giustizia diceva che De Gasperi se non è sulla via di Kerenskij è sulla via di Dollfuss, così oggi si parla di Dollfuss a proposito di Fanfani. Ma anche oggi – rebus sic stantibus – la situazione rimane quella che precisai nel mio discorso di presentazione alla Camera. Non essendo possibile la formazione di una maggioranza assoluta, l’incarico di Governo venne affidato al partito della maggioranza relativa con la ferma speranza che nel Parlamento si creasse, a mano a mano che si distanzia la polemica elettorale e si fa più viva la consapevolezza dell’interesse del paese, l’atmosfera di collaborazione che l’opinione pubblica più responsabile attende e reclama. Anche questa volta, come allora, la speranza fu delusa, e l’onorevole Fanfani si è presentato come allora con un Ministero di attesa e di lavoro, ma, in confronto del mio, con un progresso notevole sia per il programma sia per l’azione, con una armatura di progetti di produzioni o di investimenti già maturi e finanziati, con uno sforzo concreto per dare lavoro a centinaia di migliaia di disoccupati. Quest’uomo, onorevoli colleghi, ha al suo attivo una esperienza fattiva, specie nei dicasteri del lavoro e dell’agricoltura dove ha formulato riforme sul serio, tanto che vedendolo oggi alla testa di un Governo dedicare tutte le sue forze al coordinamento, al tanto invocato coordinamento, ed all’impulso ed alla realizzazione, io dico che egli veramente, se lo lasciate lavorare, potrà riuscire a dare una nuova impronta alla nostra economia nazionale. (Applausi al centro). Ebbene, no: bisogna sbarrargli la via, evitare anche la discussione (si è tentato di farlo ier l’altro). Macché apertura a sinistra! che socialità! che progetti! Non si debbono nemmeno discutere. Da tempo si reclamava il concorso di forze giovanili e rinnovatrici, si invocava dinamismo, intraprendenza, coordinamento. Ecce homo! (Commenti). E ora lo si copre di scherno. Chi ha seguito ieri il discorso dell’onorevole Nenni avrà sentito che l’uomo che nei passati giorni sembrava cercare un avvicinamento alla sinistra della Democrazia cristiana, e che sembrava preoccupato delle sorti della democrazia e pareva voler dare una mano a chi era incaricato di risolvere la crisi, tutto d’un colpo ridiventa giacobino e dà l’allarme contro il presunto tiranno , perché Fanfani ha avuto l’impudenza di affermare che si sarebbero difese le istituzioni della Repubblica con la forza delle leggi. (Applausi al centro). Questo – grida Nenni scandalizzato – è un ritorno al delitto, è un reato di pensiero, quasi che Fanfani avesse pensato a censurare o a reprimere i discorsi di Togliatti o Secchia, a gettare sul rogo i classici comunisti in vendita in via delle Botteghe Oscure od a mandare in galera gli insegnanti bolscevichi. (Applausi al centro). E tutti questi od altri simili provvedimenti naturalmente – secondo il sospetto dell’onorevole Nenni – si dovrebbero fare con la forza della polizia o del Santo Uffizio. In verità, l’onorevole Fanfani ha parlato di forza delle leggi, dunque di libera, indipendente magistratura; ha parlato di difesa delle libertà, della Costituzione: dunque, salvo sempre il costituzionale diritto dell’eguaglianza giuridica dei cittadini. Ogni discriminazione del giudice riguarda l’azione, il fatto, non il pensiero e le idee. (Applausi al centro). Ma quando Nenni si preoccupa di non discriminare fra Lenin e Antonio Labriola e incorpora il bolscevismo russo nelle tradizioni del socialismo nazionale italiano, svela la sua intima e dominante preoccupazione: non perdere il contatto con lo Stato guida, non distanziarsi da quella che chiama l’unità della classe operaia. Sotto il velame di una indignazione verbale contro Fanfani, si cela la paura di essere andato troppo avanti; e, dopo aver provocato l’applauso unanime dell’estrema, Nenni torna al suo posto. (Applausi al centro). Noi – e qui parlo come capo del partito democristiano – conosciamo Fanfani come uomo d’azione e di libere idee, sappiamo che egli, quando parla di Stato, intende veramente uno Stato democratico e sociale, e se parla di società cristiana è perché la pensa fondata sulla libertà e sulla giustizia. Perciò voteremo per lui con fiducia, convinti, con affettuosa speranza, con la certezza di servire la patria e la causa della democrazia. (Vivissimi, prolungati applausi al centro – Moltissime congratulazioni). Antonio Labriola (Cassino, 1843-Roma, 1904), filosofo, professore dal 1873 di filosofia morale e di pedagogia all’Università di Roma. Propugnatore in una primissima fase dell’idealismo hegeliano (sotto l’influenza di Bertrando Spaventa, del quale è stato allievo a Napoli), approda successivamente al realismo herbartiano e poi al marxismo. Inizia una corrispondenza con Engels (Lettere ad Engels, pubblicate per la prima volta tra il 1924 e il 1929) e dal 1890 inizia lo studio sistematico dei testi di Marx. Si dedica successivamente alla divulgazione della dottrina marxista, esercitando una profonda influenza su Antonio Gramsci (MOIDB, III, a.v.). Tra le opere più celebri, si annoverano In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), La concezione materialistica della storia: dilucidazione preliminare (1896) e Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897). Sulla sua figura, si vedano tra gli altri S. Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Longanesi, 1978; F. Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Angeli, 1986. De Gasperi ricoprì l’incarico di segretario nazionale della Dc dal 28 settembre 1953 Documenti 1948-1954
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Egregio comandante, la lettera aperta a me diretta che ella ha pubblicato sul suo giornale domenica scorsa non può rimanere senza risposta. Tacendo, non sarei un buon cristiano; e, anche se i suoi argomenti hanno l’incontestabile merito d’essere sempre gli stessi, io cedo alle pressioni dei miei amici i quali mi fanno rilevare che, in compenso, le conclusioni politiche cui ella perviene variano di volta in volta. Ho il dovere di portare un po’ di luce, e mi accingo a fare quel poco che posso. Inoltre, un buon uomo deve cercare di non apparire superbo, e visto che da anni ella si sforza di discutere pubblicamente con me, e mi fa l’onore, di cui le sono grato, di rivolgersi spesso a me direttamente perché io sancisca con una replica diretta la sua autorità di uomo politico che vede anche al di là del paese ove esercita i suoi traffici, non esito a scriverle. Come ella può benissimo vedere, egregio signor Lauro, le mie disposizioni d’animo nei suoi confronti sono tutt’altro che ostili. Avendo, anzi, ben compreso, per un certo intuito di montanaro, il suo vero carattere, so che la mia risposta le farà piacere in quanto firmata da me, e basta. Non comincia forse ella il suo articolo assumendo che fino a sette mesi or sono tra lei e me ci sono stati dei colloqui in pubblico e che noi due siamo stati antagonisti? Ella mi fa costantemente l’onore di innalzarmi alla sua altezza e al livello del suo prestigio. Come non tener conto di tutto questo? Stia, dunque, tranquillo, esaudisco comunque il suo desiderio, anche se è manifesto che non tutti i suoi amici condividono le sue opinioni. Avrei voluto, per amore di chiarezza, riassumere brevemente le sue argomentazioni e trattarle una ad una. Ho tentato di farlo. Poi vi ho rinunciato perché è evidente che il suo articolo domenicale si riduce ad un appello perché io mi faccia, sostenuto dal mio partito, promotore della sua partecipazione al governo. Per lei, che è buon uomo d’affari, io vengo subito al sodo: si può avere e non avere qualcosa in contrario ad una poltrona ministeriale a lei affidata. Ma bisogna tener conto di due cose: la prima è che ella, essendo ineleggibile, sta per decadere dal mandato senatoriale, ed ella capirà che non si può elevare al rango di ministro un uomo che, pur riconoscendo, come è da presumersi in un esponente politico, la legge elettorale, ha preferito violarla e finisce con l’essere espulso dal parlamento; la seconda cosa è che ella non ha manifestato fino ad ora specifiche e particolari competenze, né ha dato prova di chiare visioni politiche al di fuori di quella, che alcuni giudicano limitata, di aspirare ad una poltrona ministeriale. L’Italia, caro comandante, è molto indietro e non ha raggiunto ancora quello stadio di evoluzione nel quale i ministri vengono fatti tali solo perché vogliono essere ministri. Con questo non intendo dire che l’Italia abbia sempre avuto dei grandi ministri, ma posso assicurarla che in nessun paese del mondo si potrebbe mai pensare di far ministro un uomo che in qualità di sindaco ha mostrato tanta spregiudicatezza da battere di molte lunghezze il primato, nella storia amministrativa italiana, delle deliberazioni comunali bocciate dagli organi superiori per illegalità o per difetto di forma. Né ella è uomo che si contenterebbe, come avevano ironicamente suggerito alcuni suoi avversari del suo stesso partito, di un sottosegretariato alle poste. Per ora sarebbe difficile, a prescindere da ogni altra difficoltà, contentarla; ella vorrà certamente rendersene conto. Con ciò, naturalmente, non deve disperare. So che ogni mattina ella fa ginnastica sulla terrazza di casa sua e si cosparge la pelle di olio di oliva per mantenerla fresca. Credo che questo sia il metodo migliore per ritrovare la giovinezza. Perciò posso dire a lei ciò che solitamente dico ai giovani che hanno ambizioni precoci: non disperi, con gli anni sarà più maturo, meno inesperto, e qualcosa, le circostanze aiutando e l’evoluzione politica consentendo, ci sarà anche per lei. Questo per la sostanza. L’uomo d’affari che, lodevolmente, prevale sempre in lei, può trovare quanto ho detto spiacevole, ma dovrà riconoscerlo esauriente. Per il patriota, che ogni tanto, invece, e specie la domenica, affiora in lei, e che si preoccupa, secondo quanto scrive, della sorte dell’Italia e sostiene che bisogna cambiare strada «per ricercare decisamente quella della concordia e dell’azione comune per fronteggiare il pericolo che avanza» , esporrò la mia modesta opinione, pur sapendo che l’argomento susciterà in lei meno interesse. Mi consenta di tornare un poco indietro. Ero un presidente del Consiglio alle prime armi quando mi venne fatto il suo nome: si trattava, se non sbaglio, di certi miliardi che il fisco reclamava ma che anche sembrava impotente ad ottenere. La disperata lotta che per anni il fisco ha sostenuto contro di lei sembrava indicativa di scarso senso civico e di scarsissimo patriottismo da parte sua. Non ricordo poi come siano andate le cose. Il fatto è che, in Piazza Plebiscito, a Napoli, dovendo occuparmi, tra l’altro, anche di lei e del suo partito (eravamo, come ricorderà, alla vigilia delle elezioni politiche) e sapendo che da Napoli era partita in nome del suo patriottismo e per la sua ispirazione e alimentata dal suo denaro la meno onorevole e più arbitrale campagna moralistica contro il governo e contro di me, non potei ricordare altri meriti o altre caratteristiche di lei e della sua azione che quella di costituire la prova che in Italia bisogna provvedere a far pagare le tasse a coloro che non vogliono pagarle. Quando io, perciò, dissi che bisognava farle pagare le tasse, ella se ne ebbe a male e trovò le mie parole poco spiritose e ne trasse spunto per sostenere che io sono un nemico giurato del re. Tra i miei amici e lei si continuò a discutere nelle piazze e sulle colonne dei giornali: noi ricordavamo che contro il pericolo comunista bisognava essere uniti e organizzati in una politica di centro, con un programma di centro; ella e i suoi sostenendo invece che il pericolo comunista non esisteva e che era un fantasma da noi agitato per guadagnare voti allo schieramento di centro e aggiungendo, anzi, queste precise parole: «in ogni caso meglio il comunismo che De Gasperi»; noi ricordando che era, allora, questione di democrazia o meno e non di Monarchia o di Repubblica, ella leggendo le lettere di sovrani e attribuendo ad essi significati e solidarietà che non esistevano; noi affermando che le questioni istituzionali erano al di fuori e persino al di sopra della battaglia che combattevamo, ella identificando la sua persona con la Monarchia e riducendo i monarchici italiani ai votanti del suo partito; noi prospettando programmi di governo e aprendo nuove strade allo sviluppo sociale del paese, ella sforzandosi di umiliare il suo partito ad una consorteria di familiari e creando la dinastia di Lauro. Venne il 7 giugno e si vide chi aveva avuto ragione: i suoi voti erano pochini, i nostri non erano sufficienti per dar vita ad una maggioranza che consentisse una certa tranquillità parlamentare . E si vede anche a chi risaliva la responsabilità dell’accaduto e dell’aumento dei voti dell’estrema sinistra: il suo linguaggio, egregio comandante, cambiò da un giorno all’altro e la sua tattica stupì anche i più spregiudicati osservatori: ella ebbe paura dell’accaduto ed era pronto a votare a favore del governo pur di liberarsi del peso della responsabilità di aver creato una situazione che minacciava di evolversi anche contro i suoi stessi interessi. Tutta l’Italia constatò il fenomeno di un Lauro che non ricorreva più al turpiloquio osceno e calunniatore per il quale s’era acquistato la fama del più autorevole maleducato d’Italia. Si vide un Lauro nuovo, con pretesa di distinzione e di correttezza, un Lauro che si sforzava di adeguare alla dignità parlamentare, anche se indebitamente acquisita, perfino il suo modo di camminare. Vi fu addirittura qualche ottimista che sperò che il nuovo Lauro non si sarebbe più esibito in giri di pista su campi sportivi. Naturalmente, noi non potevamo non apprezzare questi segni di resipiscenza. Quando la buona educazione prevale è sempre bene, anche se, per obiettiva possibilità, non riesce a prevalere interamente. Ma ormai il peggio era accaduto. Era nata una destra che in realtà è la reazione. Quando noi dicevamo al comandante Lauro: badate non facciamo questioni di destra o di sinistra, che sono concetti astratti, ma di programmi che possono essere cose concrete, non c’è ragione che voi vi schieriate contro di noi che abbiamo il solo scopo di difendere la democrazia in Italia, il comandante Lauro trescava col neofascismo, contrabbandava il fascismo, metteva a disposizione dei peggiori superstiti della Repubblica di Salò il suo giornale e il suo denaro, tanto da indurre un giornale napoletano a dire che il solo organo che non aveva fatto propaganda per la Monarchia e per il neofascismo era quello del comandante Lauro. Il risultato fu la situazione che ora preoccupa Lauro e alla quale Lauro vorrebbe rimediare offrendo la sua collaborazione. Ci vuole ben altro: non si mette ordine ricorrendo agli artefici di disordine, non si fanno riparare le macchine dai bambini inesperti che le hanno guastate, non è il dinamitardo che può contribuire al ristabilimento della normalità. E poi, ancora una volta, ella, caro comandante, dimostra di non aver capito il senso delle cose: non è una questione di semplice matematica, come ella dice, ma di costume, di metodo, di sincerità democratica. È una questione, oltre tutto, di uomini al servizio dello Stato (e sono gli uomini che ella condanna) o dello Stato al servizio degli uomini (ed è la soluzione che ella e i suoi familiari e soci della flotta preferiscono). Temo, dunque, che non ci si possa intendere. A parte la sincerità e la buona volontà di cui abbiamo ragione di dubitare, c’è anche il problema della capacità e del senso di responsabilità, che non mi sembran cose tenute in grande onore dalle vostre parti. Diventa allora un atto di vero patriottismo non affidare neppure una briciola del potere agli inesperti, agli affaristi e agli irresponsabili. Io dicevo prima del 7 giugno queste cose, ed ella, egregio comandante, mi chiamava austriaco, traditore, rovina dell’Italia, dittatore e molte altre cose del genere. Si assisteva ad una gara senza precedenti tra lei che rappresentava l’estrema destra e i comunisti a chi si mostrava più bravo a sostenere le stesse tesi e a realizzare gli stessi obiettivi. A costo di dispiacerle devo dire che ella faceva, in confronto ai comunisti, la figura del dilettante, anche se la sua predicazione forsennata non aveva rivali per odio e livore. Ora ella mi chiama salvatore d’Italia e pretende che io salvi l’Italia una seconda volta. Vede, c’è in lei sempre una tendenza all’esagerazione: l’Italia è stata salvata dal regime democratico che io ho potuto impersonare e non da un uomo; contro quel regime, che operava attraverso lo schieramento dei partiti di centro, ella si è scatenato e continua a lottare. Come pretende allora di salvare ancora una volta l’Italia? Non c’è altra via, egregio comandante, che quella di cui parlai a Napoli, incoraggiato, per la verità, da un solo giornale, attraverso un articolo dal titolo Vi domandiamo scusa, che mi restituì la fiducia nelle capacità e nella coscienza della democrazia napoletana. Ella, ad essere sinceri, costituisce almeno un grosso equivoco. Se a me incombesse il compito di salvare l’Italia toccherebbe il dovere di liberare il paese dal suo equivoco. Ella è un uomo molto dinamico e più di azione che di pensiero: ho preferito perciò esser chiaro anche se brutale piuttosto che apparentemente cortese ma involuto. È una prova di amicizia, la mia. Ella sa infatti molto meglio di me che rispondo all’uomo Lauro e non all’esponente del Pnm, giacché la lettera aperta che ella mi ha diretto è stata disapprovata dal suo partito che se ne è occupato in un comunicato ufficiale appositamente emanato . Caro comandante, come si possono seguire i suoi consigli se neppure il suo partito ha un poco di fiducia in lei e non esita a smentirla e a disapprovarla pubblicamente? Possibile che niente le vada bene e ottenga sempre l’effetto opposto di quello che si propone? La politica è una triste e malinconica cosa, beato lei che ormai è giunto praticamente al termine della carriera! Suo Alcide De Gasperi
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Riferisce sull’andamento delle operazioni di rimpasto annunciate dall’on. Pella delle quali furono fissate le caratteristiche nell’ultima riunione, fino alle dimissioni del governo attraverso i contatti e i colloqui avuti con i presidenti dei gruppi parlamentari Dc, lo stesso presidente del Consiglio ed altri nostri esponenti politici. […] Della condotta corretta di Fanfani ne ho avuto prove anche direttamente da Pella. […] Crede che i capi gruppo abbiano avuto la sensazione che lui fosse troppo conciso e si sono dati da fare per [non leggibile]. È stupito dalla lettera che gli fu indirizzata da essi [omissis]. Comunque l’impressione che egli era troppo debole di fronte a Pella i capi gruppo l’hanno condivisa. Nella conclusione i capi gruppo hanno avuto perfettamente ragione, non avrebbe però accettato una [non leggibile] che non c’è stata. Si è cercata una formula politica che non ha potuto non approvare. Però bisogna fare le cose in [non leggibile] anziché in riunioni formali. Nega l’intervento dei partiti nelle questioni parlamentari però lo Statuto parla di determinazioni della Direzione d’accordo con i gruppi. La Direzione si occupa della direttiva e per i nomi debbono pronunciarsi i gruppi parlamentari, però non è cosa agevole il loro compito. Ammesso il principio che il presidente del Consiglio possa scegliersi i collaboratori, i designati quali membri del partito debbono informare il partito. Accenna alla dichiarazione fatta a Pella che riprende la direttiva segnata dalla Direzione nell’ultima seduta. La dichiarazione è venuta fuori e così la vicenda è continuata su un piano diverso da quello confidenziale e privato sul quale era opportuno tenerla. Legge la dichiarazione inviata a Pella. […] A tranquillizzare Battistini aggiunge che Pella aveva ormai già deciso di fare come ha fatto, d’altra parte (i malati sono guariti tutti?) e così il rimpasto previsto si è venuto a cambiare completamente e così è andato avanti ma egli ha avuto l’impressione ad un certo punto che Pella non sapesse più cosa fare. Dà ragione su una cosa: avremmo dovuto avere la fortuna di evitare la crisi. Dà atto ai capi gruppi di avere mollato su molti punti però Pella non ha collaborato come poteva. Ora siamo alla crisi: la Direzione deve avere in questa vicenda una parte principale. […] Non è d’accordo per decidere su esclusioni di designazioni tanto più con le dichiarazioni che Pella ha fatto. Sulle motivazioni della crisi la stampa anche più [non leggibile] ha già candidato loro. La stampa ha [detto] per punti: 1)un rimpasto sarebbe stato un rappezzo; 2)qualificazioni a destra la Dc non le tollera; 3)opportunità di [trasformazione] radicale. Quello che è preoccupante [è] che la stampa lavori sui dissensi interni della Dc e pretende un chiarimento al nostro interno. Non crede quindi opportuno che si vada a precisare posizioni interne in un comunicato. Vediamo ora il da farsi. Le Direzioni dei partiti hanno inizio da oggi. Bisogna stabilire la procedura: 1)sulla linea programmatica è competente la Direzione; 2)suggerimenti e proposte a coloro che sono chiamati. De Gasperi è invitato per domattina come persona che ha una certa valutazione, non come segretario politico. Quindi sono i capi gruppo a fare designazioni a nome del partito sulle indicazioni che noi loro daremo. Continua facendo una disamina delle opinioni espresse da Saragat rispetto al nostro atteggiamento nei confronti dei monarchici che in qualunque modo capiranno sempre che la Dc [è] indipendente dal Psd. Si deve consolidare questa dichiarazione? Siamo di fronte al tentativo di riformare il quadripartito o comunque di trovare una base di fuori del Pnm. Riferisce su un colloquio avuto ieri sera con Piccioni sull’argomento e Piccioni è d’opinione che si debba contentarci nel senso di portare il Psd al governo. Anche Gronchi con il quale ha parlato è del parere di non lasciar cadere le dichiarazioni del Saragat ma di lavorarci dentro . La questione che ora è in esame è se dobbiamo dare corso a qualche negoziato con il detto Saragat. Dobbiamo o meno aprire un colloquio con Saragat? […] Bisogna evitare di mettersi nel mare magnum delle trattative e suscitare nel paese delle reazioni negative; la crisi l’abbiamo provocata noi. Non si può trascinarci a lungo. È pericoloso. Le reazioni e i [commenti] da parte dei partiti saranno molteplici. Quindi: 1)dire qualcosa sul nostro concetto della crisi; 2)stabilire un programma di realizzazione rispetto agli uomini che dovranno attuarlo e quindi non potrà essere fatto che dopo la costituzione del gabinetto. Accenna alle difficoltà: stabilità della lira; socialità si, ma dove prendiamo i quattrini?; problema anticomunista; problema della politica estera. Perciò: 1)il massimo impegno del governo per superare la piaga della disoccupazione; 2)fermezza nella difesa del regime democratico; 3)difesa valida e dignitosa nel quadro delle alleanze degli interessi dell’Italia; 4)la Dc è concorde nello sforzo da fare per la realizzazione .
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Informa che il Psdi ha dichiarato di essere disposto a collaborare fuori o dentro il governo sulla base delle loro dichiarazioni programmatiche e su quelle della Cisl. Accento sul metodo elettorale: proporzionale pura. Scelba che ha condotto il contatto ha fatto osservare che non si poteva indispettire volutamente i monarchici né spostarsi tanto a sinistra se non per staccare Nenni dal Pci, concludendo che le trattative devono essere fatte dal designato. […] Riprende il primo punto da lui fissato in principio: unità del partito; contatto con Gronchi; riunione dei maggiori esponenti per una dichiarazione comune, visibile, di unità. Come facciamo con Pastore? Non partecipa alla Direzione, non partecipa a riunioni del partito e poi salta fuori con un documento nettamente politico. Non ho idee in proposito. […] Si scusa, credeva che la prassi fosse quella di dare la preminenza ai gruppi per cui nella fase precedente ha lasciato a loro la responsabilità di pronunciarsi sul rimpasto. Ora siamo tutti d’accordo non solo per la scelta del capo dello Stato ma altresì sulla urgenza di appoggiare gli sforzi di Fanfani e appoggiarli unitariamente. Come facciamo per tentare una riunione con gli amici che hanno manifestato dei dissensi per la procedura? Deve tentare il segretario politico? Ma pare che sia più opportuno che tenti prima Fanfani quale designato e l’uomo intorno al quale deve essere realizzata. In una prossima seduta possiamo convocarli ma dopo i contatti diretti di domani. Il nostro proposito è quello di raggiungere: 1)unità delle forze del partito; 2)possibilità di allargare la maggioranza parlamentare; 3)qualora i saragattiani dovessero entrare nel governo per assicurarsi il loro costante appoggio. Così suggerisce l’esperienza passata. […] Il riavvicinamento con Piccioni è già avvenuto ed ha già avuto colloqui con Gronchi nei giorni passati. Io farei opera suppletiva in quanto necessaria ma i contatti primi è opportuno li faccia Fanfani. [Segue una breve interruzione dell’on. Fanfani, che asserisce «datemi la nota di queste persone: sono 3 o 4 infine e non è difficile, forse, intendersi»]. Sono quelle rimaste fuori dalla Direzione le quali dichiarano di non poter esprimersi in foro competente p.[er] e.[sempio]: Piccioni, Gronchi, Aldisio. (Si protesta su questo nome); gli altri li convochiamo tutti. […] Bisogna concludere con un pensiero fondamentale da passare alla stampa e cioè: 1)ringraziare Pella. […] Perché bisogna ringraziarlo? Per l’opera svolta a favore del paese. Qualcosa avrà fatto! Così evitiamo lo scoglio di stamattina portandoci su un piano obiettivo. Prosegue leggendo il testo della dichiarazione che propone di dare alla stampa . Riguardo alle trattative osserva: quali partiti sono da prendere in considerazione? Quelli che dopo il 7 giugno non hanno preso posizione sistematica contro il governo. Cosa diciamo ai saragattiani se escludiamo dalle trattative i socialisti? Che c’è un impedimento dirimente: la politica estera.
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Pur convenendo con Scelba sulle osservazioni da lui mosse e sulla inopportunità dell’intervento, dice: cosa possiamo dire noi Direzione! Possiamo rettificare e dare un biasimo all’APE ma restiamo comunque davanti ai problemi del momento. [Scelba asserisce che dinanzi alle trattative, in atto ormai da una settimana, «per portare nell’orbita di Fanfani il Psd», la linea della Direzione deve prevalere su quella di «agenzie estranee al partito»]. Condivide quest’ultimo pensiero però, osserva, il sottosegr.[etario] alla Presidenza non è il sottosegr.[etario] della Direzione. Vediamo comunque cosa possiamo fare. Prosegue riferendo su un colloquio avuto con incaricati del Psd. Questo è disposto a convertire la richiesta programmatica con una richiesta di affermazione di principio alla Camera sulla legge elettorale (dichiarazione di principio che escluda nuove elezioni di modo che il Psdi con una collaborazione al governo abbia tempo di ricostituirsi, fortificarsi e riprendere quota). Una terza osservazione: se il Psi votasse a favore di Fanfani il Psdi passerebbe all’opposizione. (Ciò suscita ilarità). Saragat teme questa eventualità che lo metterebbe in difficoltà come partito e sarebbe costretto a prendere quella posizione. Peraltro il punto di maggiore difficoltà rimane la riforma elettorale, ed è su questo punto che dobbiamo portare la nostra attenzione. Le crisi non consentono di dare molte spiegazioni perché il tempo stringe e viene a mancare la possibilità di esaminare tutto con la nostra calma e attenzione. Il risultato di ieri al gruppo è accettabile malgrado che nei confronti della Direzione e del Direttivo sia stata rimandata ad altro momento un esame del loro comportamento durante la precedente crisi. […] Non si tratta di programma ma di una conquista politica! La Dc non può rinunciare alle sue opinioni in proposito. Rappresenterebbe una grossa deviazione difficile a spiegare. Comunque resterebbe la garanzia che essi potrebbero dare alla luce della esperienza passata! D’altra parte avendo mandato stamattina due emissari per trattare questa cosa non doveva uscire con l’articolo di stamattina . Ciò significa voler entrare nel campo a bandiere spiegate. Ciò non è tollerabile per la Dc pur comprendendo che Saragat sta ritornando indietro e sente il bisogno di capire la sua manovra. Indubbiamente Saragat teme che Nenni finisca per trovarsi d’accordo con noi e un patto simile lo declasserebbe. [Scelba interviene nuovamente per suggerire possibili accordi con il Psdi sui sistemi elettorali]. Obietta che proseguendo su quel piano Saragat finirà per eclissarsi perché rimarranno in campo un Pc e un partito anti-Pc. Comunque: ci sono possibilità ancora di un accordo con i saragattiani? Cosa possiamo fare? […] Lasciamo stare le questioni generiche e atteniamoci alle questioni concrete che sono le più urgenti in questo momento. […] Se si faranno le trattative non si può fare il governo. Si tratta e si attende la risposta. Con ciò si rinuncia all’elemento rapidità che era nei voti comuni. […] Allora prendiamo atto che il nostro programma economico-sociale è stato accettato dalla socialdemocrazia, con piacere e con soddisfazione, sottolineandolo, accennando che per il paese il programma è la cosa più urgente [e] che vogliamo attuarlo a condizione che al fondo ci sia la salvaguardia della democrazia e della politica sociale. Per la legge elettorale rimettersi ad uno scrutinio della Camera nel quale il governo prenderà posizione nel senso di accettare il risultato. Propone di porre questi concetti in una lettera-dichiarazione da dare a Fanfani perché se ne valga nei confronti del Psdi. Dobbiamo seguire due vie: 1)motivare il nostro atteggiamento verso il pubblico e la nostra base; 2)abbiamo bisogno di vedere cosa dobbiamo fare nei confronti dell’incaricato: ma pare che dobbiamo affidarci a lui senza dargli una direzione di marcia rigida. [Dinanzi alla gravità della scelta tra alleanze politiche a destra o a sinistra e nell’impossibilità di ricostituire un monocolore Dc, l’on. Fanfani annuncia quindi di rinunziare al mandato di formare un nuovo governo]. Non precipitiamo! Ricorda di dire aspetti della sua precedente dichiarazione. La situazione prospettata da Fanfani giustifica il presidente della Repubblica a tornare sui suoi passi, quindi a Pella! Però badate che è la Dc che fallisce nell’uomo che ha indicato. Come possiamo pensare con fondamento che quello che non è riuscito a Fanfani possa riuscire a Piccioni? E allora cosa potrà fare il capo dello Stato? Ci si dice che non abbiamo fatto il nome anche di Piccioni ma sono state le manovre dei partiti minori a renderci difficile e non chiara la situazione! Fanfani è arrivato troppo di colpo alla conclusione drastica. [Segue la replica dell’on. Fanfani: «c’è una ragione tecnica; andiamo alla Camera dopo essere passati al Senato, si perdono ancora dieci giorni, si passa già con ciò il 31 c.m. senza che i bilanci siano approvati»]. Appunto per questo il presidente della Repubblica dovrà dare l’incarico a Pella. […] Egli convocherebbe i due gruppi i quali possono avere qualcosa da dire sull’argomento specifico e tenterebbe con loro una chiarificazione sui temi affacciati dai socialdemocratici. [L’on. Moro suggerisce di prendere tempo con il Psdi per arrivare ad una chiarificazione interna alla Democrazia cristiana sul nome di Attilio Piccioni]. Allora facciamo questa lettera [non leggibile] in termini simpatici ed esaminiamo intanto la possibilità di trovare un’intesa interna, e un chiarimento interno. Basta però con contatti indiretti con Saragat! […] Diciamo che di fronte alle dichiarazioni di Fanfani continuiamo per la nostra strada e ad aiutarlo. Finora non ho fatto nulla per coadiuvarlo direttamente. Farò anch’io qualcosa subito nei confronti di Saragat e di Piccioni. […] Conclude sintetizzando il da farsi e cioè: 1)la lettera-dichiarazione a Fanfani; 2)Fanfani risponderà dopo aver avuto un contatto con il Psdi; 3)nel frattempo la strada resta aperta per una decisione definitiva e per esperire a questo fine il tentativo di chiarificazione interna. [De Gasperi prende nuovamente la parola nell’adunanza pomeridiana]. Fanfani deve prima di decidere avere un contatto con i liberali. È difficile trattare con i saragattiani!
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Certa autorevole stampa anglo-americana insiste in un allarmismo deprimente e ingiustificato . Non è vero che il popolo italiano stia per buttarsi in braccio al comunismo . È vero che dopo il 7 giugno c’è stato uno smarrimento nella opinione pubblica, causato dalla discordia fra i partiti democratici che non hanno trovato la via per costituire una maggioranza parlamentare: fatto doloroso e deplorevole ma che disgraziatamente non avviene solo in Italia. Che cosa sarebbe accaduto, ad esempio, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti se vi si fosse introdotto il sistema elettorale proporzionale? Che cosa sarebbe avvenuto in Inghilterra se anche colà invece del laburismo si fosse sviluppato, per circostanze di guerra, cioè nella partecipazione alla lotta per l’indipendenza nazionale, il comunismo? La difesa del regime libero riuscirebbe difficile perfino nella patria d’origine del parlamentarismo. Noi italiani, non chiediamo indulgenza, ma serenità di giudizio nel valutare i nostri sforzi per difendere la causa della democrazia. Siete indulgenti con l’opinione pubblica inglese, siete pazienti con la situazione francese; e volete essere ingiusti con l’Italia, che pure è stata la nazione che raccolse con maggior fiducia la vostra tendenza a unire e a pacificare l’Europa in un vincolo di comune difesa e di progresso sociale? Nella lunga e faticosa formulazione del Trattato della CED i delegati italiani furono collaboratori comprensivi e convinti; non crearono difficoltà, non opposero protocolli speciali, perché per loro la comunità di difesa era come l’anticamera della comunità politica europea, alla quale gli italiani, la maggioranza degli italiani, tendono come a un ideale di unità europea, di vita civile ed economica. La ratifica? Sì, ha tardato in seguito alle nostre vicende parlamentari, ma è mancato solo il tempo, non la volontà; tanto è vero che anche nei momenti più critici si è recentemente rilevata in Parlamento l’esistenza di una maggioranza favorevole su settori, per altri aspetti, contrastanti . Né è da dubitare che, come già si proponeva l’on. Pella, anche l’attuale presidente del Consiglio darà in un prossimo tempo a questa maggioranza l’occasione di confermare la sua efficace resistenza. Ma dite la verità, egregi colleghi di Londra e di New York, credete davvero che un governo democratico in Italia, abbia una situazione facile, di fronte alla politica a zig zag degli alleati circa Trieste? Voi siete allarmati che in Italia non ci si preoccupi troppo della difesa della democrazia contro il pericolo totalitario. Non sarò io a dire che insufficienze, debolezze, connivenze più o meno consapevoli ma pericolose non esistono specie nelle classi intellettuali e dirigenti. Ma ciò non toglie che il modo migliore di far amare il regime e la solidarietà dei popoli liberi è quello di dimostrare coi fatti che questa libertà, questa solidarietà porta a dare soddisfazione a rivendicazioni, riconosciute giuste e ragionevoli. Voi a New York, se non sempre a Londra, le avete riconosciute giuste? Certo, più volte e solennemente, taluni di voi l’hanno fatto per conto proprio, come frutto di loro inchieste, ma quando i vostri governi giunsero a proclamare la stessa conclusione, tutti faceste coro. Ebbene, passando sopra a stridenti note polemiche, noi vogliamo soltanto riconoscere le vostre buone intenzioni, ma voi da parte vostra, avete il dovere di giudicare serenamente i democratici che si battono su un terreno difficile. Abbiate soprattutto il coraggio di ammettere e proclamare che la causa della libertà si difende solo col rendere giustizia ai popoli liberi.
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Mi pare che la seduta possa concentrarsi nel prendere atto, compiacersi e sentire il designato dal presidente della Repubblica, on. Scelba. [L’on. Giuseppe Spataro da quindi lettura del documento programmatico firmato dalla Dc, dal Psdi, dal Pli e dal Pri]. Pone l’accordo in approvazione sottolineando che gli altri partiti hanno già approvato il testo. Ci sono delle formule che vanno al di là di qualche nostra impostazione (monopoli) ma che pur rientrano nel nostro indirizzo. E questa volta siamo più generici (Fanfani era stato più concreto) però i precedenti programmi sono riassorbibili in questo che ha il pregio di essere stato concordato prima. C’è la formula elettorale! Indubbiamente è una concessione: abbandoniamo la nostra tendenza a creare uno strumento necessario per la difesa della democrazia pur non avendo preso impegno definito per un testo di legge elettorale già formulato. Osserva che i nostri rappresentanti (Scelba e Vanoni) avrebbero forse potuto ottenere di più nell’ambito della formula decisa dalla Direzione. Ormai però non ci resta che accettare in blocco il programma concordato piuttosto che attardarci nell’esame delle formule. […] Fa delle osservazioni sulla possibilità di un passaggio della nuova legge elettorale attraverso le Commissioni. Ripete che egli personalmente è molto perplesso su questo argomento, ma non ha creduto di suggerire a Scelba di irrigidirsi, e gli ha solo raccomandato di fare del suo meglio. Crede che se si [guarda] all’atto dei fatti non ci sia che da procedere oltre. (La Direzione approva pienamente l’accordo concluso da Scelba e Vanoni per la Dc pur misurandone le conseguenze e i lati deboli). Informa che sulla parte preliminare della designazione di Scelba ha poco da dire. Al presidente della Repubblica che lo ha chiamato ha a lui fatto presente che la preoccupazione del partito non gli permetteva di accettare l’incarico. Sullo stesso piano pur partendo da diversa posizione è stato Piccioni. […] Se c’è qualcuno che vuole esprimere dei dissensi è bene lo faccia subito tenendo presente: prima di tutto la domanda di 3-2 e 1 ministeri rispettivamente da dare al Psdi-Pli e Pri; secondo che cosa si pensa al riguardo del Ministero del Lavoro. […] In passato i Psd non lo hanno mai preteso perché non si sentivano di fare di fronte ai comunisti quella parte di mediazione che è richiesta dai compiti di quel ministero. […] Non si può decidere qui, attendere la risposta e poi tornare indietro. Le designazioni non esistono; esprimiamo solo dei pareri. Non dobbiamo imitare gli altri. Le nostre responsabilità sono precisate e graduate dalla Costituzione e non dobbiamo esorbitare pretendendo di stabilire e designare. […] Questo è solo un settore della nostra situazione interna, il più appariscente al momento. Si riferisce alla decisione del Collegio che trova ben centrata ed alla quale è bene riferirci. È ovvio però che il momento non ci consente di entrare vivamente nell’argomento. Quindi si limiterebbe al richiamo alla disciplina e alla autodisciplina. Piuttosto il prossimo C.[onsiglio] n.[azionale] che si riunirà dopo la crisi dovrà occuparsi del problema. Occorre ben prepararsi. L’accenno a Gronchi fatto da Scalfaro a cui risponde l’atteggiamento di Pastore, sono atteggiamenti e linee di condotta preparate dagli articoli di certa nostra stampa. Osserva che non si tratta di tendenze che tendono ad evoluzioni interne. Sono utili entro certi limiti, però le tendenze odierne tendono invece alla evoluzione di situazioni interne che danneggiano il partito e lo indeboliscono. A proposito de La Base ha avuto colloqui e ha segnalato a Vanoni alcuni articoli e atteggiamenti che sono fuori del programma del partito e che tendono alle impostazioni comuniste. Marchetti che è il direttore di La Base è alle dipendenze dell’AGIP. Il suo passo verso di lui ha avuto successo perché dopo si è verificato l’incontro di questi scrittori con Gronchi che ha segnalato Scalfaro. Conclude in questi termini: accettare in via di massima l’o.d.g. Ceschi poi prepararsi con una relazione motivata al Consiglio nazionale perché il problema deve essere affrontato e risolto in quella sede. [Battistini rileva la protesta di Giovanni Gronchi di «non essere sufficientemente tenuto in considerazione» all’interno del partito]. Fa osservare che si è incontrato con lui varie volte. D’altra parte nell’ultima vicenda Fanfani è il solo che ha rifiutato di entrare nella combinazione. Non bisogna poi dimenticare che occupa un posto eminente quale presidente della Camera. Non può atteggiarsi a vittima perché anche in questa occasione ha fatto sapere che in seno al governo, anche se fosse stato presieduto da lui, non sarebbe entrato in subordinazione. […] La Direzione ecc. ecc. stabilisce: 1° e 2°; il resto lo vedremo e si dà incarico a Ceschi, Moro, Zaccagnini e Arata di formulare il testo. […] Occorre mandare una direttiva in base alla quale si dica che per la celebrazione della liberazione si mantengono distinte le libertà delle iniziative; quindi invitare il governo non appena fatto, a prendere esso iniziative laddove non è possibile distinguere le manifestazioni partigiane.
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Spiega. L’America ci ha rimproverato di non essere riusciti ad ottenere la maggioranza attraverso la revisione delle schede annullate. Ha spiegato le difficoltà della procedura. Ora con l’accordo governativo la situazione in Commissione è mutata e quello che si poteva fare in due anni può essere fatto in due mesi. Difficile sarà far riconoscere le risultanze favorevoli al quorum del 50,01% però potremo avere il vantaggio morale di far conoscere che il successo era stato sostanzialmente raggiunto. Ha fatto l’altro giorno quella dichiarazione – personale – per favorire il governo Scelba, però non vede come non si possa prevedere nuove elezioni sia pure nel tempo. Non si può escludere di per sé dal piano democratico i monarchici. Quando ha detto che si va da un estremo all’altro ha voluto dire che ci sono zone recuperabili: i socialisti di Nenni e i monarchici entro l’arco democratico. Nessuno vuole le elezioni, egli non ignora le ragioni contrarie però crede di capire che più in là si va e peggio è per noi. Inquadra la questione nella situazione internazionale. Si scusa qualora la Direzione abbia creduto di vedere nelle sue dichiarazioni un’anticipazione del giudizio collegiale. […] Non solo ammettiamo le correnti, ma non intervenendo permettiamo che si organizzino, diversamente avremo una federazione di correnti non più un partito. Tanto vale allora che invece di spendere tanto per un’organizzazione unitaria, lasciare che ognuno sostenga la propria. Analizza la lista che è sortita vincente dalle elezioni del CP di Milano domenica 14 .
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In una rivista milanese è comparso «un rapporto sul comunismo in Italia» che merita di essere letto e meditato. Parte delle notizie che vi si danno, sono inesatte o invecchiate, certe statistiche devono essere controllate o accolte col beneficio dell’inventario e nella congerie delle citazioni di cui è intessuto il rapporto va perduta spesso la giusta prospettiva e la vera proporzione delle cose. Comunque rimane vero che il comunismo in Italia costituisce un pericolo assai grave e che anche dopo aver sfrondato questo rapporto delle esagerazioni, delle inesattezze e degli errori di fatto, esso offre un quadro della penetrazione comunista entro la società italiana, che non può non impressionare. L’impressione per chi lo vede dal di dentro ed è in grado di confrontarlo con la realtà vivente sotto i propri occhi potrà essere salutare, perché colori e dimensioni verranno col confronto rettificati e proporzionati con giusta misura; ma che sarà del maccarthismo internazionale che prendesse questo rapporto per oro colato e s’apprestasse a giudicare il nostro paese sulla base delle sue conclusioni? Perché, secondo l’autore del rapporto non solo i sindacati, le associazioni, la cultura, la scienza fisica, le industrie, le amministrazioni statali, le forze armate sono infettate o conquistate dal comunismo, ma dei comunisti sarebbero complici per connivenze o per viltà tutti gli altri partiti politici. Nessuno si salva, e meno di tutti il sottoscritto. Anzi a proposito di quest’ultimo l’accusa è piena e grave. De Gasperi non sarebbe l’inventore della «rissa ideologica», come lo classifica Nenni, e molto meno il nemico numero uno, come lo designa Togliatti . Tutt’altro. Ecco quanto scrive il rapporto: «per comprendere la mentalità che oggi anima uomini come Pastore, favorendo il giuoco comunista, occorre conoscere con certezza il pensiero di chi, nel 1924, fu segretario politico del Partito popolare ed in tale veste propose e sostenne la necessità dell’accordo con i socialisti. Alcide De Gasperi oggi nuovamente responsabile politico delle forze cattoliche italiane è sostanzialmente ancora animato dallo stesso spirito, che gli impedisce di vedere l’assurdità di certe alleanze. La sua opposizione al comunismo nasce da un calcolo di convenienze occasionali e del tutto transitorie; per dimostrarlo è sufficiente citare le seguenti parole…». E qui si cita un brano di un mio discorso del 23 luglio 1944 nel primo comizio tenuto a Roma, dopo la liberazione. Eravamo ancora in guerra, i nazisti sulla linea gotica, la Repubblica sociale in armi contro il governo legittimo d’Italia, migliaia e migliaia di partigiani in montagna, invocavamo il ritorno di un milione di prigionieri, avevamo bisogno di tutti per finire vittoriosamente la guerra, e ricostruire la pace; Togliatti era entrato nel ministero prima di giungere a Roma e aveva così reso possibile la costituzione di un governo nazionale col luogotenente del re. Stalin dopo aver respinto l’invasione hitleriana campeggiava vittorioso sulla scena della storia. In simile ambiente e nel momento in cui tutte le conseguenze della disfatta si rovesciavano sul nostro paese e fermenti pericolosi agitavano gli animi conveniva dire una parola d’orientamento; ed ecco che io la dissi nel primo comizio, innanzi ad una folla variopinta, in presenza dei rappresentanti di tutti i partiti. Fu una parola di compromesso occasionale, un atto di opportunismo demagogico? Nessuno che rilegga oggi il resoconto integrale di quel discorso può onestamente affermarlo. Non basta citare le ammissioni che io feci di alcuni lati positivi della rivoluzione russa né le espressioni di speranza, che furono poi deluse, ma che allora erano condivise da tutto l’occidente, di un possibile inserimento della rivoluzione russa nell’alveo della democrazia. Occorre aggiungere ch’io agli aspetti positivi della rivoluzione russa opposi la descrizione dei suoi esperimenti sociali negativi ed il carattere sanguinario della sopravvenuta dittatura e dissi, secondo lo stenogramma, le seguenti parole: «ma che cos’è dunque che sentiamo come un insuperabile limite sul cammino di queste esperienze sociali? Prima di tutto la libertà, che non è semplicemente la libertà di parola e di riunione: la libertà per il popolo è essenzialmente l’esser padroni in casa propria… ma come può essere libero l’uomo se dalla mattina alla sera lo Stato interviene attraverso i suoi commissari a regolare tutta la sua vita?… Il nemico della libertà è il totalitarismo di Stato… prima viene l’uomo e poi lo Stato» . E poiché quel discorso si cita quasi anche per dimostrare ch’io abbia sottaciuta la pregiudiziale obiezione di carattere morale e religioso ricorderò ancora che dopo avere nell’introduzione rivendicato le origini storiche cristiane del concetto di libertà, il discorso concludeva con un’invocazione a Cristo e precisamente con queste parole che il prelodato rapporto si guarda bene dal citare: «Il Salvatore è lui. Per risorgere dalla sua morte civile e materiale, bisogna che la nuova Italia disposi il lavoro alla fede come facevano le nostre repubbliche comunali, e che le forze morali e materiali della carità cristiana soccorrano – come ha già fatto meravigliosamente il clero romano – all’opera di giustizia sociale che vogliamo intraprendere» . E ciò dovrebbe bastare per dimostrare che la nostra politica della ripresa non fu ispirata a compromissioni sostanziali. Senonché nello stesso discorso la parte dedicata al problema costituzionale è ancora più discriminante. Già allora gettai l’allarme contro i ripetuti tentativi dell’Avanti! di lanciare la «Repubblica dei consigli» e richiamai l’attenzione del pubblico su un punto che era più grave dell’alternativa «Repubblica o Monarchia» dicendo: «vogliamo fondare il nostro nuovo Stato, la nostra nuova Italia sopra la larga base del popolo italiano, unito com’è nei suoi comuni, costituito dalle sue famiglie, nel suo carattere storico, o vogliamo dissolverlo in rappresentanza di officine?» . Qui si annunzia già la nostra lotta per il Parlamento democratico e per il suffragio universale, di fronte a tendenze fumogene ma pericolose, che sarebbero sboccate nella dittatura proletaria. Ancora un anno dopo, il 3 luglio 1945, superata in duro travaglio la cosiddetta crisi del vento del nord, in un discorso a Milano dicevo: «noi siamo preoccupati soprattutto di una cosa, l’abbiamo detto e lo diciamo in ogni occasione e bisogna che lo ripetiamo sempre: noi siamo preoccupati sopra tutto di salvare nel futuro Stato democratico la libertà organica del popolo italiano» . Pertini aveva detto di voler fare della Costituente la piattaforma della rivoluzione italiana per la futura società socialista , io dicevo di volere il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione. E già allora, nella crisi del 1945 si affacciava l’equivoco Nenni. Le situazioni si ripetono. Si leggerà con stupore in una mia polemica con Togliatti circa la crisi che aveva portato al ministero Parri queste parole: «accade che la candidatura Nenni alla presidenza (del Consiglio) venisse presentata nei conversari come una candidatura di sinistra moderata che corrispondentemente a una certa situazione europea, enucleasse fuori dei partiti cosiddetti proletari un fulcro socialista, posizione intermedia tra estrema comunista e partiti democratici. Noi contestammo la realtà di questa costruzione, rilevando sempre che il patto social-comunista e la prassi che legava i due partiti, impedivano che si potesse parlare di tale schieramento: trattarsi invece di una candidatura social-comunista, da valutarsi come tale» . Seguì la campagna per il referendum e per la Costituente, e poi come logica conseguenza la ripresa del regime parlamentare democratico e la cessazione del sistema del Cln. Tutta questa evoluzione pacifica e legale fu possibile solo perché la Democrazia cristiana, appoggiata da alcuni gruppi minori, ebbe chiara coscienza della sua responsabilità e puntò risolutamente sulla difesa del libero regime democratico contro il pericolo totalitario. Altro che deviazioni in senso marxista, come dice il rapporto. Ché, se come tali deviazioni, si vogliono attribuire a me le recenti tesi sindacaliste circa l’assoluta libertà dello sciopero, mi si fa un grave torto. Per tre volte i governi da me presieduti presentarono disegni di legge per regolare i diritti dei sindacati e l’esercizio dello sciopero; e tutte le volte i rappresentanti sindacali fecero valere le loro obiezioni. E si badi bene: io non intendo qui accogliere il sospetto di collusione col comunismo, che anzi i sindacalisti democratici credono in tal modo di ostacolarlo. Ma è certo doloroso che in situazioni così pericolose per il regime democratico, le forze che pure lo sostengono, non trovino una soluzione giuridica che salvaguardando gli interessi della categoria rispettino i diritti della collettività e che al fermento delle continue agitazioni sostituiscano una procedura di trattative, lasciando lo sciopero solo come estrema arma di legittima difesa. È vero, così dicendo mi preoccupo anzitutto del regime libero che nell’incessante logorio di un metodo agitatorio si indebolisce e perde quota in confronto dello Stato totalitario; ma non trascuro la funzione del Sindacato. Se il Sindacato vuole penetrare nei gangli dell’economia e divenire una forza sociale organica, bisogna ch’esso contribuisca alla stabilità dei rapporti di lavoro e a uno sforzo ininterrotto per accrescere la produttività. Senonché non sembra per l’autore del rapporto che le deviazioni a me attribuite si limitino a quelle dei sindacati. A suo parere io avrei una certa complicità anche nel fatto che a un certo momento è rinato il fascismo e sopra tutto, che a ostacolare l’unione delle forze anticomuniste della Repubblica sia stata creata una corrente legittimista di restaurazione monarchica. Qui per la verità mi cadono le braccia e rinunzio alla difesa. Il rapporto è troppo permeato di acre faziosità, perché meriti, per tali aspetti, di essere discusso. Tuttavia so bene che questa pubblicazione potrebbe venire sfruttata in seno alla campagna che si è già sviluppata in America sul conto dell’Italia ed è per questo che qui ho preso la parola e farò ancora alcune osservazioni a rettifica del quadro. La introduzione al rapporto è costituita da un panorama delle disposizioni legislative vigenti negli altri paesi contro il comunismo. Non è il caso di esaminare il valore pratico ed effettivo delle inibizioni o limitazioni introdotte o annunciate nei vari paesi dell’Occidente. Il fatto più conclusivo è che in nessun paese a regime libero – nemmeno negli S.[tati] U.[niti] – il Partito comunista è stato messo fuori legge. Più significativo, per molti aspetti, è l’esperimento della Svizzera. La Confederazione Elvetica aveva in tempo di guerra proibito il Partito comunista; ma poi riassorbì questa legge eccezionale nel testo del Codice penale al titolo 13: «dei crimini o delitti contro lo Stato e la difesa nazionale». Tale Codice, deliberato nel 1937, contiene un articolo 266 del seguente tenore: «1) chiunque commette un atto diretto a menomare ovvero a esporre a pericolo l’indipendenza della Confederazione; a provocare l’ingerenza di uno Stato estero negli affari della Confederazione; tiene intelligenza col governo di uno Stato estero o con agenti di esso allo scopo di provocare una guerra contro la Confederazione… è punito ecc.». Questo primo testo del 1937 venne integrato nella legge 5 ottobre 1950 con un articolo 266 bis che prende di mira gli atti preparatori del crimine e precisamente commina la detenzione fino a 5 anni a «chiunque nello intento di provocare o di sostenere imprese o mene dall’estero contro la sicurezza della Svizzera, entra in rapporto con uno Stato estero, con partiti esteri e con altre organizzazioni all’estero, o con loro agenti, ovvero lancia e diffonde informazioni inesatte o tendenziose…». Si ricorderà che per tale articolo la Corte federale di Losanna condannò a 15 mesi di carcere il capo comunista Pierre Nicole di Ginevra, che in parecchi giornali esteri e nel suo organo svizzero aveva accusato il governo (Consiglio federale) di preparare l’entrata della Svizzera nell’alleanza atlantica, attentando così all’indipendenza della Svizzera, ancorata alla sua storica neutralità. La difesa dunque della democrazia svizzera è affidata al Codice penale, valevole per tutti e in tutte le direzioni. Che altro aveva proposto il mio governo presentando nel maggio 1952 alle Camere un disegno di legge per modificare il Codice penale? Tardando ormai troppo la prevista riforma organica del Codice, si proponeva lo stralcio e l’aggiornamento di alcuni articoli: l’art. 294-8-9 contro chi usa violenza o minaccia per impedire ad altri di manifestare pubblicamente il suo pensiero politico, sociale o scientifico e impedisce tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico; l’art. 253 contro il sabotaggio militare, sia alle installazioni che alla fabbricazione; l’art. 499 contro il sabotaggio civile, cioè la distruzione di materie prime o di prodotti agricoli e industriali; l’articolo 508 contro l’invasione e l’occupazione di aziende e infine l’art. 633 contro l’arbitraria invasione di terreni. In tutto ciò non c’è nulla che non sia, già in forza dalle leggi vigenti, previsto e sottoposto a sanzioni. Si trattava in fondo di precisare, di fronte a una giurisprudenza esitante, o ormai compromessa e di ristabilite la certezza del diritto; ma sopra tutto di cogliere l’occasione per riassorbire tutte le leggi speciali creando così strumenti legali di difesa, per il caso che la democrazia fosse minacciata. Si trattava soprattutto di dimostrare la ferma volontà di difendere gli istituti democratici contro tutto e contro tutti. E tuttavia le solite oche in Campidoglio starnazzarono per settimane, gridando allo scandalo reazionario; e oggi ci si rimprovera in patria e fuori di non essere capaci di un atto di energia e di un gesto di coraggio. E domani forse – poiché il pubblico dimentica – vedremo levarsi in patria contro di noi coloro che nei momenti critici si dimostrarono pronti per viltà a qualunque accomodamento, e forse qualche senatore americano verrà a chiederci conto del fatto che in Italia nei pochi anni del dopoguerra abbiamo sì, con l’aiuto dell’America, rimessa in piedi la nazione, ma abbiamo potuto solo contenere, non sradicare la mala pianta che nacque e prosperò nel clima roosveltiano, per errori, certamente comuni e probabilmente inevitabili ma di cui non è giusto riversare su noi epigoni tutta la responsabilità: errori che sarebbe più facile archiviare definitivamente nei volumi della storia, se almeno nella politica di oggidì risultasse chiaro e incontrovertibile per tutti che il regime libero e non comunista è sempre e ovunque il regime preferito, appoggiato, difeso.
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Non ci sono elementi nuovi da dover considerare sul piano politico. Piuttosto guardiamo all’avvenire: Consiglio nazionale. Notizia confortante: approcci con i responsabili della stampa di corrente. Favorevole accoglienza alla richiesta di sospendere le pubblicazioni purché cessino tutti. Forze Sociali : è sì un giornale sindacale ma a carattere politico Dc. È probabile che anche i sindacalisti aderiscano. Colloquio con Pastore: non può durare l’attuale posizione. Molte volte entra nel nostro settore rivendicando però la maggiore autonomia nel proprio. Colloquio appena iniziato. È d’accordo di discutere con noi i postulati della Cisl per trovare una via unitaria di azione. La situazione non è cattiva per quanto riguarda la preparazione del C.[onsiglio] n.[azionale]. Si dice che siamo ricorsi allo sfogo della stampa perché il C.[onsiglio] n.[azionale] si riunisce tanto a distanza. Si chiede che nelle integrazioni della Direzione si tenga conto di tutte le correnti (non ci fu nell’ultimo C.[onsiglio] n.[azionale]) . Relazione politica: più generica possibile ma dettagliata (le crisi con aspetti diversi per ciascuna). Dobbiamo invitare i protagonisti delle crisi non membri del C.[onsiglio] n.[azionale], p.[er] e.[sempio], Pella? Sarebbe una novità. Le opinioni non sono concordi (Zaccagnini, Tupini, Dall’Oglio, Jervolino M., non parlare di Pella assente lui ma invitarlo subito qualora si voglia parlare del suo operato); Battistini (favorevole ad invitarlo); Spataro (la Direzione non può decidere, proporrà al C.[onsiglio] n.[azionale] di rivolgere l’invito); De Gasperi (rimettere ogni decisione all’andamento della discussione). In quanto a Togni , eventualmente, sarà chiamato in causa per un fatto concreto non come Pella su una politica generale di governo. Il caso Rapelli è stato deferito al C.[onsiglio] n.[azionale]. Decennale di attività della Dc (1944-1954) . Siamo in stato di ascesa. Se ne può approfittare per porre in risalto la nostra attività accusata di non avere combattuto sufficientemente il comunismo e di non aver fatto abbastanza per controllare la democrazia (forma apologetica più disinvolta). L’iniziativa serva a rialzare un po’ il tono del partito. Celebrazione del Congresso del 1944 a Napoli, inizio dell’attività pubblica e governativa della Dc. […]. Tutto ciò solleva l’ambiente e riveduto in prospettiva può formare argomento saliente per il Congresso nazionale per il quale occorre fissare, in sede di C.[onsiglio] n.[azionale], data e norme. [Dopo alcuni interventi, si conclude di proporre al Consiglio nazionale le date del 10 luglio o del 27, 28, 29 giugno 1954]. Programma del Consiglio nazionale: 1)relazione politica del segr.[erario] politico; Un partito politico non può costruire una politica cristiana se non su un fondo di moralità religiosa preparata. Cita una serie di pubblicazioni oscene. Non si può affrontare i problemi del Mezzogiorno in questa situazione morale! [Petrilli «solleva la questione del finanziamento del Pci attraverso la catena di società di importazioni e di esportazione»]. Le ultime informazioni dicono che solo una piccola parte dei mezzi dei quali dispone il Pci proviene da questa fonte. Questi problemi dovremo accentuarli in sede di C.[onsiglio] n.[azionale] con cosciente responsabilità nell’esaminare i nostri problemi finanziari e lo stato debitorio. Il problema non va sottaciuto ma esaminato. Se i suggerimenti di Scalfaro obbligano la nostra coscienza a soffermarsi maggiormente, in sede di Congresso nazionale, sui problemi morali, pensiamoci. Il quanto all’azione pratica – settore stampa – è dubitoso. La sua esperienza passata dimostra che il tentativo per disciplinare la stampa è naufragato per l’opposizione dei giornalisti e l’editoria. Un’azione simile va fatta con una certa forma, influendo sui direttori dei periodici e sugli editori soprattutto sul piano amministrativo.
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Sono ben lieto di potervi ringraziare, tutti assieme, per l’opera che svolgete e per l’entusiasmo col quale guardate anche alle difficoltà avvenire. E vorrei farvi, per questa attività delle prossime settimane, dei prossimi mesi, una raccomandazione. Siamo arrivati ad una soluzione alla Camera. Speriamo che la Camera approvi senz’altro l’attuale governo e che il governo si consolidi . Abbiamo preso una via e credo che la maggioranza, forse tutti, siamo convinti che questa è la via giusta. Comunque, in queste circostanze, bisogna seguire due criteri: ci sono coloro che lo fanno per convinzione, ed è meglio; ci sono coloro che non hanno una convinzione, ma allora sono una minoranza, che deve farlo per il principio della disciplina democratica. Perché in questo caso la disciplina non è un’alternativa, ma una necessità assoluta, in quanto l’operazione non riesce se non nell’unità. E allora sarebbe inutile che coloro che non ci facessero riuscire per mancanza di unità, ci rimproverassero poi di non aver trovato la strada giusta. Questo può valere per la tattica parlamentare. Ma c’è un’altra responsabilità ed è questa: nel passato questi ministeri di coalizione hanno trovato da una parte o dall’altra un’atmosfera talvolta contraddittoria alla periferia. Bisogna invece che gli stessi criteri di larghezza e di lealtà vengano applicati anche in periferia. Non è sempre facile, come non è stato facile, formare un gabinetto e ammettere che questo o quel ministero debba essere attribuito ad un partito o a un altro. Non è facile nemmeno mantenere una certa proporzione. Così è anche nell’ambito familiare, così è in genere nella convivenza umana. E allora bisogna che i rapporti di coerenza, di unità, se è necessario, di indulgenza, anche di larghezza di orizzonte, siano quelli che dominano anche nelle nostre Sezioni, nei rapporti fra un partito e l’altro in periferia. L’esperimento deve riuscire e, perché riesca, è necessario imporci le limitazioni necessarie; è necessaria una certa larghezza anche nei confronti degli altri partiti della coalizione. Ogni collaborazione fra diversi partiti, anche se affini, comporta dei problemi che non sono sempre facilmente risolvibili. Il criterio di giustizia è sempre relativo e quindi ci vuole un grande spirito di equilibrio e di tolleranza, e sopratutto occorre in un certo senso la speranza nella evoluzione, nella maturazione delle situazioni. Siamo intesi su questa raccomandazione? Presa questa strada, bisogna andare fino in fondo con lealtà. Ci siamo giunti dopo tante discussioni! Quando penso come ci siamo arrivati! Già l’amico Spataro vi ha parlato, vi ha riassunto storicamente questa situazione. Ma non so se si è riferito sopratutto allo sfondo di politica internazionale che questa volta è stato molto importante. Quando si parla di situazioni politiche e quando si pensa al loro svolgersi, sarebbe errato, proprio in Italia, dimenticare che oggi c’è una solidarietà internazionale e fra tutti gli avvenimenti c’è una connessione di causa e di effetto che non sempre si intravede subito ma che questa volta è stata abbastanza chiara. L’alternativa socialista di Nenni avrebbe potuto avere l’influenza che ha avuto innegabilmente durante la campagna elettorale, se non ci fosse stato il discorso di Churchill del maggio dell’anno scorso , la speranza nata naturalmente ed alimentata artificialmente da una propaganda intensa, di una distensione, della fine del pericolo di guerra, di una smobilitazione del problema della sicurezza, un avviarsi ormai verso intese che rendevano inutili tante precauzioni e alleanze? Evidentemente no. Quando mi sono presentato in giugno a Churchill , mi ha domandato: è vero che il mio discorso è stato un disastro per lei nelle elezioni in Italia? Ho risposto con una di quelle risposte che bisogna dare ad uomini del valore e della statura di Churchill. Dissi: disastro no, ma del danno ce ne ha fatto! Ed è veramente così. Perché chi conosce Churchill anche solo dalle sue memorie, si spiega benissimo che un uomo abituato a correre il mondo, come egli è stato per il lungo periodo della guerra per conferenze e trattative, senta più che altri la suggestione del negoziato diretto e personale fra i Capi. Allora la speranza in alcuni è stata sincera, in alcuni altri è stata una tesi politica, e questo è il caso di Nenni, che vi ha visto una conferma al suo atteggiamento antiatlantico e antieuropeistico. Ed è chiaro che ciò ha avuto un effetto psicologico su coloro che hanno votato. E allora, quando dopo il 7 giugno ci siamo trovati a dover risolvere il problema politico, quale è stato il pensiero in fondo direi mio e dei miei collaboratori al momento in cui dovevamo costituire il ministero? È stato questo: già la eco del discorso di Churchill era passata e c’era stata la conferenza delle Bermude . Alla conferenza delle Bermude si erano avute conferme della necessità di costituire la Comunità di Difesa, di garantire la sicurezza. In via di massima quella pre-conferenza era stata una conferma di tutto ciò che era stato fatto, della necessità del Patto atlantico, tanto è vero che allora io ho potuto riferirmi a questo. Però è vero che contemporaneamente si era anche venuti ad una certa transazione fra le speranze e la situazione di fatto. E si era detto: va bene, in ogni caso, una conferenza dei quattro ministri degli Esteri occorre tentarla, per riprendere il filo delle trattative. E chi avrebbe potuto dire di no dopo i disastri che la rottura aveva portato? Così la speranza si è protratta, come un proiettore acceso, la cui luce sia stata trasferita più in là di qualche mese. Quando abbiamo fatto il governo ci siamo detti: aspettiamo anche noi che maturi la situazione e creiamo intanto un governo il quale continui la politica sociale e amministrativa passata, ma nella battaglia politica interna introduca una certa atmosfera di aspettativa finché gli avvenimenti internazionali ancora fluidi si fossero chiariti e consolidati. Ecco la ragione del tentativo che ho fatto io e che poi hanno ripetuto altri. E veramente essendo passato io all’onore di questo banco, cioè alla segreteria del partito, che cosa ha voluto dire questa candidatura in quel momento? Che bisognava salvare il partito, che la situazione parlamentare era imbarazzante, che era difficile e che sopratutto bisognava pensare al partito. Sopratutto pensare allo spirito del partito, perché non si perdesse nell’animo dei nostri amici, soprattutto dei giovani cui spetta lavorare, la speranza del domani, perché ci fosse qualcuno che desse loro il senso della continuità malgrado le difficoltà che s’imponevano al governo e al Parlamento. Perché l’azione del partito potesse continuare con la stessa intensità di pensiero e di ricostruzione psicologica, politica ed economica, che era stata il programma degli stessi uomini che prima erano al governo. Ecco il significato di questa mia candidatura al partito che ha avuto per fortuna l’appoggio dell’amico Spataro, il quale l’ha resa possibile. Non ci siamo subito intesi, non tutti sono stati entusiasti di questa mia candidatura però ho in mente che un po’ alla volta ne hanno capito l’ispirazione. Ed allora in un discorso che feci a Milano ho tentato di spiegare la situazione ed ho detto: non dovete sempre fissarvi esclusivamente sul Parlamento, perché là si fa quello che si può fare in base alle proporzioni di forza. Ma siamo noi che dobbiamo assicurare la continuità programmatica e tendenziale, proseguire con maggior lena. E pensavo che questa mia distinzione fra le due diverse funzioni si potesse accettare facilmente. Invece mi sono accorto che il Parlamento non è soltanto uno specchio il quale rifletta lo stato d’animo degli elettori, ma è anche, viceversa, un proiettore che proietta al di fuori le sue deficienze e le sue difficoltà. Ed allora il fatto che al Parlamento ci sia una certa situazione, diciamolo, imbarazzante e non abbastanza chiara si tramuta in inquietudine, in disorientamento delle coscienze. Il separare, il distinguere è estremamente difficile, perché non si tratta di questi scompartimenti stagni, ma di riflessi di uno sull’altro. E questa volta ci siamo accorti che se la nostra attesa della chiarificazione internazionale si fosse protratta troppo a lungo anche i nostri più entusiasti avrebbero cominciato con non capire e col disorientarsi. È un fenomeno del quale non c’è da meravigliarsi. Abbiamo visto dei ministeri cadere l’uno dopo l’altro. Si trattava di un fenomeno che era nuovo per i giovani (noi invece ricordiamo altre situazioni del genere): governi che avevano su per giù sostanzialmente lo stesso programma ma con diversa accentuazione, suscitando diverse speranze ed aspirazioni. Ma se tutto questo era spiegabilissimo sul terreno parlamentare, si capiva a stento dalla gente che assisteva di lontano. Però nel frattempo la situazione internazionale si è veramente chiarita, in quanto la scadenza era la conferenza di Berlino . Questa conferenza ha significato che le speranze suscitate dal discorso di Churchill venivano deluse, almeno in quella misura in cui le speranze erano state suscitate. Sopratutto che la tattica distensiva non ha la possibilità di liberarsi dal peso, dalla responsabilità, dal dovere di provvedere alla sicurezza. Questa parola, inizialmente, quando è scoppiata la guerra in Corea, si capiva bene che cosa volesse dire. Poi, lentamente, si cominciò a pensare che il Patto atlantico fosse uno schieramento inutile, costituito solo per la pressione americana. Ora il problema della sicurezza si è di nuovo imposto, perché nelle trattative si è constatato che i russi non vogliono a nessun costo abbandonare la loro preda, che hanno provvisoriamente in mano in seguito alle operazioni di guerra, la fine della quale sanzionò certe situazioni ma con la intesa che successivamente ci sarebbe stato un accordo per la pace che avrebbe rispettato la libertà dei popoli. Se leggete i resoconti della conferenza dei quattro ministri e le dichiarazioni di Molotov, vedrete che una cosa sola è chiara e certa: che le guarnigioni militari russe là dove sono, devono restare. Quindi tutte le risoluzioni, tutti i problemi si aggirano intorno a questo punto di vista assolutamente negativo: non si abbandonano le posizioni che erano state conquistate negli ultimi tempi e che invece dovevano essere soltanto un pegno e mai oggetto di conquista permanente. In verità noi non abbiamo mai sollevato obiezioni a possibili trattative. È evidente che se si può trattare, se si può combinare, è meglio. Ma è indispensabile che le trattative vengano condotte con grande prudenza e con una conclusione veramente definitiva; altrimenti noi correremmo il rischio di essere giocati da coloro che tengono in riserva ed accrescono le loro forze, mentre sotto la etichetta di una presunta pace continuano la guerra fredda. Parallelamente ai mutamenti avvenuti sullo sfondo della politica internazionale, anche la situazione interna italiana è venuta assumendo un altro aspetto. E qui non voglio entrare nei dettagli perché queste mie considerazioni astraggono da altre considerazioni che probabilmente in via di fatto si inseriscono in questo quadro internazionale. Partendo da queste premesse, amici miei, dovremmo trarne la seguente conclusione: se vogliamo crescere in maturazione nel partito, abituare il nostro cervello ad un giudizio equilibrato, non dobbiamo mai prescindere dalla situazione internazionale. È stato sempre così nella storia ed è così specialmente oggi, quando i problemi sono talmente connessi che non è possibile che la situazione interna, anche quella parlamentare, proceda indipendentemente dalle evoluzioni internazionali. E quindi bisogna anche riconoscere che una parte notevole delle nostre decisioni viene influenzata da avvenimenti che non dipendono dalla nostra volontà. E sappiamo che l’Italia è un paese privo di materie prime notevoli, il quale ha bisogno di importazioni e quindi anche di esportazioni per coprire il deficit della sua bilancia commerciale e che ha sopratutto bisogno di esportare le forze del lavoro, per la sua sovrappopolazione; un paese il quale è strettamente legato allo sviluppo dei rapporti internazionali. Ecco perché noi siamo europeisti e desideriamo uscire da questa cerchia. E non per abbandonare il nostro paese per il quale nutriamo una profonda venerazione ed un immenso affetto, ma per portarlo più avanti con la forza del lavoro e dell’intelligenza italiana. Questo argomento dovrete dibatterlo nei prossimi mesi in tutte le nostre Sezioni ed assemblee, perché il problema della CED ci obbliga ad una dura polemica con i nostri avversari. Bisogna che noi riusciamo a mettere in testa alla gente questo pensiero fondamentale, che noi vogliamo la CED per garantire non solo la nostra sicurezza ma sopratutto per creare le basi di una organizzazione europea che costituisce veramente una novità incisiva la quale va sostenuta anche se comporta dei rischi. Ma è una grande novità quella della Francia e della Germania che, direi con la collaborazione di tutte le altre nazioni vicine, formino insieme un blocco di popoli liberi il quale garantisca la comune sicurezza e rappresenti il perno per la costituzione di una nuova Europa. È per questo che bisogna lavorare con molta convinzione. Noi non facciamo questo per fare piacere all’America, come taluni vanno dicendo, o perché ci poniamo solo dei problemi militari. Per noi esiste un problema militare che è senza dubbio quello della nostra difesa, la quale è la base su cui vogliamo creare un domani di pace, di prosperità, un campo più vasto per il nostro lavoro e più naturali sbocchi alla nostra economia. Dunque dobbiamo prepararci a giornate molto dure perché coloro i quali rappresentano in Italia il pensiero russo non ci daranno tregua, come non ci daranno tregua in Parlamento coloro che hanno poca fede nella democrazia. Certo è che questa è una battaglia più grave, più importante di quella che abbiamo combattuto per il Patto atlantico, per vincere la quale ci è indispensabile non solo la maggioranza in Parlamento, ma anche l’appoggio coraggioso e risoluto dei nostri organizzati. È per questo che io faccio un appello all’unità. Tante volte mi si rimprovera di voler imporre un conformismo, di esigere che tutti pensino allo stesso modo. E mi si dice che non è possibile esprimere la propria opinione. No: io vi dico unità nella discussione e nella libertà. Ma la discussione deve essere fatta in sede propria. Discutete nelle vostre Sezioni! Forse talvolta assorbiti e preoccupati da altri problemi, questa libertà non abbiamo esercitata a sufficienza. Forse qualcuno si è annoiato perché riteneva che le discussioni fossero vane. No, se si tratta di esprimere il proprio pensiero sopra le direttive del partito, fatelo liberamente, ma onestamente e francamente. E con il vostro nome e cognome, ché non c’è niente di più deplorevole della palla nera o bianca deposta in segreto. E così nelle Sezioni, nelle riunioni ognuno può onestamente dire il proprio pensiero. E così anche nei nostri organi di stampa. Abbiamo fondato La Discussione che ha avuto appunto quel titolo perché sia chiaro che se qualcuno ha qualcosa da dire onestamente lo dica e noi lo stamperemo. Anche il numero di oggi pubblica un bell’articolo di un nostro illustre amico che a ragione si lamenta dei capi e del loro contegno in certe occasioni . Ed io, che sono fra i capi, accetto volentieri questo monito, per dare l’esempio. Potete mandare i vostri scritti che saranno pubblicati, ma non dovete ricorrere allo sfogo, talvolta anonimo, o pseudonimo, di altre pubblicazioni. Perché in genere, quando non si ha il senso di responsabilità di guardare in faccia, si cade facilmente nei pettegolezzi, e non si controlla la penna che certe volte anche contro le intenzioni di chi la impugna, sprizza il veleno della discordia. Ma se voi invece scrivete sul giornale che si sa che è sotto la vigilanza della Direzione del partito e se il partito ha la larghezza che deve avere, ed è questa oggi la nostra direttiva, allora, qualunque cosa scriviate non ci sarà l’avversario che vi citi e vi agganci la sua insidia scissionista. Lo stesso articolo, anche se firmato con nome e cognome, ma pubblicato su un foglietto qualunque, lo stesso articolo pubblicato viceversa in un giornale come il nostro, ha un diverso effetto. A noi importa che i nostri avversari non possano utilizzare il vostro scritto per uno scopo diverso da quello che era nel fondo del vostro cuore. Per cui faremo nuovo appello anche prossimamente a tutti gli amici e se è necessario aumenteremo le pagine de la Discussione perché tutti possano stampare quello che vogliono, purché naturalmente si tratti di cose serie: lasciamo la porta aperta, ma le cose devono avvenire in libertà, sì, ma anche nell’unità. Ora unità vuol dire non lasciare credere agli avversari che si possa andare tanto avanti da mettere in causa addirittura la compattezza del partito. Dunque, libertà nell’unità e, aggiungo, libertà nella responsabilità. C’è poco da scherzare. Oggi siamo tutti necessari. Oggi l’unità è assolutamente necessaria. Non soltanto deve esserci, ma occorre che sia evidente. Ecco perché nelle nostre manifestazioni dobbiamo preoccuparci di che cosa diranno e come potranno utilizzare i nostri avversari le nostre affermazioni. Non mi pare, amici miei, di essere troppo reazionario o conformista e di aver cercato di imporre un giogo alla vostra libertà. So benissimo che i partiti, bene o male, devono passare attraverso la trafila delle discussioni. Nella vita parlamentare è la stessa cosa. Si ripete troppo spesso che «la situazione è grave». Ma questa volta è veramente grave. Non sono pessimista, perché altrimenti non avrei potuto resistere alla vita che ho fatto. Sono uomo di battaglia e domani ricomincerei, se la mia età lo permettesse, con lo stesso ardore della gioventù. Però siamo arrivati ad un punto in cui ogni sforzo è doveroso e sacrosanto ed ogni energia deve essere richiamata, perché non c’è scampo. Bisogna guardare in faccia il pericolo ed affrontarlo a qualunque costo. Nessuno ha il diritto e neanche la possibilità di sfuggire a questo destino. Siamo destinati a difendere la libertà nel nostro paese. L’abbiamo fatto dieci anni fa nei momenti critici e gravissimi. Bisogna continuare a farlo anche ora. Non si tratta come allora di esistenze personali: ma si tratta come allora di spirito, dell’avvenire, della vita del nostro paese.
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Ci siamo trovati in un momento, governo e partito, di particolare debolezza. Anche giornali vicini al governo hanno seguito l’andazzo comune, vuoi per ragioni professionali, vuoi per ragioni [non leggibile], vuoi per minor fede e convinzione da parte di qualche imprese editoriali. Vuoi della Magistratura. A cura di chi è stato fatto il processo? A cura dello Stato che ha preso l’iniziativa, manda via il suo capo della polizia e pur tuttavia le cose si sono rovesciate! Deplora che ci è mancato un solo organo di stampa che avesse assunto un atteggiamento fermo e obiettivo. Il solo Popolo, ma è stato insufficiente. D’altra parte da tempo gli avversari hanno l’iniziativa e prima di svincolarsi da una campagna già ci attaccano con altra campagna. Ci associamo al governo sul caso Piccioni? No, perché il nostro atteggiamento è già stato preso. Invece quello che ci riguarda è il caso Spataro: dobbiamo dimostrargli la nostra solidarietà e stima e renderla pubblica. […] 1)Riferimento al caso Piccioni – associarsi o prendere atto con soddisfazione dell’atteggiamento del Consiglio dei ministri nel loro confronto; 2)Spataro; 3)Aggiungere che ci sono sette querele in corso – il processo durerà ancora molti mesi – bisogna armarsi di pazienza. La prima stretta sarà l’inchiesta parlamentare intesa quindi a valorizzare l’inchiesta governativa. Inchiesta sul traffico sugli stupefacenti spetta proprio al governo. Tutto ciò ci vuole attenti che le procedure in corso vadano avanti (accertamento delle colpe), responsabilità eventuali della Magistratura. Inchiesta De Caro che dimostri la capacità del governo democratico a ristabilire la verità e a colpire le responsabilità. Fenomeno grave e problema delicato per tutti gli uomini politici e le loro famiglie. [Dopo alcuni interventi, Ceschi sottolinea «la necessità di riprendere e osservare una maggiore austerità di vita», riferendosi alle principali accuse sollevate, quali «la corsa all’appartamento, il finanziamento alle cooperative dei parlamentari, l’aumento delle indennità, ecc». «La nostra battaglia – egli precisa – è soprattutto a carattere morale»]. Bisogna essere tempestivi. Oggi sarebbe controproducente. Comunque non bisogna esagerare. Ci sono degli abusi (appartamenti) però non così estesi come si può pensare. Accesso alla legittimità di certi privilegi di cui godono gli uomini politici che hanno servito per lunghi anni lo Stato. Ci sono dei limiti a queste remore. Comunque meditiamo sulle cose dette da Ceshi, tenendo però conto che oggi la vita moderna si svolge su piani diversi dai quali non possiamo estraniarci senza porci in condizioni di inferiorità di fronte agli avversari (p.e. come si fa a non andare in macchina quando gli altri ci vanno ecc. ecc.). Comunque oggi non è opportuno parlarne anche perché ci sono dei limiti da rispettare. [Dopo alcuni interventi, l’on. Moro si sofferma sulle dimissioni del ministro Piccioni e propone di confermare la stima della Direzione «non all’uomo di governo, ma all’uomo di partito»]. Non si può ignorare le posizioni di governo di Piccioni nel quale occupa un posto di responsabilità in forza di una designazione del partito. [La Direzione centrale procede quindi ad esaminare la «vertenza Togni-Fanfani»] . Distinguere. Non è in discussione l’atteggiamento politico di Togni. Accettare la soluzione conciliativa proposta al Collegio lascia impregiudicata la nostra possibilità di esaminare le posizioni politiche dei nostri amici quale quella di Togni, quella dei sindacalisti, quella di Gronchi rispetto al periodico Politica Sociale. C’è la questione della stampa di partito. Tre periodici hanno aderito a cessare le pubblicazioni (Il centro – Battaglie d’oggi – La Base). Sono rimasti fuori: Forze Sociali e Politica Sociale. A Montecatini T.[erme] si sono riuniti a convegno il 13 e 14 corr.[ente] gli amici di Forze Sociali. Ne parlammo nel primo Consiglio nazionale con la massima larghezza e comprensione, ma con eguale fermezza. È difficile trovare la dottrina giusta in questa materia la quale si dipana meglio con contatti formali. L’invito alla Cisl per la Consulta di coordinamento è stato accolto e riscontrato con un «ni», mentre si sa che i sindacalisti proseguono un [omissis]. [Gli on.li Moro e Spataro intervengono sul «caso Rapelli» e si pronunciano affinché il Consiglio nazionale, attestata la gravità dell’atto di indisciplina commesso, esprima un giudizio sulla proposta di sospensione dalle cariche, senza accettare alcuna difesa preventiva]. Che si facesse questo. La Direzione propone una sua decisione e chiede al C.[onsiglio] n.[azionale] che si proceda ad una designazione di due persone che esaminino il caso e nel frattempo Rapelli non partecipi alle discussioni. [Dopo alcuni interventi, la Direzione decide di adottare la formula proposta da DeGasperi]. Nella relazione del segr.[erario] politico sarà trattata la questione della stampa di partito genericamente. [L’on. Moro chiede che vengono deplorati almeno i due periodici Il Centro e Battaglie d’oggi, «distribuiti in Aula anche nel momento della fiducia» al governo Fanfani e perciò determinanti nell’influenzare l’esito del voto]. Posso sottomettermi alla Direzione ma credo che più genericamente si parla della questione e meglio è perché altrimenti si abbassa subito il tono del C.[onsiglio] n.[azionale]. Non crede che le pubblicazioni siano state tali da influire decisamente. Sono stati i socialdemocratici a opporsi per motivi ovvi: se riesce Fanfani cosa ci stiamo a fare noi? [Nella seduta pomeridiana, il vicesegretario politico Spataro «dà lettura della comunicazione a carattere amministrativo che farà alla prossima sessione del Consiglio nazionale»]. È opportuno avere fatto per ora le cifre in Direzione (vedi relazione Spataro). Però la situazione va fatta conoscere nella sua gravità al Consiglio nazionale. Propone un Comitato [composto] di 2/3 [di] persone fuori della Direzione che si impegni in questa materia. Dovrebbe farci parte anche Restagno il quale sa molto del passato. Distinguere: Commissione per la sistemazione del passato finanziario e Comitato per l’organizzazione dei mezzi per i bisogni futuri. […] Al Consiglio nazionale dovranno farsi delle comunicazioni sommarie e invitarlo a nominare due o tre persone che esaminino la situazione e agevolino il cammino per il presente e il futuro. […] Crede che si debba precisare cosa il C.[onsiglio] n.[azionale] passato (30 sett.[embre]) ha ereditato sul piano finanziario e che cosa è stato fatto da allora a oggi e quale la situazione ad oggi. Si conclude di chiedere al C.[onsiglio] n.[azionale] la nomina di una Commissione che esamini il passato e dia suggerimenti per il futuro, e di esporre sommariamente – senza citare cifre – la situazione finanziaria passata e presente. [La Direzione passa poi ad analizzare il metodo di elezione del Consiglio nazionale, su cui riferisce Cesare Dall’Oglio: «1) accettazione della candidatura – candidatura unica – pluralità di liste – panachage; 2) accettazione delle candidature comunque presentate – formazione di due listoni (parlamentari e non parlamentari) – libertà per l’elettore di scelta del candidato del listone»]. Stabilire l’obbligo dell’accettazione della candidatura. […] Siccome il Congresso viene fatto a Napoli non si può non mettere all’o. d.g. il problema del Mezzogiorno il quale potrà e dovrà essere trattato in un’apposita sezione. Accetta anche l’idea di trattare il problema della cultura suggerito da Moro, Tre sezioni: problema culturale; problema del Mezzogiorno; problema agricolo.
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Caso Rapelli (colloquio De Gasperi-Rapelli): 1)accetta la sospensione di tre mesi del partito; 2)chiede di poter affacciarsi ai lavori dei C.[onsiglio] n.[azionale] senza prendere la parola, qualora non lo chiamino in causa; 3)il provvedimento della Direzione non viene comunicato. [L’on. Moro domanda cosa succederebbe nel caso in cui qualcuno sollevasse l’ultima questione dinanzi al Consiglio nazionale]. Ma si spera che nessuno lo faccia, se lo farà comunicheremo la deliberazione presa dalla Direzione. […] Ci ha parlato perché credeva di avere capito che lui non avrebbe partecipato più ai lavori se il C.[onsiglio] n.[azionale] non si fosse occupato di lui formalmente in seduta. Bisogna tener conto dell’uomo e quindi usare la maggiore cautela per non suscitare incidenti che turbino i lavori e diano un’impressione deleteria all’esterno. […] Siamo davanti ad un caso che dato l’uomo non pare debba diventare significativo. Conviene ingrandirlo? È vero che l’infrazione formale compiuta da Rapelli è evidente, ma quant’altre infrazioni sostanziali non sono avvenute durante la crisi anche da parte di un vicesegretario politico del partito e che pure fa parte del C.[onsiglio] n.[azionale]. Abbiamo avuto tanti peccati veniali durante le crisi, ma questo infine – sia pure formale – riguarda uno dei nostri amici più bizzosi e conosciuto per tale. Conviene approfondire questo solco pur tutti d’accordo che si tratta di un grave atto indisciplinare. […] Conclude: vuol dire che se Rapelli interviene ai lavori gli dirò che non sono riuscito e che la sanzione però va comunicata; oppure gli dirò che non intervenga.
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È l’anno delle decadi, delle celebrazioni decennali. Talvolta esse possono riuscire pretenziose, esagerate più che ricordi sereni ed ammonitori. Ma se, al di fuori di ogni vanto, la commemorazione si elevasse ad una considerazione sintetica di un intero periodo, allora è come se, superando la visuale quotidiana, salissimo su di una altura e da questo osservatorio riesaminassimo in più ampia prospettiva uomini e cose. Sarà perciò utile forse in occasione ed in preparazione del prossimo Congresso, di fare il punto sul nostro decennale cammino. Questo esame retrospettivo ci riporterà alle origini del nostro movimento, renderà evidente anche per i più giovani le condizioni storiche ambientali, in cui abbiamo dovuto sperare e per quali esigenze e per quali impulsi nacquero le caratteristiche propagandistiche e operative del nostro partito. Oggi vorrei solo ricordare che in quei tempi durissimi non abbiamo mancato di coraggio, che abbiamo affrontato con tenace vigilanza il rischio quotidiano di una politica che correva sul rasoio di una alternativa di libertà o di dittatura, che non venne mai meno la speranza nel nuovo Risorgimento e la fede nel destino del nostro paese, pur nelle strette del bisogno e nell’angoscia delle dimostrazioni, e soprattutto che non abbiamo perso di vista i problemi centrali della nostra azione. Vorrei che i più giovani rileggessero la dichiarazione programmatica proclamata solennemente al Congresso di Napoli il 30 luglio 1944. Ne cito i passi più importanti: «il partito della Democrazia cristiana risponde a due insopprimibili esigenze della vita politica italiana: la prima che nonostante le apparenze il problema della ricostruzione è problema essenzialmente morale: senza una ripresa della coscienza morale di tutte le classi del popolo italiano, la ricostruzione materiale e civile è impossibile e, anche se fosse realizzabile, riuscirebbe opera effimera per la corruzione interna che continuerebbe a rodere e distruggere i tessuti dello stato nuovo» . «La seconda esigenza è che la rivoluzione politico-sociale che si va compiendo e che noi vogliamo per ragioni di giustizia e per portare tutto il popolo al governo di se stesso nella politica, nell’economia, nel lavoro, si debba attuare rispettando e salvando i diritti supremi della persona umana, e tutte le libertà essenziali per il suo sviluppo Nelle più ardite riforme e in ogni direttiva di regime la Democrazia cristiana risponde a questa esigenza con l’impegno più fermo di difendere la libertà delle coscienze e degli istituti nel metodo della libertà nelle competizioni civili» . «Nessuno si illuda; se domani la legge fosse minacciata e violata e si profilassero volontà sopraffattrici e dittatoriali, non si ritenga di passare su noi come su quello che una volta si qualificava “trepido pecorume clericale”; non ci lasceremo sorprendere, come si lasciò sorprendere il paese nel 1922, e alla minaccia che ci venisse da destra o da sinistra opporremo tutta la resistenza attiva e passiva di cui il nostro popolo sarà capace» . Né questa fu una fiamma passeggera. Alcuni mesi dopo, chiudendo una seduta del Consiglio nazionale, invocavo dai nostri uno stile di militanti con queste parole: «durante il periodo delle cospirazioni e più ancora là ove i nostri combattono tuttora contro i tirannici dominatori, la Democrazia cristiana ha preso veste, gesto e anima di combattimento. Bisogna che questo stile più duro, più deciso, proprio di chi accetta il sacrificio, permanga anche al di là del periodo clandestino e della guerriglia» . Sentite ancora: «si fa un gran parlare dei mezzi finanziari di cui dispongono le organizzazioni di altri partiti. Inutile indagare se e quanto ciò sia vero, ma è certo vero che alcuni partiti estremi possono servire ai democratici cristiani di esempio per la loro combattività, per lo spirito di abnegazione che li anima e per l’assoluta disciplina che li nega». E concludevo: «se si presume di concorrere con questa gente, mantenendo i metodi di avidità che furono propri di certi ambienti borghesi-clericali di un tempo, si rimarrà ben presto in coda e si morderà certamente la polvere. Come si è combattuto ieri così bisognerà battersi domani con la forza della disciplina, con la fermezza delle convinzioni, con la volontà inesorabile di raggiungere la meta» . A questa chiarezza di visuale, a questo stile ci richiamammo anche a Milano nel primo comizio dopo la Liberazione. Molti ricorderanno i primi incontri, il primo soffio di quello che disse il vento del nord. Quando rileggo le parole allora pronunciate, mi pare ancora di rivivere l’ansia di quei giorni. Dicevo in Milano appena liberata: «che cosa sarà di qui a ottobre quando l’atmosfera di ebollizione di questa caldaia che è l’Italia sarà ancora salita; quando, fatalmente, non avremo ancora superata la crisi della disoccupazione, quando i nostri che ritornano, deportati o prigionieri – e già bussano alle porte – irromperanno sul territorio metropolitano della patria?» . «…Domani saranno forze centrifughe, forze ribelli, a cui bisognerà rivolgersi con pazienza e con l’animo aperto tenendo conto dei sacrifici da loro fatti. Che immenso lavoro da compiere! I giovani che possono buttarsi nei comizi, andranno incontro a questi nostri fratelli per guadagnarne l’animo, per non perderli. Gli anziani li sorreggeranno nelle loro famiglie e nelle loro aziende. Compito immenso! Ma che vanto, anche per gli anziani di spendere gli ultimi anni della vita in una grande battaglia per una grande meta: salvare il popolo italiano!» . E poiché i partigiani presenti si lagnavano che nella costituzione del ministero io avessi «ceduto il passo a Parri», aggiungevo che quella era stata una scaramuccia che la battaglia vera veniva ora, che essi avrebbero dovuto agire come la guardia pacifica della libertà. «Ve ne rivolgo formale appello: non disperdetevi, non venite meno alla solidarietà tra voi che è solidarietà non solo di ricordi, ma può anche essere garanzia di opera pacifica e vigorosa in difesa della libertà» . Libertà, libertà: non fu davvero una parola vana. Essa diresse le nostre preoccupazioni nella formazione dei ministeri, ispirò i lavori della Costituente, nelle battaglie elettorali fu la nostra insegna, giustificò coalizioni all’interno e alleanze all’esterno e infine è riapparsa sulla bandiera del nostro europeismo che è per noi lo sforzo di liberarci dalla angustia delle nostre scarse fortune e inique frontiere. In verità la «Federazione dei volontari della libertà» dedicando in Campidoglio una medaglia alla Regina Libertatis, presidium Italiae, ha convalidato anche la nostra opera, non scevra di errori e debolezze, ma tutta impregnata di questa profonda aspirazione alla libertà che si riallaccia allo spirito nazionale del Risorgimento, ma che risale ancora più addietro, attraverso quelli che il De Rossi chiamava i cunicoli catacombali della storia, indietro, di secolo in secolo fino a tutti i difensori e vittime della libertà delle coscienze contro la tirannia dello Stato. So bene che nell’attività di governo, nell’impegno della ricostruzione e della amministrazione questa nostra stella polare della libertà non ci potè salvaguardare da errori, insufficienze e talvolta deviazioni; ma nessuno ci può negare che nei momenti più decisivi, assai influì sulle nostre decisioni e valse spesso a determinarle. La ricerca continua e tenace della partecipazione al governo di partiti liberali e laici, non sempre rappresentati da uomini immuni da anticlericalismo, il ripetuto tentativo di associare nella difesa del regime libero i socialdemocratici, la distinta e differente considerazione anche delle varie opposizioni, tutto ciò si spiega con la partecipazione fondamentale, quella di consolidare in Italia la Democrazia libera. È al medesimo fine che si impegnò la stessa lotta per il sistema maggioritario, mezzo democratico e legale per aumentare il margine di sicurezza. Il sistema potè essere oggetto di critica nei suoi termini concreti, ma ora che la battaglia è passata e si può giudicare più serenamente, ogni uomo ragionevole dovrà ammettere che il tentativo di costituire alla Camera una maggioranza salvaguardando però le minoranze (come non avrebbe potuto fare l’uninominale nella stessa misura), non fu né una contraffazione del suffragio universale, né un colpo di Stato. Disgraziatamente fu facile insinuare il sospetto che la meta vera fosse di creare una maggioranza assoluta «clericale»; benché ciò contrastasse con la linea da noi tenuta per quasi un decennio. Tale sospetto, alimentato dalle disgraziate vicende del giugno, gettò un’ombra anche sui ministeri minoritari venuti poi. La vigilia del Natale ’53 quando l’on. Pella annunciò un rimpasto e una bonificazione del suo governo, la stampa di sinistra prese a tirare palle infuocate contro la «cricca degasperiana»; un giornale paracomunista (24 dicembre) scriveva letteralmente: «è difficile riscontrare nella vita del nostro paese episodi più sciagurati di questo…» e rilevava «l’amoralità dello scandalo» . Nella stessa pagina c’era tutto intiero il comunicato sovietico della fucilazione di Beria, senza una parola di commento. Nella stessa vigilia l’Unità scriveva nel fondo: «possibile che l’on. De Gasperi non senta l’onda sdegnata e sprezzante che nel paese gli si leva contro?». E continuava: «De Gasperi non ha smesso un minuto dal porre tutti i bastoni possibili nelle ruote del governo seminando la confusione, accrescendo i disordini in Parlamento, impedendo accordi e transazioni forse possibili» . Tutta questa campagna era fondata su informazioni false e presupposti inesistenti, ma sciaguratamente perfida e tenace che taluno dei nostri amici, più lontano dagli avvenimenti e dai protagonisti ne rimase turbato. Ora dopo tanto tempo e dopo che l’episodio ha passato il vaglio dei gruppi parlamentari e della pubblica discussione credo superflua e dannosa la ricostruzione di episodi superati, ma forse merita rilievo la questione della competenza del partito, e dei suoi limiti. La questione, come avviene in simili casi, non si presentò subito chiara e nella sua formulazione definitiva; ma nella sua fase decisiva fu questa: salva e riconosciuta la prerogativa costituzionale del presidente del Consiglio nel proporre le nomine dei ministri, si poteva ammettere che un presidente Dc procedesse ad un rimpasto senza previa consultazione degli organi direttivi del partito? La prima subordinata fu circa il carattere e la dimensione del rimpasto. Se questo fosse stato incisivo e notevole, tale da interessare la qualifica del governo, la consultazione preventiva secondo la Direzione sarebbe stata necessaria. Se poi le modificazioni avessero avuto per scopo la creazione di una maggioranza precostituita (il che nel caso concreto era possibile solo verso destra), si sarebbe sempre, secondo la Direzione, dovuto consultare il Consiglio nazionale la cui direttiva era stata per governi nell’ambito del centro. Per quanto riguarda il mio personale avviso, debbo dire che io sostenni doversi conciliare due rapporti, quello costituzionale e quello dello spirito statutario del partito, che impegna con particolari vincoli i deputati che ne hanno accettata la disciplina. È vero che il presidente ha il diritto di proporre la nomina dei ministri, ma è anche vero che i membri del partito non possono accettare incarichi politici, se non di intesa implicita o esplicita col partito. La conclusione quindi, comunque la si consideri, ci porta sullo stesso binario, sulla necessità cioè di uno scambio preventivo di vedute che da una parte dia modo alla Direzione o a chi per essa di esprimere il suo parere e dall’altra al presidente di garantire l’appoggio del gruppo parlamentare. Quando poi invece di rimpasto si trattasse di crisi, lo Statuto prevedeva senz’altro l’intervento della Direzione. Comunque, come è noto, il disparere rivelatosi durante il rimpasto non riguardò il principio generale di procedura, ma un caso concreto, reso difficile dalla insidiosa ingerenza della stampa avversaria e forse da insufficienti informazioni. Di tutte le polemiche accesissime che seguirono, nelle quali certa stampa ci rovesciò addosso un cumulo di perfide insinuazioni, ora non è rimasta [che] la cenere di una crisi che entrambe le parti avrebbero inizialmente voluto evitare, ma finì con l’imporsi, attraverso il travaglio di una logica tormentata, sotto gli impulsi di una situazione parlamentare che non lasciò tregua, finché i mutati presupposti non resero possibile la ricostituzione di una maggioranza, oggi facilmente raggiunta. Nessuna meraviglia che in questo torchio di una crisi discussa anche il partito sentisse la pressura e ne fosse turbato: ma non ne fu scosso. E qui mi è grato di ricordare le parole di congedo del presidente Pella nell’ultimo suo Consiglio dei ministri quando disse: «se finora continuando come capo del governo ho parlato più spesso del paese che del partito, riaffermo che d’ora innanzi il mio ideale e il mio proposito è quello di servire lealmente il partito». Giusta affermazione, in quanto il partito non è inteso come un’organizzazione estranea al regime parlamentare, ma come è e deve essere, strumento di volontà collettiva al servizio dello Stato democratico, sia in Parlamento che al governo, sia in tutte le manifestazioni della vita pubblica. Che il partito avesse resistito alla cartacea bufera risultò soprattutto dal comodo di presentarsi del governo Fanfani, il 26 gennaio. Fu un atto di coraggio e di responsabilità che preparò e spianò la via ad un ulteriore sviluppo, una diffida ai pavidi e agli incerti, una sfida alle minacce degli estremi. «Siamo – disse – ad un punto cruciale, in cui occorre fermezza e coraggio. Questa fermezza e questo coraggio il governo li avrà. Vuole dimostrarvelo oggi, con il suo programma fatto di propositi e di disegni di legge: domani con la sua azione tempestiva, organica, continua, indipendente da giudizi di parte e vincolata soltanto agli interessi supremi della patria italiana. Per operare secondo i propositi suoi il governo ha bisogno del vostro consenso. E lo chiede a tutti quei gruppi, che – subordinando le loro particolari pregiudiziali agli interessi generali dell’Italia – si sentono di concorrere disinteressatamente e patriotticamente agli sforzi del governo per la difesa delle libertà garantite dalla Repubblica, contro la minaccia reale e grave della miseria e dell’ingiustizia e contro i pericoli – velati ma non meno consistenti – di progressi di una ideologia estranea alle nostre tradizioni» . E Fanfani trovò attorno a sé il gruppo parlamentare compatto e deciso e quando il segretario politico prese la parola per esprimere la sua convinta solidarietà, il consenso di tutti i democratici cristiani fu entusiastico. «Il paese – disse allora – assiste stupito e preoccupato a questa incapacità della Camera attuale di dare al paese un governo con base stabile. Fallace è il tentativo di riversare la colpa di questa paralisi parlamentare sul partito di centro. La Democrazia cristiana dal luglio in qua ha sacrificato per la causa democratica comune i suoi uomini più esperimentati e più in vista ed ha dovuto portare tutte le responsabilità, perché gli altri partiti non seppero accordarsi per condividerle» . Dopo essermi riferito in particolare alla situazione del luglio, continuai: «anche questa volta come allora la speranza fu delusa e ora Fanfani si è presentato come allora con un “ministero di attesa e di lavoro”, ma in confronto del mio, con un progresso notevole di programma e d’azione, con un’armatura di progetti di produzione e di investimenti, già maturi e finanziati, con uno sforzo concreto per dare lavoro a centinaia di migliaia di disoccupati. Quest’uomo ha al suo attivo un’esperienza, specie nei dicasteri del Lavoro e dell’Agricoltura ed ha attuato riforme sul serio, e poiché come presidente si dedicherà per intiero al coordinamento e all’impulso della realizzazione, può riuscire davvero a dare una nuova impronta alla nostra economia; ebbene non bisogna sbarrargli la via» . L’esperimento non riuscì, ma non fu vano. All’interno ricostituì l’unità che nella crisi era andata perduta; nei rapporti coi partiti democratici fece toccare con mano l’identità programmatica sociale con la socialdemocrazia – ricordate lo scambio di lettere con Vigorelli –, fece fronte coraggiosamente all’opposizione estrema: preparò così la via alla coalizione. L’unità democratica cristiana manifestatasi intorno al ministero Fanfani fu il superamento di vari impulsi intervenuti che, a parte le intenzioni, sembrarono secondo l’interpretazione avversaria di minacciarla. La Direzione aveva votato il suo ordine del giorno sulla crisi che portò all’incarico di Fanfani il 7 gennaio ; l’8 uscì un appello della Cisl, diretto ai quattro partiti democratici, con alcune «indicazioni operative» per la formazione di una maggioranza parlamentare e di un corrispondente governo . Né la tendenza in genere verso la formazione di un governo democratico né, in particolare, i postulati sindacali e le istanze delle categorie nella Cisl rappresentate e qui formulate, potevano suscitare le nostre obiezioni. Ma il documento si presentava anche con una critica di fondo contro il centrismo, cui si rimproverava insufficiente capacità «di pensare l’azione politica in Italia, come un’azione da calarsi in strutture economiche, sociali, statuali, antistoriche superate e quindi di porsi come una forza politica veramente rinnovatrice, in luogo di isterilirsi in vari tentativi di mediazione del dilemma conservazioneprogresso» . Con tali tentativi, diceva il documento, si arriva ad un «immobilismo desolante», ad una mediazione insultante per gli occhi dei più. Questo linguaggio, eco non lontana di altre polemiche, era fatale venisse interpretato come atto d’accusa contro il principale e più centrale dei partiti democratici, la Democrazia cristiana. E così infatti la interpretò la stampa di sinistra e così la intese e la volle fraintendere Di Vittorio che due giorni dopo nel discorso di Pisa rilevava che «i Sindacati dei lavoratori, mediante un accordo tra loro, possono rendere un grande servizio al paese… i Sindacati riuniti potrebbero rivolgere un appello a tutti i gruppi parlamentari, perché sostengano un tale governo» . In verità non pare che la Cisl abbia interpretato il suo intervento come una nuova funzione politica del Sindacato, perché ad un certo punto essa afferma «la volontà di continuare ad operare sul piano suo proprio» per una completa rivendicazione dei supremi valori di libertà e di giustizia. Per parte nostra l’intervento ha acuito nel nostro animo la concezione non di ieri né di oggi che convenga ben definire il piano suo proprio su cui ciascuna forza si muove sia pure verso lo stesso fine che è quello del consolidamento del regime libero. Questa distinzione di funzioni, questa divisione di lavoro, si impongono in democrazia, specie quando la collaborazione reciproca è desiderata e necessaria quando le masse a cui ci rivolgiamo sono le stesse e la loro coscienza è una sola. Manifestazioni deplorevoli si ebbero in questo periodo anche in quell’orto di Renzo che è la stampa periodica di tendenza. Un periodichino, con un grande nome preannunziato da una agenzia il giorno 7 gennaio, parlava della necessità di mantenere l’unità del partito, ma nel secondo numero scivolava in un attacco violento basato su informazioni errate . Io credo che l’autore, conosciuto meglio lo stato delle cose, desideri oggi di non aver scritto ciò che, a ragion veduta, è insostenibile. Ma intanto questi fogli di piccola diffusione rappresentano una tentazione grande, quella di sfogare subito il proprio animo e in realtà, volere o no, da succursali della stampa avversaria. Che mi vale, ad esempio, richiamarmi alla mia non erronea coscienza e alle testimonianze di quanti assistettero all’opera mia, se un altro di questi giornali mi caricatura in atto di segare la poltrona ministeriale dell’on. Fanfani? Se così ardisce un organo che vuole essere democratico cristiano, come posso pretendere che i giornali di estrema sinistra e destra non facciano strazio della mia figura morale? Abbiamo discusso in Direzione sul da farsi. Vi proponiamo di fare un appello preciso e risoluto perché questi amici di una parte o dell’altra, rinunzino a questa grande tentazione. Ormai è chiaro che l’esistenza di un foglio acido, violento e pettegolo, diventa per il pubblico in genere «una crepa della Democrazia cristiana», un sospetto di scissionismo. Ho parlato con alcuni editori ed ho trovato comprensione per la proposta così formulata: i fogli particolari di tendenza sono sospesi. Il settimanale La Discussione per tutto il periodo che precede il Congresso aprirà le sue colonne, e allargherà il suo spazio per accogliere ogni articolo di libera ed onesta critica di qualsiasi sfumatura. Confido che gli editori e scrittori faranno a gara per dare la prova di quell’unità che tutti proclamano necessaria. Devo riconoscere che tale disciplina interiore va accompagnata dalla massima libertà di parola e di discussione in sede propria, cioè nelle riunioni del partito o nella sua stampa. Accettiamo, amici, in pieno la regola democratica con tutti i suoi vantaggi e con tutti i suoi rischi, ma soprattutto ristabiliamo tra noi un costume politico che corrisponda al precetto evangelico contenuto nel Padre Nostro: perdonaci Signore come noi perdoniamo ai nostri fratelli. Il pubblico, il paese ha diritto di giudicarci non dai nostri discorsi ma dal modo con cui applichiamo tra noi questa regola di fratellanza. Durante la crisi Fanfani per l’intervento imprevisto di un giornale importante di solito temperato e giudizioso, è stato sollevato un altro aspetto della disgraziata situazione italiana. L’editorialista aveva cominciato con l’affermare che «la Democrazia cristiana non è quel partito rigorosamente organizzato, che comunemente si crede. Alla crisi ideale fa purtroppo riscontro una crisi dell’organizzazione, propriamente detta. Fino ad oggi le grandi battaglie elettorali sono state sostenute dai Comitati civici, espressione dell’Azione cattolica; ma nessuno ignora che i Comitati civici non sono che le Parrocchie… questa Organizzazione, si voglia o no, impegna direttamente la Chiesa» . E poi lo scrittore domandava: «hanno coscienza di tutto questo, gli uomini politici della Democrazia cristiana, affannati come sono in miserevoli competizioni di carattere personale nella ricerca di equilibri che la pubblica opinione non intende…?». «Un governo monocolore d’ispirazione esclusivamente cattolica, è portato per necessità di cose verso l’involuzione clericale» . «Un partito cattolico non può fondare lo Stato, perché lo Stato è una formazione laica, è una concezione diversa da quella cattolica… La crisi è in questa impossibilità di impersonare due princìpi diversi della coscienza moderna: quello religioso che pone i fini ultimi della vita fuori di questo mondo e quello laico che è puramente terreno e si affida alla storia» . «La soluzione è nella sua permanente, leale collaborazione con i partiti della tradizione liberale e democratica italiana a prescindere dalla loro consistenza numerica» . Questo articolo riscosse la adesione ed il plauso de l’Unità , e noi in quel momento poiché non avevamo obiezioni di principio contro la pratica conclusione, cioè contro la partecipazione dei liberali e dei socialdemocratici, abbiamo rinunziato ad entrare in polemica. E sì che non ci mancavano gli argomenti, primo tra tutti quello che i liberali, sempre richiesti e sempre desiderati in tutti i miei ministeri, lasciarono il posto di loro propria volontà e non proprio per gli ideali del Risorgimento, e l’altro che io mai feci un governo monocolore se non dopo il 7 giugno, ma definendolo provvisorio e di necessità. Avrei potuto anche aggiungere: condivido l’opinione che in certe situazioni convenga dare al pubblico delle garanzie personali anche se non fossero indispensabili. Si comprende che Adenauer ritenga opportuno in questo momento di inviare in Vaticano un ambasciatore protestante; ma certo egli non ammetterebbe che per principio dovesse essere escluso il cattolico ed è assurdo affermare che un «partito cattolico» non possa fondare lo Stato, perché lo Stato è una formazione laica. Ma è anche assurdo e antistorico affermare che la Democrazia cristiana sia un «partito cattolico» (cioè come lo configura l’autore), un partito confessionale, emanazione dell’Autorità ecclesiastica. Evidentemente, questo in fondo dev’essere anche il pensiero dello scrittore, giacché per potere arrivare tuttavia alle sue conclusioni, egli ha bisogno di svalutare la forza e l’organizzazione della Dc, anzi di metterla da parte, attribuendo le grandi vittorie elettorali ai Comitati civici, cioè egli aggiunge, alle parrocchie, cioè alla Chiesa. Qui risorgono antiche idee, vecchi pregiudizi e argomentazioni anacronistiche che potevano valere, se mai, per le situazioni anteriori alla nascita della Dc. Oggi la situazione è chiara. Mentre i princìpi si affermano, si inculcano e si propagano, derivandoli dalla Autorità e dalla coscienza, le opere politiche, cioè l’esercizio dei diritti e poteri costituzionali nell’ambito della legislazione e del governo, si svolgono con metodo democratico, cioè con la responsabilità del cittadino entro lo Stato, che agiscono per mezzo del voto o degli organi elettivi o degli strumenti amministrativi. Finora non è mai avvenuto che le candidature o altre designazioni o i controlli politici avvengano al di fuori del bilancio democratico. Il credente agisce come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione e impegna se stesso, la sua categoria, la sua classe, il suo partito, non la sua Chiesa. La responsabilità è della organizzazione politica a ciò statutariamente destinata e non dei comitati o organismi di altra fattura che, per quanto benemeriti per la loro efficace opera di mobilitazione, non hanno mai preteso a funzione di rappresentanza e responsabilità politica. Ma anche un’altra conclusione bisogna tirare. Le nostre polemiche interne offrono il pretesto a svalutare la nostra azione di fronte al paese e a paragone di questa nostra attività chiassosa e nervosa e talvolta pettegola, il nostro sostanziale contributo alla difesa della libertà e allo sviluppo della nazione, il nostro spirito di sacrificio e di combattimento rimane ignorato, il lavoro organizzativo svalutato. Dunque anche qui, prima autodisciplina, autolimitazione dentro di noi, poi intesa su larga scala e in piena autonomia con le altre forze dello schieramento. Come sapete stiamo organizzando la consulta di tutte le associazioni a ispirazione cristiana. Abbiamo già la adesione delle Acli, dei coltivatori diretti, della Confederazione cooperativa, dell’UCID , dell’artigianato. Le altre seguiranno. Intanto l’unità interna tra noi deve essere programmatica e sostanziale. Se l’unità è necessaria, è anche necessaria la fusione in una unica direttiva programmatica delle varie forze dello schieramento. Non è artificioso lo sforzo di mediazione fra progresso e conservazione purché non produca regresso o stagnazione. Il fenomeno di questa incalzante alternativa è nella natura, nella storia, nel rinnovarsi delle generazioni. Il primo dovere: far largo ai giovani; il secondo: trasmettere loro la esperienza. Il partito si muove così verso nuove forme e iniziative, si affina, rettifica, si aggiusta a mutate esigenze. Né paralisi, né sclerosi, ma nemmeno febbre a 40 gradi. Il centro deve essere dinamico, propulsore, ma non deve perdere le ali perché anche queste sono indispensabili per tenersi in aria. Noi siamo qui per operare come comandos per rischiare uno sbarco, un’avventura, bisogna marciare avanti in un solo schieramento, altrimenti non si passa e, dispersi, veniamo battuti uno alla volta. Non possiamo fare il partito dei salariati o degli stipendiati, dei contadini o dei piccoli agricoltori o dei sindacati; bisogna che rappresentiamo tutta la nazione, in quanto essa attende da noi; perciò dobbiamo affrontare soluzioni poliedriche che tengono conto di tutti i fattori popolari, e finché la società è così strutturata in classi diverse che si evolvono, si fondono e si trasformano, cerchiamo le convergenze che significano: vantaggio per i più poveri e i più numerosi, concorso dei fattori di produzione. Il nostro interclassismo non è ambivalenza statica, significa cooperazione dell’azienda, esercizio responsabile del diritto di sciopero (e nella distribuzione del reddito), riguardo preferenziale ai disoccupati e ai più miseri. La concorrenza nelle rivendicazioni non basta e non riesce; bisogna portare innanzi nella lotta elementi costruttivi, discriminazioni positive. Attrezziamo su questo terreno il lavoro programmatico costruttivo della Cisl, né trascuriamo gli elementi tecnici raccolti e aggiornati dalle rappresentanze professionali. Occorre misurare con occhio realistico le possibilità di governo, le capacità dell’amministrazione pubblica, imporsi un programma d’azione che accanto alle soluzioni ideali contenga le realizzazioni possibili, immediate o graduali. A questa opera di aggiornamento programmatico avviato da tempo, ma intercorso ripetutamente dalle crisi sopravvenute, lavoriamo in contatto con le Associazioni di categoria e pensiamo che debba perfezionarsi in occasione del Congresso, il quale non dovrà essere solo un atto di volontà collettiva, ma offrire un contributo operoso al nuovo bilancio rinnovatore del presente governo presieduto dall’amico e collaboratore onorevole Scelba, governo che ci proponiamo di appoggiare con lealtà di propositi e unità di sforzi. L’esperienza ci dice che le sole opere di riforma non bastano, che anzi se alle opere non si accompagni la forza dell’idea e della parola esse possono, politicamente e socialmente, inasprire i conflitti sociali, introdurvi nuovi fermenti di disagio e di ribellione. Una idustrializzazione precipitata, una concentrazione affrettata di lavori manuali in opere pubbliche, per il loro stesso carattere, limitate nel tempo e nel luogo, possono peggiorare lo stato d’animo dei lavoratori, se allo sforzo del lavoro non si associa uno sforo di informazione e di educazione. Altamente lodevoli sono perciò le iniziative del governo a mezzo della Cassa del Mezzogiorno di creare scuole di mestiere ed organi assistenziali. L’azione dei partiti democratici dovrebbe concorrere a questa opera di illuminazione. Non è facile, perché essa esige disponibilità di mezzi notevoli e perché siffatti mezzi sono invece a disposizione del cosiddetto lavoro di massa comunista, che concentra i suoi sforzi nel meridione. Niente di più terribilmente istruttivo di quello che avviene nella riforma agraria. I comunisti hanno votato contro la legge, ma ora, mutando tattica, si presentano ai contadini come rivendicatori dei loro diritti in confronto degli enti di riforma. Gli onorevoli Milillo , Miceli , Grieco, dopo aver tuonato nella Camera contro la legge Sila e la legge stralcio, ora sobillano gli assegnatari delle terre contro gli enti che le hanno loro affidate e cercano di costituire cooperative per la ««democratizzazione» ossia per la comunistizzazione degli enti, contestando ai tecnici di fissare le modalità e l’indirizzo dei lavori agricoli ed accusandoli (sic!) «di prendere i prodotti con la violenza, lasciando gli assegnatari senza un chicco di grano per la famiglia e gravemente indebitati». Il nuovo grido è: bisogna cacciare i tecnici e mettere alla direzione «gli amici dei contadini». Pazienza, se questa odiosa campagna si limitasse a rilevare eventuali errori, ma essa utilizza le critiche di singoli episodi per sovvertire tutta la situazione. Si arriva persino a pretendere che la casa costruita per gli assegnatari venga prima esaminata in progetto da ogni assegnatario, perché corrisponda alle sue esigenze e persino si protesta contro l’obbligo di risiedere permanentemente sul fondo, come se ciò equivalesse a tornare allo Stato dei servi della gleba. Così tutti gli istinti più retrivi vengono sfruttati, per demolire un’opera grandiosa di riforma che, naturalmente, nell’attuazione potrà incorrere in qualche errore, ma globalmente considerata è un vanto dei nostri tecnici. Dovremo parlarne in particolare nel Congresso di Napoli; ma intanto valga l’esempio per concludere che le riforme bisogna farle, perché lo richiede la giustizia sociale; ma esse riusciranno sterili se non saranno accompagnate da un’azione di difesa morale ed educativa. Questa in verità è una conclusione che vale per tutti i campi, per tutti i luoghi e per tutti i tempi e la cui formulazione più ampia si trova già nella sapienza degli antichi. «A che giovano le leggi senza i costumi?». Le sorgenti della nostra vitalità nazionale, della nostra capacità di rinnovamento nel senso di una maggiore giustizia verso i poveri, risiedono nella coscienza morale di ciascun cittadino. Se la coscienza è pura, se essa lotta contro quello che l’Apostolo chiama «superbia della vita», cioè l’egoismo dell’orgoglio e del piacere, se le classi colte e dirigenti danno esempio di austerità, di autodisciplina nell’uso della libertà e dell’agiatezza, allora la morale pubblica è sana, vigile, giusta nelle sue reazioni, perché la morale pubblica non è un riflesso della moralità personale di ciascuno di noi. Ecco che, trascinati tutti da qualche mese uomini e partiti, come in un vortice di socialità, di provvedimenti economici, di riforme strutturali, siamo indotti dalla realtà ad arrestarci pensosi innanzi al problema del costume, al problema delle forze dello spirito che è soprattutto il problema delle nuove generazioni. No, non vi è contraddizione fra la nostra passione di giustizia sociale, tra il nostro senso acuto e vivo di fraternità, fra la nostra fede nel regime libero e democratico e la concezione morale cristiana nella vita, non vi è contraddizione, ma l’una è complementare dell’altra, anzi l’una è condizione dell’altra. Perciò quanto al sostantivo di democrazia aggiungiamo l’aggettivo di cristiana, esprimiamo il pensiero che deve ispirare tutta la nostra vita, quella privata e quella pubblica.
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Prima di incominciare la discussione raccomanda che essendo il tema vasto e avendo la relazione toccato molti argomenti, pur non intendendo di limitare il diritto alla parola e il giudizio di ognuno, di trattare gli argomenti con consapevole responsabilità. Riassume la sua relazione per facilitare la discussione. Pregiudiziale: difesa del regime libero; forza unitaria del partito, necessità per la funzione della Dc; se non esiste è perduta anche la funzione. Congresso proposto come è noto, per fine giugno si deve fissare cosa deve dire il Congresso. Superamento della crisi governativa: rinunciare all’esame del dettaglio e guardare invece allo sviluppo della crisi. Egli fu partigiano della soluzione Pella a quel tempo ed ancora oggi ritiene che nessun’altra via era allora possibile. Quindi passaggio amministrativo prima, poi governo più qualificato (esigenze sociali) ed era il governo Fanfani come l’uomo più indicato. Si è verificato che la sventolata apertura sociale non era che una manovra di copertura dell’alternativa socialista. Il governo Fanfani ha prodotto una decisa presa di posizione da parte del Psd. Successivamente su questo slancio siamo arrivati al governo di concentrazione. Accenna all’intervento politico della Cisl in quanto precisato che non può approvarsi. La stampa di partito è stato un altro degli argomenti toccati e sottolinea che quando i liberi giudizi sono inquadrati in un organo a carattere genericamente unitario non sono sfruttati dagli avversari come può essere fatto togliendoli da fogli separati. Principio della maggioranza previa discussione in sede propria. Quale la questione che principalmente dovrà trattare il Congresso: programma economico, politico e sociale (relativo ai problemi del mezzogiorno). Il partito non arriverà mai a raggiungere [omissis]. Noi non siamo un partito cattolico in quanto i cattolici abbiano affidato esclusivamente alla Dc di rappresentare i loro interessi sul piano politico e tanto meno intendiamo impegnare la Chiesa con la nostra azione politica pur ispirandoci alla morale ed ai princìpi cristiani. Deplora l’abuso che si fa anche nel nostro campo dell’appellativo: «noi cattolici» . Siamo tutti cattolici specialmente in Italia che non è un paese misto e quindi diciamo: noi democratici cristiani. […] Per quello che riguarda l’infrazione formale della disciplina del partito avverte che è al punto 6 dell’o.d.g. che si trova l’argomento e accenna che fu per il caso Rapelli che la Direzione si è trovata a chiedersi se il suo provvedimento dovesse o meno essere ratificato dal C.[onsiglio] n.[azionale] in quanto Rapelli ne è un membro. Gli sembra che nella sua relazione l’allusione a Battaglie d’oggi fosse così trasparente da non aver lasciato dubbio alcuno in nessuno di coloro che ha [omissis]. […] Richiama l’assemblea sull’argomento finanziario toccato anche da Taviani, argomento che deve starci presente e che deve impegnarci tutti a contribuire alla sua soluzione. […] Sottolineando la stima che ha avuto e ha per l’Andreotti precisa che se ha invocato l’attenzione dei nostri sui rapporti alla periferia con i partiti minori è stato proprio perché la situazione si era rovesciata e quella collaborazione che prima era al centro e alla periferia si era poi spezzata al centro. D’altra parte la sua scelta è la più utile e una volta scelta deve essere mantenuta e salvaguardata con la maggiore cautela. È necessario imporsi una linea e perseguirla con lealtà e coraggio forti della nostra fede democratica.
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Il suo appello tocca il nostro più vivo e attento sentimento e il nostro maggiore impegno . Dopo aver constatato che questa volta non è avvenuto il solito sfruttamento della stampa indipendente forse perché in tutte altre cose affaccendata, però osserva che questo avviene solo da noi perché mai si è visto o sentito qualcosa di simile – trasmissione di notizie interne all’esterno o in occasione delle riunioni degli organi comunisti o sindacali socialcomunisti –. Occorre che quella stessa discrezione deve essere norma anche per noi ed evitare che i giornali che pure ci fiancheggiano, si divertano ad acuire e inasprire le nostre divergenze. Si tratta di un problema di metodo che bisogna però risolvere anche in mezzo a noi. La cosa è ancora peggiore quando si ricorre ad agenzie oppure si stampano cose da mandare poi agli amici. Chiede che il C.[onsiglio] n.[azionale] si esprima nel senso di impegnare tutti gli editori e scrittori [affinché] cessino la cura dei loro particolari periodici e trasferiscano nel settimanale del partito le loro trattazioni e i loro pensieri. Passa quindi alla replica degli oratori intervenuti nella discussione. Non ha obiezioni da fare contro lo studio delle idee che ha raccomandato Romani; ma avverte che non si è trattato tanto di crisi di idee ma di difficoltà di mezzi che forse non sono mancati alla Cisl. Siamo convinti che occorra aggiornarsi però esprime il dubbio che è difficile costruire la [non leggibile] del metodo da opporre al comunismo, la quale agisce dove si conoscono più la pratica che la ideologia del comunismo. Pastore esagera con le sue espressioni. Siamo su un piano di riorganizzazione, ma è stata proprio la precedente Direzione a impostare un lavoro di formazione ideologica e dottrinaria. Non si dica che mancano le idee e la loro circolazione. Toniolo è vecchio e dobbiamo aggiornarlo però non possiamo rovesciare i princìpi che enuncia. Nulla da opporre sulla necessità di rinnestare il nuovo sul vecchio ma si oppone alla tesi del ricambio della classe dirigente. Però Pastore non ha accennato affatto all’intervento politico dei Sindacati. Spera che questo tacere significhi la volontà di costituire un qualcosa che non urti ma si coordini. A Ravaioli rimprovera il modo con il quale è intervenuto nelle questioni e di non aver cercato la informazione per rendersi conto («sul fatto morale non c’è discussione: o esiste o non esiste») della certezza del suo convincimento. A Colombo dice che approva la sua proposta di costituire un Comitato che studi profondamente, senza interferenze di altri organi, i problemi del mezzogiorno per risollevarne le sorti morali, religiose e materiali. A Pastore dice che si compiace che egli abbia detto che si rallegra del tentativo di coordinare le forze collaterali. Si augura che ci sia con la Cisl quella collaborazione sostanziale che salvaguardando la rispettiva autonomia ci unisca nel lavoro. Pastore dice che il partito operi con vigore nel meridione. A lui diciamo senza invidia: faccia altrettanto la Cisl. […] Rispondendo a [non leggibile], osserva che dobbiamo mantenere il principio della collaborazione dei partiti democratici in ogni sede, si capisce laddove questi partiti esistono o ne esistono di simili. La collaborazione con un partito di sinistra dobbiamo farla non solo nell’interesse della Dc, ma della democrazia. Ringrazia coloro che gli hanno tributato un riconoscimento per l’opera da lui svolta in questo frattempo dopo non essere stato compreso al momento in cui si pose al servizio del partito, aiutato da Spataro che – dice – lavora più di lui e degli altri collaboratori. Dopo una breve parentesi per sottolineare che non bisogna dimenticare il principio della maggioranza democratica afferma che questo principio si impone per la chiarezza delle decisioni. Esamina i due o.d.g. che sono stati presentati. Entrambi approvano la sua relazione e il governo come è stato costituito. Si potrebbero votare per divisione ma, osserva, l’unica divergenza è sulla data del Congresso. Rispetto a questa data c’è la questione della composizione della Direzione la quale non per diritto ma per convenienza può essere modificata qualora si creda di spostare il Congresso all’autunno. Il resto dipende da questa data. Sulla elezione dei quattro membri da sostituire lascia liberi di agire come si crede. Esaminando le firme dell’o.d.g., trova quella di Gonella il quale ha innegabili meriti che solo per le contingenze non è stato cercato e come lui Restagno. I Congressi non risolvono i grandi problemi, sono dei termini, costringono ad una revisione e l’atto finale solo per la responsabilità dei partecipanti può non risolversi in una serie di chiacchiere. Porrà prima in votazione il primo e il secondo punto: approvazione della relazione e della formula governativa, che concordano; quindi la data del Congresso e necessariamente la questione della Direzione. Porrà poi in votazione un o.d.g. sulla stampa di corrente da lui presentato. Prima di passare alla votazione dà la parola al presidente del Consiglio dei ministri Scelba. […] Non registrate la parola ritardati. Voleva dire che gli altri amici si sono aggiunti dopo a quel voto negato nella sessione del settembre. A nome della Direzione accetta i primi due punti dell’o.d.g. Elkan e intende porli in votazione facendoli propri e viene presentata alla votazione come espressione del Consiglio nazionale e su suggerimento tecnico di Gronchi e con la firma di Elkan-Pastore. Pone in votazione e si ha il seguente risultato: 1) il primo capoverso posto in votazione viene approvato all’unanimità; 2) il secondo capoverso posto in votazione viene ancora approvato all’unanimità. Non respinge l’idea però non sa come motivarla; è per questo che desidera prima far votare sulla data del Congresso . Propone che una Commissione di studio consultiva si affianchi alla Direzione per trattare la serena preparazione del Congresso nazionale. Dovrà: 1) dare nello studio elementi di preparazione; 2) vigilare perché ognuno possa manifestare le proprie idee nel settimanale del partito. Della Commissione faranno parte gli ex segretari del partito e gli ex presidenti del Consiglio e il presidente della Camera.
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Nel Consiglio nazionale il dibattito è stato ampio, franco, responsabile e vi hanno partecipato una trentina di oratori d’ogni regione d’Italia. Vivaci, ma rari e subito dominati gli incidenti, generale invece la discrezione nell’esprimersi e manifesta la volontà di superare perfino la memoria dei critici avvenimenti sorpassati. Ciò che conta sono le conclusioni finali che riassumono il pensiero unitario del consesso. Due erano inizialmente gli o.d.g.: quello dell’on. Elkan e quello dell’on. Pastore. È stato confortevole e significativo che entrambe queste risoluzioni convergessero nell’esprimere approvazione alla relazione del segretario politico e fiducioso appoggio al governo Scelba; tanto che alla fine, constatata tale convergenza, il Consiglio ha potuto riassumere il suo pensiero, accogliendo ad unanimità un o.d.g. combinato Elkan-Pastore . L’approvazione unanime della relazione De Gasperi vuol dire che l’opera e la direttiva seguite hanno ottenuto al di sopra di ogni particolare tendenza il consenso fiducioso di tutte le parti, significa che è accolto da tutti l’appello all’unità nella libertà, che è di tutti l’impegno di trasformare ogni polemica interna in una dialettica, che deve svolgersi in sede propria, cioè in seno agli organismi del partito di ogni grado e nella sua stampa. È in particolare il nostro settimanale che è destinato a questa funzione di discussione e di orientamento. La relazione del segretario politico è divenuta così la voce del Consiglio nazionale stesso, nella equilibrata e pacata considerazione del passato recente, nella riaffermazione degli impulsi originari del nostro movimento, nel richiamo a tutto ciò che è essenza nucleare del nostro programma e sostanza della nostra storia. Oso quindi chiedere che gli amici leggano attentamente la relazione e ne facciano oggetto di discussione e di volgarizzazione. Il secondo punto dell’o.d.g. concordato esprime e motiva la fiducia unanime del Consiglio nel ministero Scelba. Badate bene: nel valutare le prospettive di questo governo, i più sono stati ottimisti e taluno ha espresso preoccupazioni circa la consistenza della coalizione, ma i molti ottimisti e i pochi pessimisti si sono trovati d’accordo nell’impegno di fare ogni sforzo per sostenere fiduciosamente e tenacemente l’attuale maggioranza, escludendo qualsiasi deviazione o debolezza. Confidiamo che i gruppi parlamentari seguiranno questo esempio e applicheranno rigorosamente la direttiva del massimo organo del partito. C’è stato invece disparere intorno alla data del Congresso. La Direzione, preso atto del desiderio espresso dalla periferia, aveva proposto la data del 27 giugno e come sede Napoli. Non si trattava però di questione di fiducia e l’Assemblea era libera – tale la dichiarazione del segretario politico – di stabilire altra data. Dopo breve dibattito la maggioranza, con voto nominale, si è schierata per la data del 27 giugno, mentre una notevole minoranza avrebbe preferito il rinvio all’autunno. Stabilito così il Congresso alla distanza di un periodo relativamente breve di preparazione, è sembrato evidente che il suggerimento avanzato da un gruppo di consiglieri di rinnovare su larga scala la composizione della Direzione, invece di integrarla nei quattro posti mancanti, non aveva prospettiva di accoglimento. I proponenti quindi, con gesto di apprezzata comprensione hanno ritirato la proposta e il segretario politico ha assicurato a sua volta che sugli argomenti da affrontare al Congresso avrebbe fatto una previa larga consultazione, rivolgendosi agli ex segretari del partito, agli ex presidenti del Consiglio Dc e al presidente della Camera, volendo così dare evidenza al fatto che pur mantenendo la responsabilità statutaria della Direzione, s’intende far tesoro di tutte le più segnalate esperienze. Rallegriamoci quindi, amici, di questa rinnovata vitalità del partito e prepariamoci con spirito di equilibrio e di risolutezza, con senso di fraternità generosa a guardare al Congresso, quale punto di partenza di un nuovo decennio nel quale agli impulsi ed ai germi fondamentali del primo si aggiungano i nuovi elementi richiesti dall’evoluzione dei tempi.
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Nel 1944 eravamo in una sala di questa stessa sede, dopo i disastri della guerra e agli inizi della immane opera di ricostruzione da iniziare. Sentimmo il bisogno di risalire alla fonte dei nostri princìpi, di riaffermare la nostra volontà; perché sapevamo che il nostro compito era duro e lungo. Bisognava ricostruire l’Italia, mentre era ridotta a un cumulo di rovine; occorreva tenere vivo lo spirito di combattimento che i nostri partigiani dimostravano ancora in Alta Italia nella lotta di liberazione dall’invasore straniero. Anche oggi siamo impegnati in un combattimento non meno duro e bisogna difendere con energia, con consapevolezza le nostre posizioni. Perché non si tratta di posizioni personali. Noi non abbiamo da difendere usurpazioni o privilegi. Per dieci anni abbiamo lavorato disinteressatamente per il popolo italiano. Oggi abbiamo qualche cosa di più da difendere: la libertà del popolo italiano, il libero avvenire dei nostri figli e del nostro paese. In questo compito dobbiamo porre tutto il nostro impegno mostrandoci compatti e coraggiosi. Cercando sempre tutto ciò che unisce ed escludendo quanto ci può dividere. L’on. De Gasperi rivendica quindi il vasto contributo che la Democrazia cristiana ha dato alla ricostruzione del paese durante un decennio e l’opera compiuta per salvaguardare il regime libero ed ordinato dell’Italia. Abbiamo la coscienza di avere assolto il nostro dovere. Ma dopo dieci anni non vi è sosta e la battaglia continua più dura e più aspra, perché non siamo venuti a patti con la violenza e l’insidia che preparano la dittatura, perché a qualunque costo abbiamo voluto salvare il regime libero. Se avessimo accettata o cercata transazione in attesa di ridiventare servi, verremmo ora esaltati come uomini aperti a ogni progresso, ma saremmo comunque ridotti a far la parte degli utili idioti. Non lo abbiamo voluto per tener fede alle nostre convinzioni democratiche, per non consegnare lo Stato ai nemici della libertà. Per questo non ci perdonano, per questo non hanno scrupoli e non badano a mezzi per combatterci. Se al tempo dei Cln abbiamo fatto delle concessioni, lo abbiamo fatto nella consapevolezza del momento critico, sempre animati dalla preoccupazione di salvare la libertà, per avviare l’Italia verso un regime parlamentare, in cui tutti fossero liberi, in cui vigesse il sistema democratico. Siamo poi stati coerenti e abbiamo sviluppato la politica estera del nostro paese per poterne tutelare la libertà e la sicurezza nella pace, prima con il Piano Marshall e quindi con il Patto atlantico. A questo punto l’on. De Gasperi ricorda che contro il Patto atlantico il comunismo sferrò una offensiva violentissima che avrebbe portato alla guerra. Era invece un patto difensivo e lo stesso Stalin ebbe poi a riconoscere in un suo discorso che la situazione era migliorata in senso distensivo. La distensione internazionale che si è avuta dopo il Patto atlantico si deve al rafforzamento difensivo del mondo occidentale, tale da comportare gravi rischi per un eventuale aggressore. Il segretario politico del partito si sofferma quindi a illustrare le vicende che hanno portato alla stipulazione del trattato CED, di cui ha sottolineato le caratteristiche strettamente difensive come premessa imprescindibile per realizzare l’Europa unita in una comunità politica ed economica, in cui l’economia ed il lavoro italiano potranno avere prospettive di respiro e di benessere. In quanto a Trieste noi speriamo che si addivenga ad una soluzione o al di fuori o in connessione col trattato della CED. Si stanno svolgendo trattative e vi è da augurarsi che si giunga presto a una soluzione pratica. Ma la questione non va posta come se il partecipare alla CED fosse una nostra concessione agli altri, da compensare con altre concessioni. Bisogna onestamente dichiarare che la CED è nel nostro interesse, per la sicurezza e lo sviluppo dell’Italia. L’on. De Gasperi rileva quindi che l’opposizione ai comunisti è determinata soltanto dalla loro obbedienza alle direttive della politica di Mosca. Per questo la battaglia è durissima: perché i comunisti mirano a rodere dall’interno la costituzione moderna degli Stati democratici in preparazione della dittatura bolscevica. A questa tattica appartiene anche la campagna scandalistica della stampa di sinistra per turbare l’opinione pubblica e per fuorviare certa parte di ignara e talvolta ingenua borghesia. Richiamandosi al precedente storico del Cardinale di Rohan , della contessa di La Motte e di Maria Antonietta e ricordando l’influsso che le vicende scandalistiche ebbero in Francia nel travolgimento dell’ancien régime, già sotto fermenti di rivoluzione, per la miseria, la fame e il crollodel vecchio sistema monarchico-feudale francese, l’oratore afferma che oggi lo Stato democratico italiano non è decrepito, ma vivo e vitale e non teme le torbide manovre della calunnia e della diffamazione. L’Italia democratica si difende: invocando che la Magistratura proceda con rinnovato impegno e faccia giustizia. Tutti si inchinano alle sue investigazioni e alle sue sanzioni. Il governo ha il compito di difendere la legge, perché la Magistratura possa assolvere il suo dovere. Ci sono dei prevaricatori e dei concussori? Ebbene, siano individuati, giudicati, ma non è lecito gettare ombra e sospetto sugli onesti funzionari ed impiegati. In certi paesi di oltre cortina si ha un metodo molto spiccio: quello delle epurazioni e delle fucilazioni. La democrazia, invece, si difende e si difenderà con le leggi; e a suo tempo, esaurite le procedure giudiziarie e amministrative, ne renderà pubblico conto. In quanto alla stampa, essa ha i suoi diritti e la sua missione; e bisogna rispettare questa libertà, perché accanto agli abusi che comporta, notevoli e forse insostituibili sono i vantaggi. Ma giornalisti ed editori, che hanno il senso della responsabilità, devono servire la verità, senza prestarsi ad una campagna orchestrata che aspetta la Magistratura, tenta di sostituirsi ad essa e tenta di diffamare tutta una classe, tutta una formazione politica. Forse qualcuno gioisce per il fango che si tenta di gettare sul «governo clericale». Ma il governo non è di soli democratici cristiani. E se il governo democratico crollasse, chi rimarrebbe a difendere la libertà? La democrazia e la libertà si difendono con l’azione, il coraggio e il sacrificio; soprattutto oggi, dinanzi alla evidenza che è in atto un piano in cui tutte le forze avverse al nostro regime libero sono impegnate ed insisteranno, ricorrendo a tutti i mezzi. L’on. De Gasperi ricorda che la recente esposizione economico-finanziaria del ministro Vanoni alla Camera ha dimostrato che in Italia si registrano sensibili progressi nella produzione e nei consumi. La nostra democrazia non è l’ancien régime, non è uno Stato in decomposizione, non ha bisogno di alcuna dittatura per salvarsi. Il nostro è uno Stato che ha nel suo stesso sistema la forza per salvarsi, procedendo nel progresso economico e nel consolidamento sociale, nelle riforme popolari. Questo è il nostro programma di lavoro e il nostro compito, mentre ci prepariamo al V Congresso nazionale della Dc, che si svolgerà a Napoli alla fine di giugno. De Gasperi esorta quindi ancora i democratici cristiani a prepararsi alle più gravi e impegnative battaglie del domani. Chi si sente debole è meglio che si ritiri subito, perché andiamo incontro a giorni sempre più difficili e duri. Ma qualunque cosa avvenga, noi difenderemo la libertà contro tutte le insidie e, salvi sempre per tutti i diritti della giustizia, e fatto ciascuno il proprio esame di coscienza per prendere rinnovato impegno di integrità e di austerità, sentiamo il diritto di tenere alta la bandiera dell’onore. Siamo orgogliosi di avere fra noi uomini che in questo decennio hanno offerto numerosi esempi di spirito di sacrificio, di fraternità sociale, di dedizione alla causa delle classi popolari e al servizio dello Stato. E alla patria, nei momenti tragici della crisi e in quelli della lunga ricostruzione, abbiamo prestato con disinteresse opera non vana che sarebbe atroce ingiustizia voler sommergere in una atmosfera avvelenata e fangosa. Quasi che il nostro popolo non avesse, dato il lavacro di sanguinose esperienze, saputo risollevare se stesso in uno sforzo tenace per assicurare alla patria una libertà consapevole e responsabile ed una più sicura giustizia sociale.
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L’on. De Gasperi dichiara di essere costretto a controbattere la stolta perfidia che si rivolge contro di lui, cioè quella che lo accusa di fare e disfare, dietro le quinte, i governi. Egli ha accettato la carica di segretario politico della Dc consapevole che essa non comporta che preoccupazioni e sacrifici; ma ha assunto quel posto, anzi lo ha cercato, per assicurare l’unità del partito. Dopo un accenno al senso di solidarietà che egli ha sentito verso uomini che ritiene ingiustamente accusati da una vile campagna scandalistica , l’oratore dichiara che l’unica sua ambizione è quella di battersi nella trincea politica per la libertà del suo paese fino all’ultimo respiro e di morire in Italia da uomo libero. Contro il rimprovero di non aver abbattuto il comunismo e di non aver ottenuto l’affermazione dei princìpi cristiani nella politica italiana, egli afferma che sarebbe ora di scrivere la storia degli ultimi dodici anni dal patto di tregua del 1942 tra gli esponenti delle forze che si opponevano alla dittatura, e poi via via attraverso gli avvenimenti che costituirono il grande travaglio del nostro paese, per conoscere e valutare gli angosciosi problemi e i terribili scogli superati attraverso la tenacia e l’impegno costante. Solo a questo prezzo si è riusciti nello sforzo di mediazione fra leggi e tradizioni antiche e le esigenze delle forze nuove, per giungere ad evitare la sovversione rivoluzionaria ed attuare invece l’evoluzione riformatrice. E c’è da domandarsi come, in un’Italia anticlericale, le forze cattoliche siano riuscite a diventare il nucleo fondamentale dello Stato democratico: la risposta è fornita dall’esempio vissuto ed offerto del saper conciliare le convinzioni religiose e la tolleranza civile, l’uso delle libertà politiche e la fedeltà ai princìpi cristiani. L’on. De Gasperi qui rievoca la fase travagliata dell’elaborazione costituzionale, rilevando il significato dell’inserzione nella carta fondamentale dello Stato dei Patti lateranensi , e rammentando le difficoltà superate per uscire dal periodo critico del disfacimento e della dissoluzione, con l’imperversare di Nenni e delle sue tesi da Direttorio e da Comitati rivoluzionari; ha soggiunto che ben più facile sarebbe stato costituire una organizzazione politica aperta al «quarto Stato», se il comunismo non si fosse rivelato quale bolscevismo, braccio minaccioso dello Stato russo proteso ad insidiare la libertà del nostro paese. Proseguendo, l’on. De Gasperi ha affermato che la formazione degli spiriti non è monopolizzata da alcuno: compito delle forze democratiche cristiane è di creare e difendere l’armatura entro la quale le forze spirituali si sviluppano. Ha quindi accennato ai precedenti storici che hanno dato giovamento al comunismo, la dittatura, la guerra civile, il periodo postbellico e le responsabilità degli Alleati, la miseria. Ma c’è anche – tra le cause che giovano al comunismo – il mancato spirito di sacrificio di una parte del popolo, che riguarda soprattutto le classi agiate in generale; c’è stata una mancata unità delle forze, una carenza del riordinamento. Non si può fare in Italia un partito di soli contadini, così come non si può fare un solo partito dei ceti medi. Tutte le forze sono necessarie nella lotta anticomunista, e non è possibile una soluzione di esclusiva rappresentanza di interessi. Per questo l’on. De Gasperi raccomanda l’unità degli sforzi e la massima collaborazione, in quanto la concordia vuol dire speranza, vuol dire impegno di unità. Rilevati gli impegni alla CED fatti mercoledì mattina in occasione dell’inaugurazione del Congresso, dall’on. Scelba, De Gasperi ha detto che non è questione di metodo, ma è questione di non tornare indietro in una concezione divisionista dell’Europa. Bisogna tentare un altro metodo: battere cioè la strada dell’unità e della concordia. Perché non avvenga una prossima guerra bisogna eliminare le ragioni di conflitto fra i popoli. E quando questo scopo sarà ottenuto potremo mostrare ben armato il volto di una Europa unita. La nostra volontà di rimanere uomini liberi ci rende consapevoli della responsabilità di affrontare decisamente il problema del consolidamento della democrazia. Il progresso politico è rappresentato dall’unità, dall’unità dell’Europa nella quale l’on. De Gasperi afferma di credere con fermezza e risolutezza. Ho fiducia nel popolo italiano. Malgrado le aberrazioni, malgrado la propaganda infernale, sono sicuro che i nemici non passeranno, sono sicuro che vinceremo; perché vince lo spirito sulla materia, vince la volontà degli uomini liberi nelle loro organizzazioni, vince soprattutto la grande idea cristiana che ci ispira e ci guida.
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In apertura rivolge a nome personale e della Direzione centrale del partito per la quale fa parte auguri e felicitazioni all’on. Foresi. [Il vicesegretario politico Spataro introduce il tema della riforma elettorale per la Camera dei deputati, e propone il suo esame per dare una direttiva ai gruppi parlamentari; Cesare Dall’Oglio sottolinea invece, «quale esperto», che si tratta «di una questione politica nei rapporti con i partiti minori in dipendenza dell’accordo intervenuto prima della formazione del governo»]. Allora non si può ancora decidere una via. È il governo che deve prendere una risoluzione. [L’on. Rumor interroga quindi la Direzione se convenga «abrogare semplicemente la legge e lasciare in piedi quella del 1948» oppure «apprestare una modifica generale della legge»]. Tutto dipende dalla posizione del governo! È inutile girare intorno all’allargamento senza prima sapere cosa pensa di fare il governo. [L’on. Russo comunque «in sede di trattative cosa pensa il partito si debba sostenere»]. Qui non c’è l’alternativa per prendere una decisione. Dobbiamo prima conoscere qual è l’indirizzo del governo. Sembra che solo dopo le trattative si possa prendere in esame il problema. Si conclude di pregare Russo di far sapere a Scelba che la Direzione è consapevole che l’argomento risale ad una condizione contenuta nell’accordo per cui non ritiene di dover avanzare delle proposte finché non si sarà pronunziato il governo. [La Direzione prende successivamente in esame il tema delle elezioni amministrative]. Ricorda i precedenti del Ppi: decisione di massima intransigente salvo esaminare le soluzioni caso per caso (Torino p.e.). Noi oggi abbiamo una direttiva? La formazione del governo ci obbliga ad una certa linea? No, c’è solo una tendenza! Però non possiamo decidere volta per volta: intervenire preventivamente. [Cesare Dall’Oglio «sostiene che si debba sostenere il ripristino della proporzionale nelle amministrative»]. Riassume: l’idea espressa da Dall’Oglio è giusta. Prega Russo di riferire al presidente il nostro pensiero già espresso in sede di legge elettorale politica. Affrontando la questione generale osserva che nel Mezzogiorno siamo più deboli che nelle altre parti d’Italia. La situazione locale è molto diversa e molto delicata. Se noi mettessimo l’opinione pubblica cattolica di fronte ad una nostra posizione di intransigenza potremmo produrre una situazione difficile. Dobbiamo cercare di persuadere e convincere, ma non adottare direttive rigide e credere di vincere la partita con una circolare. Abbiamo due doveri: 1)quello di rappresentare le nostre idee; 2)quello di rappresentare le idee di coloro che ci seguono. Dobbiamo cercare di assorbire la destra. Questa dovrebbe essere la nostra tattica nel Mezzogiorno. Adottare una soluzione provvisoria e cioè dovremo dire: 1)andare con lo scudo crociato dove si può; 2)dove non si può, adottare una formula che chiarisca la nostra posizione (Castellammare). In una circolare possiamo affermare i princìpi generali però lasciando il varco a soluzioni contingenti e caso per caso . [La Direzione si occupa dei lavori della «Commissione Sturzo», sottolineando che «non si deve parlare di criteri o di direttive di politica economica»: «si esamina soltanto la posizione dei funzionari dello Stato nella gestione dello Stato; quindi pareri e consigli sui criteri da adottare dal governo per eliminare gli strumenti superati e migliorare quelli necessari»]. Molto interessante. Prendiamo atto. Raccomanda che non se ne parli assolutamente fuori per non generare reazioni: volete farne oggetto di discussione? [Dopo un brevissimo intervento sui provvedimenti in favore dei coltivatori diretti, De Gasperi riprende la parola nell’adunanza pomeridiana sulla proposta dell’on. Ceschi di fissare un termine, prima del Congresso, per far cessare le pubblicazioni della stampa di corrente]. In proposito informa di avere diffidato La Base, Forze Sociali e Il Centro. Ha lasciato fuori Politica Sociale [non leggibile]. Ne parliamo fra poco .
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L’esito del processo conclusosi stamane dimostra che il senso giuridico ha prevalso su tutte le deviazioni psicologiche e patologiche della vita politica. Abbiamo fatto questo processo di mala voglia, sollecitati dagli amici. L’abbiamo fatto quantunque fosse una umiliazione, perché è una umiliazione il dover provare [di] non essere dei ladri, di non essere dei falsari, di non essere mai stati dei congiurati contro la patria, contro il benessere e la prosperità del popolo. È una umiliazione, per chi, come me, ha agito in una casa di vetro. Questo processo lo abbiamo fatto perché ci è parso che esso fosse al servizio di quella stessa causa per la quale abbiamo combattuto dal 1943. Abbiamo fatto tutti gli sforzi per dimenticare tutte le divisioni del passato. Lo avrei fatto anche in questo caso se non si fosse trattato di combattere il rigurgito di vecchie idee. Sulla corrente di questo rigurgito si accavallano le onde che riportano fatalmente alle dittature. Per tutte queste considerazioni ho sentito il dovere di intentare un processo. Questo processo non lo abbiamo fatto per vendetta. La persona di Guareschi mi era indifferente. I suoi continui ripetuti attacchi li consideravo politicamente di secondaria importanza. Ciò che bisognava impedire era che si formasse una leggenda intorno a quei tempi e che venisse messa in discussione la legittimità della Resistenza. Quanto allora abbiamo fatto, avevamo il diritto, anzi il dovere, di farlo. Questo processo ha dimostrato che, come cattolico, ho agito nello spirito del pensiero e delle istituzioni. Nei momenti tristi, quando ero «senza un tozzo di pane», è stata la Biblioteca vaticana ad aiutarmi. Non avrei potuto tradirla. Sarebbe stata crudeltà e ingratitudine agire contro la Santa Sede. Vorrei dire ai cattolici, o meglio ai democratici cristiani, ai quali posso parlare con maggiore competenza, che, avendo questo processo dissotterrato la storia di dieci anni fa, vorrei dire che quel periodo non è morto e che le stesse idee di allora devono farsi valere anche oggi. Dobbiamo spiegare ai giovani, a coloro che non ricordano le ragioni della nostra azione passata, che quelle idee sono valide anche oggi. Bisogna far comprendere che non si tratta di vendetta, ma di profilassi contro il rigurgito del passato, contro i pericoli del ritorno di una guerra civile. Come vedete, siamo entrati in questioni vive e attuali. Su alcuni giornali è stato accennato a un nuovo Movimento. Ma chi parla oggi di Movimento d’Unione nazionale? Quale bisogno ci sarebbe di creare al di fuori della Democrazia cristiana il culto del sentimento nazionale? Io non credo che sul serio ci sia qualcuno che pensi a creare entro il partito, o fuori, una discriminazione di patriottismo che suonerebbe offesa a chi tale discriminazione per ragioni unitarie accetterebbe. Ma, ripeto, si tratta di dicerie, forse velleitarie, ma non di cosa seria. O la Democrazia cristiana è veramente il partito nazionale e allora abbiamo il diritto e il dovere di appartenervi, o non lo è; e allora sarebbe inutile sforzo il cercare altrove, in altre combinazioni una diversa legittimazione. La verità è che assumemmo carattere nazionale nel momento in cui a costo di sacrifici, operammo per l’indipendenza del paese e per la libertà, contro la dittatura. Non badate alle chiacchiere, amici, procediamo uniti verso la Pasqua del nostro paese. Ci sarà la resurrezione per tutti, ma sono persuaso che non ci sarà tale resurrezione per chi azzardasse il folle tentativo di dividerci. Né divisioni né scissioni ci saranno, perché le forze popolari che ci ispirano ci chiedono di ricordarci della nostra storia e domandano la nostra unione perché conviene affrontare ancora insieme la durezza del momento e raggiungere la vittoria definitiva. Quando parlo di unità non invoco il conformismo esteriore, ma una unione interiore fondata sulla libertà e sulla convinzione di tutti che particolari tendenze e posizioni personali devono essere subordinate a una comune volontà collettiva. Non si lagnino i giovani se chiediamo loro qualche rinuncia di manifestazioni. Fu sempre così. I più vecchi ricordano i tempi in cui i cattolici che avevano organizzato le classi popolari dovevano arrestarsi sulle soglie del Parlamento e, entrati, dovevano chiamarsi «cattolici deputati» e non «deputati cattolici». Allora i nostri anziani seppero piegarsi alle necessità della disciplina e attendere la maturità dei tempi. Così fu anche nelle fasi seguenti, quando si dovette comprimere lo spirito innovatore, sotto le necessità imposte dalla tattica parlamentare o dalla coalizione delle forze governative. Anche allora si seppe attendere senza perdere lo spirito animatore e la volontà riformatrice. Così sarà sempre. Quel che importa è che nelle varie situazioni non si rilassi la molla energetica del progresso e non si perda la giusta direttiva del principio cristiano .
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Apre la seduta alle 10 e mezzo e sul primo punto all’o.d.g.: comunicazioni, informa di essere scoraggiato per il contenimento della polemica interna del partito. Possiamo interpretare come assenso i nostri inviti a Battaglie d’oggi e a Il Centro che di fatto hanno cessato le pubblicazioni. Un nuovo invito a Le Forze Sociali non ha avuto ancora esito. La Base dopo un colloquio avuto con lui a Milano ha scritto una lettera con la quale spiega la particolare funzione del periodico. Gli è stato obiettato verbalmente che volendo hanno a disposizione Il Popolo Lombardo e La Discussione, per esporre le loro impostazioni e i loro punti di vista. Espone i motivi addotti dagli interlocutori i quali sono preoccupati di difendere il carattere sociale e la posizione antifascista del partito. In definitiva finiscono per aderire purché cessino tutte le pubblicazioni (si riferiscono specialmente a Forze Sociali, le quali avrebbero dichiarato di non poter sottomettersi all’invito del partito ed alla sua disciplina). Questa incertezza ci pone in condizioni di non poter far gran che verso «Politica sociale»! Altri gruppi hanno dichiarato che si difenderanno sullo stesso piano. Confessa di essere disarmato di fronte a queste evasioni. Rispetto alle durissime prove che ci attendono ritiene esiziali questi atteggiamenti e attività che ci pongono in imbarazzo di fronte agli avversari e ad ambienti a noi vicini. Mi dicono che sono l’uomo loro e poi non riesco ad avere nessuna concessione! Desidero conoscere il vostro pensiero perché ci siamo impegnanti a prendere una deliberazione in questa seduta. […] Vediamo ora come si può attuare la nostra deliberazione. Osserva che per essere obiettivi e giusti occorre chiamare tutti ad una stessa disciplina quelli che stampano e scrivono su periodici e coloro che si servono di agenzie giornalistiche e di organi di informazioni. Esaminiamo per ora il primo caso, quello dei periodici. [Dopo alcuni interventi, il segretario nazionale riprende la parola sul tema dell’interdizione delle armi nucleari]. La nostra dichiarazione non può avere carattere morale o teologico ma deve avere un carattere politico. Se dovessimo fare una dichiarazione di principio dovremmo risalire alla questione dell’inizio della guerra. Bisogna collocarsi nel momento e nello stato attuale per esprimersi da uomini politici. Non si tratta di princìpi ma di valutare la intensità di distruzione delle nuove armi in confronto di quelle passate. Illustra quindi una sua dichiarazione. […] Invitare per il pomeriggio i mandanti de La Base e Politica Sociale. […] Sì, ma desidero che collaborino con me dato che il mio prestigio non è stato capace di ottenere la soppressione, nell’ulteriore azione. (Si fanno i nomi di Moro e Ceschi). Però se qualcuno dei giornali non aderisce all’invito che si fa? Si agisce contro gli editori. […] Saranno sentiti uno alla volta i responsabili dei giornali. Chi collabora con me? [Sono proposti e approvati i nomi del senatore Ceschi e del prof. Santoro Passarelli, «elementi non compromessi con altre correnti». Si riprende poi a parlare del tema dell’interdizione delle armi nucleari]. Principio del minor danno. Difesa anti-nucleare molto avanzata. Cosa fare? Dove il limite della liceità per l’uso di questa arma? Espone il suo punto di vista dovendo pronunciarsi: siamo per l’interdizione nel quadro della riduzione generale degli armamenti .
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Deploro vivamente il neretto comparso in prima pagina in un quindicinale di Milano, sotto il titolo L’opinione. È un esempio tipico di quella avventata polemica interna che il Consiglio nazionale, invano finora, ha chiesto di sospendere. Trovo particolarmente ingiusta la sommaria condanna della personalità e dell’operato dell’on. Andreotti, per lunghi anni mio sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Anche se la sua attività, come la mia, non fu esente di manchevolezze, innegabili furono le sue benemerenze, sia nel settore politico che in quello amministrativo. Sarebbe stata una fortuna per il partito e più per il paese se molti altri giovani della sua età avessero avuto altrettanta capacità tecnica come lui, associata al suo stesso senso del dovere. Tale testimonianza potranno rendere molti che operano con lui, ma gliela devo soprattutto io, che lo ebbi collaboratore fedele nei momenti più critici, anche quando feci prevalere la mia opinione sui suoi dubbi o sulle sue personali simpatie. E tale conclusivo giudizio sulla sua collaborazione confermo tanto più apertamente, in quanto poco fa, sia nel Consiglio nazionale che fuori, non ho mancato di esprimere il mio dissenso dal suo modo di valutare la situazione politica presente. Ammetto senz’altro che certe dichiarazioni dell’on. Andreotti, inquadrate e associate a quelle di altri colleghi sulla stampa informativa possano spiegare e forse giustificare – soggettivamente parlando – le apprensioni dei giovani di Milano. Ma, comunque, trovo il tono e la profondità della reazione eccessiva e l’allarme esagerato; e soprattutto non fondato un così sommario giudizio sia sul sottosegretario, sia su chi diresse per cinque anni con innegabile successo l’amministrazione del Tesoro. Mettiamo anzitutto fuori causa l’unità del partito. Io non ho nessuna ragione per ritenere che per quanto dipenda dai propositi e dall’azione dei parlamentari e nominativamente dei colleghi citati, sussista il minimo pericolo né per l’unità, né per la disciplina del partito. Le velleità esistono, se esistono, al di fuori; e noi volontariamente o no, le favoriamo in due maniere, entrambe pericolose: o chiamando in soccorso delle nostre tesi interne anonime «agenzie» di stampa o personali compiacenze dei giornali di informazione; ovvero usando nella polemica interna un linguaggio fazioso e personalistico che dia pretesto o ragione a taluno di temere che alla dittatura dal vertice si voglia sostituire non la libertà nelle cose opinabili e l’unità in quelle necessarie, ma la dittatura dalla base. Detto ciò, rimane vero che la particolare delicatezza della situazione parlamentare e governativa impone una particolare prudenza di apprezzamento e di manifestazione. Non si tratta soltanto della fragilità numerica della maggioranza, che bisogna proteggere da esitazioni e dissensi, ma anche di un’operazione politica che mira al ricupero di forze che la democrazia ha perduto il 7 giugno. Circa l’esito di siffatta operazione si può essere ottimisti o pessimisti, ma mi pare che non sia lecito di renderla più difficile coll’alimentare un’atmosfera di perplessità e di vibrazioni oscillatorie tra la rassegnazione e la sfiducia. È interesse del paese e del partito che il governo si consolidi e che le nostre discussioni, legittime per la nostra dialettica interna, non mettano mai in causa la coalizione governativa. Infine, è mio dovere di ringraziare quei giovani amici che accanto alle «colpe» «che mi porterei sulle spalle» rilevano «i numerosi motivi di riconoscenza che mi dovrebbero i dc». Fra tali motivi li prego anche di inserire quello di dire francamente tanto verso destra che verso sinistra il mio pensiero ammonitore. L’ho sempre fatto: niente m’impedirà di farlo anche domani.